Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ANNO 2021

 

L’ACCOGLIENZA

 

SESTA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

     

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

L’ACCOGLIENZA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Muri.

Schengen e Frontex. L’Abbattimento ed il Controllo dei Muri.

Gli stranieri ci rubano il lavoro?

Quei razzisti come…

Il Sud «condannato» dai suoi stessi scrittori.

Quei razzisti come gli italiani.

Quei razzisti come gli spagnoli.

Quei razzisti come i francesi.

Quei razzisti come i belgi.

Quei razzisti come gli svizzeri.

Quei razzisti come i tedeschi.

Quei razzisti come gli austriaci.

Quei razzisti come i polacchi.

Quei razzisti come i lussemburghesi.

Quei razzisti come gli olandesi.

Quei razzisti come gli svedesi.

Quei razzisti come i danesi.

Quei razzisti come i norvegesi.

Quei razzisti come i serbi.

Quei razzisti come gli ungheresi.

Quei razzisti come i rumeni.

Quei razzisti come i bulgari.

Quei razzisti come gli inglesi.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quei razzisti come i greci.

Quei razzisti come i maltesi.

Quei razzisti come i turchi.

Quei razzisti come i marocchini.

Quei razzisti come gli egiziani.

Quei razzisti come i somali.

Quei razzisti come gli etiopi.

Quei razzisti come i liberiani.

Quei razzisti come i nigeriani.

Quei razzisti come i Burkinabè.

Quei razzisti come i ruandesi.

Quei razzisti come i congolesi.

Quei razzisti come i sudsudanesi.

Quei razzisti come i giordani.

Quei razzisti come gli israeliani.

Quei razzisti come i siriani.

Quei razzisti come i libanesi.

Quei razzisti come gli iraniani.

Quei razzisti come gli emiratini.

Quei razzisti come i dubaiani.

Quei razzisti come gli arabi sauditi.

Quei razzisti come gli yemeniti.

Quei razzisti come i bielorussi.

Quei razzisti come gli azeri.

Quei razzisti come i russi.

 

INDICE TERZA PARTE

 

Quei razzisti come gli Afghani.

La Storia.

L’11 settembre 2001.

Il Complotto.

Le Vittime.

Il Ricordo.

La Cronaca di un’Infamia.

Il Ritiro della Vergogna.

La presa del Potere dei Talebani.

Media e regime.

Il fardello della vergogna.

Un esercito venduto.

Il costo della democrazia esportata.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

Quei razzisti come gli Afghani.

Fuga da Kabul. Il Rimpatrio degli stranieri.

L’Economia afgana.

Il Governo Talebano.

Chi sono i talebani.

Chi comanda tra i Talebani.

La Legge Talebana.

La Religione Talebana.

La ricchezza talebana.

Gli amici dei Talebani.

Gli Anti Talebani.

La censura politicamente corretta.

I bambini Afgani.

Gli Lgbtq afghani.

Le donne afgane.

I Terroristi afgani.

I Profughi afgani.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quei razzisti come i giapponesi.

Quei razzisti come i sud coreani.

Quei razzisti come i nord coreani.

Quei razzisti come i cinesi.

Quei razzisti come i birmani.

Quei razzisti come gli indiani.

Quei razzisti come gli indonesiani.

Quei razzisti come gli australiani. 

Quei razzisti come i messicani.

Quei razzisti come i brasiliani. 

Quei razzisti come gli haitiani.

Quei razzisti come i cileni.

Quei razzisti come i venezuelani.

Quei razzisti come i cubani.

Quei razzisti come i canadesi.

Quei razzisti come gli statunitensi.

Kennedy: Le Morti Democratiche.

La Guerra Fredda.

La Variante Russo-Cinese-Statunitense.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Olocausto dimenticato. La lunga amicizia tra Hitler e Stalin.

Gli olocausti comunisti.

E allora le foibe?

Il Genocidio degli armeni.

Il Genocidio degli Uiguri.

La Shoah dei Rom.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Chi comanda sul mare.

L’Esercito d’Invasione.

La Genesi di un'invasione.

Quelli che …lo Ius Soli.

Gli Affari dei Buonisti.

Quelli che…Porti Aperti.

Quelli che…Porti Chiusi.

Due “Porti”, due Misure.

Cosa succede in Libia.

Cosa succede in Tunisia?

 

 

L’ACCOGLIENZA

SESTA PARTE

 

SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        L’Olocausto dimenticato. La lunga amicizia tra Hitler e Stalin.

La lunga amicizia tra Hitler e Stalin. Matteo Sacchi il 10 Settembre 2021 su Il Giornale. Un saggio di Claudia Weber indaga l'alleanza mortale (e rimossa) tra i dittatori. Il 22 giugno 1941 molti nelle alte sfere politiche e militari della Gran Bretagna tirarono un sospiro di sollievo. Hitler dando corso a una progettualità di espansione a Est già ventilata nel Mein Kampf diede il via all'operazione Barbarossa e aggredì l'Unione Sovietica di Stalin. Tra i più sollevati dalla svolta, largamente prevista, il primo ministro Winston Churchill che aveva lavorato a far sì che gli Usa fossero pronti ad assistere materialmente i sovietici e che con l'apertura di un secondo fronte vedeva diminuire enormemente la pressione su Londra. Questa svolta che ha condizionato tutta la guerra ha fatto sì che la storiografia abbia alla fine guardato molto poco ai rapporti russo tedeschi durante i mesi precedenti del conflitto. Certo in qualunque manuale si trova traccia del patto Molotov-Ribbentrop firmato il 23 agosto 1939. Un patto decennale di non aggressione tra Mosca e Berlino che de facto portò alla spartizione della Polonia. Le fotografie scattate a Mosca durante la ratifica (dal fotografo personale di Hitler, Heinrich Hoffmann), come quella in questa pagina, sono addirittura diventate iconiche. Però il reale scopo dell'accordo, la spartizione dell'Europa orientale, e i suoi effetti devastanti sulle popolazioni stritolate dalle due dittature sono spesso stati sottostimati o raccontati solo di straforo. Erano materia quantomai imbarazzante per molte delle sinistre europee e ovviamente i sovietici, dopo il 1941, ebbero tutto l'interesse a seppellire molto profondamente nei loro archivi tutto ciò che era relativo alla loro collaborazione con la Germania. A scandagliare questa vicenda complessa ci ha pensa la storica Claudia Weber, con Il patto. Stalin, Hitler e la storia di un'alleanza mortale ora tradotto in italiano per i tipi della Einaudi (pagg. 260, euro 28). Il saggio, breve ma molto denso, racconta con dovizia di dettagli il percorso che portò la Nkvd sovietica a collaborare con la Sipo di Heinrich Himmler per stringere in una morsa la popolazione polacca. Responsabilità che vanno ben oltre il massacro di 22mila ufficiali polacchi a Katyn che i sovietici hanno ammesso solo nel 1990 quando Michail Gorbacëv porse le scuse ufficiali del suo Paese. Il libro della Weber, che insegna all'università di Francoforte, fa chiaramente capire come l'intesa dei russi con i tedeschi a scopo di sviluppo militare e di occupazione dell'Europa dell'Est fosse iniziata addirittura prima dell'ascesa di Hitler. Già nel 1922 l'Urss si era avvicinata alla Germania. Era un modo per i due Paesi di uscire dall'isolamento diplomatico prodotto dal Trattato di Versailles. Le scelte di Stalin che portavano avanti l'idea del socialismo in un solo Paese attraverso una industrializzazione forzata necessitavano di un alleato tecnologicamente avanzato. La Germania isolata era perfetta. Iniziarono dei rapporti economici sanciti dal Trattato di Berlino del 1926 che nemmeno l'ascesa di Hitler mise mai in discussione. Nel 1931 e 1932 l'Urss fu il principale acquirente mondiale di macchinari tedeschi. Un esempio: nella prima metà del 1932, spiega Weber, Mosca acquistò più della metà dei profilati in ferro prodotti dalla Germania, il 70% delle macchine utensili per lavorare i metalli, il 90% delle turbine a vapore... Senza l'Urss la Germania non sarebbe sopravvissuta alla crisi del '29. Negli anni precedenti i tedeschi avevano del resto spostato in Urss con reciproco vantaggio una serie di esperimenti per la produzione di gas venefici. Venne anche creata una Panzerschule a Kazan' dove ufficiali tedeschi e russi (che poi si sarebbero sparati contro nella Seconda guerra mondiale) si addestravano assieme. Idem nel campo di volo vicino alla città di Lipeck. Pur nella diffidenza, cosa accomunava i militari delle due nazioni che si addestravano in questi campi? L'idea che la Polonia dovesse avere vita breve e che l'unica questione rilevante fosse quella di quando sarebbe scoccato il momento giusto per annientarla. Insomma nei suoi piani di sangue e di conquista Hitler mostrerà ben poca originalità ricalcando idee già ben radicate negli ufficiali di scuola prussiana e nelle fila dell'Armata rossa. Risulta quindi chiaro come la diplomazia sovietica abbia da subito lavorato per far capire ai nazisti, arrivati al potere nel 1933, quanto volentieri Mosca avrebbe proceduto sulla via precedentemente tracciata. Per usare le parole di Maksim Litvinov, ministro degli Esteri sovietico sino al 1939, rivolte ai diplomatici di Berlino: «Che cosa ce ne importa, se fate fuori i vostri comunisti». Non fu tutto così liscio perché l'antisovietismo (venato di realistico timore) di Hitler era radicale. Ma alla fine dopo una complessa sciarada politica che le potenze occidentali giocarono oggettivamente molto male il progetto di spartizione dell'Est prevalse su qualunque ideologia. Grazie soprattutto allo spietato realismo geopolitico di Stalin. Si arrivò all'assurdo dei comunisti francesi obbligati a festeggiare l'arrivo di Hitler a Parigi. E anche in Germania un Goebbels basito dovette inchinarsi al giornale delle SS che inneggiava alla fratellanza di sangue tra russi e tedeschi limitandosi a segnalare che certi tentativi di ingraziarsi Mosca erano «troppo goffi». Ma non fu solo una farsa tragica dove le ideologie si sacrificavano in nome della geopolitica. Nelle terre di sangue il doppio tallone ben coordinato delle SS e dei sovietici produsse un numero enorme di vittime. Una partita sporca che si interruppe soltanto quando Hitler ritenne (a torto) di poter fare a meno di Mosca e quando Stalin, nella sua paranoia, rifiutandosi di ascoltare chiunque non volle vedere l'evidenza del cambiamento di orientamento dei tedeschi. Ma questa è la storia nota che ha fatto finire sotto il tappeto quel complesso, e criminogeno, rapporto Mosca Berlino che la Weber racconta. Un rapporto di cui ancora non si può capire tutto perché ci sono carte che i russi tutt'ora si rifiutano di mostrare. Evidentemente imbarazzano ancora e schizzano di fango l'idea della grande guerra patriottica.

Matteo Sacchi. Classe 1973, sono un giornalista della redazione Cultura e Spettacoli del Giornale e tenente del Corpo degli Alpini,  in congedo. Ho un dottorato in Storia delle Istituzioni politico-giuridiche medievali e moderne  e una laurea in Lettere a indirizzo Storico conseguita alla Statale di Milano. Il passato, gli archivi, e le serie televisive sono la mia passione. Tra i miei libri e le mie curatele gli ultimi sono: “Crudele morbo. Breve storia delle malattie che hanno plasmato il destino dell’uomo” e “La guerra delle macchine. Hacker, droni e androidi: perché i conflitti ad alta tec 

Mirella Serri per "lastampa.it" il 7 settembre 2021. «Nella biblioteca di letteratura straniera al posto dei giornali degli immigrati comunisti furono esposti fogli nazisti e furono eliminati i romanzi degli antifascisti. La parola “fascismo” non comparve più sulla stampa sovietica», così ricorderà il giovane Wolfgang Leonhard, futuro storico e politico che, nell’estate del 1939, frequentava la biblioteca moscovita. La mattina del 24 agosto una notizia strepitosa aveva stravolto il mondo democratico: al Cremlino il ministro degli Esteri sovietico Vjaceslav Molotov e il suo omologo tedesco Joachim von Ribbentrop avevano firmato un patto di non aggressione tra Urss e Germania. Proprio così: le due dittature, fino a quel momento l’una contro l’altra armate, avevano siglato un accordo. Tutto il mondo, in particolare quello antifascista, era pervaso da un sentimento di sgomento. Wolfgang, per esempio, come tanti altri antinazisti, era arrivato a Mosca in fuga da Berlino dove aveva fatto parte dei Giovani Pionieri, organizzazione del Partito comunista. Ora Stalin si era alleato con colui che Wolfgang considerava il suo aguzzino. Il patto Molotov-Ribbentrop prevedeva anche un «protocollo segreto» rimasto tale fino al termine degli anni Novanta, in cui venivano definiti i territori che i due tiranni si sarebbero spartiti. Le dinamiche di questa scellerata intesa tra i due Stati totalitari sono state cancellate dalla storia del Novecento e tenute nascoste come in uno speciale «buco nero»: adesso a far luce con dovizia di documenti inediti sul complesso intreccio de Il patto. Stalin, Hitler e la storia di un’alleanza mortale è la storica Claudia Weber, docente all’Università di Francoforte sull’Oder. La studiosa si preoccupa di rimettere insieme i tasselli dell’accordo che per decenni «è stato considerato solo uno scomodo incidente storico». L’intesa Molotov-Ribbentrop, a seguito della quale il 1° settembre del 1939 iniziò la Seconda guerra mondiale, non fu per nulla un incidente anche se fu scambiata per una fake news: il diplomatico e ingegnere Viktor Kravcenko il quale, fuggito dall’Urss, scriverà il pamphlet Ho scelto la libertà, racconta: «Era incredibile! Era una certezza il fatto che l’unico nemico dei nazisti fosse l’Unione Sovietica. I nostri bambini giocavano a fascisti-contro comunisti e i fascisti avevano sempre nomi tedeschi e ogni volta venivano riempiti di botte». Non riusciva a capacitarsi di quella mostruosità nemmeno lo scrittore Arthur Koestler (successivamente autore del bestseller Buio a mezzogiorno in cui denunciava gli orrori delle galere staliniane): «Non ebbi più dubbi quando all’aeroporto di Mosca venne issata la bandiera con la svastica in onore di Ribbentrop e la banda dell’Armata Rossa intonò Das Horst-Wessel-Lied», l’inno ufficiale del Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori. Stalin, a seguito del trattato tra i due ministri sovietico e tedesco, invase la Polonia orientale, gli Stati baltici e la Bessarabia (attualmente divisa tra la Moldavia e l’Ucraina), mentre Hitler, a sua volta, occupò la parte occidentale della Polonia: si misero in moto una «devastante carneficina mondiale e la Shoah», spiega la Weber. In Urss, sul modello nazista, venne avviata l’epurazione degli ebrei dai pubblici uffici. I giornali scrissero che «era dovere degli atei marxisti aiutare i nazisti nella campagna antisemita». Nel primo anno di guerra, con ordini segreti - resi noti solo decenni più tardi -, i sovietici proibirono ai partiti comunisti polacco e ceco di prendere posizione contro Hitler. Quando la Wehrmacht entrò a Parigi nel 1940, Stalin ordinò ai compagni francesi di accogliere calorosamente le truppe di occupazione. Molti comunisti che si erano rifugiati a Mosca e poi erano stati imprigionati durante le purghe staliniane, come la scrittrice tedesca Margarete Buber Neumann, vennero estradati e, dopo aver patito il gulag, si ritrovarono nei lager nazisti. La maggioranza degli aderenti ai partiti comunisti europei accettò tutto passivamente: «Stalin sa quello che fa», dicevano, «e il Partito ha sempre ragione». Il poeta Johannes R. Becher, comunista e in seguito ministro della Cultura della Repubblica democratica tedesca, rese addirittura omaggio al patto con una lirica: «A Stalin. Tu proteggi con la tua mano forte il giardino dell’Unione Sovietica. Tu, il figlio più grande della madre Russia, accetta questo mazzo di fiori… come segno del legame di pace che si estende saldo fino alla Cancelleria del Reich». I sovietici e i nazisti, a dispetto di tutti i precedenti contrasti ideologici, giunsero a una perfetta integrazione nello sterminio. L’Europa orientale si trasformò in «terra di sangue», con i profughi - ebrei, polacchi, ucraini - che si nascondevano nei boschi e tra le macerie delle città nelle zone di occupazione russa e tedesca ed erano il bersaglio delle guardie di confine. Paradossalmente, il 22 giugno 1941 i militanti comunisti tirarono un respiro di sollievo di fronte all’avvio di una nuova immensa tragedia. Era l’inizio dell’Operazione Barbarossa, nome in codice dell’invasione dell’Unione Sovietica da parte della Germania nazista. Si apriva lo scenario per un’altra storia, quella della lotta antifascista, mentre i sovietici, i partiti comunisti d’occidente e gli Alleati che operavano nella seconda guerra mondiale, si preparavano in nome della propaganda bellica a seppellire il ricordo del patto Hitler-Stalin.

Quell'asse "segreto" che ha fatto 14 milioni di morti. Andrea Muratore il 15 Giugno 2021 su Il Giornale. In "Terre di sangue" Timothy Snyder parla di come nazismo e stalinismo furono di fatto complici nel tentativo di annientare il pluralismo etnico, sociale e culturale dell'Europa orientale. Provocando 14 milioni di morti. Quella tra russi e tedeschi è ben più della relazione tra due popoli. Si tratta di un rapporto che ha plasmato la storia d'Europa. Riorientandone l'asse verso il centro e l'Est, aggiungendo al mondo mediterraneo e allo spazio "carolingio" anche le distese oltre l'Oder e il Neisse, verso gli sconfinati spazi della Russia europea. Potenza catapultata tra il XVI e il XVII come protagonista dei consessi europei. Divisa dalla Prussia prima e dalla Germania poi da una relazione complessa. Un Giano bifronte, potremmo dire. Per dirla con il professor Salvatore Santangelo, attento studioso delle relazioni tra Mosca e Berlino, il rapporto russo-tedesco può essere letto in diversi "tra i Paesi europei, la Russia non ha avuto rapporti altrettanto intensi quanto quello costruito con la Germania. Un rapporto fatto anche di tragedie e orrori, che hanno avuto il proprio culmine nella Seconda guerra mondiale", in cui lo scontro ideologico tra il nazionalsocialismo e il comunismo stalinista aggiunse combustibile a una rivalità geopolitica giunta al punto di rottura, di non ritorno. Per il dilagare delle ambizioni del Terzo Reich e dell'Unione Sovietica sull'area che divideva, e divide tuttora, Germania e Russia. Al vasto spazio tra i russi e i tedeschi che i due popoli, a lungo imperiali, hanno più volte messo nel mirino e si sono contese. Fino a trasformarle, per usare l'espressione che dà il nome a un omonimo libro di Timothy Snyder, nelle "terre di sangue". Terre di sangue. L'Europa nella morsa di Hitler e Stalin analizza nel profondo la storia di aree d'Europa come la Polonia, l'Ucraina, i Paesi baltici nel periodo che dalla fase interbellica arriva fino al pieno del secondo conflitto mondiale. Caricato di una tremenda connotazione di guerra d'annientamento il 22 giugno 1941, giorno del tradimento tedesco del Patto Molotov-Ribbentrop di non aggressione siglato nel 1939 che sancì l'inizio dell'invasione dell'Unione Sovietica. E trascinò, per mezzo delle battaglie combattute sul campo, delle persecuzioni e dell'orrore dell'Olocausto, in una spirale di violenze senza fine le aree contese tra le due potenze totalitarie. Ma dal 1933 al 1945 la lista delle persecuzioni che investirono le "terre di sangue" fu in continuo aggiornamento: la carestia deliberatamente provocata da Stalin nei primi anni Trenta in Ucraina. Il Grande Terrore tra il ’37 e il ’38. La mortale aggressione tedesco-sovietica alle classi colte polacche tra ’39 e ’41. I tre milioni di prigionieri sovietici lasciati morire di fame dai tedeschi. Le centinaia di migliaia di civili uccisi nelle rappresaglie naziste. Infine il dramma più grande, l’Olocausto e, sul finire della guerra, la persecuzione contro i tedeschi dell'Est. Snyder costruisce un racconto storiografico ben ordinato partendo da dei presupposti fondamentali: accerta che sia l'Unione Sovietica staliniana che la Germania nazista furono responsabili dell'annientamento di milioni di vite umane in territori che si contesero militarmente e che nell'ambizione dei due dittatori, Adolf Hitler e Josif Stalin, dovevano risultare strategici nella competizione bilaterale. Hitler sognava il trionfo della Germania ariana, l'annientamento degli ebrei dell'Est Europa, la trasformazione della Polonia, dell'Ucraina, della Russia europee in dipendenze dominate dai soldati-agricoltori mandati a colonizzarle, la sottomissione degli slavi. Aggiungendo connotati ideologici e razzisti alla chiara dottrina geopolitica interpretata da studiosi come Karl Hausofer, che immaginava per la Germania un ruolo centrale come impero continentale. L'Unione Sovietica staliniana intendeva invece assimilare al regime socialista le terre che più di tutte avevano mostrato riottosità all'omologazione sotto il nuovo ordine bolscevico. L'autore evidenzia come sia il Reich che l'Urss siano stati di fatto complici in un progetto che, per fini diversi, mirava però a annullare ogni identità culturale, politica e sociale dei Paesi delle "terre di sangue", non a caso spartiti brutalmente da Molotov e Ribbentrop nel patto del 1939 rotto da Hitler due anni dopo. Ed è impressionante constatare come i morti complessivi dell'Olocausto, 6 milioni, non corrispondano che a meno della metà delle persone uccise dai due regimi nei territori in questione tra il 1933 e il 1945: 14 milioni. Deportazioni di massa, carestie indotte (come il tragico Holodomor ucraino indotto dal regime staliniano), esecuzioni sommarie, repressioni, stupri, incendi, pogrom: le metodologie di massacro conobbero una crudele ed eterogenea variabilità, ed è spesso trascurata dalla storiografia l'attestazione del fatto che il numero di morti civili per queste cause diverse tra loro fu sopravanzato per un breve periodo soltanto (1944-1945) da quelli nei campi di sterminio nazisti. In larga parte posizionati nel cuore delle "terre di sangue": Auschwitz, Treblinka, Belzec e altri luoghi dell'orrore. "Non uno solo di quei quattordici milioni di morti era un soldato in servizio effettivo", nota Snyder. "La maggior parte era costituita da donne, bambini e anziani. Principalmente ebrei, bielorussi, ucraini, polacchi, russi e baltici". Molti di loro deceduti dopo aver subito persecuzioni da entrambi i regimi. Per l'autore "in quelle terre ebbe luogo la più grande calamità nella storia d’Europa" e fu sul lungo periodo inevitabile il fatto che "le vittime non poterono fare a meno di paragonare i due regimi. Penso a Vasilij Grossman, scrittore sovietico nato in Ucraina da famiglia ebrea. Egli assistette alla carestia lucidamente indotta da Stalin in Ucraina, e più tardi perse sua madre nell’Olocausto nazista, sempre in Ucraina. Gli venne naturale paragonare i due terribili eventi. Così fu per moltissimi ebrei, e così per moltissimi ucraini". Vittime di una persecuzione continua, stritolate nel redde rationem di un dualismo secolare, nel pieno del lungo suicidio dell'Europa rappresentato dalle due guerre mondiali. Un'ondata di dolore che ha rimesso in moto con profondo dinamismo la storia di queste terre dopo la fine della guerra e i lunghi anni di dominazione comunista. La memoria del dolore plasma oggigiorno la visione di nazioni come l'odierna Polonia, diffidente tanto di Mosca quanto di Berlino, identitaria e intenta a riscoprire nelle sue radici cristiane la forza vivificatrice per la ricostruzione del suo futuro. Una via già indicata in passato da Giovanni Paolo II, tra i tanti uomini sopravvissuti nonostante il faccia a faccia con entrambi i totalitarismi. Che, in fin dei conti, piuttosto che annientare i popoli delle "terre di sangue" li hanno, in ultima istanza, resi più coesi e resistenti. La disfatta del totalitarismo sta proprio nel fatto che nell'Europa di oggi continui a esistere il prezioso pluralismo etnico, religioso, politico, culturale che Hitler e Stalin volevano cinicamente negare. Andrea Muratore

L’Olocausto dimenticato di Stalin: Holodomor, la grande carestia ucraina. Andrea Muratore su Inside Over il 5 novembre 2021. Tra i grandi genocidi del Novecento eccessivamente sotto silenzio passa spesso nel dibattito pubblico l’Holodomor, la grande carestia che si abbatté sull’Ucraina tra il 1932 e il 1933 e che è direttamente correlabile alle politiche del regime sovietico di Stalin volte a consolidare la collettivizzazione forzata delle terre agricole del “granaio” dell’Europa orientale. In ucraino Holodomor significa letteralmente “sterminio per fame” .

Nel contesto di un processo che proseguiva a tappe forzate almeno cinque milioni di persone morirono di fame in tutta l’Urss non a causa del fallimento delle coltivazioni, ma perché furono deliberatamente private dei mezzi di sostentamento. Di questi, si stima che tra i 3 e i 4 milioni fossero ucraini, vittime come in altre carestie del XX secolo non tanto della carenza di cibo e raccolti quanto piuttosto di una precisa volontà politica che tendeva a reprimere ogni dissenso dall’autorità centrale, arrivando a punire chi temendo la morte per fame ammassava privatamente raccolti o si rifiutava di far macellare il bestiame con la confisca dei beni.

Le premesse dell'annientamento

Riuniti sotto il controllo sovietico i territori ucraini, i bolscevichi dopo la guerra civile seguita alla fine dell’Impero zarista istituirono ufficialmente la Repubblica Socialista Sovietica d’Ucraina il 30 dicembre 1922. Essa ebbe come prima capitale fino al 1934 la città orientale di Charkiv, dal 1918 sede del locale potere sovietico, ricordata talvolta come “la capitale della carestia”.

Il regime di Lenin prima e quello di Stalin poi apportarono profondi stravolgimenti nell’assetto sociale, politico ed economico dell’Ucraina, forzando (nonostante l’appello formale alla politica delle nazionalità) una convergenza verso un ceppo dominante di matrice russa, eradicando buona parte della tradizione culturale di matrice ortodossa, marginalizzando le minoranze ritenute afferenti a poteri potenzialmente nemici (come i polacchi), reprimendo l’identità dei cosacchi e cercando di imporre i principi del socialismo in un’economia a trazione agricola.

Dopo l’annuncio della massiccia campagna di collettivizzazione fondata sulle fattorie collettive (kolchoz) e le aziende agricole statali (sovchoz) la leadership sovietica nel 1928 concentrò fortemente i suoi sforzi su un’Ucraina che era stata tra le aree più renitenti del Paese in questa nuova sfida.

“Stalin e compagni”, nota l’Osservatorio Balcani-Caucaso, “erano ben consapevoli del pericolo di rivolte e ribellioni e, non volendo perdere l’Ucraina, nel 1932 il regime pensò a uno stratagemma per sterminare (o quantomeno mettere a tacere) la nazione ucraina, abilmente mascherato da uno dei piani di collettivizzazione”, cogliendo la palla al balzo per giustificare gli insufficienti risultati del piano generale. In sostanza “si trattava di confiscare tutte le scorte di grano e di generi alimentari come sanzione per il fallimento del piano statale di approvvigionamento di grano”.

La carestia come detto nacque non tanto dalla collettivizzazione, ma piuttosto dalle manovre volte a punire gli ucraini e a utilizzare il volano dell’accentramento del controllo sulle terre come scusa per annientare l’identità politica della Repubblica. Fu dunque il risultato della confisca del cibo, dei blocchi stradali che impedirono alla popolazione di spostarsi, dei confinamenti delle metropoli a partire dalla stessa Charkiv, divenuta “la capitale della fame”. Il governo sovietico così accentuò la crisi agricola già in atto, creando una carestia “su ordinazione, imponendo una quota di grano estremamente alta e non realistica come tassa statale: la produzione di circa 6 milioni di chili di grano”.

L'inferno dell'Ucraina nell'era di Stalin

Il saggio Red Famine: Stalin’s War on Ukraine della studiosa Anne Applebaum e Terre di sangue, di Timothy Snyder, hanno contribuito a portare a conoscenza del grande pubblico alcune delle più drammatiche conseguenze delle politiche del regime di Stalin, riassunte emblematicamente da Avvenire: tra il 1932 e il 1933, in particolare, un rapporto “del capo della polizia segreta di Kiev elenca 69 casi di cannibalismo in appena due mesi, racconta casi di persone che uccisero e mangiarono i propri figli, la totale estinzione di cani e gatti, la scomparsa della popolazione di interi villaggi, i carri per il trasporto dei defunti che raccoglieva anche i moribondi e poi li seppelliva ancora vivi”.

Nell’universo parallelo del regime di Stalin la fame era considerata una forma di resistenza al potere sovietico. Sobillati dai nemici del Paese, primi fra tutti Polonia e Giappone dei quali ai cui estremi confini Mosca temeva l’alleanza in funzione antisovietica, Stalin e i suoi fedelissimi, Kaganovic e Molotov in testa, arrivarono a convincersi che la fame equivaleva a una forma estrema di resistenza all’inevitabile vittoria del socialismo da parte di sabotatori che odiavano il regime a tal punto da lasciare morire intenzionalmente le loro famiglie pur di non ammetterlo. Per Kaganovic la fame era una “lotta di classe”, e in un contesto che vide una carestia tragica fare milioni di vittima in tutta l’Unione Sovietica in Ucraina si arrivò al deliberato omicidio di massa.

Le tappe dell'Holodomor

Tra il novembre e il dicembre 1932 una serie di misure politiche crearono le basi perché l’Ucraina fosse accerchiata dalla fame. Il 18 novembre ai contadini ucraini fu fatto ordine di consegnare ogni avanzo del raccolto precedente superante le eccedenze da destinare all’ammasso, dando vita a una serie infinita di persecuzioni da parte di polizia e servizi segreti; due giorni dopo fu imposta una norma draconiana sulla carne, che portò alla confisca di massa di mucche e maiali, vera e propria riserva anti-fame per centinaia di migliaia di ucraini; il 28 novembre e il 5 dicembre ulteriori ordinanze aumentarono il potere di confisca dei funzionari comunisti. A fine dicembre e inizio gennaio il tour ucraino di Kaganovic lasciò dietro di sé un’ondata di epurazioni di funzionari, condanne a morte, deportazioni; il 14 gennaio 1933 ai contadini ucraini non fu concesso il lasciapassare interno che obbligatoriamente i cittadini sovietici dovevano portare con sé per muoversi nel Paese e, nell’inverno 1933, fu compiuta la mossa finale: la confisca die semi del grano per la stagione successiva, che lasciava i contadini ucraini senza speranze di poter autonomamente condurre un nuovo raccolto.

Nella primavera 1933 non meno di 10mila persone morivano, in media, ogni giorno di fame in Ucraina, a cui andavano aggiunti i circa 300mila ucraini morti di carestia dopo la deportazione nei campi di lavoro, nei gulag e negli insediamenti speciali citati da Snyder nei suoi studi. Aleksandr Solženicyn ha sostenuto il 2 aprile 2008 in un’intervista a Izvestija che la carestia degli anni Trenta in Ucraina è stata simile alla carestia russa del 1921-1922, poiché entrambe furono causati dalla “spietata rapina dei contadini da parte del sistema bolscevico”.

Complessivamente, non meno di 3,3 milioni di persone persero la vita nell’Holodomor, l’inferno sulla terra creato dalla collettivizzazione. La struttura sociale ucraina ne fu sconvolta, mentre nel frattempo il grano sovietico requisito agli ucraini contribuiva a mantenere stabili i mercati internazionali, nelle decisive settimane in cui gli Stati Uniti di Franklin Delano Roosevelt puntavano su questa nuova stabilità per uscire dalla Grande Depressione e si preparavano ad estendere il proprio riconoscimento all’Urss nel novembre 1933 e in Germania Adolf Hitler consolidava il suo potere.

Ancora oggi il ricordo dell’Holodomor divide Ucraina e Russia. Per Kiev si tratta di una pagina incancellabile della propria storia: nel 2010, la corte d’appello di Kiev decretò che l’Holodomor fosse un atto di genocidio e anche Polonia e Città del Vaticano si sono espressi in tal senso. Latita ancora la memoria storica in tal senso, come spesso accade sul fronte dei crimini staliniani. Condotti sotto la cappa di ferro di un regime in larga misura isolato dal mondo e la cui scoperta è stata, in larga misura, il frutto del lavoro pioneristico di pochi storici.

Tra Hitler e Stalin: le “terre di sangue” vittime dei regimi totalitari. Andrea Muratore  su Inside Over il 5 novembre 2021. Il totalitarismo nazionalsocialista e quello stalinano sono associati ad alcuni dei più efferati crimini commessi nella storia del Novecento. Guardando alla tragica storia tra l’inizio delle campagne di collettivizzazione di massa in Unione Sovietica a inizio Anni Trenta e la fine della Seconda guerra mondiale culminata nella distruzione del Terzo Reich si nota che buona parte dei crimini di Hitler e Stalin ebbero come teatro un’area sovrapponibile dell’Europa orientale compresa tra la Polonia, i Paesi baltici, la Bielorussia e l’Ucraina. In cui furono sterminate milioni di persone in larga parte inermi.

I massacri dei due totalitarismi

Lo storico Timothy Snyder nel saggio Terre di sangue ha sottolineato l’importanza di analizzare questa area d’Europa come vittima parallelamente delle efferatezze staliniane e di quelle naziste. Dall’inizio degli Anni Trenta all’inizio della seconda guerra mondiale fu l’Unione Sovietica a produrre i maggiori massacri con l’Holodomor, la devastante carestia ucraina, le collettivizzazioni forzate delle campagne e le deportazioni nei Gulag culminate nel Grande Terrore tra il 1937 e il 1938; il Patto Molotov-Ribbentrop di non aggressione siglato nell’agosto 1939 e durato fino alla tragica giornata del 22 giugno che sancì l’inizio dell’invasione tedesca dell’Unione Sovietica aprì la strada alla spartizione della Polonia e a una fase in cui i due regimi furono complici dell’annientamento dell’identità sociale, politica e culturale della nazione occupata.

Dopo il 1941, infine, furono i tedeschi a sdoganare la componente più efferata e violenta dei loro crimini. Nelle “terre di sangue” ebbe luogo l’omicidio in massa degli ebrei di tutta Europa, nel loro territorio avevano sede le fabbriche della morte naziste (Auschwitz-Birkenau, Treblinka, Belzec, Majdanek), furono compiuti eccidi di massa e fucilazioni, almeno tre milioni di prigionieri di guerra sovietici furono fatti morire di fame. Le “terre di sangue” furono oggetto della competizione incrociata tra il Reich e la potenza comunista, ma sostanzialmente, anche da nemiche, sia il Reich che l’Urss siano stati di fatto complici in un progetto che, per fini diversi, mirava però allo stesso obiettivo di fondo: annullare ogni identità culturale, politica e sociale dei Paesi delle “terre di sangue”, non a caso spartiti brutalmente da Molotov e Ribbentrop nel patto del 1939, assimilandoli forzatamente ai russi e ai tedeschi.

Una conta di morti impressionante

Oggigiorno – giustamente – spaventano e raccapricciano i pensieri riguardanti i 6 milioni di ebrei assassinati nel quadro della “Soluzione finale” nazionalsocialista. Ebbene, gli ebrei sterminati dai tedeschi nelle camere a gas, nelle repressioni di massa, con le fucilazioni, attraverso le marce della morte e la privazione del cibo non ammontano nemmeno alla metà complessiva dei morti delle “terre di sangue”, che Snyder calcola complessivamente in 14 milioni.

Questo numero, come quello di tutti i genocidi della storia, non significherebbe nulla se non fosse confrontato al pensiero che ogni decesso corrisponde a un’esistenza umana interrotta tragicamente. Dal prigioniero del gulag fatto morire di fame alla bambina ucraina perita assieme alla sua famiglia di carestia, dalla giovane madre ebrea morta in Bielorussia dopo l’invasione tedesca alle innumerevoli vite divorate dai lager, Snyder prova a dare umanità e individualità a alcune di queste.

La conta dei morti si snoda lungo un decennio ed è impressionante: il martirio delle “terre di sangue” ebbe inizio con i 3 milioni di morti della carestia “politica” imposta da Stalin all’Ucraina a inizio Anni Trenta; proseguì con i circa 700mila morti del Grande Terrore, in larga misura contadini e membri di minoranze nazionali fucilati; 200mila polacchi furono uccisi da tedeschi e sovietici nella repressione del 1939-1941; 4 milioni di persone morirono di fame e stenti in Unione Sovietica dopo l’invasione tedesca, 5,4 dei 6 milioni di ebrei periti durante l’Olocausto furono sterminati nelle “terre di sangue” e le operazioni anti-partigiane, le repressioni di massa e le vendette incrociate contro i partigiani tra Polonia, Bielorussia, Ucraina reclamarono un tributo di un ulteriore mezzo milione di vittime.

“A grande distanza di tempo si può scegliere di paragonare o meno i sistemi nazista o sovietico”, scrive Snyder, riferendosi a un’annosa polemica politica che divide l’Europa. “Le centinaia di milioni di europei che furono sottoposti a entrambi i regimi non poterono permettersi questo lusso”. E spesso finirono per essere vittime di entrambi i regimi o carnefici involontari. Per un ufficiale polacco nel 1939 la scelta di arrendersi ai tedeschi o ai sovietici presentava analoghe incognite; un ebreo polacco fuggito in Unione Sovietica tra il 1939 e il 1941 poteva finire in un gulag o essere riconsegnato ai nazisti; un cittadino ucraino poteva subire una rappresaglia tedesca o entrare a far parte di un gruppo partigiano, oppure scegliere un collaborazionismo spesso deciso come via di fuga dall’incertezza; in Bielorussia l’arruolamento forzato al lavoro al servizio dei tedeschi o il reclutamento da parte dei partigiani dipendeva spesso da singoli rastrellamenti; spesso diversi militari sovietici caduti prigionieri scelsero l’arruolamento con la Germania nazista come unica alternativa alla morte per fame.

La sovrapposizione tra le violenze naziste e quelle sovietiche portò al parossismo la pressione storica sull’Europa orientale, ma diede anche vita a una fase unica, nella sua tragicità, dei rapporti tra Berlino e Mosca, dato che per il professor Salvatore Santangelo, attento studioso delle relazioni tra Mosca e Berlino, “la Russia non ha avuto rapporti altrettanto intensi quanto quello costruito con la Germania. Un rapporto fatto anche di tragedie e orrori, che hanno avuto il proprio culmine nella Seconda guerra mondiale”, la quale ha segnato uno spartiacque storico fondamentale per l’Europa orientale. E non è un caso che per quasi tutti gli Stati che si trovano ancor oggi tra i russi e i tedeschi oggigiorno l’incubo strategico, dopo le divisioni della Guerra Fredda e la fine del comunismo sovietico, sia una piena saldatura tra Mosca e Berlino sotto forma di asse economico, energetico, geopolitico che li tagli fuori. I retaggi del passato non si possono cancellare dalla memoria dei popoli quando di mezzo ci sono le terre di sangue.

Katyn, il colpo al cuore della Polonia. Andrea Muratore  su Inside Over il 5 novembre 2021. Camminando per le città polacche, in diverse chiese e cattedrali ricostruite dopo la Seconda guerra mondiale si potrà ammirare, in forma di dipinto, come scultura o incisa in una vetrata, un’icona della Vergine Maria tanto realistica quanto commovente: la Madonna, raffigurata dolorante, stringe al suo petto il corpo di un uomo che appare rivolto di schiena, con un foro nella nuca. Per i polacchi, è l’icona della Madonna di Katyn, il simbolo del martirio della nazione durante il secondo conflitto mondiale, che ebbe uno dei suoi momenti apicali nella strage ordinata dal regime sovietico di Stalin contro gli ufficiali polacchi prigionieri nella primavera 1940.

I graduati polacchi presi prigionieri dopo la spartizione della Polonia tra Germania nazista e Unione Sovietica furono massacrati assieme a politici, giornalisti, intellettuali, professori e industriali, uccisi con esecuzioni sommarie a colpi di pistola dai militari Commissariato del popolo per gli affari interni (Nkvd) in una serie di episodi che ebbero il loro apice nel massacro avvenuto nei pressi della foresta di Katyn, sita a circa 20 km dalla città russa di Smolensk.

Complessivamente, furono 22mila i morti in una serie di operazioni che spiccano per efferatezza e programmazione da parte delle autorità sovietiche. Desiderose di cancellare dalla faccia della Terra ogni vestigia di un’identità polacca. Di annientare scientemente la nazione dopo aver contribuito ad azzerarne lo Stato. Un’azione volutamente e deliberatamente tesa all’annientamento delle guide contemporanee e future del popolo polacco, a consolidarne l’asservimento, non meno brutale di analoghe repressioni condotte dai nazisti nella prima nazione da loro invasa nel 1939 e negli anni successivi. Laddove la Seconda guerra mondiale rappresentò per la Germania di Adolf Hitler il punto d’inizio di una campagna di asservimento dei cittadini polacchi e di sterminio graduale della sua comunità ebraica, essa fu per Stalin e il suo regime il punto d’arrivo di una paranoica persecuzione anti-polacca che aveva avuto già le sue prime espressioni ai tempi dell’Holodomor, la grande carestia ucraina degli Anni Trenta, e nel Grande Terrore del 1937-1938.

Il 5 marzo 1940 Lavrentij Beria, capo della polizia segreta sovietica, aveva proposto al Politburo del Partito comunista dell’Unione Sovietica di approvare un ordine di eliminazione delle forze antisovietiche e degli attivisti  “nazionalisti e controrivoluzionari” detenuti nei campi e nelle prigioni delle parti occupata della Polonia. Richiamandosi all’inesistente Organizzazione Militare Polacca a cui erano accusati di partecipare alcuni dei fucilati in vista della repressione del Grande Terrore.

Detenuti nei campi di prigionia di Kalinin, vicino Mosca, di Staroblisk, vicino all’attuale Donetsk, e soprattutto nel centro di Kozelsk i polacchi arrestati o presi prigionieri furono destinati alla morte da un ordine amministrativo connotato dal tradizionale grigiore burocratico con cui la vita e la morte venivano decise nell’Urss staliniana. Kozelsk è la città in cui Fedor Dostojevskij aveva collocato una scena cruciale dei Fratelli Karamazov. Un’opera coniugante in forma tragica fede, discussioni sul destino dell’essere umano e un duello tragico tra morali diverse che vide una sua parte ambientata all’Optyn Hermitage della piccola città russa, divenuta dal 1939 sede di un campo di prigionia sovietico divenuto base per la fabbrica della morte sovietica. Come ha ricordato la storica Anna Cienciala, polacca emigrata negli Usa, i massacri che presero il nome da Katyn avvennero dispersi su più aree concentrate nello spazio boschivo vicino Smolensk e seguivano un modus operandi freddamente determinato: i detenuti condotti da Kozelsk a Katyn erano “condotti in una stanza dove venivano controllati i loro estremi. Da qui giungevano in un’altra stanza, buia e senza finestre” e, come ricordarono testimoni del Nkvd, “si sentiva un rumore secco e questa era la fine”. In alcuni casi, a Katyn i i prigionieri erano portati direttamente alle fosse con le mani legate dietro la schiena e uccisi con un colpo di pistola alla nuca.

Qual è la portata tragica più significativa dell’eccidio di Katyn? Essenzialmente il fatto che inviti a pensare sulla drammaticità e sulla convergenza dei regimi totalitari del Novecento. Per lungo tempo la sua responsabilità venne attribuite ai tedeschi per il fatto che Joseph Goebbels, ministro della Propaganda del Reich, volle sfruttare propagandisticamente il massacro dopo la scoperta delle fosse comuni di Katyn da parte dei militari della Germania nel 1943. Di questa opera di madornale disinformazione furono complici anche gli occidentali prima della fine della seconda guerra mondiale: la rottura consumatasi tra il governo polacco in esilio e Stalin dopo la scoperta del massacro rischiava di minare la coalizione antitedesca e Varsavia, in nome della quale era stata avviata la guerra a Hitler, destinata nelle mani di uno dei suoi due invasori del 1939. Come sottolinea Avvenire, inoltre, “il macabro paradosso del processo di Norimberga fu che tra i giudici dei criminali hitleriani c’erano i funzionari sovietici, colpevoli di analoghi stermini di massa, tra cui appunto quello di Katyn”.

Nella sua ultima intervista concessa all’Osservatore Romano a pochi giorni dalla morte, in occasione del ventesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino, il 9 novembre 2009 il professor Viktor Zaslavsky, docente di Sociologia politica presso la Luiss di Roma, grande studioso dei rapporti tra Italia e blocco orientale nella Guerra Fredda e, soprattutto, ex cittadino sovietico che nel 1974 venne espulso dall’Urss dichiarò che “nell’ambito del dibattito sui totalitarismi e sui sistemi totalitari del XX secolo il massacro di Katyn rappresenta un caso emblematico di pulizia di classe, mentre Auschwitz si configura come un caso di pulizia etnica. Due politiche gemelle che accomunano il totalitarismo nazista e quello sovietico”. Con una nazione martire per eccellenza: la Polonia, “Cristo d’Europa” martoriato per decenni fino alla definitiva emancipazione da ogni dominio esterno dopo il 1989. Anno che ha permesso di far finalmente giustizia su uno dei crimini più odiosi e meno noti del Novecento. Un massacro con cui un regime totalitario mirò a decapitare di colpo una nazione intera azzerando le sue prospettive di rinascita e decimandone l’élite.

·        Gli olocausti comunisti.

Chi era Pol Pot, l'”Assassino con il sorriso”. Federico Giuliani su Inside Over il 21 novembre 2021. Pol Pot (1925-1998) è conosciuto per essere l’ideatore di uno dei genocidi più terribili della storia dell’umanità: quello cambogiano, che dal 1975 al 1979 è costato la vita a circa due milioni di persone, ovvero un terzo dell’allora popolazione della Cambogia.

Proveniente da una famiglia locale benestante, Pol Pot, pseudonimo di Saloth Sar, ebbe modo di studiare in Francia, nel cuore dell’Europa, dove entrò in contatto con gli ideali marxisti di Jean-Paul Sartre e con il mito della Rivoluzione Francese. Una volta rientrato in patria, proseguì i suoi impegni politici fondando il Partito Rivoluzionario del Popolo Khmer. In seguito diede vita al movimento rivoluzionario dei Khmer Rossi, con i quali depose il governo guidato da Sihanouk e trasformò la Cambogia in una repubblica comunista.

La follia di Pol Pot durò fino all’invasione vietnamita del Paese e al rovesciamento del suo regime (1979). Da quel momento in poi entrò nella clandestinità. Nel novembre 1997 fu posto dai suoi stessi compagni agli arresti domiciliari nei pressi del confine tailandese, dove morì un anno più tardi per cause naturali.

L'infanzia e gli studi a Parigi

Il vero nome di Pol Pot era Saloth Sar. Nacque nel maggio 1925 a Prek Sbauv, all’epoca un territorio situato nell’Indocina francese, da una famiglia benestante. Una delle sorelle era concubina dell’allora re, e al giovanissimo Pol Pot capitava spesso di visitare la residenza del sovrano. Nel 1934 fu inviato in un monastero buddhista di Phnom Penh per effettuare un tirocinio religioso.

Nella stessa città, dove soggiornò assieme a tre dei suoi fratelli, due anni più tardi frequentò la scuola religiosa Miche School. Nel 1947 entrò nel Liceo Sisowath, uno dei più prestigiosi del Paese, ma a causa di studi non troppo prolifici fu costretto ad entrare in una scuola tecnica di Russey Keo. Nel 1949 vinse una borsa di studio per radioingegneria all’EFREI di Parigi.

In Francia il giovane Pol Pot, ammiratore della Rivoluzione Francese, fu ispirato ideologicamente da Sartre. Nel 1950 il ragazzo, infischiandosene degli studi, trovò perfino il tempo di entrare in una brigata internazionale di operai che si recò nella Jugoslavia di Tito per realizzare strade. Nel 1951 entrò tra le fila del Partito Comunista Francese, dove ebbe modo di sposare la lotta anti colonialista dei Viet Minh nell’Indocina francese. Rientrò in patria nel 1953 al termine di un’esperienza scolastica disastrosa.

Aria di rivoluzione

L'”Assassino con il sorriso”, come lo hanno soprannominato alcuni storici, era ormai pronto a far fruttare tutte le conoscenze ideologiche acquisite in Francia. Nei primi anni ’50, la Cambogia di Pol Pot era in subbuglio. I comunisti si erano rivoltati contro l’occupazione francese dell’Indocina. Nel 1953, Saloth Sar si unì ai Viet Minh, salvo tornare sui suoi passi una volta resosi conto in quel movimento prevalevano gli interessi nazionali vietnamiti. Nel 1954 i francesi abbandonarono l’Indocina e i Viet Minh si ritirarono nel Vietnam del Nord.

Pol Pot rimase in Cambogia. Qui fondò il Partito Rivoluzionario del Popolo Khmer. Nel frattempo, il re Norodom Sihanouk indisse elezioni, abdicò e creò un partito con il quale conquistò tutti i seggi parlamentari travolgendo l’opposizione comunista.

A quel punto Saloth Sar iniziò a scappare dalla polizia segreta di Sihanouk e trasacorse 12 anni in latitanza. In questo lasso di tempo iniziò ad addestrare reclute. Nel 1968 Lon Nol, capo della sicurezza interna di Sihanouk, diede il via a una controffensiva volta a spazzare via i rivoluzionari comunisti cambogiani. Pol Pot, grazie anche all’appoggio della Cina di Mao Zedong, iniziò una sollevazione armata.

L'ascesa dei Khmer Rossi

Prima di proseguire nel racconto biografico di Pol Pot è fondamentale soffermarci su alcuni eventi storici accaduti a cavallo degli anni ’70 tra Vienam e Cambogia. Nel 1970 il generale Lon Nol, sostenuto dagli Stati Uniti, depose facilmente Sihanouk, accusato di essere fiancheggiatore dei Viet Cong. Quest’ultimo supportò per protesta Pol Pot, sparito dalla circolazione ma comunque presenza latente. Nel frattempo Richard Nixon aveva ordinato un’incursione in Cambogia per distruggere i Viet Cong nascosti al confine con il Vietnam del Sud.

L’invasione degli americani, storici supporter di Sihanouk, portò molti cambogiani a sostenere le istanze di liberazione sbandierate dagli uomini di Pol Pot. Iniziò così, grazie all’intervento indiretto degli Stati Uniti in questa regione, la lenta ascesa di Saloth Sar. Lon Nol perse il controllo di una città dietro l’altra.

Secondo alcuni esperti, i Khmer Rossi avrebbero potuto non prendere il potere del Paese se la Guerra del Vietnam non avesse causato una destabilizzazione così forte dell’intera regione. Le campagne di bombardamento volte a distruggere i rifugi dei vietnamiti in Cambogia hanno alimentato il fuoco lento di Pol Pot. Un fuoco che stava bruciando silenzioso sotto i carboni ardenti della storia.

Nel 1973 gli Stati Uniti abbandonarono il Vietnam, mentre in Cambogia i Khmer Rossi continuarono a combattere, fino a provocare il collasso del governo di Lon Nol. Il 17 aprile 1975 il Partito Comunista di Kampuchea conquistò Phnom Penh, costringendo Lon Nol a fuggire in America.

La nascita della Kampuchea Democratica

Mancava ancora l’ultimo tassello prima di entrare nella “nuova era”. Nel 1976 i Khmer Rossi arrestarono Sihanouk. Il governo esistente fu smantellato da cima a fondo. La Cambogia si trasformò così in una Repubblica comunista. Khieu Samphan diventò il primo Presidente del Paese, mentre Pol Pot fu nominato primo ministro.

Da questo momento in poi iniziarono graduali riforme comuniste. Se la Cina aveva dato vita al cosiddetto Grande balzo in avanti, la Cambogia, ispirandosi al maoismo, si affidò al cosiddetto Super grande balzo in avanti. La prima mossa di Pol Pot fu quella di svuotare le città per riempire le aree rurali.

Secondo il primo ministro cambogiano era necessario ripartire da zero per dare vita a un nuovo Stato, più giusto e più equo. Mano a mano che conquistavano le città, i Khmer costrinsero gli abitanti dei centri urbani a trasferirsi in campagna. La proprietà privata evaporò come neve al sole, lasciando spazio alla proprietà collettivizzata. Le scuole lasciarono spazio alle scuole comuni.

Nella Kampuchea Democratica, il nome che assunse la Cambogia di Pol Pot, politici e burocrati furono uccisi senza pietà, assieme a tutti coloro che non erano iscritti al Partito che avessero un’istruzione. Essere degli intellettuali era pericolosissimo, e pure portare gli occhiali etichettava i poveri sfortunati alla stregua di nemici del popolo.

Il genocidio cambogiano

Pare che il governo dei Khmer ripetesse in continuazione, attraverso gli altoparlanti, che fossero al massimo necessarie una o due milioni di persone per far funzionare il Paese. Non sappiamo con esattezza quante persone morirono di fame, di malattia di tortura o nei campi di prigionia.

Stando ad alcuni dati, le vittime complessive causate dalla follia di Pol Pot potrebbero aggirarsi intorno alle 3 milioni di unità circa, ma c’è chi fornisce dati al ribasso (dai 2 agli 1,3 milioni). Altre statistiche parlano di un cambogiano su quattro assassinato nel periodo compreso tra il 1975 e il 1979.

La CIA ha invece stimato tra le 50mila e le 100mila esecuzioni accertate. Il numero esatto è tuttavia nettamente superiore, e si aggira in una fascia compresa tra le 700mila e le 2 milioni di persone sterminate con torture di ogni tipo. Perfino i familiari di Pol Pot furono deportati come gli altri cambogiani.

Fine dell'incubo

La Kampuchea Democratica iniziò a traballare alla fine del 1976. Pol Pot puntò il dito contro il Vietnam, reo di essersi impossessato di territori storicamente appartenenti al popolo Khmer. Tra il 1977 e il 1978 iniziò un braccio di ferro tra vietnamiti e cambogiani. Sempre nel 1978, i vietnamiti, dopo ripetute incursioni rivali, decisero di invadere la Cambogia. L’esercito vietnamita ottenne una facile vittoria. Pol Pot fu costretto a ritirarsi verso il confine tailandese. Nel 1979 il Vietnam instaurò in Cambogia un governo fantoccio. L’incubo della Kampuchea era improvvisamente svanito nel nulla.

Pol Pot non morì in guerra né fu mai processato. L’autore del genocidio cambogiano continuò a guidare la guerriglia dei Khmer da un’area sperduta nell’ovest del Paese. I suoi uomini alzarono bandiera bianca soltanto nel 1996. Nel frattempo la Cambogia ebbe modo di riprendersi gradualmente. Pol Pot, sparito dai radar, morì il 15 aprile del 1998 nel proprio letto. Forse in seguito a un infarto o forse avvelenato da qualche rivale. 

La storia del genocidio cambogiano nella Kampuchea Democratica. Federico Giuliani su Inside Over il 22 novembre 2021. Per genocidio cambogiano si intende l’epurazione del popolo cambogiano avvenuto in Cambogia a cavallo tra il 1975 e il 1979, ai tempi del governo comunista guidato da Pol Pot. In quattro anni, quando il Paese era stato rinominato dai Khmer Rossi Kampuchea Democratica, morirono uno svariato numero di persone. C’è molta discordanza sui dati, anche se gli storici ritengono che siano stati uccisi da 1,3 milioni a 3 milioni di cambogiani.

Secondo alcuni calcoli, questo genocidio avrebbe spazzato via il 25% dell’allora popolazione della Cambogia, senza considerare tutti i cittadini morti in un secondo momento per cause collegabili alla follia comunista di Pol Pot. Non tutti lo sottolineano a dovere ma, considerando le proporzioni del processo e l’impatto che questo ha avuto sulla popolazione, possiamo considerare il genocidio cambogiano come un caso senza precedenti nella storia dell’uomo.

Le cause del genocidio

Le ragioni del genocidio cambogiano sono da ricercare nel progetto ideologico di Pol Pot. L’ispiratore di una delle più grandi catastrofi del XXI secolo voleva esportare la Rivoluzione Culturale cinese all’interno dei confini della Cambogia in una forma ancora più radicale. Nei quattro anni in cui il Paese assunse il nome di Kampuchea Democratica, Phnom Penh si isolò dal resto del mondo, eccezion fatta per i rapporti tenuti in vita con alcune nazioni comuniste, tra cui Cina, Corea del Nord, Albania e Jugoslavia.

I Khmer Rossi volevano trasformare la Cambogia, una monarchia costituzionale, in una sorta di repubblica socialista agraria basata su principi maoisti portati all’estremo. In ogni caso, i seguaci di Pol Pot svuotarono letteralmente le città per ripopolare le campagne, fulcro della nuova società cambogiana. Qui sorsero ingenti campi di lavoro (Killing Fields) dove centinaia di migliaia di persone persero la vita perché accusati di essere intellettuali o di appartenere a una minoranza etnica. Il genocidio cambogiano, dunque, nasce da un movente prettamente politico-ideologico, al quale si può collegare in seconda battuta l’aspetto etnico.

Prigioni e Killing Fields

Come anticipato, fu decimato circa il 25% della popolazione cambogiana. Durante gli anni delle deportazioni ogni famiglia perse uno o più parenti. Gli storici sostengono che quasi 20mila persone transitarono nel centro di tortura di Tuol Sleng, il famigerato S-21, una delle 196 prigioni gestite dai Khmer Rossi. Di queste, se ne salvarono appena sette.

Accanto alle prigioni spiccavano i tristemente noti Killing Fields, luoghi all’interno dei quali venivano giustiziati gli oppositori. Per risparmiare munizioni preziose, i prigionieri venivano uccisi con asce o picchetti, per poi essere sepolti in fosse comuni.

Gli artefici delle mattanze erano molto spesso giovani o giovanissimi, strappati alle famiglie ed educati dai Khmer per essere “figli del partito”. Le loro giovani menti venivano plasmate per convincerli a praticare atti barbari sui poveri prigionieri. Il genocidio terminò nel 1979 in seguito alla sconfitta dei Khmer Rossi e all’invasione vietnamita della Cambogia.

I numeri del massacro

È pressoché impossibile stabilire con certezza quante persone morirono durante il governo di Pol Pot. È inoltre estremamente complesso suddividere con precisione i decessi causati direttamente dalla violenza dei Khmer Rossi e quelli provocati da carestie, malattie e assenza di cure mediche. Sono tuttavia state fatte varie stime.

Il governo vietnamita, lo stesso che pose fine alla follia dei Khmer Rossi, parlò di oltre 3 milioni di morti. Lon Nol, il generale autore del golpe cambogiano negli anni ’70 e deposto dai seguaci di Pol Pot, parlò invece di 2,5 milioni di vittime. Vari storici, tra cui Rudolph Joseph Rummel, rinomato studioso di genocidi, ha stimato 2 milioni di morti.

Altri numeri: Amnesty scende a 1,5 milioni, poco più di quelli ipotizzati dal dipartimento di Stato degli Usa (1,2 milioni). Gli artefici del massacro vanno ancora più al ribasso: l’ex capo di Stato della Kampuchea Democratica Khieu Samphan parlò di 1 milione di morti, mentre Pol Pot di 800mila.

Violenza e torture

Esistono moltissime testimonianze capaci di rievocare le torture più atroci effettuate dai Khmer. Il più delle volte le persone venivano torturate e imprigionate soltanto a causa di un sospetto, non sempre fondato, di essere “nemici del popolo”, e quindi minacce per il governo comunista in carica. Talvolta, assieme al prigioniero venivano deportati anche i membri della sua famiglia (bambini compresi) onde evitare il rischio di una possibile vendetta.

Bou Meng, fortunato sopravvissuto alla prigione S-21, ha raccontato che le torture erano atroci al punto tale che spesso i prigionieri preferivano suicidarsi che soffrire in quel modo. Nel momento in cui le guardie si rendevano conto che un detenuto non era più utile alla causa (ovvero non aveva più informazioni da rivelare), a quel punto il malcapitato finiva in uno dei Killing Fields per essere ucciso sul posto. Alcune fonti sottolineano un altro aspetto: oltre alle torture, i Khmer Rossi erano soliti praticare esperimenti medici sui prigionieri, così da testare nuovi, improbabili metodi per curare malattie di ogni tipo.

Tribunali, processi e tristi verità

Il governo cambogiano istituì nel 2001 il Tribunale speciale della Cambogia. L’intento delle autorità era chiaro: processare i superstiti della Kampuchea Democratica, inchiodare i colpevoli di fronte alle loro responsabilità e ridare, almeno in parte, giustizia alle vittime. Le prime udienze presero il via nel febbraio 2009. Nel 2014 arrivarono le prime condanne rilevanti, con Nuon Chea e Khieu Samphan condannati all’ergastolo per crimini contro l’umanità durante il genocidio. Altri nomi noti sarebbero stati condannati in seguito.

C’è un dato che fa impressione. Dal 2009 in poi la ong Centro cambogiano di documentazione ha ricostruito e mappato la bellezza di 23.745 fosse comuni. Al loro interno l’inevitabile, macabra scoperta: i resti di 1,3 milioni di possibili vittime del genocidio cambogiano. Pare che il 60% delle vittime totali sia stato direttamente ucciso dai Khmer; il restante morì di fame o per via dell’insorgere di malattie letali. 

Chi erano i Khmer Rossi, gli “angeli della morte”. Federico Giuliani su Inside Over il 22 novembre 2021. I Khmer Rossi erano i seguaci di Pol Pot, fondatore della Kampuchea Democratica (la Cambogia comunista) e ispiratore del genocidio cambogiano, uno dei più grandi massacri mai avvenuti nella storia dell’umanità. Nacquero nel 1968 come costola dell’Esercito Popolare vietnamita, attivo in Vietnam del Nord.

Mossi da una particolare ideologia, che fondeva alcuni elementi del marxismo a una rigidissima versione estremizzata del nazionalismo khmer, ovvero il più grande gruppo etnico della Cambogia, dopo il golpe cambogiano del 1970, i Khmer Rossi si allearono con i nazionalisti per respingere l’invasione americana e sudvietnamita nel Paese. Nel 1975 conquistarono la capitale Phnom Penh e diedero vita al folle esperimento della Kampuchea Democratica, un regime sanguinario che, dal 1975 al 1979, costò la vita a un numero indefinito di persone (le stime variano dai 3 agli 1,3 milioni di vittime).

Una volta caduto il regime, i Khmer imbastirono una guerriglia contro il governo – nel frattempo ristabilitosi – che durò fino alla fine degli anni ’90. Per giudicare i crimini commessi da Pol Pot e dai suoi seguaci nel 2006 è stato creato un Tribunale misto, sia cambogiano che internazionale, sotto l’egida delle Nazioni Unite.

La nascita dei Khmer Rossi

Per capire chi sono i Khmer Rossi dobbiamo soffermarci sulla figura di Pol Pot e analizzare il contesto storico all’interno del quale era immersa la Cambogia nel periodo compreso tra il 1950 e il 1970. Pol Pot è stato il deus ex machina della creazione della Kampuchea Democratica, ovvero la Cambogia comunista governata dal Partito Comunista dei Khmer. I Khmer Rossi possono essere considerate le pedine usate da Saloth Sar (questo il vero nome di Pol Pot) per spazzare via il vecchio sistema politico cambogiano e creare il nuovo.

Per quanto riguarda la Cambogia, in quegli anni il Paese si era appena liberato dal giogo dei francesi ma doveva fare i conti con l’invasione americana e sudvietnamita lungo il confine cambogiano con il Vietnam del Nord. L’obiettivo di Washington era uno: distruggere i santuari Viet Cong e sferrare un duro colpo ai comunisti vietnamiti.

Queste azioni provocarono tuttavia la reazione dei Khmer Rossi che, approfittando del golpe militare interno guidato dal generale Lon Nol, conquistarono varie zone del Paese. Nel 1975 entrarono nella capitale Phnom Penh, dando di fatto inizio all’esperienza della Kampuchea Democratica.

Prigione a cielo aperto

I Khmer Rossi trasformarono la Cambogia in una sorta di prigione a cielo aperto. Furono i responsabili diretti del genocidio cambogiano, che cancellò circa il 25% della popolazione del Paese in appena quattro anni (1975-1979). Una volta conquistata Phnom Penh, i Khmer iniziarono a trasferire centinaia di migliaia di persone dalla capitale – e, in generale, dalle altre città – alla campagna.

Qui i cambogiani avrebbero dovuto mettere in pratica un’utopia agraria egualitaria grazie al lavoro di gruppo in fattorie comunitarie. Gli appartenenti alla classe media e gli intellettuali vennero uccisi senza pietà dopo atroci torture, così come i monaci buddisti e i religiosi.

Come ha recentemente dichiarato il procuratore cambogiano Che Long rivolgendosi al Tribunale per i crimini di guerra di Phnom Penh, sotto i Khmer Rossi la Cambogia era diventata un campo di schiavi. Le stime, come hanno più volte spiegato gli storici, sono confuse e inesatte. Certo è che centinaia di migliaia di cambogiani appartenenti alla classe media furono uccisi brutalmente in appositi centri di detenzione, come il tristemente noto carcere S21.

Torture e uccisioni in nome di "Angkar"

I Khmer allestirono comuni agricole in tutto il Paese. Comuni che in realtà possono tranquillamente essere considerati campi di prigionia, dove lavoro forzato, torture e uccisioni sono alla stregua del giorno. Se in tempi normali la Cambogia aveva una produttività media di circa 1 tonnellata di riso per ogni ettaro coltivato all’anno, adesso i seguaci di Pol Pot pretendevano di triplicare il risultato.

Le testimonianze e i dispacci dell’epoca parlano di turni di lavoro massacranti di 12 ore, accompagnati da razioni di alimentare degne dei peggiori lager mai esistiti. Gli intellettuali, i monaci, le minoranze etniche, i professionisti e tutti coloro che venivano accusati di avere rapporti con l’estero, furono sterminati senza pietà.

La medicina occidentale fu messa al bando e la mortalità salì alle stelle. Non c’era più spazio né per il classico vestiario occidentale né per la famiglia intesa come istituzione. I nuclei familiari furono smantellati, i bambini allevati dal Partito (Angkar) e i genitori separati dai figli.

Il ritiro nella giungla e la fine dell'utopia

L’inferno della Kampuchea Democratica terminò nel 1979 in seguito all’invasione vietnamita, scaturita come reazione alle mosse di Pol Pot, desideroso di annettere territori appartenenti al Vietnam ma storicamente appartenenti ai Khmer. La battaglia fu impari, e i guerriglieri cambogiani non poterono far altro che fuggire nella giungla. Nonostante il loro progetto fosse ormai svanito, gli autori del genocidio cambogiano continuarono a combattere dando vita a una guerriglia non più organizzata.

La fine dei Khmer, inteso come fine del movimento rivoluzionario, era però sempre più vicina. Pol Pot, pur continuando ad avere una discreta influenza sui Khmer Rossi, si era ormai eclissato. Senza leader di spessore capaci di imbastire un piano, il gruppo iniziò gradualmente a squagliarsi. In seguito alla morte di Saloth Sar, avvenuta nel 1998, gli esponenti iniziarono ad accusarsi a vicenda.

Al momento il re della Cambogia, tornata monarchia costituzionale, è Norodom Sihamoni, niente meno che il figlio di Sihanouk, deposto dal golpe avvenuto negli anni ’70. Il capo del governo è invece Hun Sen, un ex membro dei Khmer Rossi passato dalla parte dei vietnamiti con l’intento di rovesciare il regime di Pol Pot.

Questioni irrisolte

A distanza di oltre 40 anni dalla fine dell’incubo di Pol Pot la Cambogia deve farei conti con questioni irrisolte. Come detto, i Khmer Rossi non furono giustiziati né morirono sul campo di battaglia. Al contrario, si ritirarono nella giungla, continuarono a combattere contro il governo, nel frattempo ristabilitosi, e molti di loro morirono per cause naturali.

Le autorità giudiziarie cambogiane sono alle prese con un nodo spinosissimo: stabilire quali sono i colpevoli e quali le vittime della follia alimentata dai Khmer Rossi. Bisogna infatti ricordare che moltissimi ragazzi, perfino bambini, furono obbligati ad arruolarsi, uccidere e torturare.

I processi contro i superstiti dell’esperimento sociale di Pol Pot vanno avanti, ma non sempre è facile risalire alla verità. In ogni caso, il Tribunale speciale ha inflitto diverse condanne esemplari, come l’ergastolo per crimini contro l’umanità dato a Khieu Samphan, capo di stato della Kampuchea Democratica, e Nuon Chea, capo ideologo del partito.

·        E allora le foibe?

La memoria (di parte) dei professoroni di sinistra. Matteo Carnieletto e Lorenzo Salimbeni il 20 Novembre 2021 su Il Giornale. Sul Fatto Quotidiano, Gobetti e Montanari accusano l'ex senatore Giovanardi di cambiare la storia delle foibe a proprio uso e consumo. Ma la verità è un'altra. "Due studiosi seri e competenti", così si sono autodefiniti Eric Gobetti e Tomaso Montanari sulle colonne del Fatto Quotidiano di oggi, hanno invitato Carlo Giovanardi, ex senatore ed ex ministro del secondo governo Berlusconi, a tornare sui banchi di scuola per un ripasso generale di storia. Gli "studiosi seri e competenti" hanno rimandato a settembre il politico di centrodestra a causa di un articolo intitolato Ora basta con l'ipocrisia sulle foibe, apparso sull'ultimo numero di Panorama. Giovanardi, secondo la premiata ditta del Fatto, sarebbe "'un negazionista della storia' che, "accecato dalla furia ideologica, accusa di malafede gli studiosi". Cosa che ovviamente non è così: come si può accusare di malafede, o quanto meno di parzialità, chi si fa fotografare accanto alla statua di Josip Broz Tito, imitandone la posa, e scrivendo "La tradizionale passeggiata con Tito"? Come si può accusare di parzialità chi si fa immortalare con il pugno chiuso, il fazzoletto rosso al collo e la bandiera dei partigiani jugoslavi alle spalle? Ovviamente non si può.

La memoria corta di Gobetti e Montanari

Il motivo del contendere tra Giovanardi e il duo Gobetti-Montanari ruota attorno alla famigerata Circolare 3C, firmata dal generale Mario Roatta nel 1942 (un anno dopo l'inizio dell'occupazione italiana di parte della Jugoslavia). E qui, lo diciamo, hanno ragione gli "studiosi seri e competenti". Giovanardi sbaglia la data del documento, datandolo un anno di ritardo. Quello che però dimenticano le penne del Fatto è che la Circolare 3C, tremenda da leggere oggi e orribile già allora, rappresenta l’applicazione della Legge di Guerra vigente durante la Seconda guerra mondiale. Dura lex sed lex. E questo è un dettaglio che non dovrebbe sfuggire a chi ribadisce (riguardo a foibe ed esodo) di voler contestualizzare le vicende storiche. La disposizione del generale Roatta riguarda il diritto di rappresaglia al quale fecero ricorso durante quel conflitto tutti gli eserciti regolari combattenti, dell’una o dell’altra parte di quell’immane scontro, in base a leggi internazionalmente riconosciute ed accettate. Leggi che, contrariamente a quanto fatto dai partigiani capeggiati da Tito, non prevedevano la deliberata strage di civili o dei militari fatti prigionieri. Leggi che definivano “franchi tiratori” coloro i quali non vi si attenevano ed esercitavano la guerriglia, come fu fatto dai partigiani di Tito e da tutte le altre forme di resistenza. Imboscate, attentati e sabotaggi compiuti da combattenti non in divisa prevedevano specifiche reazioni, tra cui la più grave era proprio la rappresaglia. La resistenza jugoslava si spezzò, oltre che per questioni politiche ed istituzionali in merito alle sorti dello Stato a guerra finita, anche perché la componente nazionalista di Dragoljub "Draža" Mihajlović non intendeva travolgere i civili in questa catena di reazioni, laddove le formazioni comuniste capeggiate da Tito proseguirono su quella strada proprio per esasperare gli occupanti e costringerli a reazioni tali da porsi in pessima luce nei confronti dei civili. Certamente la lotta di liberazione e la guerra civile conseguenti all’invasione della Jugoslavia nell’aprile 1941 portarono un milione di vittime ed è altrettanto certo che, talvolta, le nostre truppe commisero dei veri e propri crimini. Ma è altresì vero che l’interposizione italiana fece in modo che il numero dei morti non aumentasse, laddove generoso fu l’apporto fornito per il conseguimento di tale cifra da parte dell’esercito di liberazione nazionale titino a guerra finita con le stragi degli oppositori o presunti tali della nascente dittatura.

"Un debito di gratitudine"

Le nostre truppe, infatti, si frapponevano tra gli ultranazionalisti ustaša e le comunità serbe di Bosnia che rischiavano di venire sterminate, mentre nelle zone sotto controllo italiano venivano accolti gli ebrei in fuga dalle persecuzioni che pativano nello Stato indipendente croato o nelle regioni controllate dai tedeschi. Un debito di gratitudine: storia dei rapporti tra l’esercito italiano e gli ebrei in Dalmazia 1941-1943 ne parla ampiamente ed è stato scritto da Menachem Shelah, la cui famiglia si salvò dagli ingranaggi dell’Olocausto proprio grazie alla protezione italiana. Si tratta di un titolo sicuramente noto agli "studiosi seri e competenti", così come L’occupazione allegra: gli italiani in Jugoslavia (1941-1943), testo in cui si evince come rispetto ad altre forze impegnate nel confronto militare ed ideologico in corso nella dissolta Jugoslavia gli italiani fossero, a detta degli stessi partigiani titini, coloro i quali esercitassero in misura minore violenza e crudeltà. D’altro canto, i 100mila internati che vengono imputati al Regio esercito rappresentano un variegato insieme, una parte del quale patì certamente la tremenda esperienza del campo di Arbe. Ma si trattava anche di famiglie di collaborazionisti o di esponenti nazionalisti che venivano sottratti alle violenze partigiane, come pure di ostaggi prelevati da zone di attività partigiana proprio come monito affinché non venissero effettuate azioni che legittimassero il ricorso alla rappresaglia nei confronti dei civili. Tutte cose che i "due studiosi seri e competenti" sembrano dimenticare. O forse non vogliono. Del resto è da mesi che Gobetti e Montanari insistono nel minimizzare il dramma delle foibe e del confine orientale. Un paradosso: chi chi si occupa di storia, quindi della memoria, continua a far finta di non ricordare ciò che è realmente successo.

Matteo Carnieletto. Entro nella redazione de ilGiornale.it nel dicembre del 2014 e, qualche anno dopo, divento il responsabile del sito de Gli Occhi della Guerra, oggi InsideOver. Da sempre appassionato di politica estera, ho scritto insieme ad Andrea Indini Isis segreto, Sangue

Perché esiste il negazionismo. Il grande intellettuale Saul Friedlӓnder ha speso tutta la vita documentando l’Olocausto, cambiando il modo di studiare la storia. E di fronte alle irrazionalità di oggi, si interroga sul perché neghiamo.  Wlodek Goldkorn su L’Espresso il 29 settembre 2021. Saul Friedländer è l’uomo che, negli ultimi decenni, ha cambiato il modo di fare la Storia. Oggi 89enne professore emerito all’Università della California a Los Angeles, a partire dagli anni Settanta in una disciplina che cercava oggettività, aveva introdotto invece elementi di psicanalisi, ha valorizzato diari intimi mai pubblicati, lettere private e via elencando fattori di esplicita soggettività. Considerato il massimo storico della Shoah e dei genocidi, ha insegnato a Ginevra, Tel-Aviv, Gerusalemme, si è formato come studioso a Parigi, è di casa in quattro lingue: l’inglese, l’ebraico, il francese e il tedesco e questa conversazione in occasione del conferimento del premio Balzan (ogni anno ne sono attribuiti quattro, la metà della somma di circa 700 mila euro è destinata a progetti di ricerca) si svolge in video, in ebraico. La scelta della lingua non è casuale (ci torneremo), ma intanto cominciamo dall’inizio, dalla biografia del nostro interlocutore, se non altro perché il suo modo di fare Storia è legato alle esperienze da bambino e da ragazzo. Friedländer nasce nel 1932 a Praga, e gli viene dato il nome Pavel. Quando ha sei anni, e mentre la Cecoslovacchia è in pratica regalata a Hitler con il Patto di Monaco, la famiglia si trasferisce in Francia. Pavel diventa Paul. Ma anche lì arrivano le truppe naziste. I genitori affidano il ragazzino a un convento dove assume l’identità di Paul Henri‐Marie Ferland, bambino cattolico, mentre madre e padre tentano di passare il confine con la Svizzera. Respinti dai gendarmi elvetici, finiscono in un convoglio diretto ad Auschwitz. Nel frattempo il ragazzo cresce, vorrebbe diventare sacerdote, proseguire gli studi in un collegio di gesuiti, quando un prete, «un italiano, Pietro Lorigola» ci tiene a sottolineare, gli rivela che lui è ebreo e che mamma e papà sono morti. Paul Henri‐Marie decide di cambiare il nome in Shaul (diventato poi Saul), il contrario di un altro Shaul che sulla via di Damasco diventò Paolo. Raggiunge Israele, è comunista e sionista. In pochi anni cambia quattro volte nome e identità. Sullo schermo del computer appare la faccia di un signore mite, occhi che sorridono. Si scusa perché non sempre sente bene, e la distanza e il mezzo non aiutano. Alla domanda se, alla luce dell’uso che fa delle fonti e della sua biografia è concepibile l’oggettività nella Storia, risponde «certo che no». Fa una pausa: «Però uno storico deve cercare di avvicinarsi quanto più possibile a ciò che egli vede non come la verità storica, ma agli eventi come erano». Ride, perché la frase «gli eventi come erano» è una citazione di Otto Rank, psicoanalista viennese, allievo e assistente di Freud e l’uomo che applicò la psicanalisi allo studio della letteratura e delle arti. Chiarita e ribadita l’importanza del metodo che indaga il subconscio, Friedländer prosegue: «Lo storico deve essere conscio della sua posizione. E io parlo dalla posizione di una persona che da bambino ha vissuto nascosto e ha perso la famiglia. Sono conscio della mia soggettività, anche quando faccio il mio mestiere». Il riferimento è chiaro. Negli anni Ottanta la Germania fu teatro di quella che veniva definita la “Historikerstreit” (la lite degli storici: alcuni sostenevano che il nazismo fosse una reazione al bolscevismo con, a volte, allusioni alle origini ebraiche di quel fenomeno). Spiega Friedländer: «Molti storici tedeschi all’epoca pensavano di essere in grado di vedere il Terzo Reich da un punto di vista oggettivo, cosa che io cercavo di mettere in dubbio». Oggi invece tutti parlano della memoria, pochi della Storia «come è successa davvero». E allora qual è la differenza fra memoria e Storia? Friedländer risponde: «Lo storico dovrebbe allontanarsi dalla memoria, nonostante senza di essa non saprà scrivere la sua storia». Un paradosso che spiega così: «Io ho la memoria dell’epoca su cui lavoro. Per questa ragione ho capito che avrei dovuto includere nelle mie opere le voci degli ebrei che hanno scritto i loro diari e in maggior parte sono morti. Però, cerco di controbilanciare la mia memoria e i miei ricordi con gli strumenti classici dello storico». Prosegue parlando del ruolo dei testimoni. Infatti, il testimone raramente comprende il contesto, quello è un compito che spetta allo storico, appunto: «Io, nelle mie ricerche, ho usato spesso testimonianze di persone molto giovani che esprimevano tutta la loro soggettività, per esempio ragazzi comunisti del ghetto di Vilnius o di Lodz. Ma non cercavo le loro idee politiche, per me era ed è importante la loro testimonianza su quello che hanno visto, sui fatti concreti». Cambiamo tema. In Germania, in particolare, ma il fenomeno è comune a tutto l’Occidente, c’è discussione sulla unicità o meno dell’Olocausto rispetto ad altri genocidi e alla storia coloniale. «L’unicità della Shoah non è nel numero delle vittime, né nella sofferenza. Le persone soffrono tutte allo stesso modo e muoiono tutte da sole. La differenza sta nel contesto. Il contesto della Shoah è diverso da quello del genocidio degli armeni, dei tutsi, da quello perpetrato in Cambogia e della carestia in Ucraina negli anni Trenta. Prima di tutto c’è l’ossessione non tanto per gli ebrei, quanto per l’Ebreo e per l’Ebraismo. Si voleva “purificare” il mondo attraverso l’annientamento dell’ebraismo». Fa un esempio di quella ossessione: «Pensi che nel 1944, mentre l’Armata Rossa avanzava verso la Germania da Est e gli Alleati dall’Ovest, i tedeschi hanno pensato di radunare gli ebrei di Rodi e Kos, poche migliaia di persone, trasportarli ad Atene, da lì ad Auschwitz». Insomma, far sparire l’ebraismo dalla faccia della terra era quasi più importante della difesa del Paese. Continua: «La visione del mondo nazista era costruita sull’odio basato su una tradizione religiosa, cristiana, vecchia duemila anni. Non esiste una base di odio simile nei casi del genocidio coloniale, né ovviamente una simile ossessione». Quando parla dell’ossessione e cita i casi di Rodi e Kos sta dicendo che c’è una base di nichilismo radicale nel nazismo? «Non del tutto nichilismo», è la risposta, «visto che c’era un elemento di ideologia. Un’ideologia che contemplava il Male (l’ebraismo) e il Bene (la razza ariana). E che aveva una meta: il Reich millenario». C’era anche un’idea di Redenzione? «Sì, un mondo redento perché purificato dagli ebrei». Nei suoi lavori, Friedländer porta alla luce testimonianze di ebrei che non volevano vedere quello che stava succedendo, lettere in cui si dice che persone siano state mandate a lavorare all’Est, mentre sappiamo che la destinazione erano le camere a gas. Noi citiamo la testimonianza di Marek Edelman, uno dei comandanti della rivolta nel ghetto di Varsavia sui miliziani del Bund, il partito socialista degli ebrei, che salirono sui treni per Treblinka convinti di andare a lavorare (i tedeschi avevano distribuito loro un tozzo di pane e un po’ di marmellata). La domanda è sul meccanismo che uno storico esperto di psicoanalisi certamente conosce: la negazione della realtà, dell’evidenza, come tratto comune della condizione umana, in situazioni estreme. «Guardi», dice Friedländer, «negare la realtà non è un’esperienza solo delle epoche difficili. Ci sono cose che chiunque di noi non vuole o non è in grado di guardare, affrontare e immaginare». Vale anche per chi rifiuta le notizie sulla pandemia? Un momento di silenzio, poi Friedländer risponde: «Asteniamoci da paragoni con l’Olocausto. Però esiste il fenomeno del rifiuto delle notizie. Io non so quali sono le motivazioni intime di coloro che non si vaccinano. So però che si tratta di un fenomeno che ha un fondamento politico, di destra e delle teorie cospirazioniste». All’ipotesi che forse il problema è nel rifiuto delle teorie scientifiche, perché il sapere è sempre più frammentato e forse è in crisi lo stesso paradigma dell’illuminismo, con la sua fede nel Progresso e nell’emancipazione dall’ignoranza, Friedländer reagisce con un lungo silenzio. Poi sorride, guarda la moglie che sta non lontano ma fuori dal campo visivo della telecamera, fa un respiro e lentamente dice: «È un fenomeno che viene dalla visione disfattista della realtà e del mondo che ci circonda. Spesso anch’io trovo attrazione per il pessimismo e spesso sono profondamente pessimista, ma non sono negazionista né provo attrazione per qualunque negazionismo». Aggiunge: «È la postmodernità, il rifiuto della ragione». A questo punto è lecito fare un’altra ipotesi. Friedländer è un maestro (lui ride quando sente la parola maestro) che ha usato strumenti della postmodernità: fonti non ortodosse, massicce dosi di soggettività, ma a un certo punto si è fermato nell’opera della decostruzione. Ha capito che l’illuminismo va criticato ma che non possiamo farne a meno. Friedländer risponde così: «Sono d’accordo sul fatto che l’uso delle fonti non ortodosse che lei ha menzionato è l’unica strada per arrivare a quello che comunque vogliamo conservare. La cosa più importante per me è opporsi a ogni tentativo di banalizzare la Shoah. E quindi reagisco. Ma di tutto il resto sono stanco». Obiezione: per reagire deve ribadire che il metodo scientifico esiste, che la Terra è una sfera e non è piatta e che la fisica quantistica non abolisce il mondo sensibile e misurabile. Deve in altre parole usare la postmodernità per difendere la modernità. «Sì, mi piace la formulazione: usare la postmodernità per restare fedeli alla modernità», sospira. Si potrebbe chiudere qui ma vale la pena di tornare alle questioni di identità. Friedländer sarebbe potuto essere un prete: «Forse cardinale come lo fu l’arcivescovo di Parigi, e ebreo, Lustiger», scherza. «Quando padre Lorigola mi ha rivelato chi ero, avevo capito che tornare ebreo era la mia strada. Però per due anni ero ambedue le cose: cattolico ed ebreo». Ora scrive testi su scrittori di doppia e plurima identità, come Kafka e Proust (non tradotti in italiano, purtroppo). «Kafka faceva parte di un ambiente simile a quello di mio padre: Praga, ebrei integrati, lavoro per una compagnia di assicurazioni. Ma poi, avendo avuto un problema assai complesso di identità, mi sono sentito molto attratto da Proust con il suo ebraismo, qualche volta negato o rimosso. Mi interessava ovviamente l’aspetto della memoria. Molte cose su Proust le ho capite grazie alla mia attrazione per la psicoanalisi. E poi, ecco, il bacio di addio di mia madre quando mi lasciò nel convento mi ha fatto venire in mente la scena che apre la “Recherche”, il bacio della buonanotte della madre del narratore». E di Israele, che pare così importante per la sua identità che dice? «Speravo che non mi avrebbe posto questa domanda. Ma visto che insiste e che abbiamo scelto di parlare in ebraico rispondo: quando si tratta delle cose più importanti, essenziali, della questione essere o non essere, ecco in quei casi io sono israeliano. E sono contento che ci sia oggi un governo che sembra più normale di quello precedente. Pensi che fortuna che noi due parliamo mentre l’epoca di Netanyahu è ormai alle nostre spalle».

Marco Gasperetti per il “Corriere della Sera” il 27 agosto 2021. Un intervento sulle foibe che, non è la prima volta, gli è costato una pioggia di critiche. Ormai ci è abituato Tomaso Montanari, storico dell'arte e neo rettore dell'università degli stranieri di Siena. Nei giorni scorsi, sul Fatto Quotidiano, il professore ha pubblicato un articolo sulla «falsificazione delle foibe». «Non si può nascondere che alcune battaglie revisioniste siano state vinte, grazie alla debolezza politica e culturale dei vertici della Repubblica - ha scritto -. La legge del 2004 che istituisce la Giornata del Ricordo (delle Foibe) a ridosso e in evidente opposizione a quella della Memoria (della Shoah) rappresenta il più clamoroso successo di questa falsificazione storica». Un intervento che ha scatenato un putiferio. «Il rettore Tomaso Montanari minimizza il dramma delle foibe. - scrive Salvini -. È strano e preoccupante che Letta, sempre col ditino alzato e candidato nella Siena ferita dallo scandalo Pd-Mps, non apra bocca». Mentre Ignazio La Russa (Fdi) definisce vergognosa la presa di posizione del professore. Critiche da Gennaro Migliore (Iv) e da Carlo Calenda. La risposta di Montanari: «Nessuno minimizza o nega le foibe. Contesto l'uso strumentale che la destra neofascista fa delle foibe».

Luca Monticelli per “La Stampa” il 28 agosto 2021.  «Siamo di fronte a una grande campagna di diffamazione che falsifica le cose come al solito, quando si ha a che fare con i fascisti. Nessuna negazione delle foibe, ma una critica molto radicale al Giorno del ricordo per come è stato concepito». Tomaso Montanari, storico dell'arte e nuovo rettore dell'Università per stranieri di Siena, si difende dagli attacchi di molti politici di centrodestra che lo accusano di minimizzare l'eccidio delle comunità italiane al confine orientale, avvenuto tra il '43 e il '45 da parte del movimento di liberazione sloveno e croato e dalle milizie dello stato iugoslavo di Tito: «Sono stato linciato e nessuna istituzione ha difeso l'autonomia dell'università». 

Professore, è vero che nega le foibe?

«È tipico dei neofascisti italiani cambiare le carte in tavola e alterare la verità storica. Sto seriamente pensando di chiedere i danni a tutti coloro che mi definiscono negazionista, sfidandoli a trovare un luogo in cui abbia negato l'esistenza delle foibe». 

Lei critica il Giorno del ricordo, perché?

«La legge che lo istituisce è stata concepita per parificarlo alla memoria della Shoah. La falsificazione è sostenere che le foibe sono uguali all'Olocausto. Questo è il progetto che mi pare stia a cuore ai neofascisti e alle destre italiane. Lo dimostra un ddl che vorrebbe equiparare, anche sul piano penale, la negazione delle foibe con la negazione della Shoah». 

Il presidente Mattarella ha definito le foibe «un orrore» che colpisce le nostre coscienze.

«Naturalmente le foibe furono una tragedia, come lo furono i bombardamenti americani sulle città italiane e le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. La guerra è fatta di terribili atrocità. La maggioranza degli storici ha dimostrato però come i numeri delle foibe siano incomparabili rispetto a quelli citati dalla destra italiana. Non ci sono milioni di infoibati, probabilmente i morti furono circa cinquemila, tra i quali molti erano fascisti e nazisti, altri erano innocenti». 

Vogliono le sue dimissioni...

«Non pretendo che tutti condividano, ma chiedere le mie dimissioni da rettore a me pare una cosa molto grave, peraltro io entrerò in carica a ottobre. È nel ventennio fascista che la politica rimuoveva i rettori». 

Perché si è occupato delle foibe proprio ora quando la commemorazione è il 10 febbraio?

«Perché il ministro Franceschini ha nominato un sovrintendente all'Archivio di Stato che ha celebrato la figura di Rauti. Perché Durigon si è dimesso senza una censura morale e sociale del premier Draghi. Perché tutto ciò, come la retorica del Giorno del ricordo, si inserisce in un quadro di revisionismo di Stato. Ha ragione Edith Bruck: c'è troppa tolleranza verso i fascisti. Io non mi dimetterò e da rettore coltiverò i valori dell'antifascismo in modo militante: dobbiamo ricominciare a dare ai ragazzi lezioni di antifascismo».

Montanari rincara la dose: "Il giorno del Ricordo? Non come la Shoah". Federico Garau il 28 Agosto 2021 su Il Giornale. Lo storico dell'arte non fa un passo indietro ed anzi affonda ancora, scagliandosi contro i nemici "fascisti", colpevoli di aver osato chiedere le sue dimissioni. Prima ha sputato veleno sulla giornata ricordo delle Foibe, parlando di "falsificazione storica" poi, dopo la reazione del mondo politico, ha tentato invano di correggere il tiro accusando i propri detrattori di aver distorto le sue parole fino addirittura ad inventarsi tutto. Troppo tardi per porre rimedio, ragion per cui il protagonista di questa incresciosa vicenda, vale a dire lo storico dell’arte e rettore dell’università per Stranieri di Siena Tomaso Montanari, decide di affidare alle pagine de La Stampa un'ulteriore precisazione circa la propria posizione sulla vicenda Foibe. "La legge del 2004 che istituisce la Giornata del Ricordo (delle Foibe) a ridosso e in evidente opposizione a quella della Memoria (della Shoah) rappresenta il più clamoroso successo di questa falsificazione storica", aveva infatti dichiarato senza giri di parole Montanari. Termini chiaramente poco equivocabili, che avevano scatenato le reazioni di numerosi politici, tra cui Federico Mollicone, Susanna Ceccardi e Matteo Salvini. "La destra italiana sta equivocando, ci sta marciando, sta inventando tutto. Per fortuna c'è un testo pubblicato. Nessuno nega le foibe, ma è l'uso strumentale, politico che la destra neofascista fa delle foibe che contesto", aveva poi cercato di precisare il rettore dell’università per Stranieri. "La destra sta ingigantendo le foibe da un punto di vista storico, numerico e soprattutto cerca di equipararla alla Shoah, dopo aver ottenuto una Giornata del Ricordo messa in calendario. La falsificazione storica è aver creato quella giornata in contrapposizione alla Giornata della Shoah. Questa è la falsificazione, l'equiparazione dei due tragici eventi", aveva poi aggiunto Montanari. L'ossessione per i fascisti e per la mistificazione della storia ritorna, tuttavia, con altrettanta forza anche nel corso dell'intervista concessa a La Stampa. Nessun passo indietro, anzi: la vittima pare proprio Montanari, sotto attacco dei nemici fascisti che evidentemente solo lui riesce a vedere in ogni dove. "Siamo di fronte a una grande campagna di diffamazione che falsifica le cose come al solito, quando si ha a che fare con i fascisti. Nessuna negazione delle foibe, ma una critica molto radicale al Giorno del ricordo per come è stato concepito", affonda ancora lo storico dell'arte, che riesce addirittura a vedersi come una povera vittima:"Sono stato linciato e nessuna istituzione ha difeso l'autonomia dell'università", lamenta Montanari, che ancora una volta torna a vaneggiare sui suoi acerrimi nemici. "È tipico dei neofascisti italiani cambiare le carte in tavola e alterare la verità storica. Sto seriamente pensando di chiedere i danni a tutti coloro che mi definiscono negazionista, sfidandoli a trovare un luogo in cui abbia negato l'esistenza delle foibe". Da carnefice a vittima il passo è breve, basta giocare la carta fascisti per rovesciare, ovviamente dal suo personalissimo punto di vista, il ruolo ricoperto nella vicenda. Perché critica il giorno del ricordo? Incalza il giornalista."La legge che lo istituisce è stata concepita per parificarlo alla memoria della Shoah", un aspetto che Montanari non può proprio tollerare. "La falsificazione è sostenere che le foibe sono uguali all'Olocausto. Questo è il progetto che mi pare stia a cuore ai neofascisti e alle destre italiane. Lo dimostra un ddl che vorrebbe equiparare, anche sul piano penale, la negazione delle foibe con la negazione della Shoah". Il cronista ricorda al rettore dell’università per Stranieri le parole di Mattarella, che aveva definito le Foibe "un orrore che colpisce le nostre coscienze". "Naturalmente le foibe furono una tragedia", replica Montanari, il quale tuttavia immediatamente ridimensiona il peso dell'evento, collocandolo tra le conseguenze del secondo conflitto mondiale, "come lo furono i bombardamenti americani sulle città italiane e le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. La guerra è fatta di terribili atrocità". Niente da fare, ciò che è accaduto alla Foibe è stato troppo gonfiato, secondo lo storico dell'arte: "La maggioranza degli storici ha dimostrato però come i numeri delle foibe siano incomparabili rispetto a quelli citati dalla destra italiana. Non ci sono milioni di infoibati, probabilmente i morti furono circa cinquemila, tra i quali molti erano fascisti e nazisti, altri erano innocenti. Non pretendo che tutti condividano", prosegue Montanari, anche se dai toni della polemica ciò non traspare proprio, "ma chiedere le mie dimissioni da rettore a me pare una cosa molto grave, peraltro io entrerò in carica a ottobre. È nel ventennio fascista che la politica rimuoveva i rettori". Nessuna intenzione, quindi, di fare un passo indietro dopo la gravità delle sue affermazioni ed il ruolo accademico ricoperto, anzi. "La retorica del Giorno del ricordo, si inserisce in un quadro di revisionismo di Stato. Ha ragione Edith Bruck: c'è troppa tolleranza verso i fascisti. Io non mi dimetterò e da rettore coltiverò i valori dell'antifascismo in modo militante: dobbiamo ricominciare a dare ai ragazzi lezioni di antifascismo", conclude Montanari.

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dove mi occupo soprattutto di cronaca.

Foibe, l’affondo di Veneziani: «Sono il capitolo italiano del libro nero del comunismo». Agnese Russo venerdì 3 Settembre 2021 su Il Secolo d'Italia. Le foibe sono «una tragedia che ha investito un intero popolo» e «il capitolo italiano del libro nero del comunismo» a livello planetario. Per questo al di là dello squallore della contabilità minimizzatrice, cui si è assistito anche in questi giorni, il riduzionismo su questa pagina di storia appare del tutto «inaccettabile». Marcello Veneziani interviene sulle polemiche intorno al Giorno del Ricordo, ricordando che è in questo «duplice quadro» che si deve inserire «l’orrore delle foibe».

Sulle foibe «l’oltraggio militante di collettivi intellettuali»

In un lungo articolo su La Verità, il giornalista chiarisce che mai avrebbe pensato di dover «tornare a difendere la memoria delle foibe dall’oltraggio militante di collettivi intellettuali, spalleggiati dall’associazione partigiani». Riteneva, infatti, «assodato il giudizio», «sciagurato ridurre la storia agli stermini» e «meschino cercare di usare il passato a scopi politici». Quanto accaduto negli ultimi giorni, invece, l’ha costretto a fare una marcia indietro, pur rimanendo fermo nella sua opinione sulla necessità di superare la tentazione di imbrigliare la storia in quelle griglie.

Il «duplice quadro» in cui inserire l’orrore delle foibe

Per Veneziani a rendere «inaccettabile sul piano storico, il riduzionismo, il dimenticazionismo, il negazionismo sulle foibe» non c’è solo il tentativo di minimizzarne i numeri. La «cosa peggiore» è, invece, che «l’orrore delle foibe si destoricizza e riduce a un’escrescenza patologica e periferica, isolata, che è dunque marginale, poco significativa, episodica», e semmai connessa solo alla «storia delle reazioni al fascismo e al nazismo». In realtà, prosegue Veneziani, «l’orrore delle foibe va inserito in un duplice quadro».

La cornice italiana: la tragedia dell’esodo

Uno è quello della storia nazionale, nella quale «quelle migliaia di vittime del massacro sono la punta più acuta di una tragedia che ha investito un popolo», ovvero l’esodo di centinaia di migliaia di italiani dall’Istria e dalla Dalmazia. Un «trauma terribile che si abbatté su intere famiglie, vecchi, madri, donne, bambini. Per non parlare del genocidio culturale annesso…». Poi c’è il piano più ampio, quello per cui «le foibe sono il capitolo «italiano» del libro nero del comunismo a livello planetario».

Il contesto mondiale: le atrocità dei regimi comunisti

«Il movente ideologico e politico delle foibe – ricorda Veneziani – è lo stesso del comunismo mondiale: la stessa guerra etnica contro gli italiani si deve inserire nella lotta di classe e nella lotta politica per imporre la società comunista». Dunque, «ricordando le foibe noi ricordiamo l’altro orrore del Novecento, oltre il nazismo, un orrore che ha peculiarità uniche nella storia del mondo» ed «è nato prima dell’orrore nazista e sopravvissuto di vari decenni alla sua morte, e ancora resiste pur trasmutato». «Il numero delle vittime del comunismo – aggiunge il giornalista – è di gran lunga il maggiore nella storia dell’umanità, ammonta a svariate decine di milioni: dalla Cina alla Russia, dall’Ungheria alla Polonia e tutti i paesi «satellite», da Cuba alla Cambogia. Per non dire del terrorismo italiano ed europeo nel nome dell’ideologia comunista».

Le foibe ricordano «il costo umano del comunismo»

Per questo, sottolinea Veneziani, «ricordare le foibe non è semplicemente ricordare lo sterminio di migliaia di italiani in un numero perfino più ragguardevole degli ebrei italiani morti nei campi di sterminio. Ma significa ricordare il costo umano del comunismo nel mondo attraverso le vittime italiane». «Del resto – prosegue l’articolo intitolato “Il comunismo in Italia si giudica dalle foibe” – i partigiani che compirono quelle stragi rispondevano al comunismo e al loro comandante, Tito, all’epoca organico al comunismo internazionale, sostenuto dai comunisti italiani che ubbidivano a Togliatti e al Partito comunista d’Italia, che aveva sposato la “tattica delle foibe” come allora scrivevano con cinismo mafioso e allusivo».

«Purtroppo questa elementare, evidente verità viene negata o elusa, comunque viene disonestamente aggirata», conclude Veneziani, tornando ad augurarsi che la memoria storia non si riduca «solo agli orrori».

“Foibe orrore del comunismo italiano”. Veneziani: “Negare tragedia è oltraggioso”. Carmine Massimo Balsamo su ilsussidiario.net 03.09.2021. Marcello Veneziani in tackle sui negazionisti delle foibe: “Il numero delle vittime del comunismo è di gran lunga il maggiore nella storia dell’umanità”. Sono trascorsi poco meno di ottant’anni dal dramma delle foibe, i massacri perpretati ai danni di militari e civili italiani autoctoni della Venezia Giulia, del Quarnaro e della Dalmazia da parte dei partigiani jugoslavi e dell’OZNA, ma il dibattito resta accesissimo. Le parole del rettore dell’UniSiena per gli Stranieri Tomaso Montanari degli scorsi giorni hanno acceso un vibrante dibattito, ravvivato dalle considerazioni dello storico Alessandro Barbero. Nettissimo, invece, il giudizio di Marcello Veneziani sulle pagine de La Verità “Le foibe sono l’orrore italiano del comunismo”, l’affondo di Veneziani. Il giornalista si è scagliato contro i ‘negazionisti’ dei massacri, citando dati incontrovertibili per stroncare le ipotesi più disparate: altro che 5 mila vittime, il conto attendibile oscilla tra i 12 mila e i 15 mila trucidati. Ma non è tutto, anzi: la cosa peggiore è un’altra…

FOIBE, L’AFFONDO DI VENEZIANI

Nel corso del suo intervento, Veneziani ha spiegato che la cosa peggiore è la destoricizzazione della tragedia delle foibe, rimarcando che queste rappresentano il capitolo “italian” del libro nero del comunismo a livello planetario. “Il movente ideologico e politico delle foibe è lo stesso del comunismo mondiale: la stessa guerra etnica contro gli italiani va inserita nella lotta di classe e nella lotta politica per imporre la società comunista”, ha proseguito il giornalista su La Verità, sottolineando che, a differenza del nazismo, il comunismo è nato prima, è sopravvissuto di vari decenni alla sua morte e ancora resiste pur tramutato. E ancora: “Il comunismo è l’unico regime totalitario che ha dovuto circondarsi del filo spinato e dei muri per impedire che la gente fuggisse dalle proprie patrie infestate. E il numero delle vittime del comunismo è di gran lunga il maggiore nella storia dell’umanità, ammonta a svariate decine di milioni”.

Foibe, Aldo Grasso incenerisce Barbero sul “Corriere”: “Mi è caduto un mito”. Gabriele Alberti sabato 11 Settembre 2021 su Il Secolo d'Italia. “Mi è caduto un mito”. Il “mito” infranto è il professor  Alessandro Barbero. A leggere le prime parole dell’articolo di Aldo Grasso, Tommaso Montanari ha avuto uno sturbo. Il critico del Corriere della sera non perdona allo studioso e volto di Rai Storia la posizione  in materia di foibe e  Giorno del Ricordo con la quale si è adagiato sulle posizioni negazioniste dell’incasato rettore di Siena. “Mi è caduto un mito e la cosa mi dispiace enormemente- scrive l’editorialista- . Mi è caduto un mito, quando, intervistato dal Fatto quotidiano, il prof. Barbero ha avallato le teorie di Tomaso Montanari sulla «falsificazione storica» delle foibe” . Grasso aveva già demolito le tesi negazioniste di Montanari in un articolo feroce. Alla firma del Corriere non è affatto piaciuto che il professor Barbero si sia attestato sulla posizione di Montanari su un capitolo di storia italiana così drammatico. Con toni molto pacati ma irrevocabili concede allo storico (“un divo di Rai Storia”) il dono della simpatia e della capacità del divulgatore. Ma sulla storia non si può scherzare: è il pensiero di Grasso. Subito risponde insultando Montanari, con toni da odiatore seriale. L’invasato rettore – che ha promesso che il suo impegno antifascista aumenterà – ‘scrive e offende. ‘Oggi Aldo #Grasso si scatena contro Alessandro #Barbero , naturalmente sempre per le #Foibe (e per l’odio viscerale e invidioso contro i professori universitari). Penso che il giornale della classe digerente italica non sia mai sceso così in basso come con questo figuro”. Così in un tweet lo storico dell’arte e rettore dell’Università per stranieri di Siena  inveisce in maniera scomposta.  A sinistra è vietato dissentire e chi lo fa è un “figuro invidioso”. Che non a caso aveva definito Montanari un “agit prop”. Alla  triste vicenda Aldo Grasso dedica solo altre due righe: Barbero “ha scritto un pezzo in cui ha preso le distanze dalla scivolata, con onestà; lo seguirò sempre ma l’amaro in bocca è rimasto”. Il professore sul Fatto aveva avallato la definizione di Montanari sul giorno del Ricordo  come «tentativo neofascista di falsificare la storia». Intervistato su La Stampa è scomparso il neofascismo ed è apparso lo “Stato”. Giochetti che non sono piaciuti ad Aldo Grasso e non solo a lui.

Aldo Grasso per il Corriere della Sera l'11 settembre 2021. Mi è caduto un mito e la cosa mi dispiace enormemente. Mi spiace perché il prof. Alessandro Barbero dell’Università del Piemonte Orientale è simpatico e appartiene alla simpatica schiera di quelli che amano fare battute e ancor più ridere delle loro battute. Mi spiace perché più volte ho apprezzato le sue lezioni mediatiche (un divo di Rai Storia) che ribaltano l’immagine del professore triste celebrato dal cinema italiano (un film per tutti: «La scuola» di Daniele Lucchetti con Silvio Orlando). Mi è simpatico perché è la dimostrazione vivente che la storia non è maestra di vita: così, almeno, insegnano nel Piemonte Occidentale. Mi è caduto un mito, quando, intervistato dal «Fatto quotidiano» il prof. Barbero ha avallato le teorie di Tomaso Montanari sulla «falsificazione storica» delle foibe. Poi ha scritto un pezzo in cui ha preso le distanze dalla scivolata, con onestà; lo seguirò sempre ma l’amaro in bocca è rimasto. Mi è caduto soprattutto quando ha firmato un manifesto di professori universitari in cui si straparla di discriminazioni a proposito del green pass: «I docenti sottoscrittori di questo pubblico appello ritengono che si debba preservare la libertà di scelta di tutti e favorire l’inclusione paritaria, in ogni sua forma». È successo poi che i firmatari non siano così famosi e conosciuti come il prof. Barbero (non lo sono affatto) e così tutte le accuse di ipocrisia, di non capire il dramma che stiamo vivendo, di fare distinzioni di lana caprina perché tanto lo stipendio corre lo stesso, siano cadute sulla sua persona. I professori firmatari, quando hanno potuto accedere ai vaccini per una corsia riservata, si sono ben guardati dal lanciare appelli. Tra apparizioni televisive, interventi su YouTube, attività pubblicistica e podcast, il prof. Barbero esplora ogni giorno tutti i recessi della Storia. È così occupato a divulgare il passato da inciampare sul presente.

Intervista ad Alessandro Barbero. “Le foibe furono un orrore, ma ricordare quei morti e non altri è una scelta solo politica. Il Giorno del Ricordo? E’ una tappa di una falsificazione storica”. Foibe, verità e menzogne dietro la canea delle destre. Daniela Ranieri su Il Fatto Quotidiano l'1 settembre 2021. Tomaso Montanari, storico dell’Arte e Rettore eletto dell’Università per Stranieri di Siena, ha scritto su questo giornale che la legge del 2004 che istituisce la Giornata del ricordo delle foibe “a ridosso e in evidente opposizione a quella della Memoria (della Shoah) rappresenta il più clamoroso successo” di una falsificazione storica di parte neofascista. Ne sono seguite accuse di negazionismo (anche da giornali “liberali”) e richieste di dimissioni da parte di esponenti politici di destra (FdI, Lega, Iv). Interpelliamo sul tema Alessandro Barbero, storico e docente.

Professore, è d’accordo con Montanari?

Sono d’accordo, ma bisogna capirsi. Montanari non ha affatto detto che le foibe sono un’invenzione e che non è vero che migliaia di italiani sono stati uccisi lì. Nessuno si sogna di dirlo: la fuga e le stragi degli italiani hanno accompagnato l’avanzata dei partigiani jugoslavi sul confine orientale, e questo è un fatto. La falsificazione della storia da parte neofascista, di cui l’istituzione della Giornata del ricordo costituisce senza dubbio una tappa, consiste nell’alimentare l’idea che nella Seconda guerra mondiale non si combattesse uno scontro fra la civiltà e la barbarie, in cui le Nazioni Unite e tutti quelli che stavano con loro (ad esempio i partigiani titini, per quanto poco ci possano piacere!) stavano dalla parte giusta e i loro avversari, per quanto in buona fede, stavano dalla parte sbagliata; ma che siccome tutti, da una parte e dall’altra, hanno commesso violenze ingiustificate, eccidi e orrori, allora i due schieramenti si equivalevano e oggi è legittimo dichiararsi sentimentalmente legati all’una o all’altra parte senza che questo debba destare scandalo.

Perché l’istituzione della Giornata del ricordo rappresenterebbe una parte di questa falsificazione, se i fatti in sé sono veri?

Ma proprio perché quando di fatti del genere se ne sono verificati, purtroppo, continuamente, da entrambe le parti (ma le atrocità più vaste e più sistematiche, anzi programmatiche, le hanno compiute i nazisti, questo non dimentichiamolo), scegliere una specifica atrocità per dichiarare che quella, e non altre, va ricordata e insegnata ai giovani è una scelta politica, e falsifica la realtà in quanto isola una vicenda dal suo contesto. Intendiamoci, se io dico che la Seconda guerra mondiale è costata la vita a quasi mezzo milione di italiani, fra militari e civili, e che la responsabilità di quelle morti è del regime fascista che ha trascinato il Paese in una guerra criminale, qualcuno potrebbe rispondermi che però le foibe rappresentano l’unico caso in cui un esercito straniero ha invaso quello che allora era il territorio nazionale, determinando un esodo biblico di civili e compiendo stragi indiscriminate; e questo è vero. Ma rimane il fatto che se io decido che quei morti debbono essere ricordati in modo speciale, diversamente, ad esempio, dagli alpini mandati a morire in Russia, dai civili delle città bombardate, dalle vittime degli eccidi nazifascisti – che non hanno un giorno specifico dedicato al loro ricordo: il 25 Aprile è un’altra cosa – il messaggio, inevitabilmente, è che di quella guerra ciò che merita di essere ricordato non è che l’Italia fascista era dalla parte del torto, era alleata col regime che ha creato le camere a gas, e aveva invaso e occupato la Jugoslavia e compiuto atrocità sul suo territorio: tutto questo non vale la pena di ricordarlo, invece le atrocità di cui gli italiani sono stati le vittime, quelle sì, e solo quelle, vanno ricordate. E questa è appunto la falsificazione della storia.

Ritiene ci siano fascisti, nostalgici, persone che mal sopportano il 25 Aprile nelle Istituzioni?

Parliamo di sensazioni. Io ho la sensazione che come gran parte d’Italia era stata più o meno convintamente fascista, così in tante famiglie si sia conservato un ricordo non negativo del fascismo, e un pregiudizio istintivo verso quei ribelli rompiscatole e magari perfino comunisti che erano i partigiani. E le famiglie che la pensavano così hanno insegnato queste cose ai loro figli. Per tanto tempo erano idee che rimanevano, appunto, in famiglia, e non trovavano una legittimazione esplicita dall’alto, nella politica o nel giornalismo: oggi invece la trovano, e quindi emergono alla luce del sole.

Appartiene alla normale dialettica politica l’auspicio dell’on. Meloni, lanciato dalle pagine del Giornale, di “fermare” il professor Montanari? Si vuole costituire un precedente in democrazia di intimidazione del mondo accademico?

Non solo non appartiene alla normale dialettica politica, ma è inconcepibile in una Repubblica antifascista. E tuttavia va pur detto che non sono solo le destre ad aver creato un mondo in cui si reclamano le scuse, le dimissioni e i licenziamenti non per qualcosa che si è fatto, ma per qualcosa che si è detto. Il nostro Paese vieta l’apologia di fascismo, sia pure con tante limitazioni e distinguo da rendere il divieto inoperante, e questo divieto ha buonissime ragioni storiche, ma io forse preferirei vivere in un Paese dove chiunque, anche un fascista, può esprimere qualunque opinione senza rischiare per questo di essere cacciato dal posto di lavoro.

La sinistra, proclamando la fine delle ideologie, ha aperto la strada alla minimizzazione, alla riabilitazione e infine alla riaffermazione dell’ideologia fascista?

Il problema è che non sono finite le ideologie, è finita la sinistra. Il sogno che gli operai potessero diventare la parte più avanzata, più consapevole della società, e prendere il potere nelle loro mani, è fallito; il risultato è che nei Paesi occidentali non c’è più nessun partito che si presenti alle elezioni dicendo “noi rappresentiamo gli operai e vogliamo portarli al potere”. Ma la sinistra era quello, nient’altro. Invece la destra, cioè la rappresentanza politica di chi vuole legge e ordine, rispetto dell’autorità e libertà d’azione per i ricchi, e non si sente offeso dalle disuguaglianze sociali ed economiche, è ben viva. E in un mondo dove la destra è molto più vitale della sinistra è inevitabile che la lettura del passato vada di conseguenza, e che si possano diffondere enormità come quella per cui il comunismo sarebbe stato ben peggio del fascismo.

La giornata del non ricordo. Marcello Veneziani, 10 febbraio 2016. Torna, quasi clandestina, la giornata del Ricordo che commemora le foibe e ricorda le migliaia di italiani massacrati dai partigiani comunisti di Tito e non solo. Avverti l’amaro sapore della verità. Che arriva stanca a tarda notte, quando la storia se n’è andata, insieme ai suoi protagonisti e alle sue vittime. Queste superstiti giornate della memoria e del ricordo sono come i lasciti della risacca sulla spiaggia, dopo che l’onda della storia si è ritirata: gusci vuoti e conchiglie disabitate, reliquie estreme che attestano l’oblio più che la presenza viva di quegli eventi. È arrivata un po’ tardi la memoria delle foibe, e solo dopo che fu istituita la giornata della memoria per i campi di sterminio; ma meglio tardi che mai, e meglio la pari dignità delle memorie con tutto il suo odioso peso di contabilità dei morti e paragone macabro delle tragedie, piuttosto che il nulla o la memoria a senso unico. Apprezzando questa civilissima ricorrenza, lasciate che io rammenti, per amor di verità e di storia, qualche buco odioso nella calza dei ricordi. Per cominciare, Ciampi consegnò una medaglia d’oro alla memoria di Norma Cossetto, la ragazza che fu massacrata e infoibata dai partigiani di Tito. La meritoria iniziativa è partita da Franco Servello. A dir la verità, la studentessa ricevette già nel ’49 la laurea honoris causa postuma su proposta del latinista comunista Concetto Marchesi dall’Università di Padova. Ma una lapide nello stesso ateneo la ricorda tutt’oggi, tra le “vittime del nazifascismo”. Lei che fu barbaramente trucidata dai comunisti di Tito. Un vile oltraggio alla verità e alla memoria. In secondo luogo, a chi ripete che quegli eccidi vanno contestualizzati nel feroce clima della guerra, vorrei ricordare che i comunisti continuarono a infoibare anche a guerra strafinita e a fascismo ormai caduto. Ne cito uno per tutti. Vi parlo di un sacerdote in via di beatificazione, Don Francesco Bonifaci di Pirano, che fu massacrato e infoibato dai comunisti in una sera dell’11 settembre del 1946, vale a dire un anno e mezzo dopo che la guerra era finita e il fascismo era sepolto. Fu prima malmenato, poi colpito da una sassaiola, infine ucciso e gettato in una foiba vicino a Buie; ed è stato impossibile anche anni dopo recuperare i suoi resti e la sua memoria. Gli assassini erano tutti in giro, nostrani, a due passi dal luogo del delitto. E qui, terzo luogo, vorrei sapere che fine hanno fatto i rari processi postumi che furono avviati contro gli infoibatori, da Pskulic in poi. Tutti arenati, dopo che fu tolta al magistrato Pititto l’indagine scottante. Ma non solo. Migliaia di pensioni vengono ancora versate dallo Stato italiano agli infoibatori, grazie al vergognoso trattato di Osimo del 1975. Viceversa le famiglie degli infoibati e dei profughi aspettano ancora giustizia e spesso non hanno ricevuto un soldo da nessuno, slavi o italiani. Esempio atroce i 630 bersaglieri della Rsi. Come ricorda Luciano Garibaldi, si erano arresi con la garanzia della loro incolumità ma furono bestialmente uccisi. E in quanto militi della Rsi, i superstiti e i loro famigliari non ebbero mai alcuna pensione. Gli infoibatori si, gli infoibati no. Una vergogna. E vorrei ricordare la mostra sulle foibe censurata all’università di Roma; ancora oggi è proibito dire che gli infoibatori erano comunisti e che anche il Pci italiano aveva dato una robusta mano. E aveva contribuito attraverso riunioni, volantini e documenti a sostenere l’operazione foibe. Ad esempio, in un documento il Pci sosteneva che non si dovesse rinunciare a quella che veniva definita “la tattica delle foibe” (ovvero lo sterminio). I rapporti e gli incontri tra Togliatti e i capi dell’operazione sterminio erano continui: da Mosca a Bari. Perché non parlare anche in questo caso di collaborazionismo e poi di negazionismo? Certo, il silenzio sulle foibe non era solo un favore al Pci, rientrava anche nella strategia di apertura a Tito che aveva rotto con l’Unione sovietica. Ma troppi sono i ritardi e le vaghezze che alimentano ancora una becera amnesia. I libri scolastici di testo fanno aperture e non dicono più che le foibe sono fenomeni carsici, buttandola sulla geologia per non parlare di storia; ma siamo ai primi passi, agli incerti balbettii per non farsi sbugiardare. In Rai passò la fiction sulle foibe ed ebbe successo, ma a patto che i fatti fossero avulsi dalla storia e non si parlasse mai di partigiani comunisti, come se fossero tragedie private e drammi famigliari. Al cinema passò i guai Renzo Martinelli, regista di sinistra e figlio di partigiano, quando portò sugli schermi Porzus, sul massacro di partigiani bianchi della brigata Osoppo da parte di partigiani rossi al servizio di Tito. Perse contratti e commesse di spot pubblicitari, fu stroncato o evitato; solo dopo qualche film più gauchiste, come quello sul caso Moro, fu riammesso a tavola. Certo, è sgradevole parlare ancora di queste cose, è sgradevole l’uso politico e strumentale di queste tragedie; bello sarebbe che il revisionismo fosse animato da rigore storico e pietas, non da livore e sfruttamento. Arrivo a dire che diventeremo civili quando potremo fare a meno senza polemiche di queste giornate mnemoniche che sono surrogati di una memoria a buchi. Sarò lieto di veder cancellata la giornata del ricordo quando sarà cancellata la nottata del fazioso oblio. Marcello Veneziani, 10 febbraio 2016

 Fermate la deriva del Rettore che delira sull'antifascismo. Giorgia Meloni il 29 Agosto 2021 su Il Giornale. Da qualche giorno, con un crescendo inquietante di dichiarazioni sempre più intrise di odio politico, ci troviamo costretti a leggere gli sproloqui di Tomaso Montanari futuro rettore dell'Università per Stranieri di Siena. Da qualche giorno, con un crescendo inquietante di dichiarazioni sempre più intrise di odio politico, ci troviamo costretti a leggere gli sproloqui di Tomaso Montanari «intellettuale» vip della sinistra e prossimo rettore dell'Università per Stranieri di Siena che propone la cancellazione del Giorno del Ricordo per i martiri delle Foibe. Ossia il 10 febbraio, data solenne sancita da una legge dello Stato approvata nel 2004. Per lui in spregio al monito del presidente Sergio Mattarella nient'altro che un'operazione di «revisionismo di Stato» frutto della propaganda della destra. Su La Stampa di ieri, il professore del quale non sono note ricerche scientifiche riguardo la materia su cui si avventura si è prodigato in una serie di sciocchezze sulla tragedia che ha coinvolto migliaia e migliaia di italiani trucidati dai partigiani comunisti di Tito: «Non ci furono milioni di infoibati, probabilmente furono cinquemila, tra i quali molti erano fascisti e nazisti, altri erano innocenti». Altri erano innocenti Se è già falso e puro riduzionismo dire che nelle foibe sarebbero morte cinquemila persone, il folle messaggio che passa dalle sue parole è che infoibare migliaia di «fascisti» non sia stato un crimine. È proprio sulla base di questo estremismo che personaggi alla Montanari giustificano e minimizzano da anni la brutale uccisione di Norma Cossetto, ragazzina torturata e stuprata in branco dai «partigiani» e poi gettata viva in una foiba per la grave colpa di non essere stata ostile al fascismo (come gran parte degli italiani di allora). Ecco, mi chiedo, con molta serietà e preoccupazione, se questo odio e questa violenza rappresenteranno la «linea» didattica dell'Università per stranieri di Siena, nella quale parole del futuro rettore ha promesso che insegnerà ai ragazzi «i valori dell'antifascismo in modo militante». Al di là della perplessità sulle materie da insegnare in un Ateneo (paghiamo per questo cara ministra Messa con i soldi pubblici Montanari?), mi piacerebbe sapere se i «valori» di cui parla l'esperto di arte siano quelli che hanno ispirato chi ha colpito a morte, tra i molti, Sergio Ramelli o animato la mano di chi ha arso vivi i fratelli Mattei, e cioè che la violenza contro i «fascisti» non solo è giustificata, ma è da incoraggiare. Nella sua intervista a La Stampa Montanari scrive che «c'è troppa tolleranza verso i fascisti», concetto che aveva già sviluppato, questa volta su il Fatto Quotidiano: «Sembriamo aver dimenticato che per i fascisti e solo per i fascisti non valgono tutte le garanzie costituzionali: per esempio, non valgono la libertà di associazione e di espressione». Insomma per Montanari ai «fascisti» vanno tolti tutti i diritti, anche quello di non essere ammazzati dagli «anti». Già questa sarebbe una follia fuori dall'insieme di valori della civiltà occidentale, secondo la quale il rispetto della persona umana si concede anche al peggiore degli individui, ma c'è di più. Perché l'elenco di questi «fascisti» ai quali togliere ogni diritto e da prendere a fucilate all'occorrenza, lo stila lo stesso Montanari, insieme ai suoi soliti compagni di merende. E, ovviamente, nell'elenco ci sono tutti i partiti di destra, anche quelli rappresentati in Parlamento. Qualche mese fa nel salotto di Lilli Gruber, Montanari teorizzava questa sentenza: «Non vi è dubbio che il partito della Meloni sia il punto di riferimento di quel risveglio del fascismo storico in questo Paese». Se ci fosse qualche poveretto che prendesse seriamente le farneticazioni di Montanari, quindi, oggi si sentirebbe legittimato a compiere qualsiasi atto, anche violento, anche incostituzionale, contro il pericolo fascista rappresentato da Fratelli d'Italia o da qualunque movimento individuato dai vari Montanari d'Italia. Che dire, insomma, davanti a tali assurdità? Non mi interessano le polemiche sterili, ancora di meno mi interessa parlare del millennio passato, di fascismo e comunismo. Provo pena per personaggi come Montanari (e ce ne sono diversi) che, in assenza di talento specifico, si affannano a costruirsi una carriera grazie a un antifascismo grottesco e da operetta. Ma ora si sta davvero superando il limite. In una democrazia evoluta, un professore o peggio un rettore non può diffondere messaggi di odio, discriminazione e violenza come questi. Cosa farà Montanari, vieterà ai professori e agli studenti di destra della sua università di esprimere le proprie opinioni? Così sono nati i Talebani, proprio con la propaganda estremista nelle università. Non è un problema di Fratelli d'Italia, è un problema per l'Italia, e mi auguro che qualcuno abbia la decenza di fermare questa pericolosa deriva. Giorgia Meloni

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 29 agosto 2021. Un rettore agit-prop. Una settimana di lotta dura per Tomaso Montanari, rettore dell'Università per Stranieri di Siena. Prima si dimette dal Consiglio superiore dei Beni culturali per «l'arroganza dimostrata dal ministro Franceschini» nella nomina di Andrea De Pasquale alla guida dell'Archivio centrale dello Stato, reo di aver accolto il Fondo Pino Rauti. Poi una mascalzonata sulle foibe e sui vertici della Repubblica accusati di revisionismo storico: «La legge del 2004 che istituisce la Giornata del Ricordo (delle foibe) a ridosso e in evidente opposizione a quella della Memoria (della Shoah) rappresenta il più clamoroso successo di questa falsificazione storica». Montanari svilisce la grande tragedia, una pagina dolorosa della storia del nostro Paese, basandosi su una meschina contabilità: «Le vittime accertate, ad oggi, furono poco più di 800 (compresi i militari)». Già che c'era, poteva ripetere l'infamia di allora: «Banditi giuliani». Per la cronaca, Montanari si è dimesso dal Consiglio superiore ma resta nel Comitato tecnico scientifico delle Belle Arti, «presidio di tutela dell'interesse generale». Ridicolo: è lui che deve decidere cosa conservare o no, cosa ricordare o no. Un rettore di lotta e di governo: quando non governa (con l'ex ministro grillino Bonisoli), lotta.

Renato Farina per “Libero quotidiano” il 29 agosto 2021. Si chiama Soccorso Rosso. Di rosso non c'è solo l'ideologia ma il sangue degli altri, stavolta quello degli italiani martirizzati a migliaia nelle foibe. Un orrore che negare non si può, stanno attenti a stare in equilibrio da acrobati sul filo delle parole ipocrite, ma come gli piacerebbe fosse stato un delitto perfetto, come la lupara bianca della mafia, cementificati nel suolo carsico, e tutti zitti e mosca. Soccorso Rosso lo si era visto all'opera negli anni '70 per tutelare brigatisti e affini. Be', funziona ancora, ne fanno parte vecchi dinosauri e giovani cloni dei medesimi. Non ha più la prontezza di una volta, questa congrega dal pugno chiuso dev' essersi infiacchita nella pigra estate tipica dei compagni che riposano, ma ecco che ieri i suoi manipoli si sono finalmente stretti intorno al loro ultimo, francamente fiacco, campione, professor Tomaso Montanari. Costui aveva pubblicato un articolo sulle foibe (Il Fatto, 23 agosto). In tale scritto, com' è arcinoto, il sopravvalutato storico dell'arte (dell'infoibamento) rinnegava la Giornata del Ricordo istituita per legge nel 2004 e celebrata da allora ogni 10 febbraio per onorare le migliaia di vittime italiane gettate vive in quei maledetti e abissali cunicoli carsici. Inutilmente il presidente Sergio Mattarella l'ha definita «sciagura nazionale», «orrore che colpisce le nostre coscienze». Macché, per Montanari è stata un cedimento al fascismo, e dunque è degna di abiura. Era la prima uscita solenne da neo eletto rettore dell'Università di Siena per stranieri, individuati come ottimo materiale umano da indottrinare dal suo pulpito. Un chiaro saggio di come intenda piegare l'università degli Studi a spugna da imbevere delle sue bischerate ideologiche. Ovvio gli sia stato chiesto di farsi da parte, e pure con disonore. Figuriamoci. Per cinque, sei giorni Montanari è stato protetto dal silenzio di compagni e affini. Nessun quotidiano di quelli che il "suo" Fatto chiama giornaloni lo ha graffiato neppure con una unghietta. Però voleva di più, il nostro eroe. Dopo tre giorni, il Manifesto, quotidiano comunista, ha suonato l'esile ma rossissima trombetta con Francesco Pallante: ha ragione Montanari, contro di lui «isterismo», bisogna «smascherare le balle dei colonialisti, dei fascisti e dei loro epigoni». Ieri si sono palesate con lingua di plastica alcune guardie rosse. Nicola Fratoianni, capo della Sinistra Italiana, che sarebbe ciò che è rimasto di Rifondazione comunista. In questo caso siamo in pieno revisionismo del revisionismo. Nel 2003, in un memorabile convegno a Venezia, Fausto Bertinotti definì quella delle foibe «tragedia irreparabile e senza giustificazione». Fratoianni, aduso a raccogliere l'osso che gli getta Travaglio, si scaglia invece che contro i boia rossi contro «la destra urlante» che «non ha fatto i conti con il nazifascismo». Gianni Barbacetto, pistolero stanco del Fatto, si lamenta che «il revisionismo» sia diventato festa «di Stato». Non è il revisionismo, ma la realtà delle cose e dei cadaveri tirata fuori mummificata, con il filo di ferro sotto le mandibole calcinate. Ma che cazzo di uomini siete? Tralasciamo Sandro Ruotolo, e luogotenenti dei Vopos. Eccoci al messaggio del presidente dell'Anpi, Gianfranco Pagliarulo, un soccorso che fa urlare di gioia Tomaso Montanari. Accidenti, il signore deve aver sbagliato Montanari. Quello giusto si chiamava Otello, ed era partigiano, denunciò eccidi comunisti in Emilia. L'Anpi ci mise 26 anni a riabilitarlo perché aveva avuto il torto di confessare la verità. Con Tomaso, che invece di inchinarsi davanti a quei disgraziati atrocemente liquidati dai comunisti, vuole disperderne il sangue nel fiume Lete della dimenticanza, si è sveltita in cinque giorni a mandare benedizioni. Dove sta la menzogna in cui nuota Montanari, fingendosi protetto dai libri di storia? Certo che la Shoah è un orrore senza pari, e i numeri dicono sei milioni. Ma qui non c'è da fare una gara a chi è il più cattivo e se un morto è più vittima di un altro morto. Ma di riconoscere che la strage di italiani infoibati non è stata un infortunio, un eccesso di zelo rivoluzionario, in un cammino di gloria partigiana. Essa è stata il fiore naturale e malvagio di una strategia per eliminare ogni ostacolo all'instaurazione di un regime totalitario. Ebbe anche il consenso del Pci, almeno nel 1943: eliminare gli italiani non comunisti per favorire l'annessione alla nascente Jugoslavia dell'Italia orientale. All'unanimità, non la Lega o Fratelli d'Italia, ma la commissione storica italoslovena ha stabilito che la strage «partì da un movimento rivoluzionario che si stava trasformando in regime, convertendo quindi in violenza di Stato l'animosità nazionale ed ideologica diffusa nei quadri partigiani». Soccorso Rosso a Montanari? Soccorso fognario. 

La sinistra che difende i negazionisti delle foibe. Francesco Curridori il 29 Agosto 2021 su Il Giornale. È tornato "Soccorso Rosso". Da Il Manifesto all'Anpi, passando per Nicola Fratoianni, sono tanti i compagni scesi in campo in difesa di Tomaso Montanari, il prof toscano che aveva criticato il Giorno del Ricordo. I compagni nostrani si sono uniti, anzi stretti, attorno a Tomaso Montanari, neo eletto rettore dell'Università di Siena per stranieri, che il 23 agosto scorso sul Fatto Quotidiano ha rinnegato la Giornata del Ricordo, istituita nel 2004 per onorare le vittime delle foibe. "Soccorso Rosso lo si era visto all'opera negli anni '70 per tutelare brigatisti e affini. Be', funziona ancora, ne fanno parte vecchi dinosauri e giovani cloni dei medesimi. Non ha più la prontezza di una volta, questa congrega dal pugno chiuso dev' essersi infiacchita nella pigra estate tipica dei compagni che riposano, ma - scrive Renato Farina su Libero - ecco che ieri i suoi manipoli si sono finalmente stretti intorno al loro ultimo, francamente fiacco, campione, professor Tomaso Montanari". Nella lista dei difensori del rettore toscano troviamo Il Manifesto che, solo tre giorni dopo la pubblicazione dell'ormai noto articolo, "ha suonato l'esile ma rossissima trombetta con Francesco Pallante" spiegando che bisogna "smascherare le balle dei colonialisti, dei fascisti e dei loro epigoni". Ieri, invece, è stata la volta del capo della Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, il quale, secondo Farina, si è spinto in un'operazione" di pieno revisionismo del revisionismo". Il deputato post-comunista si è scagliato contro "la destra urlante" che "non ha fatto i conti con il nazifascismo" piuttosto che fare autocritica sugli omicidi commessi dai titini. ​Gianni Barbacetto, editorialista del Fatto, ha paragonato "il revisionismo" a una sorta di festa "di Stato". "Non è il revisionismo, ma la realtà delle cose e dei cadaveri tirata fuori mummificata, con il filo di ferro sotto le mandibole calcinate. Ma che cazzo di uomini siete? Tralasciamo Sandro Ruotolo, e luogotenenti dei Vopos", osserva Farina nel suo articolo. Poi c'è Gianfranco Pagliarulo, presidente dell'Anpi, che soccorre il Montanari sbagliato. "Quello giusto si chiamava Otello, ed era partigiano, denunciò eccidi comunisti in Emilia. L'Anpi ci mise 26 anni a riabilitarlo perché aveva avuto il torto di confessare la verità", si legge ancora su Libero. "Certo che la Shoah è un orrore senza pari, e i numeri dicono sei milioni. Ma qui non c'è da fare una gara a chi è il più cattivo e se un morto è più vittima di un altro morto. Ma di riconoscere che la strage di italiani infoibati non è stata un infortunio, un eccesso di zelo rivoluzionario, in un cammino di gloria partigiana", spiega ancora Farina secondo cui quella strage" è stata il fiore naturale e malvagio di una strategia per eliminare ogni ostacolo all'instaurazione di un regime totalitario". Persino "anche il consenso del Pci, almeno nel 1943" perché eliminare gli italiani non comunisti avrebbe favorito l'annessione alla nascente Jugoslavia dell'Italia orientale. In definitiva, sentenzia Farina, il Soccorso Rosso a Montanari è un "soccorso fognario".

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi son

Le giornate del prof. Lo scivolone di Montanari nel contrapporre le Foibe alla Shoah. Giuliano Cazzola su L'Inkiesta il 28 Agosto 2021. Il rettore dell’Università degli stranieri di Siena ha criticato la legge del 2004 che istituisce la Giornata del Ricordo perché sarebbe in antitesi a quella della Memoria. Nessuna persona intellettualmente onesta può paragonare queste due tragedie umanitarie, sia per le dimensioni sia per le circostanze storiche. O peggio, dare un giudizio di valore. Su Il Giornale viene ripresa una dichiarazione di Tomaso Montanari della quale, a mio avviso, il rettore dell’Università degli stranieri di Siena dovrebbe vergognarsi. Per motivi suoi se la prende con «La legge del 2004 che istituisce la Giornata del Ricordo (delle Foibe) a ridosso e in evidente opposizione a quella della Memoria (della Shoah)» che a suo avviso «rappresenta il più clamoroso successo di questa falsificazione storica», su cui, «la destra italiana sta equivocando, ci sta marciando, sta inventando tutto». Poi il rettore ’’del nostro scontento” avverte di dover chiarire il suo pensiero: «Nessuno nega le foibe, ma è l’uso strumentale, politico che la destra neofascista fa delle foibe che contesto». Per poi aggiungere: «La destra sta ingigantendo le foibe da un punto di vista storico, numerico e soprattutto cerca di equipararla alla Shoah, dopo aver ottenuto una Giornata del Ricordo messa in calendario. La falsificazione storica è aver creato quella giornata in contrapposizione alla Giornata della Shoah. Questa è la falsificazione, l’equiparazione dei due tragici eventi». Nessuna persona intellettualmente onesta può paragonare queste due tragedie umanitarie, sia per le dimensioni che per le circostanze storiche. Nella tragedia delle foibe (e dell’esodo di circa 350mila italiani, scappati da quelle zone come gli afghani di oggi, portandosi appresso solo i vestiti che avevano addosso i loro averi erano stati confiscati) si consumarono vendette e ritorsioni contro i dominatori sconfitti che non erano sempre stati ’’italiani brava gente’’. Io ero un bambino ma ricordo bene che un treno carico di profughi ’’Giuliani’’ non poté sostare nella Stazione di Bologna perché si diceva che fossero fascisti in fuga dal socialismo. Nelle zone (A e B) intorno a Trieste per anni il Partito Comunista italiano sostenne la causa slava, almeno fino a quando Tito non ruppe con Stalin. Per decenni quegli italiani uccisi per la loro nazionalità sono stati ignorati; non mi pare che la memoria di costoro possa essere ritenuta una vittoria della destra. Ma davvero Montanari si sente di negare, nella vicenda delle foibe, una componente di pulizia etnica. È questo il termine macabro usato dal presidente Giorgio Napolitano il 10 febbraio 2007, commemorando gli eccidi dell’immediato dopoguerra: «…già nello scatenarsi della prima ondata di cieca violenza in quelle terre, nell’autunno del 1943, si intrecciarono “giustizialismo sommario e tumultuoso, parossismo nazionalista, rivalse sociali e un disegno di sradicamento” della presenza italiana da quella che era, e cessò di essere, la Venezia Giulia. Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una “pulizia etnica”». La stessa strategia del massacro indiscriminato che abbiamo visto ripetersi tragicamente dopo il crollo della Jugoslavia. Croati contro serbi, serbi contro bosniaci mussulmani, stupri etnici di massa e stragi di uomini, donne e bambini soltanto perché appartenenti a un’altra etnia. Il 9 luglio 1995, la zona protetta dall’ONU di Srebrenica e il territorio circostante furono attaccati dalle truppe dell’esercito serbo di Bosnia che riuscì a entrare definitivamente nella città due giorni dopo. I maschi dai 12 ai 77 anni furono separati dalle donne, dai bambini e dagli anziani, apparentemente per essere interrogati, in realtà vennero uccisi e sepolti in fosse comuni. Del resto i croati non si erano fatti mancare nulla nel conflitto contro i serbi.  Le forze di interposizione delle Nazioni Unite a Srebrenica mostrarono tutta la loro impotenza. E si rese necessario l’intervento della Nato. È poi veramente privo di senso l’accostamento che Montanari compie tra le date delle due Memorie come se costituissero l’esito di una rivalsa della destra contro sinistra. La Giornata della Memoria della Shoah si celebra il 27 gennaio perché in quella data nel 1945 l’Armata Rossa liberò Auschwitz, il Campo di sterminio più grande di tutti quelli che il nazismo aveva disseminato per l’Europa (lo stesso di cui ora il governo polacco vuole vietare l’accesso ai cittadini israeliani). Mentre la Giornata del Ricordo delle foibe fu fissata il 10 febbraio per una ragione precisa. In quella data vennero firmati nel 1947 i Trattati di Parigi dove era prevista la cessione di territori italiani alla Jugoslavia. Si trattava di quegli stessi Trattati nei quali, secondo Giorgio Napolitano (che peraltro allora c’era), «prevalse il disegno annessionistico». Mentre la Giornata della Memoria dell’Olocausto venne decisa nel 2005 dall’Assemblea generale dell’ONU (l’Italia aveva già provveduto con una legge del 2000), la legge del 2004 sulla Memoria delle foibe, fu promossa principalmente da esponenti della destra (sia pure con un ruolo attivo di altri gruppi in particolare della Margherita). È questa una buona ragione per giudicare quell’iniziativa una falsificazione storica o un atto di ritorsione contro la Memoria della Shoah? Perché non riconoscere che quella legge del 2004 – ancorché dettata da motivi politici – contribuì a porre riparo a una vile omissione e a rendere giustizia a dei compatrioti vittime di una guerra perduta? 

L’enorme menzogna che ancora infanga le vittime italiane delle foibe. Vittorio Sgarbi su Il Quotidiano del Sud il 29 agosto 2021. L’ANTIFASCISTA Travaglio, grande ammiratore di Indro Montanelli, sul quale  ha recentemente scritto un volume illustrato e apologetico, ha scagliato le tristi truppe del suo giornale contro Arnaldo Mussolini. Chissà perché ha perdonato il fascistissimo Montanelli e ha invece condannato Arnaldo, direttore de “Il popolo d’Italia”, che e non aveva invitato a collaborare Montanelli. Arnaldo morì nel 1931 affranto per la precoce morte del figlio, l’anno precedente. Con la perdita del figlio sembrò svanire – secondo quanto affermarono molti dei suoi amici – anche la voglia di vivere del padre. Alcuni suoi collaboratori raccontarono infatti che qualche giorno prima di morire, dopo aver avuto una piccola crisi cardiaca, Mussolini raccontò di aver sentito la morte vicina e di averla aspettata con gioia. Montanelli invece, su “Civiltà fascista”, ancora nel 1936 scriveva: «Non si sarà mai dei dominatori, se non avremo la coscienza esatta di una nostra de fatale superiorità. Coi negri non si fraternizza. Non si può, non si deve. Almeno finché non si sia data loro una civiltà». Parole difficilmente emendabili, e mai pronunciate da Arnaldo, così descritto da un poligrafo insigne, Mauro della Porta Raffo: “Arnaldo chi?”. Scommetto qualsiasi cifra: nessuno degli ignorantissimi politici e dei giornalisti immediatamente in ginocchio aveva finora conoscenza dell’esistenza di Arnaldo Mussolini. Nessuno. Ovviamente, ne ho trattato anni orsono perché Montanelli ne parlò sostenendo che la morte di Arnaldo fu grave per le conseguenze. Era difatti la sola persona che Benito ascoltava e che ne frenava gli impeti. E se qualcuno studiasse? La campagna per la difesa della toponomastica storica che è un principio di civiltà rispetto alla ricerca di consenso strumentalizzando per ragioni politiche i nomi di Falcone e Borsellino, è assolutamente lecita, e non esclude una nuova titolazione, in altra area, una volta ripristinata quella originale. La sostituzione opportunistica di un nome più popolare a uno che i tempi hanno travolto, al di là delle sue dirette responsabilità, come è nel caso di Arnaldo, è proprio di molte amministrazioni di sinistra che hanno finto di ignorare che Borsellino era stato rappresentante del FUAN e vicino al MSI di Giorgio Almirante, e hanno cercato di farsi scudo della gloria dei due magistrati e del loro sacrificio. La finta antimafia di Antonello Montante dovrebbe rappresentare un monito ancor più inquietante, dopo che una magistratura politicizzata e un sindaco depensante hanno umiliato Roma togliendole il nome in favore di “Mafia capitale”, per attribuirsi patenti antimafia senza correre alcun pericolo e senza rischiare, protetti da potenti e inutili scorte, la vita, come hanno rischiato (e perduto) Falcone e Borsellino. In realtà, per chi sa rispettare la storia, le variazioni toponomastiche sono ispirate alla retorica dei nuovi poteri, e buona norma sarebbe non usare nomi sacri come quelli di Falcone e Borsellino per cambiare denominazione a vie, piazze, aeroporti, lungomari, parchi, in modo opportunistico e strumentale. Al culmine della polemica su questa vicenda, ingigantita, si pone l’enorme menzogna che infanga i morti delle Foibe uccisi dai comunisti e il presidente della Repubblica Mattarella che li onora. È la posizione, espressa con la consueta violenza concettuale, di Tomaso Montanari, il quale, contestando il giusto riconoscimento da parte dello Stato dei morti delle foibe, lo attribuisce a una agguerrita campagna culturale da parte di una destra più o meno apertamente fascista: “Una campagna il cui obiettivo è niente meno che un revisionismo di Stato”. L’assurda affermazione è sostenuta con argomenti che ignorano la tragica realtà di quelle morti, e finiscono con l’infangare per una seconda volta le vittime: “non si può nascondere che alcune battaglie revisioniste siano state vinte grazie alla debolezza politica e culturale dei vertici della Repubblica. La legge del 2004 che istituisce la Giornata del ricordo (delle Foibe) a ridosso e in evidente opposizione a quella della Memoria (della Shoah) rappresenta il più clamoroso successo di questa falsificazione storica”. La penosa mortificazione di un momento importante, nella giusta commemorazione storica, di una tragedia, si appoggia  a una inaccettabile ricostruzione dello storico Angelo D’Orsi, che ha pensato bene di scrivere al presidente Mattarella per rimproverargli “un grave torto alla conoscenza storica nel discorso del 10 febbraio 2020 in cui non si è limitato a rendere onore a quelli che, nella narrazione corrente, sono i “martiri delle foibe”, ma ha usato ancora un’espressione storicamente errata, politicamente pericolosa, moralmente inaccettabile: pulizia etnica”. Sempre più sorprende che, negando la realtà, si arrivi a insultare il presidente della Repubblica, accusandolo di leggerezza o di supina accettazione di posizioni considerate “neofasciste”. Con aria leggera D’Orsi continua: “Ella, signor Presidente, è caduta nella trappola della equiparazione del grande, spaventoso crimine, il genocidio della Shoah, con avvenimenti al confine orientale tra Italia e Jugoslavia, tra il 1941 e il 1948, grosso modo…La storiografia ci dice tutt’altro: le vittime accertate fino ad oggi furono poco più di 800 (compresi i militari), parecchie delle quali giustiziate essendosi macchiate di crimini, autentici quanto taciuti, verso le popolazioni locali”. La falsificazione reale di D’Orsi è spregevole. Solo un innocente ucciso dai comunisti titini ha la dignità che merita il ricordo di un ebreo ucciso dai nazisti. Non si misura l’orrore della storia sulla quantità dei morti. Fu già interrotto per questo uno spettacolo di Simone Cristicchi (certo non neofascista), diffondendo un volantino, quella volta contro Napolitano, che indicava un bollettino dei morti di 798 vittime. La falsificazione è palese. Del resto liquidare il capitolo foibe con la mera contabilità dei corpi effettivamente ritrovati è semplicemente irragionevole (per uno storico, soprattutto). Primo, per le difficoltà oggettive del compito di riesumazione (del resto una delle ragioni dell’infoibamento è appunto l’occultamento dei corpi). Secondo, perché l’espressione “foibe” è chiaramente una sintesi in cui vengono convenzionalmente incluse anche le vittime (di campi di concentramento, di processi sommari e di altre violenze), che pure non finirono nelle cavità carsiche, esattamente come nella letteratura sulla sorte degli ebrei nella Seconda guerra mondiale. Quanto alla “equiparazione del grande, spaventoso crimine, il genocidio della Shoah”, definire il ragionamento capzioso è dire poco. Come se, in generale, il massacro grande “mangiasse” il massacro piccolo, secondo una logica per cui Hiroshima potrebbe essere liquidata con una nota a pie’ pagina nei libri di storia. Se andiamo a tentare una contabilità che smentisca il revisionismo comunista di D’Orsi e Montanari potremmo considerare che il cippo sulla foiba di Basovizza, sulla lastra di pietra che chiude per sempre la voragine in cui furono precipitati i martiri di Trieste e della Venezia Giulia, ne riporta incisi i livelli. In origine la profondità risultava di 300 metri. Nel 1918 era di 228: la differenza era costituita da depositi di detriti, di carbone e di munizioni gettate là dentro dopo la guerra mondiale. Nel 1945, all’ultima misurazione, la foiba era profonda 135 metri: la differenza, stavolta, si doveva ai cadaveri degli italiani assassinati precipitandoli, spesso vivi, nell’abisso. Quanti? Forse 2.000, ma un conto esatto non si potrà mai fare. Fu detto, con brutale espressione, che a Basovizza c’erano 500 metri cubi di morti. Quattro per metro cubo. Per amore di verità ho consultato gli archivi del Centro Studi Adriatici per il periodo 1943-45. Secondo i calcoli di Luigi Papo, i numeri sono questi: 994 salme esumate da foibe, pozzi minerari, fosse comuni; 326 vittime accertate ma non recuperate; 5.643 vittime presunte sulla base delle segnalazioni locali o altre fonti; 3.174 vittime nei campi di concentramento e di lavoro jugoslavi, computate sulla base di segnalazioni o altre fonti. Quindi ben 10.137 persone mancanti in seguito a deportazioni, eccidi e infoibamenti per mano jugoslava. A questa cifra andrebbero poi aggiunte le vittime di ben trentasette fra foibe e cave di bauxite per le quali non è stato possibile alcun accertamento pur “essendo nella certezza che ivi furono compiuti altri massacri”. In questo modo la cifra finale sarebbe di 16.500 vittime. Troppo pochi perché un presidente della Repubblica li ricordi con sgomento e dolore parlando di “moto di odio e di furia sanguinaria”, la quale non è finita se è rivendicata da D’Orsi e Montanari che a quei morti non porterebbero neanche un fiore.

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano”. Foie Gras. "Le foibe e il rettore di lotta e di governo. Il doppio ruolo di Tomaso Montanari" (Aldo Grasso, Corriere della sera, 29.8). Lui invece è di lecca e di governo. (…)

Tomaso Montanari per “il Fatto quotidiano” il 30 agosto 2021. Le parole che, lunedì scorso, ho dedicato al Giorno del Ricordo hanno scatenato la rabbiosa reazione di tutte le destre italiane: da Italia Viva a CasaPound, passando per Lega e Fratelli d'Italia (col rincalzo di Aldo Grasso e dell'agente Betulla). Con una sola voce hanno chiesto, preteso, minacciato (quelli al governo) le mie dimissioni da rettore (lo sarò peraltro solo da ottobre...): l'effetto è stato quello di un "fascismo polifonico" (per usare un'espressione di Gianfranco Contini). Come se, improvvisamente, fossero scomparsi dalla Costituzione gli articoli 21 (libertà di espressione) e 33 (libertà della scienza e autonomia delle università): in un assaggio di quel ritorno al fascismo che potrebbe comportare l'ascesa al governo di questa compagine nera.

SALVINI È ARRIVATO a dire che mi devo fare curare: rinverdendo la tradizione dei dissidenti chiusi in manicomio. La Meloni, in una apologia dei fascisti ormai senza veli, che devo "essere fermato". L'Unghe ria, insomma, non è lontana. Confermando il senso del mio articolo (il fascismo riesce ad avere ragione solo quando trucca la storia), giornalisti e politici hanno scritto e ripetuto che avrei "negato le Foibe". Falso, diffamatorio. Avevo scritto tutt' altro: "La legge del 2004 che istituisce la Giornata del Ricordo (delle Foibe) a ridosso e in evidente opposizione a quella della Memoria (della Shoah) rappresenta il più clamoroso successo di questa falsificazione storica". Come ha detto benissimo Eric Gobetti (storico, e autore di E allora le Foibe?, Laterza): "Il dibattito parlamentare sulla legge istitutiva fu molto eloquente. Alla fine, la versione neofascista è diventata la narrazione ufficiale dello Stato italiano". Questo era il fine: costruire una "festa" nazionale da opporre alla Giornata della Memoria e al 25 aprile, costruire un'antinarrazione fascista che contrasti e smonti l'epopea antifascista su cui si fonda la Repubblica. E ora un disegno di legge giacente in Senato vorrebbe rendere un reato il negazionismo delle Foibe, ancora una volta all'in seguimento della Shoah: "At traverso la equiparazione delle due parti, si mira alla rivincita degli sconfitti" (Claudio Pavone). Chi si stupisce che Italia Viva si schieri con Casa Pound dimentica che nell'agosto del 2019 Matteo Renzi visitò le Foibe di Basovizza proprio nel giorno dell'eccidio nazista di Sant 'Anna di Stazzema: scelta singolare, per un toscano. Come dire: 'i morti sono tutti uguali, fondiamo la pace su una memoria condivisa'. Cioè il messaggio del famoso discorso di Luciano Violante: un messaggio che, semplicemente, demolisce le fondamenta della Costituzione e della Repubblica antifasciste. E che costruisce il terreno per pelose unità nazionali capaci di saldare, al governo del Paese, il peggio della politica italiana.

COSÌ IL PATRIMONIO culturale del Paese (che è fatto, sì, anche di feste, ricorrenze, cerimonie, immaginario...) viene violentato, e piegato all'utilità del mercato politico corrente. Era proprio ciò che la destra voleva con l'istituzione del Giorno del Ricordo (primo firmatario Ignazio La Russa). Motivando, in Senato, il suo meritorio voto contrario, l'attuale presidente dell 'Anpi Gianfranco Pagliarulo vide lucidamente che "in apparenza (il Giorno del Ricordo, ndr) attiene ad un generale ripudio della violenza nelle sue forme più efferate, ma nella sostanza annega le responsabilità del Ventennio e della guerra mondiale con una 'equa ', e perciò del tutto inaccettabile, distribuzione delle colpe. Sono le equiparazioni che hanno sempre fatto i fascisti in Italia per giustificare gli orrori del Ventennio". 

NESSUNO NEGA le Foibe (che videro, secondo l'opinione oggi prevalente tra gli storici, la morte di circa 5000 persone - fascisti, collaborazionisti ma anche innocenti - per mano dei partigiani di Tito), come nessuno nega l'atrocità dei bombardamenti alleati, o delle due atomiche sganciate sul Giappone: ma questo non significa che americani e nazisti fossero sullo stesso piano. "Ecco perché questa legge è sbagliata e pericolosa - continuava Pagliarulo - perché parla di memoria ma cancella la memoria". Aveva visto bene Paolo Rumiz, che nel 2009 scrisse: "Senza onestà la memoria resta zoppa, e il Giorno del Ricordo potrà creare tensioni ancora a lungo. A meno che non sia proprio questo che si vuole". Come ho ricordato nel discorso col quale ho chiesto, e ottenuto, i voti della comunità accademica dell'Università per Stranieri di Siena: "Vivia mo tempi in cui non è per nulla superfluo ricordare che l'università italiana è doppiamente antifascista: lo è per la sua natura libera e umana di università, lo è per la sua adesione incondizionata alla Costituzione antifascista della Repubblic". I nuovi fascisti possono mettersi in pace l'animaccia nera: non mi dimetterò, continuerò a dire la verità.

"Giusto uccidere fascisti". Il delirio del deputato. Fabrizio De Feo il 31 Agosto 2021 su Il Giornale. "Ammazzare migliaia di fascisti durante la Seconda Guerra mondiale è stato giusto e doveroso e ci ha restituito la libertà. Il fatto che Giorgia Meloni si scandalizzi per questo la qualifica per quello che è da sempre". «Ammazzare migliaia di fascisti durante la Seconda Guerra mondiale è stato giusto e doveroso e ci ha restituito la libertà. Il fatto che Giorgia Meloni si scandalizzi per questo la qualifica per quello che è da sempre. Stiamo parlando d'altra parte di un personaggio che ancora si rifiuta di ammettere la responsabilità dei fascisti nelle stragi che hanno insanguinato l'Italia. Vorrebbe zittire Tomaso Montanari, ma dovrebbe solo imparare a tacere». Il tweet è firmato da Giovanni Paglia, parlamentare nella scorsa legislatura, vicesegretario di Sinistra Italiana, il partito di Nicola Fratoianni. Un'entrata a gamba tesa nel dibattito acceso dal Rettore dell'Università per Stranieri di Siena Tomaso Montanari che è riuscito a conquistare grande visibilità attaccando «la decontestualizzazione delle foibe, la loro amplificazione e la loro falsa e strumentale parificazione alla Shoah» e contestando «la narrazione neofascista impostasi nella costruzione della Giornata del Ricordo e nella scelta della data a ridosso e in evidente opposizione a quella della Memoria (della Shoah) clamoroso successo di questa falsificazione storica». Paglia si inserisce in questa polemica e rilancia, alimentando il corpo a corpo dialettico, l'azzeramento dell'umanità, la ricerca del consenso e dell'identità attraverso l'odio politico. Sotto il tweet c'è chi applaude, ma anche chi cerca di invitare alla ragionevolezza. «I bambini fascisti erano notoriamente pericolosissimi, senza pietà e privi di scrupoli. Discernimento. Parola che usava spesso San Paolo. Mai troppo tardi per imparare ad usarlo» scrive Guido Crosetto. Altri fanno notare che il post «prima ancora di essere giuridicamente discutibile, è eticamente riprovevole. A maggior ragione perché scritto da un parlamentare della repubblica italiana rappresentante della Nazione». E c'è anche chi come Mario Ballarin membro del direttivo dell'Associazione Nazionale Dalmata, figlia di esuli, parlando con l'Adnkronos, tenta di portare il discorso fuori dalle ideologie, raccontando come fu scelta la data del Giorno del Ricordo. «Per Montanari tutto quello che non coincide con la sua visione è fascismo. Per quanto riguarda la scelta del giorno, non c'è stato alcun desiderio di contrapposizione con il 27 gennaio, il giorno della Memoria. Luciano Violante venne nel quartiere giuliano-dalmata a Roma e discusse con noi su quale data fosse la più opportuna. Alla fine propose e scelse il 10 febbraio perché era il giorno dell'ultimo viaggio della nave Toscana da Pola a Venezia. È una data che accomuna il lungo esodo per l'Italia». Sulle parole di Paglia interviene, invece, Alessandro Cattaneo di Forza Italia. «Pensavamo fossero estinti, invece i comunisti sono ancora tra noi. Ideologia, odio e demonizzazione del nemico politico. Di tutto ciò non c'è proprio bisogno in questo momento storico, ma dell'esatto contrario e il paradosso è che sono gli stessi che predicano il pacifismo globale. Sono senza speranza e senza vergogna, per fortuna anche senza voti». Fabrizio De Feo

Senza vergogna: sulle foibe Montanari non ci risponde e il “Fatto” di Travaglio ci attacca. Lando Chiarini martedì 31 Agosto 2021 su Il Secolo d'Italia. Triplo servizio, tipo il “barba, capelli e shampoo” tuttora gettonassimo nei saloni per soli uomini. Quando si dice il caso. È bastato che il Secolo d’Italia azzardasse a porre un paio  di domande sulle foibe al diversamente negazionista professor Tomaso Montanari e, puntuale come una scadenza, è scattata la reazione del servizio d’ordine del Fatto Quotidiano. Ai suoi massimi livelli, per giunta. Firme del calibro di Fabrizio De Feo, Marco Lillo e, last but not least, l’ormai dimenticato Daniele Luttazzi, sfigato David Letterman de no’antri col vizietto della satira a senso unico. Mancava solo Selvaggia Lucarelli, ma mai dire mai. Tre pezzi da novanta della premiata scuderia di Marco Travaglio tutti per noi e tutti in una volta. Roba che se ce l’avessero anticipata solo un mese fa manco l’avremmo presa in considerazione. Invece è tutto vero. Persino i conti in tasca al nostro giornale, come se i nostri bilanci non fossero pubblici e consultabili. Certo – vuoi mettere? – non c’è partita con l’emozione della sbirciatina dal buco della serratura. Soprattutto dopo una carriera costruita, verbale per verbale, sugli scoli di Procura. Conti in tasca, dunque. Con annessa verifica dell’impegno di Giorgia Meloni, nostra collega in aspettativa non retribuita, a rinunciare alla pensione da giornalista pur se cumulabile per legge al residuo vitalizio che in futuro le spetterà. Anche qui accontentati.  E ancora Giorgia in un gioco innocente per bambino deficiente, senzadubbiamente ideato e scritto dal già citato DL dei poveri. Insomma, un avvertimento sotto forma di polverone e di chiacchiericcio del tutto avulso dall’attualità, alzato solo per coprire la fuga ignominiosa del compagno Montanari dalle proprie tossiche idiozie. Ma la “spalla” Travaglio glielo doveva: le domande (senza risposta) del Secolo tirano in ballo pure lui. E sì, perché un direttore che avalla il “metodo Montanari” della verità a rate sui morti infoibati (da 800 a 5000 nel giro di una settimana) o è molto distratto o è un “negazionista che si farà”. L’obliquo attacco al nostro giornale serve ad accreditare la storiella del Prof vittima designata del fascismo di ritorno, annunciato appunto dalle «manganellate» del Secolo d’Italia. Ma l’effetto è ridicolo. Più che due alfieri della liberà in lotta contro il tiranno, sembrano i cugini Posalaquaglia (Totò e Peppino) alle prese con il padrone di casa: aggirano le nostre domande parlando d’altro. Pur di non ammettere che a difendere Montanari restano sì e no un paio di gruppettari appena usciti da una foto Polaroid anni ’70 e pochi sedicenti storici, in realtà oscuri panflettisti di nessuna caratura scientifica. Il resto è un coro di critiche, anche a sinistra. Certo, non continuerà per sempre. In fondo è questa la scommessa di Montanari: attendere la fine della piena per poi far planare le chiappe anche (in questo è un collezionista) sulla poltrona di rettore dell’Università per Stranieri di Siena. Ma il suo, più che un calcolo, è un azzardo. Almeno per quel che ci riguarda. Per noi resta infatti un odiatore ideologico, almeno fino a quando non spiegherà il suo pensiero sulle foibe. Che volete, sono ancora troppo freschi i ricordi dei cattivi maestri e i guasti da loro lasciati in eredità ad un’intera generazione per permetterci un bis. Montanari non conti perciò sul nostro silenzio. Se continua nel suo “mi spezzo, ma non mi spiego“, per lui il triplo servizio – barba, capelli e shampoo – resterà sempre attivo: forza ragazzo, spazzola! 

Foibe, tutti (tranne Fratoianni) contro Montanari. Sansonetti: «La sua posizione è indifendibile». Valerio Falerni lunedì 30 Agosto 2021 su Il Secolo d'Italia. Su Tomaso Montanari fischia il vento e urla la bufera. A difenderlo dall’accusa di aver negato la tragedia delle foibe resistono ormai solo i gruppettari del tempo che fu. Gente alla Nicola Fratoianni, cioè nostalgica della lunga stagione dell’eskimo in redazione. Non a caso il segretario di Sinistra Italiana punta il dito contro quello che bolla il «linciaggio mediatico di Lega e FdI». L’obiettivo, alquanto scoperto, sarebbe quello di bandire la solita crociata antifascista. Ma gli è andata male. Perché a contestare il delirio negazionista del rettore in pectore dell’Università per Stranieri di Siena sono opinionisti e politici di un fronte molto più ampio di quello del centrodestra. «Anacronistico e divisivo», definisce infatti Montanari il presidente di Italia Viva Ettore Rosato. «A Trieste, quando ho iniziato a fare politica all’inizio degli anni 90 destra e sinistra si scontravano quotidianamente su Foibe e Tito. Accadeva anche nello scontro tra italiani e jugoslavi, raramente capaci di sanare le divisioni del secolo scorso», ricorda l’esponente renziano. «Non si può commentare uno come Montanari», incalza Pietro Sansonetti, una vita a sinistra. «Come si può dire – chiede il direttore del Riformista – che la strage delle Foibe non è rilevante? Purtroppo la sinistra ha un piccolo difetto: è illiberale, ma la libertà è una cosa seria». Chi invece punta diritto alle dimissioni (in realtà, solo ad ottobre si insedierà a Siena) è il presidente del Comitato 10 febbraio, Emanuele Merlino. «Trovo vergognoso che Montanari non si dimetta. Le sue sono tesi pericolose perché sembrano giustificare i massacri nei confronti dei nemici». Ma soprattutto, per essersi inventato un’equiparazione tra foibe e Shoah che esiste solo nella sua mente. E Merlino glielo rinfaccia: «Sono due eventi totalmente diversi: ricordare le vittime dell’Olocausto non vuol dire non poter ricordare le altre». Morale: Montanari è in evidente «malafede». «Per lui tutto quello che non coincide con la sua visione è fascismo», commenta a sua volta Maria Ballarin, figlia di esuli e componente del direttivo dell’Associazione Nazionale Dalmata. «Ma li ha letti i discorsi di Napolitano e Mattarella? Sono fascisti anche loro?».

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 31 agosto 2021. Ad alcuni lettori, che hanno scritto per valutare o approfondire la questione delle foibe, viene in soccorso Rai Play. Ci sono molti programmi dedicati alla spinosa questione. Ne consiglio quattro: un Passato e presente condotto da Paolo Mieli con i professori Orietta Moscarda ed Egidio Ivetic; ancora un Passato e presente con il prof. Raoul Pupo; una puntata della Grande Storia ; un documentario di Anna Maria Mori, forse la prima trasmissione che si è occupata seriamente del problema. Il Giorno del ricordo , il giorno in cui istriani, fiumani e dalmati celebrano l'esodo e mantengono in vita la memoria di un crimine orrendo, non è nato in evidente opposizione a quella della Memoria (della Shoah). Se alcuni faziosi lo fanno, se ne assumano la responsabilità. E non esiste nessuna equiparazione fra i due eventi: la Shoah indica l'unicità di una tragedia senza paragoni. Le foibe sono un abisso, la voragine dell'inebetimento umano. Non paragonabili al calcolato progetto di genocidio dei nazisti ma pur sempre parte di quell'ideologia di purificazione etnica che imbianca tutti i sepolcri del mondo. Detto questo, la tragedia delle foibe - nelle quali i partigiani comunisti di Tito gettarono, tra il 1943 e il 1945, migliaia di italiani - e il dramma degli esuli istriano-dalmati, costretti ad abbandonare le loro case dopo la cessione di Istria, Fiume e Zara alla Jugoslavia, seguita alla sconfitta dell'Italia nella Seconda guerra mondiale, sono una delle pagine più dolorose della storia del nostro Paese. Alla base di questo grandioso sradicamento, lo ripeto, c'è anche un progetto di pulizia etnica. Ci sono poi ragioni storiche del lungo oblio sulle foibe: la sinistra internazionale si è sempre vergognata di parlare di questa pagina poco edificante; Tito, rivendicando autonomia nei confronti di Stalin, era diventato un interlocutore dell'Alleanza atlantica. Dunque, meglio glissare.

"Il nuovo settarismo degli intellettuali fa comodo a un Pd spostato a sinistra". Stefano Zurlo l'1 Settembre 2021 su Il Giornale. Il cofondatore dell'Istituto Bruno Leoni: "Torna la scomunica del nemico come male assoluto, ma sarà un boomerang alle elezioni". I tamburi di guerra dell'antifascismo militante. La Giornata del Ricordo e delle vittime delle foibe declassata a bieca operazione del centrodestra per relativizzare le colpe del Ventennio. Tomaso Montanari, e non solo lui, ripropone vecchi slogan cari alla sinistra. «Si - spiega Alberto Mingardi, cofondatore dell'Istituto Bruno Leoni, saggista e docente universitario - ritorna un vecchio adagio caro alla sinistra: i morti dei fascisti e quelli dei comunisti non sono uguali e le colpe degli uni sono meno gravi, molto meno gravi, di quelle degli altri».

È la delegittimazione dell'avversario?

«Si, è la scomunica del nemico che diventa o torna ad essere, come nel passato, il male assoluto».

Ma perché succede questo?

«Si possono dare diverse spiegazioni complementari. Anzitutto, faccio notare che il Pd, questo Pd, si è spostato a sinistra e prova a darsi un'identità intorno ad alcune battaglie culturali».

Pensa al dl Zan?

«Certo, ma non solo. Mi riferisco a come si fa politica sull'immigrazione o ad alcune sortite sulle tasse che dovrebbero colpire i presunti benestanti».

Anche i ricchi piangano, come si diceva un tempo?

«C'è un deposito di vecchi valori ormai scaduti, ma evidentemente ancora spendibili, di suggestioni, di stereotipi che possono andare bene per marcare questa presenza agguerrita e aggressiva».

Non tutta la dirigenza del partito Democratico è su queste posizioni.

«Si, ma non c'è dubbio che oggi un Tomaso Montanari sia più in linea o più alla moda di un Luciano Violante che tenne quel bellissimo discorso di riconciliazione sui ragazzi di Salo' o di un Michele Salvati. Il settarismo per la verità fra gli intellettuali è sempre andato di moda ma mai come oggi. D'altra parte tutti i partiti sono al traino del premier Draghi, hanno perduto centralità, provano quindi a recuperare terreno e visibilità cavalcando battaglie iperidentitarie, alla Ocasio-Cortez».

C'è dunque un calcolo elettorale?

«La ricerca di identità appaga gli estremisti ma alle urne credo sarà un boomerang. Ci sarebbe bisogno di rassicurare i cosiddetti moderati, non di spaventarli; invece si punta a galvanizzare i militanti. Questa, ahimè, è una tendenza della sinistra tricolore ma anche un processo globale».

Fuori d'Italia?

«Nei campus americani si assiste alla stessa logica muscolare, a sinistra come a destra. Gli intellettuali hanno sempre meno la propensione al dialogo e sempre più all'urlo. E l'opinione pubblica si adegua».

Vanno per la maggiore i toni forti?

«Come dicevo, c'è un processo in atto di radicalizzazione un po' ovunque. Ci stiamo assuefacendo a queste guerre culturali».

Rientriamo in Italia.

«Una parte della sinistra è orfana di riferimenti. Io so benissimo che molte personalità hanno compiuto una seria revisione del proprio credo, ma si tratta di percorsi singolari, è mancata una una riflessione collettiva con documenti scritti di quel travaglio. Alcune trasformazioni sono state solo no-minali: un nuovo nome, un nuovo simbolo e nessuna non dico abiura ma presa di distanza dal comunismo e dalla sua storia».

In questa incertezza è più comodo aprire l'armadio del passato?

«Certo. Guardi nello scaffale e trovi che nelle foibe furono trucidati soprattutto fascisti, come se questo poi fosse, oltre che falso, meno grave. Siamo sempre al doppio binario; la violenza diventa giustificabile in nome di certi ideali, poi ce n'è un'altra che segna con lo stigma chi abbia anche vaghe parentele in quella storia: la Meloni, Salvini ecc.

La Giornata del Ricordo è del 2004, quando a Palazzo Chigi c'era Silvio Berlusconi.

«E però anche qui si afferma una verità storica molto parziale: quella ricorrenza s'inserisce anche nel percorso segnato dal Presidente Ciampi, non certo un uomo di destra, per ricomporre un'identità nazionale. Non fu certo pensata per annacquare gli orrori del Ventennio».

Sul «Giornale» Giorgia Meloni suggerisce di fermare in qualche modo Montanari.

«No, Montanari dev'essere libero di dire tutte le sciocchezze che vuole. Si cresce nel confronto e nel litigio con i docenti, non eliminando le voci dissonanti. Però questo discorso deve valere sempre. Pochi mesi fa, un professore dell'Università di Milano, Marco Bassani, ha subito una sanzione assurda per aver messo sulla propria pagina Facebook una vignetta elettorale americana, ritenuta offensiva verso Kamala Harris. Ora gli stessi che difendono la libertà d'espressione di Montanari ritenevano appropriato il trattamento subito da Bassani. Ecco, l'idea di una libertà accademica a corrente alternata non fa bene alla discussione pubblica». Stefano Zurlo

"La sinistra usa l'antifascismo per eliminare Salvini e Meloni". Stefano Zurlo il 31 Agosto 2021 su Il Giornale. Il giornalista: "È la stessa isteria che ci fu nel '94 contro Berlusconi. Colpiscono con una clava chi prende voti". Sembrava che l'Italia avesse fatto un passo in avanti. E invece: «È come se fossimo tornati indietro di 75 anni, al 1945, alla retorica dell'antifascismo militante e alla guerra civile permanente - spiega Pierluigi Battista, una delle firme più autorevoli del giornalismo tricolore, saggista e ora anche romanziere con La casa di Roma, in uscita dopodomani per La nave di Teseo - Siamo davanti ad uno schema ipersemplificato: il bene contro il male».

Tomaso Montanari fa il negazionista sulle foibe e Gad Lerner corre in suo soccorso, sulle pagine del Fatto Quotidiano, attaccando frontalmente Giorgia Meloni che in una lettera al Giornale aveva denunciato questo uso a fisarmonica della storia.

Battista, ma che succede?

«La retorica dell'antifascismo, cosa ben diversa dall'antifascismo, viene usata come una clava per fermare l'avversario che guadagna consensi e voti».

L'avversario? Chi?

«Oggi si dà del fascista a Salvini o alla Meloni come nel passato, nel 1994, ci fu una mobilitazione generale contro Berlusconi. Direi che c'è la stessa isteria di allora».

Possibile che siamo ancora a questo punto dopo gli studi di Renzo De Felice e le parole sui «ragazzi di Saló» di Luciano Violante?

«In effetti questa visione manichea era progressivamente finita in archivio. La storia del Fascismo era stata riletta senza gli occhiali dell'ideologia e l'altra parte, quella sconfitta nel 1945, era stata infine accettata e reintegrata nel circuito civile. Questo non significa assolvere il Fascismo e cancellare eccessi e orrori, vuol dire semplicemente integrare la storia di questo Paese e ricomporne l'unità. Quel pezzo del Paese era stato espulso dalla vita democratica, poi era gradualmente rientrato. Poi però nel '94 arriva il Cavaliere e una parte della sinistra ripropone questa divisione in bianco e nero: noi siamo il bene - questo è il messaggio - e combattiamo contro Berlusconi che riporta il Fascismo ed è il male».

Una scorciatoia per non affrontare la sfida elettorale?

«Più o meno. Oggi la stessa litania ritorna per fermare Salvini e Meloni. D'altra parte Giani ha vinto in Toscana schiacciando il pedale dell'antifascismo a comando e sono sicuro che sentiremo gli stessi accenti quando Gualtieri ad ottobre si dovrebbe misurare a Roma con i candidati del centrodestra».

I sacri valori come spartiacque?

«Invece di affrontare i problemi, dai rifiuti alle buche, ecco il richiamo alla vecchia bandiera che sventola dal 1945».

Ora e sempre Resistenza, come affermava un vecchio slogan.

«Esatto. Chi non appartiene a questo mondo è delegittimato in partenza».

Ma perché Montanari, prossimo rettore dell'Università per stranieri di Siena, minimizza la tragedia delle foibe?

«Perché ha bisogno del mantello dell'ideologia. E l'ideologia si prende in blocco: se la chiave di lettura è Fascismo- Antifascismo e non la pulizia etnica operata dai Titini, allora le foibe sono solo la conseguenza di una lotta sacrosanta che può aver avuto degli eccessi, ma nulla più, e non un'operazione di annientamento della comunità italiana per annettere quelle terre».

Peccato che questa non sia la storia.

«Esatto ma tutto si giustifica nella lotta al male che oggi torna attuale per sconfiggere i presunti nuovi fascisti».

E Gad Lerner che tuona contro la Meloni?

«Gioca a fare il partigiano: solo che i partigiani stavano sulle montagne e rischiavano la vita fra il '43 e il '45, lui è arrivato dopo, come noi, e tutto diventa grottesco. Come fai a fare il partigiano nel 2021? Io allora potrei fare il mazziniano o il garibaldino. Ma non funziona».

Dovremmo guardare in avanti?

«Sia chiaro: il Fascismo ha commesso crimini orribili».

Nessuno sconto al Ventennio?

«Ci mancherebbe: io sono fieramente antifascista, ma sono un antifascista liberale. Un antitotalitario».

Fra Mussolini e Stalin lei sta con Churchill?

«Sono terzista. Qualcuno obietterà che è una posizione comoda, ma non è vero. Churchill era antifascista ma anche anticomunista, io difendo la libertà di tutti, non mi presto a rinchiudere il passato in una gabbia di convenienze e a utilizzarlo per addomesticare il presente. Invece, si copre tutto con una patina di indignazione a senso unico. È una vecchia storia: nel '94 fu sdoganato il secessionista, barbaro Bossi, perfino lui, perché aveva professato il suo antifascismo rompendo la coalizione di centrodestra e il 25 aprile 2006 fu fischiata vergognosamente Letizia Moratti che accompagnava il padre Paolo, deportato a Dachau e medaglia alla Resistenza ormai su una sedia a rotelle, perché non si sopportava la loro presenza in quel corteo. Nel nome dell'antifascismo militante fu commesso un sopruso. Oggi ritorna quella tentazione». Stefano Zurlo

L'antifascismo utilizzato per screditare. Marco Gervasoni il 25 Agosto 2021 su Il Giornale. È poco conosciuta, ma l'Archivio Centrale dello Stato è una istituzione fondamentale, raccoglie tutta la documentazione prodotta appunto dallo Stato, dai verbali del governo in giù (più molto altro). È poco conosciuta, ma l'Archivio Centrale dello Stato è una istituzione fondamentale, raccoglie tutta la documentazione prodotta appunto dallo Stato, dai verbali del governo in giù (più molto altro): senza, nessun libro di storia potrebbe essere scritto. Ancora meno saranno quelli che conoscono il nome di Andrea De Pasquale, un funzionario, già direttore della Biblioteca Centrale di Roma, e ora nominato dal ministro Franceschini sovrintendente, cioè massima figura apicale, dell'Archivio. Sarebbe una non notizia, se nella calura estiva, e nel mezzo di problemini solo lievemente più importanti, non fosse partita una campagna di delegittimazione del funzionario. A capo dei quali stanno coloro che meglio la sanno fare, i giornali della sinistra: dal «Manifesto» a «Repubblica» e al «Fatto quotidiano», mentre un noto neo rettore molto radical e molto social si è persino dimesso dal Comitato ministeriale per protesta. De Pasquale, dicono «è inadatto per motivi tecnici e morali». Tralasciamo i primi perché secondari e concentriamo su quelli «morali»: in sostanza gli viene imputato di non essere abbastanza antifascista. Si, avete letto bene. Perché passeggiava per le stanze della Biblioteca Nazionale con il braccio destro alzato? No, perché ha osato far acquisire alla Biblioteca il fondo archivistico di Pino Rauti: una personalità di enorme importanza nella storia della destra italiana, e quindi del paese, oltre a possedere un gran rilievo intellettuale. Si possono non condividere molte o tutte delle sue idee, ma dal punto di vista storico il suo archivio è fondamentale. O forse per «Repubblica» e «Il Fatto» bisogna distruggere la memoria di chi non era abbastanza antifascista? Sarebbe talebanismo storico, no? Non solo De Pasquale ha osato acquisire l'archivio Rauti ma avrebbe accompagnato l'iniziativa con parole elogiative: e già, perché di solito si presenta l'acquisizione di un fondo scrivendo che non ha nessun interesse! La vicenda, nella sua evidente pretestuosità, è tuttavia significativa. Perché ci presenta una sinistra allo sbando, totalmente priva di idee, il cui unico motivo di esistenza è far man bassa di posti, soprattutto nelle istituzioni culturali, che ritiene cosa loro. Non sappiamo cosa pensi e chi voti De Pasquale, ma non è considerato dei loro, e questo basta per chiederne la cacciata: in nome, ovviamente, dell'«antifascismo». Ma questa volta, l'assalto finirà in una scornata. Marco Gervasoni 

"No foibe no party". Così gli antagonisti soffiano sull'odio. Fausto Biloslavo e Matteo Carnieletto il 20 Luglio 2021 su Il Giornale. A Genova spunta lo striscione che inneggia alle foibe. Il Comitato 10 febbraio: "Pronti a denunciare". Gli slogan sono sempre gli stessi. Come gli oltraggi, gli insulti e la violenza. Come l'odio che si riversa ogni anno attorno al 10 febbraio, il Giorno del Ricordo in cui si commemorano le vittime delle foibe e l'esodo degli italiani dall'Istria e dalla Dalmazia. È il livore della sinistra più becera, degli antifà per professione, che torna ciclicamente a farsi sentire. Come la scorsa domenica a Genova quando, alla testa del corteo per ricordare i vent'anni del G8, è apparso lo striscione "No foibe no party". Uno sfregio, l'ennesimo, a chi fu inghiottito, spesso ancora vivo, all'interno delle cavità carsiche dal 1943 in poi. Una provocazione, l'ennesima, senza alcun senso, se non quello di continuare a seminare odio, come sottolineato da Teresa Lapolla, consigliere municipale di Genova: "I soliti facinorosi hanno strumentalizzato questa giornata per fomentare l'odio con lo striscione 'No Foibe No party' che rappresenta un oltraggio e una vergogna inaccettabile. Carlo vive? L'idiozia pure. Ci troviamo di fronte all’ennesima situazione di negazionismo delle foibe, con il silenzio istituzionale della sinistra che continua a non prendere posizione di fronte ad azioni di questo tenore". Ancora più duri Emanuele Merlino, presidente nazionale del Comitato 10 febbraio, e Carla Isabella Elena Cace, presidente dell'Associazione nazionale dalmata: "Sono sempre gli stessi nemici dell'Italia ed eredi di quella ideologia comunista che, lontano da ogni ideale di giustizia sociale, fu motivazione insanguinata per l'uccisione di milioni di innocenti in tutto il mondo. Non possiamo accettare che passino sotto silenzio queste dimostrazioni di intolleranza nei confronti degli italiani vittime del regime dittatoriale di Tito. Gettare persone ancora vive in una foiba, in guerra ma anche a conflitto ampiamente finito, non fu 'giustizia' ma, per citare il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, "una persecuzione contro gli italiani, mascherata talvolta da rappresaglia per le angherie fasciste, ma che si risolse in vera e propria pulizia etnica, che colpì in modo feroce e generalizzato una popolazione inerme e incolpevole'". Secondo Merlino e Cace, "gli autori di questo gesto criminale devono essere identificati e processati in base alla legge Mancino che, ai sensi dell'art 604 bis del codice penale, punisce l'apologia di crimini di guerra e contro l'umanità fra i quali è, ovviamente, ricompresa la pulizia etnica. Per questo motivo abbiamo dato mandato ai nostri avvocati di denunciare, proprio ai sensi della legge Mancino, gli autori di questo gesto ignobile". Una dura presa di posizione anche dall'Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (Anvgd), tramite il presidente nazione Renzo Codarin: "Sdegno e profondo dolore per il gesto di quattro cretini che confermano ancora una volta di non conoscere la storia e che sembrano prenderci gusto a denigrare le sofferenze patite dai loro connazionali del Confine Orientale". Non è la prima volta che appaiono scritte simili nel capoluogo ligure. Lo scorso marzo, infatti, Genova antifascista aveva riempito la città di manifesti corredati dalla scritta "No foibe no party". Le stesse parole. Lo stesso odio di chi non ha idee. E ripete slogan vuoti.

Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni ottanta copre le guerre dimenticate dall'Afghanistan, all'Afric

L'Orrore del Comunismo: tutti i segreti dell'isola lager.  Goli Otok. LA MEMORIA INFRANTA Fotografie: Ivo Saglietti Testo: Matteo Carnieletto. Inside Over il 21 luglio 2021. All’alba, Goli Otok è pallida. Grigia. Un’isola anonima contro cui s’infrangono le onde oleose del Quarnaro. Guardandola dalla terra ferma non si vede alcun tipo di vegetazione; non si scorgono né alberi né arbusti. Dall’acqua emerge solo una distesa di roccia livida e sterile. D’estate il sole secca ogni cosa, d’inverno il vento ghiaccia ciò che rimane. Nell’eterno rincorrersi tra vita e morte è sempre quest’ultima a vincere a Goli Otok. Guardandola, gli uomini hanno cominciato a chiamarla in molti modi: qualcuno l’ha definita “calva”, qualcun altro “nuda”. Ma l’aggettivo più adatto, forse, è “segreta”. Il dorso dell’isola, una scogliera alta oltre duecento metri, non permette di vedere nulla di ciò che accade lì. È come un mantello che tutto nasconde e porta via. Goli Otok è una prigione naturale perfetta, tanto che Josip Broz Tito la scelse come luogo dove isolare coloro che, dopo lo strappo tra Jugoslavia e Unione sovietica, erano rimasti fedeli a Joseph Stalin. Fu così che, a partire dal 1949, Goli Otok divenne un campo di rieducazione attraverso il quale riportare i dissidenti nell’ortodossia del comunismo jugoslavo. Coloro che finivano nel mirino della polizia segreta titina, la terribile Udb-a, venivano caricati su una nave chiamata “Punat” e, infine, lasciati sul lato occidentale dell’isola. I primi quaranta passi erano i più lunghi. Non appena si sbarcava, si finiva sotto il cosiddetto “kroz stroj“, un tunnel umano in cui si veniva pestati a sangue dagli altri detenuti e poi, malconci, si veniva abbandonati a se stessi. Quella folla urlante – fatta di uomini che furono allo stesso tempo vittime e carnefici di se stessi (il campo era infatti in autogestione) – non c’è più. Al suo posto c’è una croce alta e nera che contrasta terribilmente con il trenino rosso e giallo che i turisti utilizzano per fare il tour dell’isola e con il ristorante chiamato, con terribile ironia, “Przun” (prigione). Le strade, a Goli, sono tre, ma tutto ruota attorno a quella centrale, dove erano presenti i tanti laboratori in cui lavoravano gli internati: da quello del legno a quello del marmo, passando per quello del ferro. Era qui che i detenuti si consumavano maggiormente. I macchinari, infatti, funzionavano solamente grazie alla forza umana, come ricorda il sopravvissuto Gino Kmet: “I rudimentali macchinari venivano azionati dalla forza motrice umana, ingaggiando quattro persone, per lo più boicottati speciali, di quelli più duri che non avevano raccontato la verità come intendevano loro. Questi, per mezzo di una grossa manovella e apposite pulegge, mettevano in movimento il tornio, il trapano e la mola smerigliatrice” (Luciano Giuricin, La memoria di Goli Otok – Isola calva). Quei macchinari oggi sono completamente arrugginiti, consumati dal tempo e dalle intemperie. Il campo è in totale abbandono e si può solo immaginare come vivevano gli oltre 30mila internati che furono spediti sull’isola dal 1949 al 1956. Le targhe che ricordano quegli anni, infatti, sono poche e non descrivono la vita a Goli Otok. Per scoprire com’era una giornata tipo, dobbiamo recuperare negli archivi i ricordi di chi è sopravvissuto, come il già citato Gino Kmet: “Dovevamo svegliarci alle cinque di mattina, anche d’inverno con il buio pesto, al segnale del capo baracca che urlava come un ossesso: ‘ustaj’. Dovevamo subito calzare una specie di zoccoli, che si trovavano fuori dalla baracca, perché dentro si doveva camminare scalzi. La nostra tenuta era di color marrone, una specie di divisa militare di fatica, con una bustina sempre militare. Non c’era niente per lavarsi. La prima colazione consisteva in una sorta di surrogato di caffè con polenta liquida. Quindi si andava subito a lavorare. Si doveva uscire dal recinto del campo, passando davanti al milite di turno, nei confronti del quale era d’obbligo levarsi il berretto con lo sguardo però rivolto a terra e non verso di lui. Regole che dovevamo imparare subito, perché altrimenti si buscava una buona dose di legnate”. Iniziava così il lavoro vero e proprio, pensato unicamente per fiaccare il corpo e l’anima di questi dannati. “Tutto doveva svolgersi di corsa – ricorda Kmet – con le famose ‘ziviere’”. Una pena dantesca, come quella degli ignavi descritti da Dante, costretti a correre dietro a una bandiera bianca mentre un pavimento di vermi accoglieva il loro sangue. La memoria di Goli Otok è fatta di calcinacci, di porte divelte, di macchinari abbandonati e pure di vecchi frigoriferi per gelati buttati in un angolo. Il ricordo prende la forma di una sedia che non può più accogliere nessuno e che è stata abbandonata in mezzo a una stanza chissà quanti anni fa. Oppure si incarna in lavandini scrostati e inutili, incapaci di toglierti l’arsura del sole a picco. O ancora in letti senza reti che non riescono più a dare alcun ristoro. Ma è nella “buca” che tutto diventa insostenibile. Era qui che venivano inviati i dissidenti più duri, quelli che non erano disposti a cedere. In questo avvallamento il caldo ti si appiccica addosso insieme agli insetti. Ogni movimento diventa difficile. Ogni passo pesante. Come la vita. Il suo nome ufficiale era “Radilište 101” (Reparto 101), ma nessuno lo chiamava così. I prigionieri gli avevano dato altri nomi, come “Monastero” o “buco di Pietro”, in onore di Peter Komnenic, uno dei primi deportati che aveva un certo peso politico. In questa fossa, profonda otto metri e larga venticinque, finivano le cariche più alte del partito: militari, politici e intellettuali. Oppure coloro che avevano avuto la sventura di aver viaggiato in Unione sovietica. Fu in questa bolgia infernale che si registrarono i più alti decessi di Goli Otok. Oggi, i materassi abbandonati ricordano i tanti corpi che quest’isola, avara di sangue, ha inghiottito sotto il peso delle torture fisiche e psicologiche. La peggiore era senza dubbio quella dei “tragaci”, ovvero i “boicottaggi”. Si trattava di periodi a volte lunghissimi in cui l’internato poteva essere maltrattato da tutti. Insultato, picchiato e costretto a turni di notte in cui il suo unico compito era quello di fare la guardia e trasportare i bidoni in cui gli altri detenuti urinavano. L’obiettivo era quello di ridurlo a una larva umana. A un corpo senz’anima. Privo di volontà. Sui muri dell’isola si mischiano settant’anni di storia: ci sono gli innamorati che hanno deciso di giurarsi amore eterno, i teppisti che hanno imbrattato le pareti con scritte oscene e, infine, i detenuti che hanno trovato la forza di lasciare un ricordo di sé. Qualcuno, probabilmente durante la prigionia, ha dipinto una falce con il martello, forse a testimoniare il proprio attaccamento all’Unione sovietica. Qualcun altro, invece, ha riempito il muro di piccole barre verticali per tenere il conto del tempo che passava. Sempre uguale. Sempre eterno. Quattro linee verticali. Una obliqua. Stop. Dove non ci sono le scritte, a parlare – o, meglio, a urlare – è l’intonaco. O quello che ne è rimasto e che disegna volti urlanti che ancora oggi sembrano chiedere pietà. Una pietà che a Goli, però, non era contemplata, come ricorda l’internato Sergio Borme, e che veniva sostituita dal sospetto: “Ad un certo momento non ti fidavi più di nessuno. Se qualcuno ti diceva, o raccontava qualcosa, dovevi riferire subito, altrimenti andavano loro a riportare la faccenda operando spesso da agenti provocatori. Un sistema allucinante che purtroppo veniva attuato quasi da tutti”. Le piante, su quest’isola, stanno cadendo. Una volta i detenuti erano costretti a fare loro ombra non appena venivano seminate. Era la loro pena del contrappasso. Il modo per rieducarli. Per renderli vegetali. Ma è solo quando cala la notte che Goli Otok mostra davvero se stessa: un’ombra nera che ti insegue e non ti lascia più andare via.

Fotografie: Ivo Saglietti Testo: Matteo Carnieletto

Foibe, gli aguzzini erano i comunisti di Tito, ma non si può dire: lo sfogo dei familiari. Alberto Consoli lunedì 21 Giugno 2021 su Il Secolo d'Italia. Ricordare la tragedia delle foibe è ancora un reato: due episodi incresciosi avvenuti in breve lasso di tempo in Piemonte e a Milano sono oggetto di un lungo sfogo da parte del comitato dei familiari delle vittime giuliane, istriane, fiumane e dalmate. “In Piemonte la decisione della Corte dei Conti di indagare la Regione. Solo per aver annunciato la distribuzione di un testo sui crimini di Tito”. Una decisione offensiva, “non solo non tiene conto della legge 92 del 2004, che prevede iniziative per diffondere la conoscenza di quei tragici fatti. Ma offende la memoria di chi ne è stato vittima. A Milano – denuncano i familiari delle vittime – la targa dedicata a Don Angelo Tarticchio, sacerdote infoibato, è rimasta scoperta solo il tempo strettamente necessario a ricordarlo; e poi immediatamente ricoperta subendo una vera e propria censura in quanto la dicitura: “infoibato dai comunisti jugoslavi di Tito” doveva essere sostituita con il generico “dalle milizie jugoslave di Tito””.  Insomma, parlare di foibe sì, ma a patto che si oscuri la parola “comunisti”, e si salvaguardi “il bun nome” di Tito: le “regole” le dettano i soliti gendarmi della memoria. Due sfregi. “Dopo più di 70 anni di oblio, la Repubblica ha riconosciuto il 10 febbraio quale “Giorno del Ricordo”: occasione per tutti gli italiani di onorare la memoria di migliaia di connazionali: trucidati dai partigiani comunisti titini tra 1943 e il 1945. Questo almeno nelle intenzioni”, scrivono in una nota i familiari delle vittime. “La realtà, alla quale siamo costretti ad assistere noi esuli e familiari di esuli da quelle terre martoriate, è invece ben diversa”. “Purtroppo conosciamo bene la nostra storia, ma difficilmente la sentiamo raccontare o ci viene concesso di raccontarla… È una storia scomoda, per tanti motivi, potremmo sintetizzare dicendo che i nostri aguzzini hanno vinto la guerra (che si siano macchiati di crimini orrendi non interessa a nessuno); e che… i colpevoli sono sempre gli altri! Siamo abituati a versioni storiche dal sapore giustificazionista, a boicottaggi e atteggiamenti odiosi di vario genere”. Sono abituati a questo calvario della memoria, ma i due episodi citati vanno ancora oltre, spiegano: “Quanto accaduto di recente in Piemonte e a Milano, ci lascia senza parole”. Così in una nota il comitato familiari delle vittime giuliane, istriane, fiumane e dalmate. Per quanto riguarda la vicenda piemontese, l’affronto lo dobbiamo a unu consigiere di Leu. I libri, infatti, causa Covid, non sono mai stati acquistati; e nemmeno è stata mai promulgato un atto amministrativo che rendesse operativa quella intenzione. Come ha fatto la Corte dei Conti a chiedere contezza di una spesa mai deliberata? Appunto, è stato il consigliere di Leu ad aver presentato un’interrogazione che ha dato il via all‘iter. Altro episodio, altro orrore, è il caso di Milano. Don Angelo Tarticchio, il parroco di Rovigno che fu torturato, evirato e gettato vivo in una foiba. Ebbene, non si può scrivere che i suoi aguzzini erano “comunisti jugoslavi di Tito”. Siamo alla follia e la rabbia dei familiari delle vittime è più che giustificata. Affranti, increduli, i familiari proseguono: “Fuggirono in trecentocinquantamila dall’orrore titino, sono passati tanti anni e molti di loro sono già morti; senza aver mai visto alcuna forma di giustizia o, almeno, una memoria condivisa. Inutile chiedere rispetto e comprensione a chi non li vuole concedere”. C’è una speranza, però, per tentare di riparare ai torti passati e presenti, ed è il ddl presentato da Fratelli d’Italia. “Abbiamo appreso che la Commissione Giustizia ha calendarizzato l’esame del disegno di legge (su proposta del Senatore Luca Ciriani), che modifica l’articolo 604-bis del codice penale. Aggiungendo un comma che, accanto al riferimento espresso alla Shoah, richiama i massacri delle foibe. Auspichiamo pertanto che tale modifica non trovi ostacoli alla sua approvazione. E che in questo modo chi non ha rispetto per le sofferenze patite dalla nostra gente possa avere una giusta punizione”.

La medaglia della vergogna. Fausto Biloslavo e Matteo Carnieletto su Indide Over il 9 giugno 2021. Vogliamo raccontare gli orrori di Tito a Goli Otok, l’isola a due passi dall’Italia dove il maresciallo Tito imprigionò 30mila oppositori, tra cui centinaia di italiani. Vogliamo farlo attraverso lo sguardo del fotografo tre volte vincitore del World Press Photo, Ivo Saglietti, e le parole di Matteo Carnieletto, responsabile di InsideOver. Tito e consorte sfruttano l’arma dello charme per conquistare l’Italia. Anche se, in verità, non ce n’è un gran bisogno. Solamente due anni prima, nel 1969, il Maresciallo viene «decorato come Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica italiana» con l’aggiunta del Gran Cordone, il più alto riconoscimento del nostro Paese, durante la visita di Saragat a Belgrado per finalizzare alcuni accordi economici con la Jugoslavia. Nei numerosi e affettuosi discorsi il capo dello Stato italiano conclude sempre con uno stucchevole brindisi rivolto a Tito: «Levo il calice, signor Presidente, al benessere Suo e della gentile signora Broz, alle fortune dei popoli jugoslavi e all’amicizia fra i nostri Paesi». Mai nessun cenno, neanche alla lontana, alla tragedia delle foibe e dell’esodo. E quello è solo l’inizio. Altre medaglie e riconoscimenti vengono infatti assegnati nel tempo ad una ventina di suoi uomini. Ogni anno l’Unione degli istriani, una delle più rappresentative associazioni degli esuli costretti alla fuga dalle loro terre alla fine della Seconda guerra mondiale, rilancia la campagna per revocare «le onorificenze dello Stato italiano elargite al sanguinario maresciallo Tito». Un obiettivo che, almeno sulla carta, dovrebbe essere condiviso da tutte le forze politiche del nostro Paese, ma che viene sempre rispedito al mittente grazie a un cavillo legislativo: si può togliere un’onorificenza per “indegnità” solo se il personaggio insignito è ancora in vita. Nel 2012, per esempio, l’Italia lo fa con il presidente Bashar al Assad, accusato, forse troppo sbrigativamente, di massacrare il suo popolo in seguito allo scoppio della guerra in Siria. Per Tito, che ha lanciato la pulizia etnica e politica contro gli italiani e una parte del suo popolo, «non è ipotizzabile alcun procedimento essendo il medesimo deceduto», scrive, nel 2013, il prefetto di Belluno, a nome del governo, dopo essere stato interpellato dal primo cittadino di Calalzo di Cadore, Luca De Carlo. Oggi senatore di Fratelli d’Italia, De Carlo ha pronta da tempo una proposta di legge che prevede di cambiare questa (folle) norma. Si tratta di appena due righe: «In ogni caso incorre nella perdita dell’onorificenza l’insignito, anche se defunto, qualora si sia macchiato di crimini crudeli e contro l’umanità». Per ora la proposta langue, ma De Carlo, in un’intervista concessa a Panorama, quando Salvini è al governo, afferma: «Auspico che la Lega, che ha visto molti suoi esponenti rilasciare dichiarazioni a favore della revoca dell’onorificenza a Tito, supporti la discussione in commissione prima e in aula dopo della nostra proposta di legge. È ora di passare dalle parole ai fatti». Purtroppo non sono stati compiuti passi in avanti e né Giorgio Napolitano, all’epoca della proposta presidente della Repubblica, né il suo successore Sergio Mattarella hanno sollecitato il Parlamento a legiferare per cancellare la vergogna di una medaglia al boia degli italiani e di un quarto di milione di suoi connazionali. Ma non c’è solo Tito. L’Italia ha infatti decorato Mitja Ribicic, Franjo Rustja e Marko Vrhunec, i cui nomi campeggiano ancora in bella mostra sull’albo d’oro delle onorificenze del Quirinale. Dal 2013, il ministero degli Esteri, sollecitato dalla presidenza del Consiglio, avrebbe dovuto indagare su che fine avessero fatto e, se fossero stati in vita, togliere loro la decorazione. «Noi sapevamo che vivevano in Slovenia, ma nessuno ha mai mosso un dito – spiega Lacota, presidente dell’Unione degli istriani – L’ultimo è deceduto qualche anno fa (nel 2017, nda) in una casa di riposo vicino al confine di Trieste». Ribicic, Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica italiana, è stato al vertice della repressione titina in Slovenia dal 1945 al 1957, poi è diventato primo ministro jugoslavo. Nel 2005 viene accusato di crimini di guerra a Lubiana ma, dopo sessant’anni, le prove sono sparite. L’ex ammiraglio Rustja, Grande ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica italiana, è stato il braccio destro del comandante del IX Corpus titino che ha occupato Trieste nel maggio 1945. Nei quaranta giorni di terrore spariscono molti italiani. Vrhunec è commissario politico della brigata partigiana Lubiana, capo di gabinetto di Tito dal 1967 al 1973 e poi ambasciatore. Fino al 2016 rilascia interviste su YouTube e sui media sloveni difendendo il Maresciallo, i suoi massacri, la Jugoslavia socialista e mostrando numerose onorificenze, compresa quella italiana. Dopo mesi di inutili ricerche, nel 2019, la Farnesina ammette di non trovare «traccia della richiesta di accertare l’esistenza in vita dei decorati di Tito». Nella migliore delle ipotesi si è perso tutto nei meandri governativi. Nella peggiore, la richiesta è stata insabbiata per coprire i motivi politici che, ai tempi della Guerra fredda, ci hanno fatto considerare Tito un eroe da decorare. O forse per non fare cadere la maschera di chi, a sinistra e nel governo, non toglierebbe mai le medaglie al leader jugoslavo ed ai suoi sgherri. Estratto di Verità infoibate (Signs publishing), di Fausto Biloslavo e Matteo Carnieletto

Così iniziò il grande dramma degli italiani. Fausto Biloslavo, Matteo Carnieletto su Inside Over il 6 giugno 2021. Vogliamo raccontare gli orrori di Tito a Goli Otok, l’isola a due passi dall’Italia dove il maresciallo Tito imprigionò 30mila oppositori, tra cui centinaia di italiani. Vogliamo farlo attraverso lo sguardo del fotografo tre volte vincitore del World Press Photo, Ivo Saglietti, e le parole di Matteo Carnieletto, responsabile di InsideOver. «Gli esuli, schiacciati dalla persecuzione, compresero che sotto quel regime terroristico non sussistevano le possibilità di vivere né da italiani, né da cristiani, né semplicemente da uomini. L’esodo costituì un autentico, terribile plebiscito». Così si esprime, il 4 novembre 1964, l’istriano Gianni Bartoli, sindaco di Trieste, restituita alla madre Patria solamente dieci anni prima, dopo le dolorose mutilazioni territoriali della Seconda guerra mondiale. Parole dettate dal cuore e dal ricordo della triste e silenziosa fuga di oltre 300.000 connazionali dall’Istria e dalla Dalmazia che, dopo il 1945, vengono costretti ad abbandonare la loro terra occupata dai reparti partigiani jugoslavi del maresciallo Josip Broz Tito, per rifugiarsi in Italia o emigrare all’estero. Una brutta pagina della storia del nostro Paese, per alcuni versi ancora aperta, ma a lungo ignorata o sottovalutata. Dopo settantacinque anni è lecito chiedersi: come mai centinaia di migliaia di persone decisero di “votare con i piedi”, pur di scegliere l’Italia? Qual è stato il destino di questa massa di profughi e delle loro terre e cosa accade oggi in Istria e Dalmazia? (…) Dal 1945 al ‘49 si registra il flusso maggiore, ma i profughi continuano ad arrivare in Italia fino ai primi anni Cinquanta e oltre. Gli esuli censiti nel ‘58 sono 201.440 e, secondo padre Flaminio Rocchi, autore di un’opera monumentale sulla pagina strappata della storia d’Italia, altri 50mila muoiono per malattia o vecchiaia senza essere stati registrati, oppure si sono reinseriti autonomamente nella madre Patria. In ottantamila hanno scelto la via dell’esilio all’estero e 15mila sono esodati dopo il ‘58. Nell’immediato dopoguerra da Fiume fuggono 54mila italiani, da Pola 32mila, da Zara 20mila, da Capodistria 14mila. Gli esuli giunti in Italia vengono ospitati in 109 campi profughi. Dalle baracche sul Carso, l’altopiano che sovrasta Trieste, alle vecchie scuole della Sicilia, passando per le caserme di Torino e le ex colonie marine di Bari almeno 300mila istriani e dalmati vengono volutamente dispersi, perché le autorità li considerano pericolosi. «Volevano addirittura le impronte digitali – ricorda il francescano Rocchi testimone del dramma dell’esodo – Il nostro governo scambiava un sentimento forte di italianità che ci aveva portato a rifiutare la Jugoslavia e i suoi metodi con nazionalismo di marca fascista. Fu un brutto equivoco». A tal punto che il piroscafo Toscana, zeppo di esuli istriani, viene accolto a Venezia dal dileggio dei comunisti locali, che non credono alle foibe e al regime del terrore instaurato dal “compagno” Tito. Sul piano internazionale le cose non vanno meglio, nonostante gli jugoslavi siano stati costretti a lasciare Trieste il 12 giugno 1945 per lasciare posto alle truppe angloamericane, che hanno costituito il Governo militare alleato. Tre giorni prima il generale F. E. Morgan, capo di stato maggiore del quartier generale alleato per il Mediterraneo di Harold Alexander, si è accordato a Belgrado con gli uomini di Tito stabilendo due zone di provvisoria amministrazione. La Zona A che comprende Muggia, Trieste e il litorale fino a Monfalcone, sotto controllo alleato, e la Zona B che si estende dal fiume Quieto fino a Capodistria e Buie, sotto controllo jugoslavo. L’importante porto di Pola passa agli alleati e così avrebbe dovuto accadere per le città italiane della costa, ma non avverrà mai. Alle ore 11 del 10 febbraio del 1947, il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, firma il trattato di pace di Parigi che toglie definitivamente all’Italia quasi tutta l’Istria, Fiume e Zara. La Zona B, assieme alla Zona A, vanno a formare il Territorio libero di Trieste, anche se Tito continua a reclamare tutto, compreso il capoluogo giuliano. Il 20 marzo del ‘48, Francia, Inghilterra e Stati Uniti propongono il ritorno della Zona B all’Italia e accusano la Jugoslavia di non «garantire la tutela ed il rispetto dei fondamentali interessi del popolo del Territorio libero». Questa importante dichiarazione tripartita, che riaccende le speranze degli istriani, perde peso con lo strappo di Tito da Stalin e il segreto avvicinamento degli alleati a Belgrado in funzione anti sovietica. L’8 ottobre 1953, Inghilterra e Stati Uniti annunciano l’intenzione di lasciare la Zona A. Un anno più tardi, il Memorandum di Londra sancisce: «In vista del fatto che è stata constatata l’impossibilità di tradurre in atto le clausole del trattato di pace con l’Italia relative al Territorio libero di Trieste, gli angloamericani si ritirano. I governi italiano e jugoslavo estenderanno immediatamente la loro amministrazione civile sulla zona per la quale avranno la responsabilità». Ovvero l’Italia riacquista Trieste e Tito si impossessa della Zona B. 13 Verità infoibate. Le vittime, i carnefici, i silenzi della politica La perdita definitiva di quest’ultimo lembo d’Istria viene siglata alle 18.30 del 10 novembre 1975, a Osimo, uno sconosciuto paese delle Marche. Il ministro degli Esteri italiano, Mariano Rumor, firma il trattato che chiude le questioni territoriali con Belgrado assieme a Milos Minic, vice primo ministro jugoslavo. Con pochi colpi di penna, dal ‘47 a Osimo, sono andati perduti 219 città e paesi ita- liani e di un territorio di quasi 10.000 chilometri quadrati, che si estende fino al Carnaro e a Zara, sono rimaste all’Italia solo Gorizia e Trieste con un retroterra di 695,70 chilometri quadrati. Profetiche si sono rivelate le parole del parlamentare triestino Fausto Pecorari, già internato a Dachau dai nazisti che, intervenendo in aula contro la “pace ingiusta” del 1947 dichiarava: «Con questo trattato la civiltà italiana della sponda orientale dell’Adriatico sparirà, come è sparita in Dalmazia».

Foibe, l’orrore senza fine. Recuperate 814 vittime dei partigiani comunisti: anche suore e bambini. Sveva Ferri martedì 28 Luglio 2020 su Il Secolo d'Italia. È un orrore senza fine quello che emerge dalle foibe. Gli speleologi hanno infatti recuperato i resti di altre 814 vittime dalla foiba di Jazovka, nella regione di Zagabria, non lontana dal confine sloveno. Gli esperti incaricati del triste compito di recuperare le vittime dei partigiani di Tito hanno riconosciuto fra i resti anche numerose donne, fra le quali diverse suore, e diversi bambini.

“La sinistra cerca di minimizzare queste efferatezze”. Le operazioni di recupero si sono concluse lunedì 20 luglio, ma in Italia la notizia ha stentato a circolare. A rilanciarla sono state le associazioni di esuli e le realtà che preservano e divulgano la memoria di quella pulizia etnica che colpì gli italiani. “Queste iniziative di recupero sono utili per smontare il mito di un comunismo sociale e rispettoso della libertà del popolo”, ha sottolineato il direttore del Museo storico di Fiume, Marino Micich, accostando le foibe a ciò che avvenne nel “triangolo rosso”. “Bisogna insistere a far conoscere queste verità per il rispetto della storia e per la libertà. Per lunghi anni – ha concluso Micich – a sinistra si è cercato e si continua per molto versi a minimizzare tali efferatezze”. Non ultimo in questo senso il caso delle deliranti polemiche sollevate da Rifondazione comunista per l’intitolazione di un luogo pubblico di La Spezia a Norma Cossetto.

Una ricerca durata decenni. A ricostruire la storia delle indagini e dei ritrovamenti nella foiba di Jazovka, profonda circa 40 metri, è stata poi l’Unione degli Istriani, con un lungo post sulla sua pagina Facebook. Da lì si apprende che questa indagine era partita nel settembre del 2019 e le prime esumazioni risalgono al 13 luglio di quest’anno. Dunque, i lavori per riportare in superficie tutte le 814 vittime dei partigiani titini hanno richiesto una settimana. “Le ricerche e la riesumazione delle salme sono state possibili grazie alle richieste delle Associazioni dei veterani di guerra croate”, si legge ancora nel post dell’Unione degli Istriani. La prima ricerca delle vittime di questo massacro risale al 1989, a fronte delle prime denunce sulla sua esistenza avvenute un quindicennio prima.

Nelle foibe il massacro degli innocenti. Nel 1999, poi, di fu “una sorta di vera e propria catalogazione”, ma i resti non vennero rimossi da dove si trovavano. “La ricerca condotta nelle viscere della cavità rivelò che le vittime erano state legate con un filo di ferro prima di essere gettate nella fossa, dopo essere state colpite alla nuca. La maggior parte dei teschi rinvenuti presentavano fratture causate da un oggetto contundente”, spiega ancora l’Unione degli Istriani. Allora però il numero delle vittime era stato identificato in 476. Si trattò di un passaggio comunque fondamentale. Già all’epoca, infatti, i responsabili delle ricerche furono in grado di rivelare che le vittime erano state prelevate dai partigiani dall’ospedale Sv. Duh di Zagabria.

Le vittime prelevate in ospedale: feriti, medici, infermieri, suore. “Tra le vittime, insieme ai membri delle formazioni ustascia e dei domobranci catturati, c’erano i feriti, le infermiere e le suore prelevate dai partigiani dall’ospedale Santo Spirito (Sv. Duh) di Zagabria dopo la battaglia di Krašić, nel 1943, e poi nel maggio 1945″, spiega ancora l’Unione degli istriani. Fra le prime testimonianze che hanno consentito l’individuazione della foiba c’era quella del partigiano che guidava “la corriera della morte” e che, quando vide cosa succedeva alla fine del viaggio, si rifiutò di svolgere ancora quel compito.

Le foibe, un orrore senza fine: si cerca Jazovka 2. Ma l’orrore non sembra destinato a finire qui, sul fondo della foiba di Jazovka. Nei pressi di quella che ha appena restituito 814 vittime, infatti, ve ne sarebbe un’altra, chiamata Jazovka 2. “Dovrebbe contenere – spiega ancora l’Unione degli Istriani – altre centinaia di vittime”.  “Il piano ora – chiarisce l’associazione di esuli – è quello di condurre una nuova ricerca in questa cavità”.

“Vi racconto esodo e foibe”. Matteo Carnieletto su Inside Over il 3 giugno 2021. Vogliamo raccontare gli orrori di Tito a Goli Otok, l’isola a due passi dall’Italia dove il maresciallo Tito imprigionò 30mila oppositori, tra cui centinaia di italiani. Vogliamo farlo attraverso lo sguardo del fotografo tre volte vincitore del World Press Photo, Ivo Saglietti, e le parole di Matteo Carnieletto, responsabile di InsideOver. “Lo sento come un dovere, testimoniare è un dovere”. Mario Viscovi ha 93 e lo spirito di un ragazzo. Si illumina non appena gli si chiede di parlare della sua storia, della sua città di origine e, soprattutto, della sua famiglia.

Signor Viscovi, è passato tanto tempo da quando Albona è passata dall’Italia alla Jugoslavia. Come ha mantenuto e come è cambiato il suo attaccamento alla sua città di origine?

Riguardo a questo argomento, la mia vita ha attraversato tre fasi dopo l’esodo: c’è stata una reazione di irredentismo nel 1953 quando Pella ha radunato le truppe al confine ed io speravo nella guerra per riconquistare la nostra terra. Poi, con la maturità, la famiglia e l’impegno del lavoro, non dico che mi sono dimenticato – perché la ferita è sempre rimasta aperta – ma ho mitigato le mie emozioni. In seguito, con la vecchiaia, con l’acquisto di esperienza e con un po’ di saggezza in più, è tornato il grande desiderio di capire, di andare a fondo, di ricordare e ricostruire. Per quanto possibile, è giusto che tutto venga tramandato alle nuove generazioni, che non sanno neanche dov’è l’Istria, che pur è stata considerata Italia fin dai tempi di Dante e prima.

Mi racconti di lei, della sua vita. Più di tanti discorsi retorici e di parole, è la vita che conta…

Ho vissuto in Istria da quando sono nato fino a 18 anni, tranne il periodo in cui ero in collegio a Fiume dai Salesiani. Deve infatti sapere che in Albona, nella mia cittadina, non c’erano i licei e quindi, negli anni più duri della guerra, dovevo recarmi, anche con difficoltà, a Fiume. Ricordo che le strade erano minate e che c’erano tanti pericoli. Nel mio paese avevo la mia compagnia, gli amori giovanili e mi trovavo bene. Poi è successo il patatrac…

Cioè?

Una data infausta da ricordare agli italiani è l’8 settembre 1943. il significato più grave di quel giorno si è manifestato nelle nostre province. I capi sparirono all’improvviso e tutte le forze militari e dell’ordine si ritrovarono senza direttive. Non sapevano da che parte schierarsi. Mentre in Italia la situazione era chiara – o si restava col Re o sotto i tedeschi – da noi era incombente questo comunismo slavo ateo che ci faceva una paura da matti. Non avevamo scelta.

Come ha vissuto quei giorni?

Per me l’8 settembre 1943 è una data da tramandare a vergogna di ciò che è accaduto. Tra ragazzi cercavamo di fare qualcosa, di distinguerci con la coccarda italiana sul bavero, o di tagliare con le pinze i fili di comunicazione degli jugoslavi che avevano già occupato i territori. Erano cose piccole ma volevano essere un segno di rivolta. Appena finita la guerra in Italia – il 25 aprile, la liberazione – da noi era cominciata l’occupazione. Ci siamo trovati in una situazione peggiore della guerra. Qualsiasi scusa era buona per eliminare gli italiani.

E così anche la sua famiglia finì nel mirino…

La mia famiglia, come tantissime della Dalmazia e della Venezia Giulia, aveva più origini. Da parte di mamma, i Negri, siamo italianissimi fin dal 1500. Da parte di papà siamo italiani per lingua, cultura e nazione, ma non etnicamente. Il cognome Viscovi deriva da Viscovich. Come tanti altri nomi, l’origine è croata, tedesca e slovena. La cultura e la nazionalità erano tuttavia profondamente italiane.

Cosa accadde agli italiani dell’Istria?

Nel periodo compreso tra gli anni ‘20 e gli anni ‘40 dello scorso secolo, l’Italia fece grandi investimenti in Istria. Questi fruttarono un benessere e una ricchezza un po’ a tutti, agli slavi e agli italiani (i vecchi sopravvissuti se lo ricordano ancora, con nostalgia). In particolare a mio padre, che ricevette tante aziende dal nonno. Questa ricchezza era invidiata dai comunisti che nella loro logica portavano via le cose agli italiani per darle allo stato. Per prima cosa hanno messo in prigione mio papà e anche mio fratello maggiore che nel ‘45 aveva 20 anni, tre più di me. Quando si entrava in prigione, da noi, sotto i comunisti slavi, nessuno sapeva dove sarebbe finito. Tanti sono finiti in mare, nella baia di Santa Marina, affondati su una barca son dei massi legati ai corpi, oppure nella grande foiba dei Colombi, nel villaggio di Vines.

Cosa accadde a suo padre?

Ricordo che gli fecero il processo del popolo nella piazza principale del paese. C’era gente radunata che gridava in croato: “In foiba!”. Non avevano elementi concreti per accusarlo, quindi lo rimandarono a casa con il sequestro totale di tutti i beni.

Suo papà aveva qualche incarico politico o rapporto con i fascisti?

Mio papà non aveva nessun incarico. Durante la guerra, come tutti, era stato richiamato nella milizia antiaerea, prima a Trieste poi nelle nostre zone; proprio lui, che fra l’altro aveva un difetto alla vista, era stato chiamato per cercare di colpire gli aerei alleati!

Eppure molti storici, per lo più di sinistra, ritengono che le foibe furono una reazione contro i soprusi fascisti…

Negli anni tra il ‘30 e il ‘40, il 98% degli italiani era fascista. Pochi per amore, la maggior parte per convenienza, sennò non si poteva vivere, lavorare. Tutti portavano il distintivo del fascio, quindi anche mio padre e quasi tutti nel mio paese e del contado erano in questa situazione. Ma non furono messi in prigione per questo. Lo imprigionarono perché lo accusarono di essere un collaborazionista dei tedeschi, e non c’erano avvocati difensori. Papà non era un collaborazionista, ma l’obiettivo era quello di sequestrare tutti i suoi beni e di mandarlo via come italiano.

Altre persone della sua famiglia furono perseguitate dai titini?

In carcere mio fratello maggiore ha avuto uno choc fortissimo che gli ha lasciato un segno indelebile. Per uscire dalla prigione, un medico amico gli ha scritto un certificato di tifo, anche per impedire che fosse costretto ai lavori pesanti detti “volontari”. E’ rimasto a casa a letto. In seguito scoprì che, se fosse andato a Capodistria (un centinaio di chilometri a piedi), avrebbe potuto incontrare una signora che, dietro pagamento, lo avrebbe fatto passare clandestinamente dalla Jugoslavia allo Stato Libero di Trieste. Così fu fatto ed è riuscito a venire a Trieste nei primi giorni del ‘47, e poi a Udine, dove io ero arrivato nell’ottobre del 1946. Mia sorella, la terza di noi, è riuscita ad imbarcarsi sulla motonave Toscana ed è sbarcata a Trieste dopo il 10 febbraio 1947. E’ venuta con noi in una famiglia che ci aveva accolti con molto affetto. Mio fratello maggiore, per ripagare un po’ quella famiglia, si era organizzato con altre persone perseguitate: facevano contrabbando. Andavano in treno verso l’Austria, poi superando le montagne d’inverno a piedi, prendevano pietre focaie e copertoni da rivendere a Udine. Alla fine di maggio del ‘47 sono venuti con un permesso anche mio papà, mia mamma e mio fratello minore.

E poi?

Da noi la guerra non è finita nel ‘45 perché infoibamenti sono continuati anche dopo. Le dico una mia convinzione importante: iI nazionalismo e l’odio ideologico disgregano anche le stesse famiglie. Il nostro cognome – Viscovich, poi diventato Viscovi – proviene da San Lorenzo d’Albona. Durante la guerra, dal ‘43 in poi, mio nonno ha avuto un rigurgito di nazionalismo croato. Ha anche aiutato i partigiani nei boschi. Finita la guerra l’hanno fatto sindaco della città, ha ricoperto quel ruolo per alcuni mesi finché non lo hanno destituito perché si era permesso di mandare al comando dei partigiani delle lettere di protesta. Alcuni miliziani entravano nelle case degli italiani portando via le persone e portando via dei beni senza lasciare ricevuta. Inviando queste lettere lui aveva dimostrato coraggio. In seguito a ciò è stato messo da parte, ed è stato costretto a vivere in ristrettezze e da solo. Nel ‘51 è morto. La popolazione che lo conosceva – e che lo aveva stimato perché aveva creato centinaia di posti di lavoro – gli ha tributato un funerale memorabile. E’ morto però abbandonato e disperato: figli e nipoti tutti esuli nel mondo.

Come siete stati accolti dall’Italia?

La maggior parte degli esuli è passata attraverso i campi profughi, dove non si viveva bene. A cominciare dal Silos di Trieste e a tutti quelli presenti nel resto d’Italia. Noi abbiamo avuto questa grande fortuna: tutta la mia famiglia si è radunata vicino a Udine, dove ero rifugiato. Questa famiglia che mi ha accolto non poteva aiutarci tutti ma conosceva bene una signora nobile che aveva una villa situata tra le colline sopra Udine. Il suo parco, bellissimo, era stato sequestrato dagli americani che lo avevano trasformato in comando militare. Quando siamo arrivati noi, a metà del ‘47, gli americani se ne erano andati lasciando la villa in una condizione pietosa. Noi, felicissimi, siamo andati in questa villa. Fu il nostro primo rifugio.

E poi?

Piano piano abbiamo frequentato le scuole, ci siamo cercati un lavoro e così via. Mio fratello maggiore è andato in Australia, io ho ricevuto una borsa di studio per fare ingegneria a Siena ma l’ho rifiutata per lavorare e aiutare la mia famiglia. Abbiamo cambiato casa, ne abbiamo trovata una in affitto a Udine. Nel ‘50 la Shell ci ha cercati e ci ha dato una pompa di benzina sul piazzale della stazione di Treviso. Io e mio papà vi siamo andati in treno con la speranza di essere accettati, con la paura di tornare a Udine a mani vuote. Ci hanno subito dato delle tute e messi al lavoro. Eravamo felici di aver trovato questo impiego.

Non ci sono stati però solo momenti felici…

Nel ‘49 dopo la maturità scientifica sono stato nel Collegio Filzi, dove facevo l’istitutore. Forse a causa di ristrettezze alimentari, presi la tubercolosi. All’epoca era come la lebbra, era contagiosa e tutti ti tenevano lontano. E’ uno dei marchi che mi è rimasto impresso. Ho ancora i segni nei polmoni. Poi sono guarito. Mentre ero a Grado in ospedale è arrivata la streptomicina. Così è stata debellata la malattia, che ha richiesto una lunga convalescenza. Pian piano ho ricominciato a frequentare l’università a Trieste.

E’ in questi anni, se non sbaglio, che conosce quella che sarebbe poi diventata la sua futura moglie…

Esatto, qui, tra Udine e Trieste, ho trovato la donna della mia vita. Ci siamo conosciuti. Avevamo un traguardo lontanissimo, per cui abbiamo iniziato ufficiosamente e poi ufficialmente a essere fidanzati, dal ‘53 fino al ‘58. in questi 5 anni abbiamo avuto la fortuna di vivere sempre lontani con grande ardore di essere vicini. Ci vedevamo saltuariamente perché non avevamo soldi, soprattutto io. La lontananza di un amore grande e il fatto di non poterlo vivere assieme, è stata una grande privazione ma ci ha aiutato moltissimo in seguito. Vorrei trasmettere questi valori ai miei nipoti.

Dopo l’università sono arrivati gli anni della rinascita…

Appena laureato ho trovato immediatamente lavoro. L’Italia era in ginocchio ma c’era il giusto spirito di voler ricominciare. Ho trovato lavoro nel settore dei rivestimenti anticorrosivi. Mi hanno mandato in Inghilterra e nel Galles, dove un’azienda aveva sviluppato questi materiali. Dopo qualche anno, ero già sposato, ho trovato un’opportunità migliore e sono passato all’industria dell’acciaio inossidabile. Mi sono innamorato del nuovo lavoro e mi hanno mandato in giro per tutta l’Europa, proprio quando stava crescendo la Comunità del Carbone e dell’Acciaio. Intorno al ‘63 mi è stata offerta la possibilità di essere il fondatore di un centro di amalgama per tutti i produttori italiani di acciaio inossidabile, che esiste tutt’ora.

Ma non di solo pane vive l’uomo…

Nel ‘59 ci è nato il primo figlio. In quelle condizioni io e mia moglie cercavamo a Milano luoghi culturalmente validi. Per caso, un compagno di liceo di mia moglie, ingegnere alla Pirelli, ci ha portati a conoscere un ambiente di una congregazione cattolica di giovani donne che si dedicavano all’accoglienza degli studenti d’oltremare per aiutarli a capire e diventare cristiani praticanti. Lì ci siamo trovati benissimo. Questo collega ci ha fatto conoscere anche un centro dell’Opus Dei e sono rimasto colpito da una cosa: poter essere buoni cristiani pur facendo carriera nella propria professione lavorando bene e intensamente. Questo mi è piaciuto molto. E poco dopo anche mia moglie ha apprezzato quella spiritualità per il grande valore che riconosce alla famiglia. E’ stata una svolta della mia vita. Abbiamo poi avuto una figlia, poi un terzo e poi ancora una bambina. Questa piccola è nata nella notte tra il 13 e il 14 febbraio 1966. Quella notte, appena partorita la bambina, mia moglie ha cominciato a perdere sangue, e così per due giorni. Alla fine del secondo giorno era esausta, c’era il forte rischio che morisse. Non sapevamo cosa fare. Ho avuto la grazia per l’intercessione di una ragazza di 16 anni, morta di cancro in quegli anni: Monserrat Grases Garcia. Abbiamo dato questo nome a mia figlia. Riuscimmo a trovare il sangue necessario e mia moglie fu tenuta in vita. Consideriamo questo un miracolo.

E poi?

Abbiamo iniziato a collaborare alle attività di carattere apostolico dell’Opera attraverso i corsi per coppie di orientamento familiare. Facevamo conoscere agli amici, giovani e sposati, l’importanza di prepararsi per vivere una famiglia cristiana, felice, feconda e forte. Con questo lavoro abbiamo conosciuto moltissime persone e con loro abbiamo creato decine e decine di centri di orientamento familiare in tutta Italia. Da qui ci è venuta voglia di fare una scuola per i nostri figli. Il primo agosto del 1974 è nata l’Associazione FAES, Famiglia e Scuola, dalla quale solo sorte alcune scuole. Alcune esistono ancora e fanno del bene, come quelle a Milano. Ho potuto sviluppare collegamenti con enti educativi di tutta Europa. Alla fine del 1983 a Lussemburgo è nata la European Parents’ Association (EPA). Abbiamo fatto un grande lavoro, e ancora adesso ho tanti legami e conservo ricordi bellissimi. Sono rimasto nel FAES fino al pensionamento, quindi mi sono dedicato a famiglia e nipoti. In vecchiaia mi è tornata la nostalgia della mia patria istriana, della storia e dei contatti, per cui mi sono documentato in maniera particolare, anche aiutando un amico rimasto ad Albona per le sue pubblicazioni di carattere storico e sociale.

Cosa direbbe ai giovani che si avvicinano ai racconti dell’esodo?

Nell’ultimo incontro che ho tenuto in un liceo di Milano, ho terminato l’evento con queste parole: “Ieri il capo dello stato, Mattarella, ha detto per il giorno del ricordo: Mai più odio ideologico, etnico e sociale – e ho continuato – Oggi, 10 febbraio, sono andato a Messa per gli infoibati e per gli infoibatori. Il Vangelo della Messa terminava con queste parole di san Marco: Se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate perché anche il Padre che è nei cieli perdoni a voi le vostre colpe.”

Il lato segreto di Tito. Inside Over l'1 giugno 2021. Vogliamo raccontare gli orrori di Tito a Goli Otok, l’isola a due passi dall’Italia dove il maresciallo Tito imprigionò 30mila oppositori, tra cui centinaia di italiani. Vogliamo farlo attraverso lo sguardo del fotografo tre volte vincitore del World Press Photo, Ivo Saglietti, e le parole di Matteo Carnieletto, responsabile di InsideOver. Le immagini in bianco e nero dell’Istituto Luce mostrano l’arrivo di Tito in Italia il 25 marzo 1971. Ad accoglierlo nella capitale ci sono i più importanti rappresentanti politici di allora: «Aeroporto di Ciampino. Per questo aereo sono in attesa tutte le più alte cariche dello Stato: da Saragat a Colombo a De Martino, Perti ni, Fanfani e Moro. L’aereo è un Caravelle ornato con stelle rosse. Viene da Belgrado, Jugoslavia, e porta un ospite che, per la prima volta, giunge in visita ufficiale in Italia. Un capo di Stato discusso ma singolare. L’ospite, eccolo, è Josip Broz, detto Tito, presidente della Repubblica federativa di Jugoslavia, un Paese di venti milioni di abitanti (serbi, sloveni e croati), una decina di minoranze etniche, tutte riconosciute. Unico Paese, insieme alla Cina, che si è dato il comunismo senza l’intervento delle armate sovietiche. Come risultato è stato scomunicato da Mosca nel ‘48, ma non ne ha certamente sofferto. Tito, 69 anni, incedere solenne per coprire gli acciacchi, è l’uomo che guida la Jugoslavia. Ha fatto la guerra contro i tedeschi trent’anni fa, ha detto no a Stalin meno di dieci anni dopo. A Belgrado è un leader indiscusso. Ha stemperato il comunismo degli anni ‘45 in un socialismo che significa due cose: maggiore libertà interna, indipendenza e neutralità sul piano internazionale. Certo, la Jugoslavia ha bisogno di amici, ma preferisce, e di molto, quelli europei, l’Italia soprattutto, che gli apre più di uno spiraglio sul Mec (il Mercato europeo comune, nda). Ha detto Tito, appena arrivato: “Questo incontro getta una prima pietra. È una pietra tolta dal piedistallo di Mosca. È una prima pietra che conta”». Tito sorride mentre incontra i vertici politici del nostro Paese. Tutti lo accolgono a braccia aperte come se, dall’altra parte dell’Adriatico, non fosse successo nulla. Come se trecentomila esuli non avessero mai attraversato i confini per scampare alle violenze delle bande titine e per non vivere sotto il regime comunista. Come se gli oltre diecimila morti delle foibe non fossero mai esistiti. I diari del Quirinale sono molto scarni: «Il presidente della Repubblica riceve in udienza. Visita di Stato del presidente della Repubblica socialista federativa di Jugoslavia e della Signora Broz (25-27 e 29 marzo 1971). Impegni del presidente della Repubblica. Visita di Stato del presidente della Repubblica socialista federativa di Jugoslavia e della Signora Broz (25-27 marzo e 29 marzo 1971). Incontro privato a Castelporziano». A parlare sono le immagini (oltre trecentosessanta): il maresciallo (e consorte) vengono immortalati come delle star. Sono ben vestiti, e non può essere altrimenti. Durante i ricevimenti ufficiali, Tito e signora non disdegnano i simboli della borghesia, come lo smoking e l’abito lungo (e rigorosamente firmato). Non solo perché il cerimoniale lo prevede, ma perché Tito e Jovanka sono grandi amanti del lusso creato dal tanto vituperato mondo capitalista. Grazie all’Album d’oro, una mostra organizzata a Belgrado nel 2011, è possibile ricostruire il guardaroba della coppia: Tito ha una grande collezione di cravatte firmate Dior, Yves Saint Laurent, Hermes, ma pure alcune realizzate da sarti di casa sua, che le disegnano per lui con i colori della Jugoslavia. In Italia, oltre ai cappelli, fa acquistare i guanti di cuoio Graziella, calzini finissimi e mutande di seta. Per i ricevimenti di gala all’estero sfoggia un frac su misura con papillon bianco e, per le serate più “mondane”, ha una sfilza di smoking. Come cappotti ama gli eleganti Chesterfield britannici. E non si separa mai dal vizio dei sigari cubani. Dallo Shah di Persia, all’imperatore Hailé Selassié, alla regina Elisabetta, l’ex capo partigiano ama non sfigurare. A Belgrado, nel 1957, Simone Signoret, lo definisce «un gentleman molto raffinato (…) con un diamante sulla cravatta». Tito, però, non ha problemi a passare dai panni del “dandy” a quello del Maresciallo in alta uniforme o cacciatore di tutte le latitudini. La manìa per le divise inventate per lui, con grandi alamari, decorazioni varie e colori a tono, gli servono come “arma” psicologica o diplomatica. Ad un suo bio grafo confessa che «in un Paese contadino c’è grande rispetto per il leader in battaglia e le sue divise». Quando accoglie i russi a Belgrado nel 1955, durante una visita di riconciliazione, il New York Times scrive che «la sua sfavillante divisa blu con alamari d’oro» fa un figurone di fronte ai «grigi completi dei leader sovietici». La signora Broz, che ha ben presto dimenticato la vita spartana da partigiana, non è da meno. Non disdegna i completi Chanel mentre Dior custodisce il busto di Jovanka nel suo atelier di Parigi. Lo stesso fa Klara Rothschild a Budapest. Del resto, Dusica Knezevic, curatrice della mostra sull’abbigliamento della coppia al vertice jugoslavo spiega in un’intervista al Giornale: «Jovanka, dopo il matrimonio con Tito, cambiò radicalmente. Nuove eccezionali acconciature, il trucco (a cominciare dal rossetto di Dior), moltissimi gioielli ed una serie di ottimi vestiti. Era l’unica in Jugoslavia a quel tempo che portava dei cappellini». Jovanka ama le tinte leggere in contrasto con i dettagli forti colorati di violetto, rosso, giallo o arancio. Scarpe di lusso e borsette in pelle di serpente sono un altro vezzo. In qualche maniera prova a coniare una specie di stile alla Hollywood in salsa socialista: la sua eleganza, i gioielli, le acconciature ed il trucco si mescolano alle uniformi guascone del marito, che sa fare anche il damerino. Soprattutto agli occhi del mondo esterno, perché in patria, con Tito al potere, gran parte delle fotografie della mostra e dello sfavillante guardaroba sono rimasti un tabù. Estratto di Verità infoibate (Signs publishing), di Fausto Biloslavo e Matteo Carnieletto

Il carcere dimenticato di Tito. Matteo Carnieletto su Inside Over il 31 maggio 2021. Vogliamo raccontare gli orrori di Tito a Goli Otok, l’isola a due passi dall’Italia dove il maresciallo Tito imprigionò 30mila oppositori, tra cui centinaia di italiani. Vogliamo farlo attraverso lo sguardo del fotografo tre volte vincitore del World Press Photo, Ivo Saglietti, e le parole di Matteo Carnieletto, responsabile di InsideOver. Da lontano Goli Otok sembra un’isola come tante, forse solo un po’ più brutta. Guardandola mentre solcavano il mare, gli uomini hanno iniziato a chiamarla “isola calva” perché su questo scoglio che sorge in mezzo all’Adriatico ogni forma di vita fatica a crescere. La natura infatti – fatta eccezione per alcuni arbusti ostinati – si spegne in poco tempo. D’estate il sole martella le rocce. D’inverno la bora le ghiaccia. Nessuno ha mai provato ad abitare qui. Nessuno ha mai osato restare più di qualche giorno a Goli Otok. Almeno fino al 1948. In quell’anno, infatti, ci furono insoliti viaggi verso l’isola. Moltissimi dissidenti – per lo più jugoslavi rimasti fedeli all’Unione sovietica, e pure centinaia di italiani – vennero portati nel campo di rieducazione che Josip Broz Tito, il Maresciallo, aveva allestito in fretta e furia con lo scopo di “rieducarli”. Che colpa avevano queste persone? Perché finirono in uno dei peggiori campi di concentramento che la storia ricordi? Erano comunisti di stretta osservanza che, per un tragico gioco del destino, si erano trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato. Nel 1948, infatti, si era consumato lo strappo tra l’Unione sovietica e la Jugoslavia socialista e chi decise di stare con l’Urss venne internato da Tito perché percepito come un nemico del popolo. Scrive Orietta Moscarda Oblak: “La maggioranza, tra cui molti immigrati politici (in primis i “monfalconesi”) venuti in Jugoslavia a ‘costruire il socialismo’, si schierarono dalla parte di Stalin. (…) Nei confronti dei ‘cominformisti’ le autorità jugoslave avviarono una violenta epurazione, che lasciò ai comunisti italiani, schieratisi quasi compattamente con Stalin, la sola via dell’emigrazione, attraverso la richiesta d’opzione a favore della cittadinanza italiana prevista dalle clausole del Trattato di pace, quale possibilità di scampare ai processi, alle condanne al "lavoro socialmente utile" e alla deportazione nel campo di prigionia dell’Isola Calva (Goli Otok)”. Immaginare la vita in questo campo di concentramento è quasi impossibile, nonostante i ricordi di chi ha avuto la sventura di finire sull’isola siano più lucidi che mai. Una sorta di girone infernale dove tutto doveva esser fatto di fretta, come ricorda Silverio Cossetto: “Tutto il lavoro doveva esser fatto sempre di corsa. Chi, come me, non era abituato ai lavori pesanti se la passava veramente male. Per ogni minima infrazione erano pronte le più severe punizioni. Tutto era predisposto al fine di demolire, non solo fisicamente, ma soprattutto moralmente anche la più forte personalità. A questo scopo erano stati studiati ogni sorta di espedienti, tra i quali figurava anche la sete”. Ma non solo: le botte accompagnavano i detenuti. Si veniva accolti dal cosiddetto kroz stroj, ovvero “attraverso la fila”, un tunnel in cui coloro che si trovavano da più tempo sull’isola pestavano i nuovi arrivati. Il lavoro serviva ad annichilire non solo il corpo, ma anche l’animo dei detenuti, affinché si convertissero al socialismo jugoslavo. Gli anni del terrore furono sette e tutti in autogestione, come ricorda Eligio Zanini: “Si venne a sapere in seguito che tra i campi organizzati dai vari regimi totalitari i nostri erano di gran lunga i più efficienti, in quanto erano gli stessi detenuti a controllarsi, bastornarsi, denunciarsi e autoamministrarsi, facendosi del male tra di loro”. Oggi Goli Otok è tornata ad essere l’isola calva, abitata solamente di arbusti e pietraie. Le baracche dove trovavano effimero riposo i detenuti sono ormai distrutte e le barche la guardano con diffidenza. Restano soltanto i fantasmi di un orrore dimenticato. Che però non è mai scomparso.

L'ultimo sfregio degli antifa: "No foibe no party". A Genova spuntano dei manifesti che inneggiano alle foibe. L'unione degli istriani: "Un'azione che tutti dovrebbero denunciare". Matteo Carnieletto - Dom, 07/03/2021 - su Il Giornale. A distanza di 75 anni c'è ancora non solo chi nega le foibe, ma addirittura chi inneggia ad esse. Non solo il 10 febbraio, quando si commemora il Giorno del Ricordo, ma tutto l'anno. Per la sinistra più radicale, infatti, le cavità carsiche in cui furono gettati gli italiani a guerra finita sono un pensiero fisso. Quasi un desiderio che non si è mai del tutto realizzato. E così questa mattina Genova si è svegliata tappezzata di manifesti, ovviamente abusivi, in cui si inneggia alle foibe. Lo ha annunciato l'Unione degli istriani, postando le immagini su Facebook: "Nel capoluogo ligure sono stati affissi nelle scorse ore alcuni manifestini abusivi dal chiaro messaggio oltraggioso dei nostri drammi. 'No Foibe, no party', si legge sui placati lordati di stella rossa, firmati 'Genova antifascista', che hanno infastidito e indignato molti di noi. Come sempre, quando si tratta di offese a danno delle nostre tragiche vicende, la legge è magnanima, al punto che questa iniziativa non costituisce reato alcuno". L'Unione degli istriani fa poi notare il doppiopesismo che, sempre di più, viene portato avanti in queste occasioni: "Ben diverso sarebbe stato qualora oggetto dell'ingiuria fossero stati i campi di sterminio nazisti". Massimiliano Lacota, presidente dell'Unione, afferma al Giornale.it: "Si tratta di una iniziativa che, al contrario di coloro che vorrebbero minimizzare, va invece denunciata e sulla cui condanna dovrebbero essere d'accordo tutte le istituzioni regionali e cittadine, così come le forze politiche. Dopodiché sappiamo bene che rimarrà beatamente impunità, anche qualora gli autori materiali dovessero rivendicarla, perché nel nostro Paese si possono offendere i nostri drammi liberamente, senza commettere alcun reato. Ed è proprio su questo punto che va fatta una riflessione seria". Già, perché le vittime delle foibe sono ancora considerati morti di serie B.

Dopo le foibe la Resistenza: un libro smonta le tesi di Pansa. Laterza è ormai la casa editrice dell’Anpi. Adele Sirocchi sabato 6 Marzo 2021 su Il Secolo d'Italia. Bisogna “rinsaldare gli anticorpi dell’antifascismo”. Questo lo scopo del libretto che Laterza dà alle stampe dopo quello di Eric Gobetti teso a minimizzare il dramma delle foibe.  Si intitola “Anche i partigiani però” e si presenta come un’operazione di fact checking per ristabilire la verità sulla Resistenza. L’autrice del libro, Chiara Colombini, lavora all’Istituto storico della Resistenza di Torino. Non proprio una voce super partes. Ma come sempre avviene dalle parti della sinistra, la verità ideologica si sovrappone al vero e fanno tutt’uno. Il libro, che in sostanza è un’apologia della Resistenza fondata sul principio aprioristico che i partigiani non hanno mai commesso atrocità, viene salutato con entusiasmo dal Fatto: “Un piccolo manuale di difesa delle idee e che restituisce le giuste ragioni a chi ha sempre avuto ragione”. Guai a dare spazio alle “ragioni dei vinti”, si finisce con l’oscurare un “mito”, quello resistenziale, che deve continuare ad essere fondativo dell’etica collettiva. “Si sta affermando – commenta su La Verità Francesco Borgonovo –  la tendenza a cancellare i pur piccoli passi avanti compiuti negli anni passati verso un’interpretazione meno ideologica della Storia. Tra la fine dei Novanta e i primi Duemila, complice il ritorno del centrodestra al governo e grazie all’enorme successo del Sangue dei vinti di Giampaolo Pansa, si cominciò ad affrontare pubblicamente il lato oscuro della resistenza. … Libro dopo libro, ricerca dopo ricerca, il muro di silenzio edificato dalla retorica resistenziale aveva iniziato a mostrare segni di cedimento. Ora, però, qualcosa sta di nuovo cambiando. La sinistra, trovandosi in profonda crisi, si è aggrappata con le unghie all’unico baluardo di unità che ancora le rimanga: l’antifascismo”. Purtroppo voci libere come quella di Giampaolo Pansa stentano a levarsi. E Pansa così definiva la Resistenza in un’intervista al Secolo d’Italia: “Non fu un movimento popolare. Fu un fenomeno ristretto a una minoranza che decise di prendere le armi. L’intera guerra civile fu una guerra combattuta tra due minoranze”. Altra cosa è l’epica resistenziale, di cui ha bisogno l’Anpi per giustificare i soldi pubblici che continua a prendere. Non a caso il libro della Colombini va forte in quel circuito e saranno le sedi dell’Anpi a divulgarlo, presentarlo, caldeggiarlo. L’autrice – continua Borgonovo – “riesce a giustificare «collocandoli nel loro contesto» i fatti di sangue del triangolo della morte emiliano, sostiene perfino che appendere per i piedi Benito Mussolini e Claretta Petacci a piazzale Loreto fu inevitabile, quasi un atto di pietà per evitare lo scempio dei cadaveri. È un tentativo, l’ennesimo, di negare dignità a un pezzo d’Italia. La Colombini sostiene che la memoria della resistenza sia sotto attacco: in realtà è ancora dominante più o meno ovunque. Tentare di scalfirla e di svelarne le bugie significa semplicemente ristabilire la verità storica, e ridare dignità a tante vittime innocenti di una lotta che troppo spesso è stata prima comunista e poi «di liberazione»”.

Foibe, Pansa: «L’Anpi è un club di trinariciuti comunisti che dicono solo falsità». Desiree Ragazzi martedì 5 Febbraio 2019 su Il Secolo d'Italia. «Quelli dell’Anpi non contano un cazzo. Straparlano. Sono un club di trinariciuti comunisti». Giampaolo Pansa proprio non ci sta a sentire le fandonie e le falsità che in questi giorni circolano sulle foibe. Prima il post revisionista dell’Anpi di Rovigo, poi la sponsorizzazione e partecipazione dei partigiani a una conferenza negazionista a Parma. La Giornata del Ricordo si avvicina e lo scontro con l’Anpi si fa sempre più forte. «Vogliono negare che Tito era un dittatore comunista – dice Pansa – Ma non possono farlo perché è storia. Vogliono negare che le squadre comuniste gettavano la gente che non amava Tito dentro le foibe. Ma non possono farlo perché è storia. Quelli dell’Anpi dicono e fanno delle cose che sono di un’assurdità totale». Dell’Anpi ne parla anche nel suo ultimo libro Quel fascista di Pansa (Ed. Rizzoli) dove racconta le accuse e gli insulti che accompagnarono la pubblicazione nel 2003 del Sangue dei vinti. «Quel libro era dedicato alle vendette compiute dai partigiani trionfanti sui fascisti repubblicani sconfitti – scrive il giornalista nella sinossi del libro – Segnò l’inizio di una serie di vicende che in qualche modo riflettono l’Italia entrata nei nevrotici anni Duemila. Prima di tutto non sono stato ritenuto un rosso come credevo di essere, bensì un nero: Pansa il fascista ha gettato la maschera. Questo accese la rabbia di una serie di eccellenze presunte democratiche, più ridicole che tragiche. Venni aggredito e messo all’indice da parrocchie politiche che prima stravedevano per me e volevano eleggermi in Parlamento». È un libraccio che racconta la verità su questa Italia del cazzo. Ai comunisti dico: attaccatemi. E più mi attaccherete, più copie venderò. Nel libro scrivo che dopo molti anni si vede con chiarezza l’assurdità paradossale della sinistra italiana nella Prima Repubblica. C’erano il Partito comunista, il Partito socialista e il Partito socialdemocratico. Poi esisteva un quarto partito: l’Anpi.

Che cosa sapevano gli italiani dell’Anpi?

«Quasi niente, anche i suoi dirigenti erano pressoché ignoti. E soprattutto nessuno di loro poteva essere sottoposto a una valutazione dell’opinione pubblica…»

Lei scrive che la crisi della sinistra italiana non è un guaio del 2019 perché risale nell’immediato dopoguerra.
«
I comunisti e tutta la sinistra non hanno più voce in capitolo. Sono in rotta di collisione con la verità e la storia. Ecco perché parlare oggi di Anpi è anacronistico. In un certo modo è come parlare dei superstiti di Garibaldi che cento anni dopo parlano dello sbarco dei garibaldini…»

La sinistra quando deve ricordare i crimini commessi dai comunisti ha sempre l’orticaria…

«Si vergogna di essere nata da una costola del comunismo internazionale. E, quindi, si ostina  a negare, negare, negare. E a dire che non è assolutamente vero che furono commessi crimini atroci. Oggi negano le foibe, ma qualcuno dentro c’è morto ed era gente che non piegava la testa ai soldati di Tito».
Montaruli (Fdi): "Il silenzio sulle foibe? Un'ingiustizia dell'Italia". Negazionismo e riduzionismo: il 10 febbraio è ormai trascorso, ma della pacificazione nazionale sulle foibe non c'è ancora traccia: anche quest'anno pioggia di critiche e strumentalizzazioni da sinistra. Francesco Boezi - Sabato, 20/02/2021 - su Il Giornale.  "Una mancata e corretta discussione sul tema delle foibe e la manipolazione dei libri di storia sono stati la motivazione di molti, me compresa, per iniziare a partecipare alla militanza politica. Ricordo quando chiesi alla mia docente cosa fossero le foibe e perché non se ne parlasse. Lei sorvolava e minimizzava richiamando la natura carsica dei luoghi. Quando mi iscrissi ad Azione giovani (movimento giovanile di Alleanza Nazionale, ndr) si stava elaborando proprio un libretto. Un testo attraverso cui venivano denunciati i falsi storici nei libri di scuola. Sapevo cosa fossero le foibe e il dramma dell’esodo grazie a mia nonna, che mi ammoniva a portare rispetto per le persone che vivevano nelle case popolari conferite agli esuli. Molti però davvero non conoscevano questo pezzo di storia". Così, l'onorevole Augusta Montaruli, ora parlamentare di Fratelli d'Italia, ha iniziato a fare politica. Un moto interiore - una spinta vocazionale - può nascere per via della percezione di un profondo senso d'ingiustizia. E le pagine mancanti nei libri di storia, spesso e volentieri, provocano sgomento. Per un po' di tempo, il dramma delle foibe è stato denunciato da una sola parte politica. Ora ci si augura che, prima o poi, si giunga alla pacificazione nazionale. Ma non sembra un'operazione semplice. Tutt'oggi si assiste a tentativi di riduzionismo storiografico o persino di negazionismo. Anche quest'anno, pure gravitando sui social network, gli italiani hanno potuto constatare gli effetti pratici di un'operazione culturale che sembra voler ridimensionare la nattura drammatica delle "Verità infoibate", come le hanno chiamate Fausto Biloslavo e Matteo Carnieletto, nel libro uscito poco fa in edicola, in allegato a IlGiornale. La Montaruli è stata fortunata, per così dire. Perché il racconto di una nonna vale forse dieci libri di storia. Le case donate a Torino agli esuli erano tangibili. Le foibe, per tanti, erano un punto di domanda, una supposizione o persino un'invenzione. Non tutta la generazione della Montaruli, e neppure quelle successive, però, ha avuto contezza della portata drammatica di una fase della nostra storia patria che spesso viene saltata a piè pari. Magari per via dell'inopportunità di interrogarsi su certi passaggi: "Trovare i ragazzi di Azione Giovani - ci dice Augusta Montaruli - fu come trovare dei miei simili. Facemmo subita la battaglia per il libro di testo non obbligatorio". Come possono essere obbligatori, del resto, dei testi scolastici che preferiscono gli omissis sistematici? Verità infoibate dimostra che purtroppo c'è ancora da scavare. Le statistiche sulle foibe non sembrano essere state ancora sciorinate. C'è - chi ha letto il libro lo sa - chi si domanda ancora che fine abbia fatto il padre. Se non altro perché in alcune circostanze si è costretti a fare i conti con identità scomparse. Con persone che non si trovano più. Già, l'identità: la parola che forse lega meglio alle vicende esistenziali degli infoibati e degli esuli istriano-dalmati. Perché la loro colpa - come si è detto e scritto tante volte - è stata solo quella di essere italiani. Non la pensano tutti così, pensate. Ma per le forze politiche che hanno fatto sì che il 10 febbraio divenisse il Giorno del ricordo dubbi non ce ne sono. Per istituire quella solennità civile c'è voluto tempo, sforzo e pazienza: è stato l'ultimo governo presieduto da Silvio Berlusconi ad assecondare quella volontà. E i blocchi degli anni precedenti al 2004? La Montaruli fornisce un giudizio netto: "Una vera e propria ingiustizia in cui grande responsabilità ebbe anche lo Stato italiano. L’estremo ritardo in cui avvenne l’approvazione della Giornata del ricordo dopo decenni di silenzio e le verità negate hanno rappresentato per noi una ferita, ma in quella storia noi troviamo anche l’amor di Patria, l’orgoglio di essere italiani, il valore dell’attaccamento per la propria terra che in chiave commemorativa rappresenta ancora le bandiere di Istria Fiume e Dalmazia". Non che la situazione odierna sembri essere migiliore. Anzi, stando a quello che ha tirato fuori la parlamentare del partito guidato da Giorgia Meloni, pare proprio di poter dire che il politicamente corretto si è alleato con chi teme la verità: "Spiace - continua la Montaruli, riferendosi alla memoria delle bandiere - che a non pensarla così sia il Ministero degli Esteri che quest’anno in un documento ha affermato di ritenere inopportuna l’esposizione di quei vessilli adducendo che ciò avrebbe creato polemiche con Slovenia e Croazia e quindi accettando e subendo una narrazione errata. Per impedire che episodi come questo si ripetano ha un senso la nostra militanza politica e presenza nelle Istituzioni". Insomma, ogni dieci febbraio c'è qualche istituzione che svirgola la necessità di ricordare punto e basta. Ascoltando la Montaruli, si apprende che il 2021 non fa eccezione: "Purtroppo ancora una volta abbiamo assistito a forme di negazionismo o del più subdolo giustificazionismo. A Torino, l’Anpi, anziche preoccuparsi di come una targa era stata distrutta anni prima, polemizza perché è stata ricostruita, a spese nostre peraltro. i secessionisti di Suedtiroler Freiheit hanno tacciato il film Rosso Istria proiettato nel comune di Merano come "propaganda fascista". Un autore che non voglio neanche citare nel suo libro dice che nella foiba di Basovizza non vi è certezza vi siano stati morti. Non ci siamo". Gli anni passano, ma della pacificazione di cui sopra non c'è l'ombra.

Le Foibe dimenticate: i nomi delle 61 vittime salentine. Antonio Greco il 10 febbraio 2021 su salentolive24.it C’è chi – come il professore triestino Paolo Bardi – l’ha definita la congiura del silenzio. Quasi a sottolineare con forza il silenzio assordante su una delle pagine più tristi in cui sono rimaste vittime migliaia di italiani. Le Foibe – profonde spaccature naturali del terreno rintracciabili presso le montagne del Carso, in Friuli – negli anni della Seconda Guerra Mondiale si trasformarono in una macabra location naturale: a partire dal 1943, infatti, alcune migliaia di cittadini vennero uccisi dai partigiani di Tito, gettati nelle foibe o deportati nei campi sloveni e croati. Gli infoibamenti si perpetuarono fino al 1947: l’esercito slavo si impadronì pian piano dell’Istria, operando una vera e propria pulizia etnica. Una vicenda drammatica caduta volutamente (e strumentalmente) nell’oblìo per diversi decenni e che ora viene ricordata ogni anno. Il Giorno del Ricordo è diventato un momento fondamentale per riportare a galla fatti cruenti che hanno significativamente inciso sulla storia del nostro Paese. E per rimarcare il tributo di sangue offerto da tanti cittadini salentini che hanno sacrificato la loro vita sul confine orientale. L’elenco è lungo. Si scorgono i nomi di 61 uomini che non saranno mai ricordati abbastanza da uno Stato a volte miope o presbipe. Noi abbiamo voluto citare ognuno di loro. Perché dietro ogni nome c’è una storia, c’è un vissuto, c’è un pezzo della nostra italianità.

- Lecce: Micalella Carlo, Caputo Giuseppe Raffaele, Citi Giovanni, Michele Bruno, Leone Quintiliano, Mannino Vittorio, Persico Pasquale, Rubino Italo Cosimo, Mastropietro Cosimo, Nascè Francesco

– Alliste: Piscopello Amleto

– Bagnolo del Salento: Magurano Antonio

– Botrugno: Pedone Giovanni

– Calimera: Tommasi Donato

– Caprarica: Centonze Giuseppe, Turco Giuseppe

– Carmiano: Zoccali Angelo Francesco

– Casarano: Addelico Pino, Pino Adelino

– Castrì di Lecce: Raho Paolo

– Castrignano del Capo: Giacca Michele

– Corigliano d’Otranto: Romano Antonio

– Corsano: Chiarello Rocco Nicola

– Galatina: Tundo Francesco Domenico, Rollo Rocco, Pano Tommaso

– Galatone: Centolanze Pompeo Biagio, De Paolo Antonio

– Gallipoli: Gabellone Vittorio Mario, Liaci Antonio, Monsellato Italo, Antonacci Nicola, Maggio Augusto, Misciali Emanuele, Zucchini Franco, Diaferia Achille

– Maglie: Donno Tancredi Rocco

– Matino: Rosetto Carlo

– Monteroni: Torsello Amedeo, Manfreda Gino

– Nardò: De Benedictis Torquato, Olmo Giuseppe, De Carolis Luigi

– Nociglia: Pedone Giovanni

– Poggiardo: Paiano Raffaele Luigi

– Racale: Basurto Benvenuto Antonio, Culiersi Tommaso

– Ruffano: Corsini Angelo

– San Cesario: Armentano Cosimo, Antonio Zilli, Cosimo Serra Salvatore, Gigante Vincenzo, Gigante Antonio, Palmieri Armando

– Squinzano: Marzo Giulio

– Surbo: Malatesta Angelo

– Taviano: Cataldo Settimio, Perrone Cosimo

– Tricase: Morciano Salomone, Caloro Giuseppe

– Uggiano la Chiesa: De Benedetto Ernesto. 

- Brindisi: Lucon Aldo  Battista Giovanni, Del Cocco Fortunato, Menduni Giorgio

– Cellino San Marco: Mazzotta Giacinto

– Cisternino: Innocenti Ettore Pistone, Convertino Ignazio

– Francavilla Fontana: Del Cocco Antonio

– Latiano: Spinelli Gaetano

– Mesagne: Di Serio Antonio Giuseppe, Franco Cosimo, De Renzis Giannetto, Falcone Cosimo

– Montalbano di Fasano: Guarini Pasquale  

– Oria: Sabba Cosimo, Monaco Emilio

– Ostuni: Melossi Melpignano Giovanni, Pacere Agostino, Aurisicchio Francesco, Quartulli Francesco, Tanzariello Rocco, Sartori Giuseppe, Minetti Giuseppe

– San Vito dei Normanni: Ancora Domenico, Mingolla Vitantonio, Miccoli Francesco

– Torchiarolo: Pagliara Antonio. 

- Taranto: Gasparini Giovanni Battista, Caracciolo Elda Milano, Miceli Alfonso, Rotondo Vito, Guardone Italo, Fiore Vittorio, Intrito Vito, Nascone Vito, Cozzato Pietro, Coda Mario, Lo Papa Gaetano, Ventura Giorgio, Mastrocinque Nicola, Ladiana Francesco, Rizzitello Antonio

– Castellaneta: Ranaldi Albano Antonio, Semeraro Andrea

– Crispiano: Sportelli Umberto

–  Fragagnano: Summa Cosimo

– Ginosa: Cantore Luigi

– Grottaglie: Dubla Silvio, Chianura Ciro, Pinto Ciro Francesco

– Manduria: Di Lauro Vincenzo Pietro, Scialpi Gregorio Salvatore, Brunetti Antonio

– Mottola: Leogrande Giovanni Antonio

– San Marzano: Miccoli Rocco Ciro

– Sava: Picchieri Cosimo.

«Non dobbiamo tacere, assumendoci la responsabilità dell’aver negato, o teso a ignorare, la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica, e dell’averla rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali». Basterebbero queste parole pronunciate dall’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nella ricorrenza del 2007 per recitare un mea culpa che ancora oggi da più parti – ahimè – viene puntualmente e scientemente evitato. Tacere è una colpa. Ricordare è un dovere.

Il Giorno del Ricordo: le foibe e l'esodo degli italiani al confine orientale, una tragedia a lungo dimenticata. ™ Manduria Oggi 11/2/2021. L’ottimo lavoro dell’istituto comprensivo “Don Bosco” per ricordare i manduriani vittime di quell’orrore: ecco il video.  Imparare a ricordare e rispettare è un impegno delle nostre quinte classi: foibe, noi non dimentichiamo. E’ questa la presentazione scelta dalle classe quinte della scuola primaria dell’istituto comprensivo “Don Bosco” di Manduria del lavoro realizzato per ricordare l’orrore delle foibe e per onorare la memoria dei tre manduriani che persero la vita: il vicebrigadiere dei Carabinieri Antonio Brunetti, l’agente di PS Vincenzo Di Lauro e l’appuntato della GdF Gregorio Scialpi (in ordine, nelle foto). Video che vi proponiamo. “Abbiamo il dovere di ricordare, con obiettività, questa tragedia per preservare la verità storica del nostro passato. Un dramma che costò la vita a tanti innocenti e causò l’esilio di tanti italiani, persone e famiglie intere, che furono costretti a fuggire dalle loro terre e dalle proprie case.

Esodo e foibe, italiani in fuga da Tito. Un libro per il Giorno del Ricordo. Dino Messina su Il Corriere della Sera l'8/2/2021. Il comunismo di Tito, che predicava la fratellanza tra i popoli, riuscì quel che non era stato in grado di realizzare il fascismo di Mussolini (che praticava una politica esplicita di snazionalizzazione della componente slava): lo sradicamento quasi completo di una comunità nazionale. Nelle zone occidentali dell’Istria, in città importanti come Fiume e Zara, la comunità italiana, prima maggioritaria, venne quasi azzerata. Le italiane e gli italiani di quelle aree furono protagonisti del Lungo esodo descritto da Raoul Pupo nel saggio in edicola il 9 febbraio con il «Corriere». Pubblicato dopo l’istituzione del Giorno del Ricordo che ricorre il 10 febbraio, il libro parte dalla riflessione sul perché la narrazione di quelle vicende non è diventata patrimonio nazionale, ma è rimasta confinata all’interno delle comunità che avevano subito le violenze e l’esodo. Si trattava di circa trecentomila italiani che persero il lavoro, la casa, il diritto di continuare a vivere nei borghi e nelle città dei loro padri. Uno sradicamento di cui si parlava poco. Basta leggere i manuali adottati nelle scuole superiori sino agli anni Novanta per rendersi conto della rimozione collettiva di una ferita profonda. Pupo individua due cause dell’oblio. La prima è la coda di paglia della sinistra comunista, che su Trieste e Gorizia, ma anche sull’esodo delle popolazioni giuliano-dalmate, non tenne un comportamento patriottico, per usare un eufemismo. Basti pensare alla subordinazione dei partigiani delle brigate Garibaldi alla linea slovena, all’eccidio di Porzûs nel febbraio 1945, in cui partigiani italiani comunisti uccisero i compagni di lotta della brigata Osoppo che non volevano sottostare alle direttive jugoslave. Ma anche alla brutta figura rimediata da Palmiro Togliatti quando, nell’autunno del 1946, dopo un incontro con Tito, propose la cessione di Gorizia alla Jugoslavia in cambio dell’assicurazione che sarebbe stata mantenuta l’italianità di Trieste. Non si possono tuttavia addossare alla cultura marxista tutte le colpe di una dimenticanza che ha riguardato un Paese per mezzo secolo guidato da governi a maggioranza democristiana. C’è un motivo di politica internazionale che ha origine nel giugno 1948, quando il Cominform condannò la politica di Tito. La Jugoslavia, agli occhi degli Stati Uniti, non era più un nemico, ma un possibile alleato da trattare con riguardo. Erano svanite le logiche che poche settimane prima avevano ispirato la dichiarazione tripartita con cui le grandi potenze alleate promettevano all’Italia non solo il mantenimento di Trieste e della cosiddetta zona A, allora sotto amministrazione internazionale, ma anche della zona B, controllata dagli jugoslavi. Pupo ripercorre le fasi che portarono l’Italia a perdere una parte del territorio nazionale e circa trecentomila italiani a perdere la patria. Una ricostruzione che ha inizio con la fine della Grande guerra e con i primi passi del «fascismo di confine», descrive le politiche discriminatorie del regime mussoliniano verso le popolazioni «allogene», racconta il principio della Resistenza jugoslava, la guerra di occupazione fascista del 1941, la stagione delle prime foibe successive al crollo dell’8 settembre 1943 e il terrore nella primavera del 1945. C’è un filo conduttore nella storia dell’Istria, di Fiume, delle isole del Quarnaro e di Zara, che si può far risalire all’irredentismo ottocentesco e che arriva fino ai nostri giorni. Ciò non significa istituire rapporti di causa ed effetto tra le varie stagioni. Non si può certo dar ragione al comunista sloveno Anton Vratuša, che nel 1944, interrogato dai compagni italiani sulle ragioni degli infoibamenti, aveva parlato di violenze incontrollate, spontanee e comprensibili dopo vent’anni di dittatura fascista. Non bisognava essere fascista per finire in una foiba o fucilato ai bordi di un campo. Anche i partigiani potevano essere considerati nemici, e pure i comunisti, se non obbedivano alle direttive di Tito. La lunga stagione dell’esodo toccò l’acme tra la fine del 1946 e il 1947, quando in poche settimane la quasi totalità degli abitanti di Pola, 28 mila abitanti su 31 mila, decise di partire. Fu una decisione collettiva, avvenuta quando era apparso chiaro che alla conferenza di pace stava prevalendo una linea punitiva. Una massiccia raccolta di firme per far pesare nei negoziati la volontà dei polesani fu inutile. Ad accelerare l’esodo contribuì la strage di Vergarolla. Il 18 agosto 1946, mentre erano in corso gare sportive, esplosero 28 mine sottomarine stipate sulla spiaggia cittadina. Le vittime furono 116. Gli italiani non credettero all’incidente, parlarono di attentato. Fu l’episodio scatenante dell’esodo, ancor prima della firma del trattato di pace del 10 febbraio 1947. Un’altra tappa significativa del Lungo esodo raccontato da Pupo fu l’ottobre 1954, quando con il memorandum di Londra venne deciso il passaggio di Trieste dall’amministrazione alleata all’Italia, ma anche la definitiva permanenza nella Jugoslavia della zona B del Territorio libero di Trieste, che includeva centri importanti come Capodistria, Isola, Pirano. La popolazione, che aveva resistito sino all’ultimo, venne delusa e diede vita a un significativo esodo. La paura di subire violenze, l’introduzione di un sistema scolastico che penalizzava gli studenti italiani, una riforma agraria avversa alla piccola proprietà contadina, la persecuzione del clero, la realizzazione di un sistema che non lasciava spazio all’iniziativa privata furono tutti elementi che concorsero a quel che Pupo definisce «effetto di spaesamento», a far sentire gli italiani esuli in patria. Non tutti i protagonisti dell’esodo si fermarono in Italia. Molti partirono per le Americhe, per il Sudafrica, per l’Australia. Il processo di integrazione in Italia fu lungo, sofferto e difficile, anche se supportato gradualmente da misure legislative volte a favorire l’integrazione lavorativa e gli interventi edilizi. Il libro di Pupo ha il merito di raccontarci tutta la complessità di questa difficile vicenda, facendoci rivivere nello stesso tempo il pathos di sofferenze e umiliazioni subite dai nostri connazionali. Esce in edicola martedì 9 febbraio con il «Corriere della Sera» il saggio di Raoul Pupo Il lungo esodo, al prezzo di 9,90 euro più il costo del quotidiano. Il libro, realizzato in collaborazione con Rizzoli, è aperto dalla prefazione di Dino Messina di cui proponiamo una sintesi qui sopra. Si tratta dell’edizione aggiornata dall’autore di un lavoro dedicato da Pupo alle vicende che portarono all’esodo degli italiani dalle terre giuliano-dalmate assegnate alla Jugoslavia in seguito alla Seconda guerra mondiale. Per commemorare quelle vicende è stato istituito per legge il Giorno del Ricordo, la cui ricorrenza cade il 10 febbraio, per ricordare le vittime dei partigiani jugoslavi, molte delle quali vennero gettate nelle foibe (cavità naturali tipiche dell’Istria e del Carso) e la fuga di massa, dopo la guerra, della popolazione italiana che non voleva sottostare alla dittatura comunista instaurata dal leader jugoslavo Josip Broz, universalmente noto con il nome di battaglia di Tito. Pupo analizza i diversi aspetti della questione, sottolineando per esempio che gli eccidi compiuti dai partigiani sloveni e croati non furono una semplice resa dei conti postbellica, sia pure condotta in forma estesa, ma la «manifestazione di un’iniziativa dall’alto, decisa dalla massima sede politica e condotta con la forza delle istituzioni, perché ritenuta strategica per la conquista e il consolidamento del potere». Allo stesso modo l’esodo degli italiani dalle terre finite sotto il dominio di Belgrado non fu provocato da un’espulsione coatta, ma non fu neppure il frutto di una libera scelta. Derivò dalla situazione di invivibilità che si era creata per via della politica seguita dalle forze di Tito.

"Le foibe? Pulizia etnica del pensiero unico". L'orrore delle foibe è stato una pulizia etnica pianificata: uccidere uno per farne scappare cento. Toni Capuozzo, Domenica 07/02/2021 su Il Giornale. Di Fausto Biloslavo conosciamo tutti i reportages di guerra, le storie dalla prima linea. Ma c’è un tema, lontano dai drammi del presente, che ha rappresentato per anni una specie di punto fermo, un appuntamento con il dovere della testimonianza, un richiamo a rompere il silenzio: la vicenda delle foibe. Verrebbe da dire che il reporter di guerra è attirato da un conflitto lontano che ha avuto per scenario il mondo in cui è cresciuto: Trieste e le terre d’Istria e di Dalmazia. Ma c’è una grande differenza tra le guerre di Libia o di Siria o d’Afghanistan e quelle che Biloslavo ha riesumato tra documenti e testimonianze: l’orrore delle foibe avviene, in gran parte, a guerra finita. Non è il crimine di guerra alimentato dalla ferocia della battaglia, dal furore del combattimento, dalla paura che sia l’altro a esercitare il suo odio su di te. È una resa dei conti sul corpo degli inermi, degli indifesi, dei vinti. È una vendetta contro soprusi subiti, come piace dire a qualcuno che cerca sempre nelle vittime una parte di colpa? Se lo è stata, è stata senza proporzionalità, e consumata contro gli innocenti. È stato l’orrore delle foibe, piuttosto una pulizia etnica pianificata - uccidere uno per farne scappare cento - e una pulizia ideologica che rispondeva all’idea di futuro: il socialismo del partito e del pensiero unico: nelle foibe finirono a centinaia anche cittadini sloveni e croati, a cominciare dai preti. Ecco quello che spiega il silenzio durato decenni: era il crimine, a guerra finita, dei buoni, dei giusti, dei vincitori con la stella rossa sul berretto. E quando non si poteva giustificare e nascondere, che cosa inventarsi, allora? Sminuire, ridurre il tutto a ingiustizie e ritorsioni e, regina delle menzogne, far diventare cattivi gli infoibati, assegnargli una colpa postuma, fare di loro, mentre l’Italia si scopriva tutta, e spesso con agile e tardiva disinvoltura, antifascista, alleata e vincitrice, trasformare gli infoibati negli ultimi fascisti, e gli esuli negli ultimi a rifiutare il paradiso socialista e, dunque, un po’ colpevoli anche loro. Una verità lontana, ma che fa male e paura ancora oggi.

Foibe e Giorno del Ricordo, i mal di pancia di sinistra e Anpi. Orlando Sacchelli su L'Arno -Il Giornale il 9 febbraio 2021. Durissima polemica, a Firenze, perché in occasione del “Giorno del ricordo” (in cui si commemorano le vittime delle foibe e l’esodo giuliano dalmata) a Palazzo Vecchio è stato invitato Emanuele Merlino, presidente del Comitato 10 Febbraio e vicepresidente Associazione Nazionale Dalmata, nonché autore del libro “Foiba Rossa”.  Sul suo nome è scoppiata una bufera, sollevata dall’Anpi, con questa motivazione: “Esprimiamo sconcerto che a Firenze, città medaglia d’oro della Resistenza, il Consiglio comunale abbia visto bene di chiamare Emanuele Merlino, assiduo frequentatore dell’estrema destra, con numerose presentazioni del proprio libro nelle sedi di CasaPound. Per non dire della casa editrice Ferrogallico con cui collabora, fondata da ex membri di Forza Nuova”. Alla protesta dell’associazione nazionale partigiani d’Italia fa eco quella dei consiglieri comunali di Sinistra Progetto Comune, Antonella Bundu e Dimitri Palagi, che chiamano in causa il sindaco Nardella: “Lo ricordiamo darci lezioni di antifascismo: se c’è il candidato sindaco di CasaPound alle tribune elettorali, non si deve partecipare, ci disse (durante la campagna elettorale prima delle ultime elezioni comunali, ndr). Ci fu dibattito, un paio di anni fa. Ora ci chiediamo: chi pubblica con le case editrici dell’estrema destra (come Ferrogallico) invece va bene. L’esponente del Comitato 10 Febbraio invitato in Consiglio comunale a Firenze, per il Giorno del Ricordo, non è uno storico ma un esponente politico (anche con incarichi apicali in Fratelli d’Italia), che frequenta senza difficoltà spazi in cui si allungano ombre di negazionismo o di revisionismo, rispetto alla storia fascista italiana”. Ma il Pd cosa dice a riguardo? Luca Milani, presidente dem del consiglio comunale fiorentino, a Repubblica ricorda che a organizzare la celebrazione (che avverrà online) è stata la conferenza dei capigruppo. Il centrodestra ha richiesto la partecipazione di Merlino e “nessuno ha sollevato obiezioni“. Quindi, viene da chiedersi, se in quella sede nessuno ha avuto nulla da dire, che senso ha sollevare ora il problema? Milani aggiunge anche un altro dettaglio interessante: ha contattato Merlino e ha avuto modo di parlare con lui diverse volte, per cercare di di capire che intervento avrebbe fatto. “Ho anche verificato – continua – e non ho rilevato la sua affinità a Casapound”. Poi prova a smorzare la polemica ricordando, a tutti, che onorare le vittime delle foibe dovrebbe essere un momento sentito e condiviso da tutti: !Il patrimonio della giornata del Ricordo deve essere condiviso da tutti, come deve esserlo per il 25 aprile o l’11 agosto qui a Firenze. Finché tutti non saremmo presenti nel ricordo dei martiri, la frattura non sara’ sanabile. E ricordo che il Consiglio comunale condanna tutti i passaggi violenti e barbari della storia”. Anche la Regione Toscana ricorda le vittime delle foibe, mercoledì 10 febbraio, con una diretta streaming che potrà essere seguita, dalle ore 9.30 alle 11, all’indirizzo regione.toscana.it/diretta-streaming. Numerose scuole si collegheranno. Interverranno il presidente dell’Istituto storico della Regione Toscana Giuseppe Matulli, il presidente dell’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’Età contemporanea Luca Verzichelli, Luciana Rocchi sempre dell’Isgrec, Luca Bravi per l’Università di Firenze e il console italiano a Fiume Davide Bradanini. Concluderà l’assessore regionale alla cultura Alessandra Nardini.

"Vede gli uomini neri ovunque", Biloslavo ora smaschera l'Anpi. Il reporter del Giornale commenta la tentata censura da parte di Anpi e M5S nel giorno del ricordo. "Inaccettabile tappare la bocca da parte di chi rivendica la lotta contro la dittatura". M5S? "Siamo alla follia totale. Io detto le stesse cose di Fico". Martina Piumatti, Giovedì 11/02/2021 su Il Giornale. A freddo, 24 ore dopo, non resta che un misto di sorpresa e amarezza. "Amarezza nei confronti degli ultimi mohicani dell'Anpi estremista; ma ancora più amarezza, mista a sorpresa, per l'atteggiamento del M5s". Così, il giornalista e scrittore Fausto Biloslavo, commenta all'AdnKronos, quanto accaduto ieri nel Consiglio regionale della Toscana, nel giorno del Ricordo della tragedia delle foibe. Con l'Associazione nazionale partigiani che chiedeva di togliergli la parola e il Movimento 5 stelle che è uscito dall'aula per non sentire il suo discorso. Un atto che si traduce in un tentativo di censura che smaschera l'incoerenza di chi, Anpi in testa, rivendica battaglie in difesa di libertà e diritti civili. "Forse perché non ci sono più i veri partigiani, purtroppo continuano a vedere uomini neri ovunque, fantasmi, spettri che non esistono, senza avere idea di cosa parlano: io non sono né eversivo, né revisionista, né antidemocratico come mi hanno accusato. Ma come giornalista e uomo libero, - chiosa Biloslavo che al ricordo delle vittime ha anche dedicato il suo ultimo libro ("Verità infoibate") scritto con Matteo Carnieletto - rivendico il mio diritto di presentare i libri di chi voglio, siano gli autori neri o rossi, gialli o verdi, magari anche criticandoli". Il reporter de Il Giornale non perde l'occasione per inchiodare il doppiopesismo ipocrita degli "ultimi mohicani". "L'Anpi - bacchetta Biloslavo - non può avere il patentino per giudicare quali siano i libri buoni da presentare e quelli cattivi di cui non si deve parlare. É inaccettabile che qualcuno voglia tappare la bocca a qualcun altro, specie da parte di chi rivendica di aver combattuto contro la dittatura". Senza sconti la reazione di Biloslavo al gesto dei consiglieri del MoVimento 5 Stelle, definito più una "violenza morale" che "fisica". Il giornalista, che ringrazia il gruppo di Fratelli d'Italia nel Consiglio regionale della Toscana per aver denunciato il tentativo grillino di censura, inchioda l'intolleranza ideologica pentastellata. "Perché prima non ascoltare quello che uno ha da dire e poi semmai replicare o protestare? A maggior ragione, se io ho espresso gli identici concetti espressi dal presidente Fico, loro esponente di punta: ho detto esattamente le stesse cose, che sottoscriverei riga per riga". E la coincidenza ridicolizza e annienta la tentata censura grillina che evapora in una sonora zappata sui piedi. "La cosa più curiosa è che, quasi nelle stesse ore, Roberto Fico stava tenendo il suo discorso istituzionale dicendo praticamente le stesse cose del mio intervento. Una cosa imprevista, di cui mi sono accorto soltanto dopo: per cui - ragiona Biloslavo - siamo alla follia totale e ora mi aspetto che i parlamentari M5s escano dall'Aula di Montecitorio ogni volta in cui prenderà la parola il loro presidente Fico...". E il ragionamento non fa una piega.

Foibe, per non dimenticare.  Domenico Muollo e Zaira Bartucca su Rec News il  10 Febbraio 2021. Sono trascorsi 17 anni dall’istituzione del Giorno del ricordo. In questi anni sempre più persone hanno conosciuto la triste storia dei milioni di Italiani infoibati per mano titina. Pensare poi che quel maresciallo Tito ancora oggi è menzionato negli archivi storici, come Cavaliere di Gran Croce, lo trovo francamente un insulto.  È ora che quella onorificenza venga tolta, non essendo compatibile con i principi ispiratori della legge 3 marzo 1951, n. 178, che istituisce l’Ordine “Al Merito della Repubblica Italiana”, destinato a dare una particolare attestazione a coloro che abbiano speciali benemerenze verso la Nazione”, e più in generale con i principi fondamentali del nostro ” ordinamento costituzionale”. Ancor’oggi esistono gruppi, movimenti che negano l’esistenza di questa buia e sanguinosa pagina storica, scritta a ne conflitto, esaltando le gesta del maresciallo jugoslavo considerandolo un eroe degno di onorificenza; semplicemente assurdo. Oggi come detto ricordiamo come eroe e onoriamo Josepz Tito, Presidente della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia dal 1953 al 1980, anno della sua morte. Colui che si è macchiato di gravi crimini, quali la pulizia etnica realizzata nei confronti degli italiani della Venezia Giulia. L’augurio che presto qualcuno pensi a rimuovere quella onorificenza essendo un Atto dovuto da parte dello Stato. Il 10 Febbraio è il “Giorno Del Ricordo”, riconoscimento della Repubblica al ne di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli Italiani Infoibati nelle proprie terre di Istria Fiume e Dalmazia ad opera dei comunisti di Tito a ne conflitto mondiale. La legge del 30 marzo 2004 ne istituisce il ricordo di uno degli avvenimenti più dolorosi della storia del nostro paese.

Foibe, il delirio di Gobetti su Norma Cossetto: «Uccisa perché fascista, non perché italiana». Valerio Falerni mercoledì 10 Febbraio 2021 su Il Secolo d'Italia. «Uccisa perché fascista» e non perché «italiana». Parliamo dell’istriana Norma Cossetto, sulla quale «si fa propaganda». È solo una delle tante “perle” in bella mostra in “E allora le foibe?“, libro dello storico titoista Eric Gobetti, incredibilmente edito da Laterza. La segnaliamo ai tanti che a sinistra si trastullano a scovare sui social foto di pensionati in orbace o di giovanissimi con il braccio teso. Imbecilli e immaturi dai quali traggono conferme per le loro ossessioni e, quel che più conta, preziose polizze per le proprie rendite di posizione. Definiscono se stessi “nuovi partigiani” e in questa ridicola veste vanno a caccia del fascismo eterno, rinvenendolo appunto nei saluti romani e nell’etichetta del vino (nero) pro-Duce. Capirai.

Da Gobetti falsità e tesi posticce. Il delirio del tovarich Gobetti, invece, non li turba. Né li indigna. È libero di scrivere che la giovane Cossetto, prima violentata e poi uccisa dai partigiani comunisti nell’ottobre del 1943, in fondo se l’era cercata. Era una «fascista convinta», sentenzia il titoista. Già, mica un’italiana. Neanche si rende conto, Gobetti, del precipizio logico nel quale si lancia con sommo sprezzo del ridicolo. Se il fascismo non lasciava libertà, fascisti in Italia (e quindi in Istria) lo erano tutti, volenti e nolenti. E non si capisce come avrebbe potuto non esserlo Norma Cossetto. È evidente che la distinzione dello storico non regge. È posticcia.

Uno storico che ignora la storia. Esprime una tesi estemporanea, appiccicata lì per lì a mo’ di provocazione. Giusto per scatenare l’effetto-bagarre sul libercolo all’insegna del “parlatene male, ma parlatene”. Ma è una tesi che gli ritorna in faccia come un boomerang. Se fascisti erano tutti gli italiani, per i titini gli uni e gli altri erano la medesima cosa. Facevano eccezione solo i comunisti, gli unici disposti a cedere quelle terre ai compagni jugoslavi. È il motivo per cui la Cossetto, convocata dai “rossi” nell’ex-caserma dei carabinieri di Visignano, rifiuta di aderire al movimento partigiano. Consegnandosi così al boia. È questa la storia. Proprio quella che non interessa allo storico Gobetti.

Foibe, Gobetti provoca col suo libro e poi fa la vittima: ho paura di un’aggressione fascista. Vittoria Belmonte venerdì 12 Febbraio 2021 su Il Secolo d'Italia. Eric Gobetti, lo storico autore del libro “E allora le foibe?“, per la casa editrice Laterza, ora si lamenta perché ha ricevuto critiche e insulti. Alcuni li riporta in un suo intervento oggi sulla Stampa: «Brucia all’inferno», «imbecille comunista», «ci prenderemo la nostra vendetta». Tutto, dice Gobetti, per avere posto dei dubbi su una narrazione “manichea” di esodo e foibe. “È proprio questo – scrive Gobetti – che sembra inaccettabile ai tanti opinionisti di destra che ogni giorno (addirittura già prima dell’uscita del libro) pubblicano articoli pieni di ingiurie verso la mia persona e il mio lavoro. Intendiamoci: le diverse interpretazioni e le critiche alle mie ricerche e a ciò che scrivo sono legittime e sempre ben accette, ma questa campagna di odio ha ben altri obiettivi. L’intento è quello di impedire ai professionisti della storia di partecipare al dibattito pubblico“. “È possibile – si domanda ancora Gobetti – che uno studioso debba vivere per anni in una condizione di continua pressione, sottoposto ad accuse assurde (comunista!) o infamanti (negazionista!) da giornali in grado di scatenare le fantasie aggressive di fanatici ed estremisti? In nome dei miei figli e del mestiere di storico, invoco la libertà di studiare e scrivere in tranquillità, senza l’incubo di un’aggressione fascista“.

Ma la sua è un’operazione di propaganda. Ora, Gobetti si dipinge come uno storico disinteressato, amante della ricerca, intento solo a spulciare le “sudate carte” per arrivare alla verità. Purtroppo per lui questa immagine non regge: Gobetti si è prestato consapevolmente a dare dignità estetica e fondamento scientifico al negazionismo sulle foibe e comunque alla versione riduzionista di quella tragedia. E così ha fatto Laterza supportando l’operazione e scegliendo un titolo volutamente provocatorio, “E allora le foibe?“, che rimanda a una battuta comica. Perché si vuole evidentemente perculare tutta insieme la destra che ha fatto di questa pagina dolorosa della nostra storia una battaglia di verità a nome e per conto dell’intera comunità nazionale. Non si può certo pretendere che tutto ciò passi inosservato.

Anche Pansa insultato per i suoi libri sui crimini partigiani. Il lavoro di Gobetti è tutto politico, altro che storia, altro che libertà di ricerca. Ci sono stati fanatici ed estremisti che si scagliarono contro Giampaolo Pansa per i libri in cui raccontava gli orrori commessi dai partigiani nel biennio 1943-45. Ciò non toglie che la sua fu opera meritoria. E che Pansa continuò a scrivere, anche tra le polemiche, ciò che voleva. Insulti e fanatismo vanno sempre banditi e condannati però, non solo quando ci si trova in mezzo Gobetti, il quale non può presumere di evitare le polemiche dal momento che si è deliberatamente scelto una mission divisiva:  quella di ribaltare la verità  sul dramma delle foibe. Non pulizia etnica ma reazione ai crimini del nazifascismo, dice lui. Non odio anti-italiano, ma legittimo odio antifascista. Tesi frutto di revisionismo ideologico: si parte da lì e poi si cercano pezze d’appoggio per sostenere la propria opinione. Tutto il contrario del mestiere dello storico. Questa è solo propaganda.  Che ora Gobetti vorrebbe dignificare facendo la vittima. “Tanto odio mi fa capire che sono sulla strada giusta”. E no, il “molti nemici molto onore” è un parametro un po’ troppo fascista. Bisogna che Gobetti faccia appello ad altri espedienti retorici…

Gobetti vuole fare la vittima dei fascisti. Certo il suo piagnisteo lo farà diventare mainstream, ci sono media che non vedono l’ora di ribaltare la narrazione sulle foibe: non hanno mai sprecato molte righe su quelle vittime italiane dimenticate e oggi possono addirittura parlare di foibe esibendo come vittima sacrificale dei fascisti un presunto storico, uno di sinistra. Grande festa nelle redazioni progressiste. Ma il gioco è talmente scoperto da risultare penoso.

Quell'insulto shock alla Meloni ​dallo storico che nega le foibe. La leader Fdi smaschera Eric Gobetti: "Questo sarebbe "l'imparziale" storico che la sinistra tanto osanna". E pubblica il post con gli insulti. Francesca Galici, Martedì 16/02/2021 su Il Giornale. Giorgia Meloni sui social è spesso sotto attacco. Non si contano gli insulti e le minacce che quotidianamente riceve la leader di Fratelli d'Italia, che il più delle volte abbozza e lascia correre. Ma non sempre è possibile passare oltre certe parole e certe ingiurie e così questa mattina Giorgia Meloni ha pubblicamente denunciato un commento trovato su Facebook in cui, senza troppi complimenti, è stata definita in maniera molto poco elegante. A spingere la leader di Fratelli d'Italia all'intervento è stata l'identità del mittente di quel commento, Eric Gobetti, personaggio molto noto negli ambienti rossi, "storico" e autore di libri che sminuiscono il dramma delle foibe. "Anche la zocc... La Meloni?", ha scritto Eric Gobetti nel suo commento, risalente a circa 3 anni fa. Inevitabile il commento di Giorgia Meloni: "Questo sarebbe 'l'imparziale' storico che la sinistra tanto osanna e che porta in giro per l'Italia per spiegare - e sminuire - il dramma delle foibe? Un fine intellettuale assolutamente non di parte, non c'è che dire...". Eric Gobetti è da poco uscito in libreria con il volume E allora le foibe?, edito da Laterza. Un libro provocatorio, che ha scatenato la rabbia di moltissimi utenti del web che, sbagliando, hanno aggredito l'autore sui social con frasi evidentemente poco educate. L'Italia è un Paese libero, nel quale ognuno deve poter esprimere la propria opinione, purché questa non vada a invadere la libertà altrui. La ricerca storica è un diritto e un dovere di ogni Paese civile e questo diritto va tutelato in ogni sua forma. Pertanto il lavoro di Eric Gobetti va rispettato, per quanto difficilmente possa essere condiviso. Come scriveva il quotidiano La Verità qualche giorno fa, "Gobetti non ha fatto esattamente ricerca storica. Ha pubblicato un pamphlet che mira a dimostrare come il dramma delle foibe e dell'esodo degli italiani di Istria e Dalmazia sia, per lo meno, sopravvalutato. Che sia addirittura una sorta di 'psicosi collettiva'. Se non nega, Gobetti senz' altro sminuisce".

Giorgia Meloni contro lo storico Eric Gobetti: "Nega le Foibe e mi dà della zocc***, cosa dice la sinistra?" Libero Quotidiano il 16 febbraio 2021. "Questo libro nasce da una urgenza. Quella di fermare il meccanismo che si è messo in moto, impedire che il Giorno del Ricordo diventi una data memoriale fascista”. Il “fine” storico di sinistra Eric Gobetti nel suo libro “E allora le foibe?”, edito da Laterza, interviene sul dramma delle foibe appunto parlando di “chi sfrutta una tragedia di questa portata per vantaggi personali o politici” e “non agisce certo per amore della verità”.  Un “finissimo” storico il Gobetti che non solo nega di fatto la tragedia delle foibe ma poi sui social non manca di coprire di volgarissimi insulti chi non la pensa come lui, per esempio Giorgia Meloni. Come la stessa leader di Fratelli d’Italia mostra in un post pubblicato sul suo profilo Twitter, Gobetti le ha chiaramente dato della “zocc***” ("Anche la zocc... la Meloni?", si legge sui social). Questo sarebbe “l’imparziale storico che la sinistra tanto osanna e che porta in giro per l’Italia per spiegare e sminuire il dramma delle foibe?”, scrive infuriata e indignata la Meloni. “Un fine intellettuale assolutamente non di parte, non c’è che dire”, conclude. Quindi la presidente di FdI suona la sveglia alla sinistra davanti agli insulti che ha ricevuto: “Ora non ha nulla da dire?”.  Per il momento pare proprio di no. Nessuna "sinistra" si è pronunciata per difendere Giorgia, forse perché in quanto donna di destra non merita tanto. Ma che cosa sostiene Gobetti? Quali sono le sue tesi? Rispetto alle Foibe il suo pensiero è chiaro: non si può parlare di shoa italiana. “Le uccisioni commesse sul confine orientale e nell'autunno del1943 e nella primavera del 1945”, si legge in una dichiarazione rilasciata all’Ansa, “non possono essere in alcun modo considerata un tentativo di genocidio e le vittime non sono individuate in quanto appartenenti ad uno specifico popolo”. Insomma, questo è il “fine intellettuale”. 

Il vergognoso silenzio dei "giornaloni" sull'attacco alla Meloni. I grandi giornali, sempre pronti a denunciare le frasi sessiste, si girano dall'altra parte quando ad essere offesa è Giorgia Meloni. Fausto Biloslavo e Matteo Carnieletto, Giovedì 18/02/2021 su Il Giornale. Se sei donna non puoi (giustamente) essere offesa. Se sei donna e di sinistra non si può nemmeno fare satira su di te. Ma se sei donna e pure di destra allora puoi beccarti della "zoocola" senza che nessuno dica niente. Ma andiamo con ordine. L'altro giorno, su Internet, è spuntato un vecchio commento Facebook di Eric Gobetti - autore di un libro che minimizza la tragedia delle foibe - in cui dava della poco di buono a Giorgia Meloni. ilGiornale, prima con un articolo sul sito e poi con uno sulla carta, è stato tra i pochi a parlarne. Nessuno degli altri quotidiani - dal Corriere a Repubblica, passando per La Stampa - ne ha parlato. Nemmeno una breve o una fotonotizia per denunciare le offese sessiste rivolte a uno dei più importanti leader politici in Italia. Perché? Forse perché le redazioni erano impegnate a seguire l'insediamento del governo Draghi. O forse perché quelle stesse redazioni, nei giorni precedenti la commemorazione dei martiri delle foibe, erano impegnate a diffondere il verbo di Gobetti. Del resto, la stessa Meloni ha commentato così la "performance" dello storico: "Questo sarebbe l'imparziale storico che la sinistra tanto osanna e che porta in giro per l'Italia per spiegare - e sminuire - il dramma delle foibe? Un fine intellettuale assolutamente non di parte, non c'è che dire". Un autore per nulla di parte, come testimoniano le sue foto con il pugno chiuso e la bandiera titina, e che nel suo ultimo libro scrive: "Le uccisioni commesse sul confine orientale nell'autunno del 1943 e nella primavera del 1945 non possono essere in alcun modo considerate un tentivo di genocidio e le vittime non sono individuate in quanto appartenenti ad uno specifico popolo". Peccato che questa tesi sia stata smentita dalle parole del presidente della Repubblica (ed ex comunista) Giorgio Napolitano: "Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una 'pulizia etnica'". Si dirà: ma un presidente della Repubblica non è uno storico. Vero. Allora uno storico dovrebbe far parlare i protagonisti e i documenti. Come Giovanni Battista Padoan, nome di battaglia "Vanni", partigiano della divisione Garibaldi-Natisone, il quale ammette che le foibe "furono un sistema di pulizia politica perpetrata dai partigiani di Tito contro chiunque, compresi convinti democratici e antifascisti, si opponesse all'annessione alla futura Jugoslavia". Ma questo Gobetti non lo dice. Minimizza godendo dell'ampio spazio dei giornali bene e, soprattutto, dei loro silenzi. Perché a sinistra si può far tutto. Perfino insultare.

Regione Piemonte: «via l’onorificenza al Maresciallo Tito». Raffaele Bonsi su culturaidentita.it il 15 Febbraio 2021. Il Piemonte riaccende il dibattito, mai del tutto sopito, sull’alta onorificenza di Cavaliere della Repubblica concessa al Maresciallo Tito nel 1969, chiedendo che sia finalmente revocata per rispetto delle vittime e degli esuli provocati dai venti dell’odio comunista che soffiavano dalla cortina di ferro. L’appello congiunto arriva dal Presidente della Regione, Alberto Cirio, e dall’assessore alla Cooperazione internazionale, Maurizio Marrone: «Come ogni 10 febbraio onoriamo il ricordo delle migliaia di Italiani del Confine orientale uccisi nelle foibe, ma ancora una volta le celebrazioni sono turbate dal paradosso di trovare ancora il Maresciallo Tito tra i Cavalieri della Repubblica, senza che, in oltre cinquant’anni, si sia provveduto a revocare questa prestigiosa onorificenza al responsabile di questi massacri». Un eccidio, quello delle foibe, che gli italiano scopriranno molti anni dopo, nascosto proditoriamente dalla connivenza delle forze sovietiche dell’epoca. Infatti, era appena finita la seconda guerra mondiale e il nostro Paese guardava con speranza ad una ripartenza, per lasciarsi definitivamente alle spalle lo strazio che l’aveva accompagnato in quegli anni difficili. Ma in quello stesso momento, tra il Venezia Giulia e la Dalmazia, veniva messo in atto una drammatica pulizia etnica da parte degli uomini di Tito nei confronti dei nostri connazionali attraverso deportazioni e sommarie esecuzioni. «Sono depositate in Parlamento, infatti, alcune proposte di legge che prevedono la revoca di tale onorificenza al dittatore jugoslavo e che, purtroppo, giacciono in attesa della discussione e della votazione – sottolineano il presidente Cirio e l’assessore Marrone -. Da un lato, con una legge del 2004 votata a larghissima maggioranza, lo Stato ha istituito il “Giorno del Ricordo” in memoria dell’esodo giuliano-dalmata e della tragedia delle Foibe, dall’altro continua a vedere presente l’ingombrante figura di Tito nell’elenco delle persone onorate dalla decorazione di più alto profilo istituzionale». Una contraddizione che continua a far male ogni volta che viene scoperta una nuova foiba con i poveri resti dei nostri connazionali assassinati e nascosti, come l’ultima agghiacciante foiba scoperta a Kočevski Rog pochi mesi fa, chiamata “foiba dei ragazzini”, dove oltre un centinaio di giovani tra i 15 e i 17 anni e diverse donne furono brutalmente uccisi e gettati nel vuoto, nel silenzio spezzato solo dai colpi di fucile. L’appello del Piemonte si unisce a quello del Presidente della Regione Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, che durante la cerimonia di Basovizza, nel Giorno del Ricordo ha affermato che la sua regione si farà portavoce verso il Parlamento nazionale affinché si proceda, senza più esitazione, alla revoca di questa nomina inadeguata e irrispettosa.

Il presidente Cirio e l’assessore Marrone concludono chiedendo che il Parlamento discuta velocemente le proposte che prevedono la revoca del riconoscimento «affinché possa terminare questa triste contraddizione ed il processo di riconciliazione, ormai avviato da anni con sloveni e croati, possa proseguire e divenire definitivamente modello di ispirazione per tanti altri territori che hanno alle spalle un passato di divisione».

In ricordo di Norma: l’infamia delle foibe e dei comunisti titini. Michela Pascale su culturaidentita.it il 10 Febbraio 2021. Oggi, purtroppo, in pochi conoscono la storia di Norma Cossetto (maggio 1920-ottobre 1943), studentessa italiana, istriana, torturata, assassinata e infoibata dalle milizie della Jugoslavia di Tito. Norma, laureanda in Lettere all’Università di Padova, nell’estate del 1943 stava raccogliendo materiale per la sua tesi intitolata ‘’L’Istria Rossa’’, progetto che non riuscì mai a portare a termine poiché il 26 settembre dello stesso anno venne prelevata da un gruppo di partigiani titini e portata nella ex caserma dei Carabinieri di Visignano, dove le promisero libertà in cambio della collaborazione con il Movimento Popolare di Liberazione. Dopo il netto rifiuto venne imprigionata e da questo momento iniziò la sua tortura, fu allontanata dal resto dell’edificio, legata nuda ad un tavolo e ripetutamente violentata da diciassette aguzzini che le recisero i seni e le conficcarono un legno nei genitali. Le sevizie finirono nella notte tra il 4 e 5 ottobre, quando insieme ad altri prigionieri, venne condotta con la forza fino a Villa Suriani e ancora viva fu gettata in una foiba [dal friulano foibe, che è il lat. fŏvea «fossa»] nelle vicinanze. Si stima che almeno a 15.000 italiani capitò una sorte simile a quella di Norma e in quel periodo quasi 250.000 fratelli furono costretti all’esodo dalle ex province italiane della Venezia Giulia, dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia. Questo argomento per troppo tempo è passato in sordina, il muro del silenzio è diventato più sottile solo nel 2005, quando fu istituito in Italia il Giorno del Ricordo con ricorrenza ogni 10 Febbraio. La mancata informazione, però, vige ancora in primis nelle nostre istituzioni scolastiche, che dovrebbero avere un ruolo fondamentale nella creazione di una cittadinanza informata ed attiva, in grado di comprendere la storia nella sua interezza facendo sì che certi orrori non si possano ripetere in futuro e in secondo luogo anche in certi gruppi sociali fondati da pregiudiziali ideologiche. Il rapporto tra etica e politica è sempre stato “teso”, ma dopo più di settant’anni è arrivato il momento di superare qualsivoglia divisione per restituire dignità con il ricordo di tutte le vittime massacrate con UNA SOLA COLPA, ESSERE ITALIANI. Dal racconto di Licia Cossetto, sorella di Norma: «Ancora adesso la notte ho gli incubi, al ricordo di come l’abbiamo trovata: mani legate dietro alla schiena, tutto aperto sul seno il golfino di lana tirolese comperatoci da papà la volta che ci aveva portate sulle Dolomiti, tutti i vestiti tirati sopra all’addome […] Solo il viso mi sembrava abbastanza sereno. Ho cercato di guardare se avesse dei colpi di arma da fuoco, ma non aveva niente; sono convinta che l’abbiano gettata giù ancora viva. Mentre stavo lì, cercando di ricomporla, una signora si è avvicinata e mi ha detto: “Signorina non le dico il mio nome, ma io quel pomeriggio, dalla mia casa che era vicina alla scuola, dalle imposte socchiuse, ho visto sua sorella legata ad un tavolo e delle belve abusare di lei; alla sera poi ho sentito anche i suoi lamenti: invocava la mamma e chiedeva acqua, ma non ho potuto fare niente, perché avevo paura anch’io”»

Una via per Norma Cossetto. Una nuova via dedicata a Norma Cossetto, la giovane italiana massacrata nel 1943. Il promotore dell'iniziativa, Francesco Colafemmina: "Ora una memoria condivisa". Matteo Carnieletto, Lunedì 08/02/2021 su Il Giornale. "Mio nonno paterno fu fatto prigioniero dagli inglesi in Etiopia nel 1940 e venne deportato in Inghilterra, dove lavorò nei campi per tutto il periodo bellico. Quando tornò in Italia rimase sconvolto da una cosa: dagli italiani che sparavano addosso ad altri italiani. Agli occhi di chi era stato a lungo lontano dal nostro Paese, non esistevano partigiani e repubblichini. Esistevano soltanto italiani che si stavano sparando tra loro". E' così che Francesco Colafemmina, consigliere ad Acquaviva delle fonti, inizia la nostra intervista. E' questo, forse, il motivo che lo ha spinto a chiedere che venisse intitolata una via a Norma Cossetto, la giovane istriana brutalmente uccisa dai partigiani titini nel 1943.

Perché per lui, proprio come per suo nonno, non esistono italiani di serie A e italiani di Serie B. Così come non esistono morti di Serie A e morti di Serie B. Quelli uccisi tra il 1943 e il 1945 sono tutti italiani, fatti fuori in un tempo vigliacco, in cui ci si ammazzava tra fratelli. L'obiettivo di Colafemmina è quello di mettere le basi affinché si arrivi a una memoria realmente condivisa: "Per questo motivo, ho chiesto fin da subito che nella lettura della mozione fossero rimosse tutte le premesse che potevano apparire polemiche. Si è trattato di una forma di rispetto verso la stessa Cossetto. Volevo che restasse soltanto la parte condivisa, senza inserire aspetti personali o ideologici. Questo è stato molto apprezzato", racconta il consigliere comunale. Perché le foibe, a distanza di oltre settant'anni da quei tragici eventi, dovrebbero essere ricordate da tutti, indipendentemente dal "credo" politico: "Mi hanno spesso accusato di proporre un argomento che interessa soltanto ai partiti di destra - racconta Colafemmina - ma ogni volta che mi attaccano in questo modo, la mia risposta è chiara: quando un consiglio decide interamente di condividere una intitolazione, la memoria non appartiene più solo a una parte ma a tutti. Quel ricordo tragico diventa quindi condiviso da tutti, e può avere anche la capacità di essere declinato nelle scuole e verso le nuove generazioni". Spesso, inoltre, ci si perde in dettagli tanto macabri quanto inopportuni. Anzi, talvolta c'è pure chi cerca di minimizzare o quasi giustificare gli assassini, affermando che Norma, essendo figlia di un fascista, fosse in qualche modo colpevole. Ma non è così, come spiega Colafemmina: "Norma è una figura moderna, sia come ragazza autonoma sia come studentessa. Ha un forte richiamo sulla contemporaneità. I giovani dovrebbero assorbire il suo messaggio in maniera molto più immediata rispetto a quello di altre figure cadute nell'anonimato. In generale, stiamo parlando di una questione che riguarda i fondamenti dei principi repubblicani. Se noi dobbiamo attenerci a una magistero, dobbiamo attenerci ai magisteri dei presidenti della Repubblica. Ciò che dicono, allora è ciò che preserva la giornata del ricordo da tutte le progressive aggressioni storiche e revisioniste". Nelle foibe, infatti, contrariamente a quanto raccontano i revisionisti, non finirono solamente fascisti e nazisti, ma anche migliaia di cittadini inermi: "Mi ricollego ad altri italiani morti nelle foibe. Tutta la storia di quegli anni è piena di contraddizioni. Nel momento in cui Norma finiva in una foiba, moriva il Castellaneta, tenente dei carabinieri, ucciso in un conflitto armato con i tedeschi sul fronte jugoslavo. Nel '45 anche i nomi di Giuseppe Anselmo e di un civile, un impiegato delle ferrovie, Giovanni Colangiulo, si trovano all'interno di un elenco provvisorio fatto dal primo sindaco di Trieste, Gianni Bartoli. Vediamo, insomma, che la realtà non guarda all'appartenenza politica o all'ideologia. Le persone citate erano italiani morti in quel dato contesto bellico. Norma Crossetto ha l'aggiunta di essere una civile e una giovane ragazza, ovvero un essere inerme". Contraddizioni di un passato che, ora, si sta finalmente cercando di ricomporre.

Perché Norma Cossetto non venga stuprata ancora. La memoria non è rancore, né riduzione. Emanuele Ricucci il10 febbraio 2021 su Il Giornale. Ogni maledetto anno bisogna scongelare il presidente Mattarella, sperando che dica qualcosa di pienamente sentito e rappresentativo per l’occasione. Ogni maledetto anno, bisogna sperare che il Parlamento italiano ricordi di aver varato, nelle sue galeoniche movenze, una legge nazionale nel 2004 che tutela e riconosce un giorno di celebrazione comune delle “vittime delle foibe, dell’esodo degli istriani, dei fiumani e dei dalmati italiani dalle loro terre durante la seconda guerra mondiale e nell’immediato secondo dopoguerra (1943-1945)”. Ogni anno bisogna sperare che la pacchiana italianità, ancor più maleodorantemente virtuale, ci eviti la gara a chi ce l’ha più grosso, a quali morti pesano di più, come se la morte di una madre per mano di un assassino, valga di meno di quella di un’altra. Come ogni triste anno, bisogna sperare che una pagina Facebook realizzi meno meme dell’anno precedente, colta dalla consueta frigidità digitale che intercorre, caprona e banale, tra i Marò, le foibe e il Duce appiccato per le gambe. Di anno in anno, bisogna sperare che qualche studente di terza media sia riuscito a sentir pronunciare, anche solo per sbaglio, la parola “foiba”. Anno dopo anno, bisogna evitare di cadere nelle trappole tese, nelle tagliole. Su tutte quella di trasformare la memoria in rancore e il Giorno del Ricordo nel giorno delle polemiche. Ventiquattro ore di pochezza che soffiano via la celebrazione, il raccoglimento, la maturità civile  Anno dopo anno, occorre alimentare la macchina della documentazione. Di anno, in anno, serve un Toni Capuozzo, stimatissimo giornalista, ben noto a chiunque, che ricordi: “Giorno del Ricordo. Pur di scolorire la tragedia delle foibe e il dramma dell’esodo si ricorre a due argomenti: erano pochi, gli infoibati, ed erano fascisti su cui si esercitava una comprensibile vendetta. Oggi voglio ricordare solo una vittima, che da sola basterebbe a spiegare la ferocia delle ideologie. Si chiamava Angelo Adam, meccanico, ed era di Fiume. Il 2 dicembre 1943 era stato deportato dai nazisti a Dachau, con il numero di matricola 59001. Era sopravvissuto ed era tornato alla sua città. Nel 1945 venne prelevato con la moglie dai titini e scomparve. Come la figlia diciassettenne, che aveva chiesto notizia dei genitori. Angelo Adam aveva 45 anni, era italiano, era antifascista, ed era ebreo”.

NON BASTA…Non c’è pace. Prendiamoci la pace. E non prendiamoci in giro: l’Italia non ha ancora sufficiente memoria delle vittime delle foibe, dell’esilio. Non ha ancora sufficiente coscienza, consapevolezza che non sia inquinata dalla distorsione (seppur questo scenario inizi a mutare). Troppi sono, infatti, coloro i quali vorrebbero relegare quei morti a una dimensione privata. A una cappella in fondo al cimitero. Vorrebbero scrivere col sangue una frase da poster con cui arredare il nostro ghetto. Il nostro, poi, di chi? Che pretenderebbero di ridimensionare la storia a una questione ideologica di parte. E questo accade perché pur essendosi invertita la rotta politica di questo Paese, almeno al momento e almeno in apparenza, la strada della generazione della cultura di massa è pienamente tortuosa, primato dell’egemonia pensante che fa capo alla sinistra. La prima generazione al governo, anticonformista rispetto alla sinistra, gettò le basi per il riconoscimento ufficiale del dramma delle foibe; la seconda, ora, ha il dovere di cristallizzare la memoria. Per questo ogni strillo di dolore, ogni pianto disgraziato di Norma Cossetto tenuta ferma e stuprata dai suoi aguzzini slavi, e poi buttata in una foiba, si sentono ancora poco. I nostri giovani sentono ancora poco, i nostri studenti, gli italiani. Sordi, ciechi. Per questo bisogna esultare a ogni vittoria della memoria e smettere di inseguire la rabbia e la viltà della negazione, della riduzione, del disturbo alla storia, agendo in via istituzionale affinché esso non si ripeta. Ma il cuore del Paese deve pensare ad altro. Far festa, nella solennità, contribuendo a costruire la memoria civile di questa terra puttana – che è contemporaneamente edificazione della maturità nazionale nella trista constatazione di una “pacificazione” impossibile -, ancora fortemente rinchiusa nella propria pustolosa adolescenza. Scansare, rifiutare come droghe in discoteca, le avances decostruttive, la ansie giustificazioniste, le paranoie negazioniste, la riduzione della grande storia, i calci alla memoria degli uomini, delle donne, dei bambini, crepati nelle foibe. NO! Preferisco andare avanti e ignorare quello sguardo di sospetto, le scritte sui muri inneggianti all’odio, le targhe distrutte, i monumenti per ricordare il dramma imbrattati, l’abitudine alla circostanza, la superficialità di certi italiani, che dovrebbero essere miei fratelli, nel dire: “dopo la Shoah, anche voi (ma voi chi?) volevate la vostra ricorrenza, vero? E ti pareva…”. Preferisco ignorare, per non impazzire da solo nella mia stanza, chiunque giustifichi oltre diecimila morti e trecentocinquanta mila esuli, con vent’anni di fascismo omettendo completamente di citare anni e anni precedenti di eventi sul fronte orientale (si segnala, a tal proposito, l’accurato speciale della rivista Storia in rete). Sempre loro, abituati a dire che l’infrazione della legge è ben accetta se in nome di un ordine ideologico superiore. Superiore a cosa? Sub Lege Libertas. Come quella 30 marzo 2004, n.92. La legge è inferiore allo spirito fintanto che non li tange.

L’ARTE TRADUCE IL SENSO E LO PROSEGUE. E allora sappiate che questa sera, il fumetto “Foiba Rossa. Norma Cossetto, storia di un’italiana” (Ferrogallico), scritto da Emanuele Merlino, con disegni di Beniamino Delvecchio, che racconta con delicatezza e onestà storiografica la vita e il martirio della povera studentessa, dovrebbe essere regalato a chiunque voi riteniate degno di stima. Norma, stuprata due volte, dai titini e dalla storia recente che ne vuole negare il nome e la fine, ella viene presa per mano e condotta nella verginità della vita nuova dell’esempio, tra le pagine di una graphic novel che è candore, giustizia e verità. Non un passo di più. Un fumetto che, ad oggi, è stato stampato in più di quaranta mila copie. Dal cinema, al fumetto. L’arte, come pulsione ulteriore della vita, sta scegliendo di costruire la memoria nazionale, senza timore alcuno, senza alcun senso di inferiorità, come un antidoto alla negazione, come un dinamismo che parli un linguaggio universale, capace di cristallizzare ed elevare il ricordo, generando eredità. Che sia nei versi del goriziano Marco Martinolli, o in quelli di Armando Bettozzi (“Càrsici bàratri profondi e scuri custodi involontari di abominevoli vergogne e di voluti silenzi decennali […] Qual è la differenza, deh! -se mai sapete tra un pozzo… ed un forno?”), negli sforzi eroici, avamposti di purezza, della cultura popolare; che sia nelle impressioni del dramma scolpite da Paolo Menon, nel trittico di Rocco Cerchiara e Andrea Cardia, “Foibe”, o nelle pennellate scure, gotiche e opprimenti di Renzo Gentili ne Il supplizio di Norma Cossetto. Così, nell’epoca dell’adolescenza antifascista, i racconti d’onestà di grandi artisti come Gino Paoli, – «parte della famiglia di mia madre morì infoibata. I miei parenti non erano fascisti. Ma la caccia all’italiano faceva parte della strategia di Tito. I partigiani titini, appoggiati dai partigiani comunisti italiani, vennero a prenderli di notte […] senza lasciare dietro di sé un corpo, una tomba, una memoria. Peggio: una memoria negata» – o Umberto Smaila, Nino Benvenuti e molti altri. La miniserie Il cuore nel pozzo, o il film Rosso Istria. Le pagine de Sul ciglio della foiba (Ed. Il Borghese, pp.220, Euro 18) di Lorenzo Salimbeni, o de L’esodo (Mondadori, pp.202, 10 Euro) di Arrigo Petacco, che porta lo stesso nome del nuovo spettacolo di Simone Cristicchi (L’esodo – Racconto per voce, parole e immagini, ndr), già autore di Magazzino 18 – ispirato al libro “Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani. Istriani, fiumani e dalmati: storie di esuli e rimasti” di Jan Bernas (Mursia, pp.192, 16 Euro) che porta a teatro il pellegrinaggio e la sofferenza degli esuli istriani, fiumani e dalmati -, tra le tante. Opere che rafforzano la coscienza di un popolo a cui fa male la memoria. E la lista potrebbe continuare a lungo.

CULTURA È COLTIVAZIONE. Ripartire dalle scuole. La sinistra d’ogni porzione di modernità insegna il senso della costruzione del sentire comune, dell’accettazione del pubblico sentire, di temi e idee, della strutturazione della cultura di massa. E che i suoi adepti, discepoli e santi, in ogni forma, fossero tanti o pochi in quel momento storico, fossero capaci di trainare o meno, di vincere o di perdere le elezioni, comprendono, comunque, bene la necessità di continuare a contaminare la storiografia ufficiale, di coltivare – genesi della parola cultura – il consenso in fasce. Di farlo per eternarsi. Nel sottoscala preparano le rivoluzioni. Non sul palcoscenico. Per questo, come vedete, la battaglia politica di contrasto all’ideologizzazione del reale, da parte dell’egemonia culturale imperante e sinistra, è in atto. E al momento vincente. Ma culturalmente la società italiana risente ancora troppo dei suoi influssi, come passaporto necessario per la civiltà. Vietato pensare, vietato dissentire, vietato raziocinare se si vuole vedere riconosciuto lo status di “umani”, e non di barbari. E dunque, la memoria trovi forma nella sensibilizzazione degli uomini futuri, proprio nel percorso di costruzione della loro cultura, da intendersi come coltivazione di se stessi, capace, tramite lo studio, la conoscenza, e il ragionamento sopra le cose, via via in sviluppo, di edificare il pensiero critico con cui leggere il reale, e saper distinguere il reale dalla sua narrazione. Solo così la memoria sarà iniziativa primordiale ed essenziale di continuità, e non continua iniziativa necessaria a non dimenticare. Il ruolo delle scuole viene, per altro, sottolineato dal fu Ministro dell’Istruzione, Bussetti, che afferma che parlare di foibe negli istituti, «non è propaganda», aggiungendo che «Il negazionismo va sempre rigettato. Nel caso delle foibe e delle persecuzioni anti-italiane sul confine orientale, abbiamo il dovere di ricordare una vicenda particolarmente dolorosa e cruenta del Novecento. Migliaia di persone furono uccise in quanto italiane, senza colpa. Per lo stesso motivo, centinaia di migliaia di uomini e di donne hanno dovuto abbandonare quelle terre e tutto quello che avevano per rifugiarsi all’interno dei nuovi confini nazionali. Una catastrofe. Cancellare o minimizzare questa vicenda storica significa oltraggiare nuovamente le vittime di allora e i loro discendenti. Non sarebbe giusto». Che si fotta il resto: esultiamo della costruzione della memoria, per quanto inspiegabilmente faticosa in un Paese che celebra e ricorda, per legge, le vittime di un assassino decorato dallo Stato, come Josip Tito Broz, dal 1969, Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Ricordare Anna Frank, celebrare Norma Cossetto. Altrimenti non è memoria, è rancore. Di anno, in anno. Ogni stramaledetto anno…

Foibe, i negazionisti tentano ancora di “salvare” i partigiani comunisti. La verità li ha travolti. Fabio Roscani giovedì 11 Febbraio 2021 su Il Secolo d'Italia.  Il 10 Febbraio l’Italia ricorda i suoi figli, traditi, esiliati, infoibati, massacrati dai partigiani comunisti del Maresciallo Tito. Decenni nell’oblio, volutamente dimenticati da tutti, tranne che da pochi coraggiosi e della destra politica italiana. Li abbiamo ritrovati indagando nella verità e nutrendo la coscienza collettiva della Nazione. L’Italia da matrigna torna madre, gli Italiani fratelli. Ora non possiamo più perderli, le loro storie sono la nostra Storia. Cantavano “Oh mia Patria, sì bella e perduta”, con i tricolori al vento, le valigie di cartone e i cuori infranti. A raccontare quegli orrori oggi ci sono film, documentari, libri, servizi dei telegiornali nazionali, canzoni, opere teatrali, un fumetto. Il 10 Febbraio, dal 2004 è la Giornata Nazionale del Ricordo dei martiri delle foibe e degli esuli istriani, giuliani e dalmati. Sorridi Norma, abbiamo vinto! Recita così un manifesto di Gioventù Nazionale, il movimento giovanile di Fratelli d’Italia, realizzato quando per la prima volta veniva trasmesso in prima serata sulla Rai il film “Red Land-Rosso Istria”. Alle spalle decenni di oblio. Anni in cui nei libri di storia delle scuole superiori, la foiba di Basovizza, veniva definita “meta ambita per i suicidi”. Anni in cui  Tullio De Mauro, uno dei più celebri linguisti italiani e ministro del governo Amato, definiva le foibe “doline carsiche”. Non si può però abbassare la guardia e girarsi dall’altra parte di fronte ai negazionisti del 2021. Eric Gobetti, sedicente storico e militante dell’estrema sinistra definisce Basovizza nel suo libro “E allora le foibe?” un “pozzo minerario” e afferma che non ci sono documentazioni storiche che provino massacri ed esecuzioni. L’Anpi in Toscana si é scagliata contro l’invito di Emanuele Merlino, autore di “Foiba Rossa” da parte di un consiglio comunale. A Vicenza ha protestato contro l’intitolazione di una piazza dedicata ai martiri delle foibe, a Pavia contro la presentazione del libro “Verità infoibate” di Fausto Biloslavo”. Nelle scuole di La Spezia e Portogruaro, sono state annullate assemblee studentesche che prevedevano la partecipazione di figli di esuli. In provincia di Teramo l’assessore Illuminati, giustifica le foibe come una comprensibile, seppur condannabile, risposta al nazionalismo italiano. A Reggio Emilia sulla pagina Facebook di un consigliere comunale del Pd durante un convegno online, un relatore ha avuto il coraggio di dire che “sulle colline carsiche, c’è ancora tanto spazio”, senza ricevere alcuna condanna. Il Maresciallo comunista Tito, inoltre, è ancora decorato con la medaglia di Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica Italiana. Continueremo a camminare per le strade del ricordo, gli striscianti rigurgiti del negazionismo e del giustificazionismo, anche se sparuti, isolati, minoritari, verranno travolti dal fiume in piena della verità.  Noi ricordiamo. L’Italia ricorda.

Giorno del ricordo, quei profughi al gelo accolti in Puglia. Il libro di Enrico Miletto racconta l'odissea delle famiglie e di un popolo.  Vito Antonio Leuzzi il 10 Febbraio 2021 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Una tragica pagina di storia racchiusa nel confine orientale d’Italia, nel corso del secondo conflitto mondiale e nel lungo dopoguerra: se ne parla nel volume dello storico Enrico Miletto, Novecento di confine. L’Istria, le foibe, l’esodo (edito da Franco Angeli, pagg. 231, euro 28, 00). Autore di molti studi sull’ esodo della popolazione italiana dall’Istria, Miletto affronta in una prospettiva europea e di lungo periodo fatti ancora poco noti e spesso deformati da narrazioni decontestualizzate, intrise di luoghi comuni . Nel volume si concentra l’attenzione sulla questione della spirale di violenza e conflittualità esasperata che raggiunse livelli di brutalità ed efferatezza, nelle settimane dopo l’8 settembre 1943. Il crollo delle strutture dello stato ed il vuoto di potere favorì inizialmente le forze partigiane slovene e croate, alimentate dal lungo periodo di clandestinità contro il nazifascismo e sorte in anticipo rispetto a quelle italiane. Motivazioni di carattere politico si saldarono con contrasti e rancori personali dando luogo a reazioni collettive con distruzioni di archivi e catasti comunali . Poco prima dell’arrivo delle truppe tedesche si procedette «a processi sommari e fucilazioni collettive, seguite dall’occultamento dei corpi nelle foibe (che sono le cavità carsiche). Nella prima fase degli «infoibamenti» furono colpite complessivamente tra le 500 e le 700 persone. Miletto fornisce un quadro d’insieme chiaro e ben documentato e si sofferma sulle cause remote di questi sconvolgimenti, in particolare gli effetti del trattato di Rapallo dopo la Grande Guerra con l’inserimento nel Regno d’Italia di 300 mila sloveni e di 170 mila croati chiamati per la prima volta a far parte di uno stato che si identificava con una sola nazionalità, quella italiana, dominante sulle altre. Con l’avvento del fascismo si negarono diritti e si aprirono ferite inimmaginabili con l’italianizzazione forzata, con la persecuzione di oppositori politici, rappresentanti di religione diversa da quella cattolica e via di seguito. Aspetti repressivi che si accentuarono dopo l’aggressione fascista alla Iugoslavia del 1941 provocando arresti di massa, deportazioni nei campi di concentramento e violenze estreme nei confronti degli iugoslavi, legate all’ inasprimento della guerra in tutta l’area balcanica. La radicalizzazione della violenza si manifestò ulteriormente nell’ottobre 1943 con l’arrivo dei soldati tedeschi e con la costituzione della Zona di Operazioni del Litorale Adriatico. A Trieste si costituì uno speciale apparato di polizia che operò su vasta scala sotto gli ordini un generale delle SS Odilo Lotario Globocnik. Si trasformò un vecchio stabilimento per la pilatura del riso, San Sabba, in un campo di transito destinato alla deportazione nei campi di sterminio di Auschwitz e Ravensbruck di ebrei, oppositori politici antifascisti, civili. Nel marzo del 1944 si costituì un apposito forno e molti degli arrestati furono torturati ed eliminati. Si calcola che nella risiera di San Sabba dalla sua attivazione sino all’aprile del 1945 siano state eliminate tra le 3000 e le 5000 persone. In questa dimensione estrema di paura e terrore , tra la fine di aprile e il maggio del 1945, l’armata iugoslava avanzò rapidamente, con una vera e propria corsa per l’occupazione Trieste e di tutta l’Istria. Le truppe di Tito , poco prima dell’arrivo degli anglo-americani , iniziarono una vasta azione violentemente repressiva con arresti di massa di elementi collusi con il nazifascismo , squadristi, collaborazionisti, militari repubblichini, esponenti della X Mas, membri della polizia attivi nella repressione antipartigiana, sloveni anticomunisti. Con interrogatori sommari, vennero uccisi e gettati nelle foibe migliaia di italiani. Ad essere arrestati e scomparire furono anche esponenti del Cln contrari all’annessione dell’Istria alla Jugoslavia e diversi appartenenti all’Arma dei Carabinieri e alla Guardia di Finanza, nonostante la loro estraneità all’attività antipartigiana. «Nel 1945 le vittime dell’area triestina e goriziana furono 2.627. Si può stimare in una forbice compresa tra le 3000 e le 4000 persone il numero complessivo delle vittime in questa seconda fase degli «infoibamenti», senza considerare diverse migliaia di deportati nei campi di internamento titini. Con la presa di possesso rivoluzionaria del territori da parte dei comunisti di Tito, la popolazione italiana fu sottoposta progressivamente ad un processo di esclusione ed indebolimento con requisizioni, confische e con interventi repressivi sul piano economico-sociale, culturale e linguistico (cancellazione del bilinguismo, jugoslavizzazione dei nomi, riduzione delle scuole, snazionalizzazione ). Furono colpiti, in particolar modo insegnanti, sacerdoti, impiegati e funzionari della burocrazia statale. Tutto ciò provocò tra il 1946-47 ed il 1954 diverse ondate di partenze di oltre 300.000 istriani (nucleo principale gli italiani con 252.000 unità, seguiti da 34.000 sloveni , 12.000 croati e 4000 romeni, ungheresi, albanesi). Una parte di questi esuli approdò in Puglia trovando sistemazione in campi e centri di raccolta, tra cui Bari, Altamura , Brindisi e Taranto, in una situazione di forte precarietà e in ambienti sovraffollati e promiscui. Ma la perdita della propria terra e della propria condizione fu durissima per gli anziani. «Per i nostri vecchi - scriveva Fulvio Tomizza - fu infatti duro lasciare la terra sulla quale ti sono venuti i capelli bianchi».

Tutte quelle verità "infoibate" sulle stragi volute da Tito. Biloslavo e Carnieletto raccontano decenni di sistematico insabbiamento della memoria. Matteo Carnieletto e Fausto Biloslavo, Sabato 06/02/2021 su Il Giornale. «Verità infoibate» riporta alla luce pagine buie del nostro passato nascoste per troppo tempo, che in realtà affondano ancora nel presente grazie ad opportunismo politico, banale conformismo, paura di andare controcorrente o totale disinteresse. Dal nuovo presidente americano che ammira Tito alla decorazione del Quirinale ancora appuntata sul petto del Maresciallo, fino alle foibe scoperte in Slovenia, la giustizia negata e gli oltraggi ai martiri delle violenze titine che riemergono puntualmente ogni 10 febbraio, giorno del Ricordo. In edicola da domani con il Giornale pubblichiamo alcuni stralci di Verità infoibate - Le vittime, i carnefici, i silenzi della politica, per non dimenticare una ferita aperta ancora oggi.

FOIBE, COLD CASE DELLA STORIA. Piccole tracce sepolte dall'oblio della storia: frammenti di cranio, di tibie, di costole. Ce ne sono migliaia e rappresentano la memoria del sottosuolo, che si ostina a non dimenticare i crimini di guerra compiuti dai partigiani di Tito vincitori, dopo la fine del Secondo conflitto mondiale. La piccola e vicina Slovenia è il cimitero nascosto più impressionante d'Europa: una fossa o foiba ogni ventisette chilometri quadrati con una media di centotrentacinque vittime ciascuna. Una commissione governativa ne ha individuate 750. Tito ed i suoi sgherri, per spianare la strada alla Jugoslavia socialista, hanno massacrato un quarto di milione di persone, e non solo in Slovenia. Tutti prigionieri di guerra in stragrande maggioranza sloveni, croati e serbi, che hanno combattuto dalla parte sbagliata o civili, ma pure migliaia di italiani, spazzati via e nascosti per sempre nelle viscere della terra in nome di una pulizia multietnica e politica. In molti casi si cerca di dare un nome e cognome alle povere ossa. «Sono i cold case della storia», dice Paolo Fattorini, esperto di Dna in ambito forense e docente di medicina legale dell'Università di Trieste. «L'interesse scientifico è grande, ma non nego un coinvolgimento emotivo. Mia madre era un'esule istriana. Provare a identificare il numero più alto possibile delle vittime nascoste per tanto tempo serve a voltare pagina».

IL PRESIDENTE USA FAN DI TITO. Il nuovo inquilino della Casa Bianca è un grande ammiratore di Tito. E lo ha anche messo nero su bianco. Nel 1979, Joe Biden si reca a Lubiana con una delegazione americana «per la triste scomparsa di Edvard Kardelj», braccio destro di Tito, uno dei principali responsabili degli eccidi multietnici e dell'esodo degli italiani d'Istria, Fiume e Dalmazia dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Il futuro presidente americano, in una missiva datata primo marzo 1979, scrive al dittatore jugoslavo, dopo il ritorno in patria: «Gentile Signor Presidente, desidero ringraziarla ancora per la sua preziosa ospitalità durante la mia recente visita in Jugoslavia». E aggiunge di avere molto apprezzato «il nostro scambio di opinioni». Il 19 agosto 2016, a Belgrado, durante una visita come vicepresidente degli Stati Uniti, Biden ribadisce nel discorso ufficiale che quello con Tito è stato «uno degli incontri più affascinanti che abbia mai avuto in vita mia». Non c'è dunque da stupirsi se, nel 2007, nel suo libro Promesse da mantenere, Biden scriveva sulla Jugoslavia «Ci è voluto un certo genio per tenere insieme la federazione multietnica e quel genio, in particolare, era Tito». L'anno prima di morire, il Maresciallo inviò una missiva al senatore Biden, dopo l'incontro a i Dalmazia, sottolineando che avrebbe fatto strada fino alla Casa Bianca.

TITO GRANDE AMICO DELL'ITALIA. Le immagini in bianco e nero dell'Istituto Luce mostrano l'arrivo di Tito in Italia il 25 marzo 1971. «Aeroporto di Ciampino. Per questo aereo sono in attesa tutte le più alte cariche dello Stato: da Saragat a Colombo a De Martino, Pertini, Fanfani e Moro. - annunci il cronista - L'aereo è un Caravelle ornato con stelle rosse. Viene da Belgrado, Jugoslavia, e porta un ospite che, per la prima volta, giunge in visita ufficiale in Italia. L'ospite, eccolo, è Josip Broz, detto Tito ()La Jugoslavia ha bisogno di amici, ma preferisce, e di molto, quelli europei, l'Italia soprattutto. Ha detto Tito, appena arrivato: Questo incontro getta una prima pietra. È una pietra tolta dal piedistallo di Mosca. È una prima pietra che conta». Solamente 2 anni prima, nel 1969, il Maresciallo è stato «decorato come Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica italiana» con l'aggiunta del Gran Cordone, il più alto riconoscimento del nostro Paese, durante la visita di Saragat a Belgrado per finalizzare alcuni accordi economici con la Jugoslavia. Onorificenza che ancora oggi campeggia sul sito del Quirinale. Nel viaggio in Jugoslavia del 1969, durante i numerosi e affettuosi discorsi, il presidente Saragat concludeva sempre con uno stucchevole brindisi rivolto a Tito: «Levo il calice, signor Presidente, al benessere Suo e della gentile signora Broz, alle fortune dei popoli jugoslavi e all'amicizia fra i nostri Paesi». Mai nessun cenno, neanche alla lontana, alle foibe.

«DITEMI DOV'È MIO PADRE». Sono passati più di 70 anni da quel 4 maggio del 1945, ma Federico Rufolo, che ora ne ha 92, non si da pace. Quel giorno, infatti, i soldati titini piombano in casa cercando Alberto, suo padre. «Faceva il capostazione a Gorizia - racconta Federico, che forse è l'ultimo testimone in vita delle deportazioni da Gorizia - Era un pretesto per arrestarci nella notte del 3 maggio del '45». Per Federico, 17 anni, e per suo padre inizia il calvario. I due vengono strappati alla famiglia e portati in carcere. «Papà era una persona normalissima - spiega il sopravvissuto - Un dipendente dello Stato che non si era mai esposto con il fascismo. Anzi, i fascisti li avversava. Non si capisce perché lo abbiano prelevato». I titini spogliano padre e figlio di tutto e, dopo averli schedati, li dividono per sempre. A partire da questo momento, Federico non vedrà mai più il genitore. «Il governo sloveno nel 1992 mi ha fornito le informazioni disponibili. Dai registri di detenzione risulta che mio padre abbia lasciato il carcere proprio quel giorno a mezzanotte. Ma è stato portato chissà dove». A distanza di settantacinque anni, Federico ha una sola richiesta: «Da qualche parte ci deve essere traccia di cosa è accaduto. Ditemi dove si trova mio padre».

Gasparri fuori dal coro sui 120 anni della Laterza: «Non la celebro, la querelo per il libro sulle foibe». Redazione mercoledì 12 Maggio 2021 su Il Secolo d'Italia. Maurizio Gasparri non è disposto a passarci sopra e, in occasione dei 120 anni della Casa Editrice Laterza, spiega che i «gravi errori» che lo riguardano, contenuti nel libro E allora le foibe?, non gli consentono di unirsi al coro di celebrazioni per l’anniversario. «Molti scrivono articoli celebrativi dei 120 anni della Casa Editrice Laterza. Mi piacerebbe unirmi a questo coro. Purtroppo, però, recentemente – ha chiarito il senatore di Forza Italia – la casa editrice è venuta meno alle sue antiche e nobili tradizioni, pubblicando un libro sulle Foibe che mi attribuisce delle autentiche menzogne». Gasparri, quindi, ha spiegato di aver «querelato l’autore e gli editori che hanno talmente preso atto delle menzogne pubblicate che, in una successiva edizione, hanno tentato goffamente di correggere il tiro. Ma questa ammissione di colpa, con correzione successiva, li renderà ancora più evidentemente colpevoli davanti al tribunale dove li attendo». «Una casa editrice che ha una storia così lunga – ha avvertito il senatore azzurro – dovrebbe evitare errori così gravi, attribuendo cose false ad un esponente politico con il solo scopo di alimentare, come fa questo libro recentemente pubblicato, campagne tese a ridimensionare la tragedia delle Foibe». Nel libro E allora le foibe?, l’autore Eric Gobetti, citava una presunta frase di Gasparri come esempio del fatto che la destra avrebbe nel tempo gonfiato ad arte i numeri della tragedia delle foibe, le cui vittime, secondo l’autore, si attesterebbero a poche migliaia. Da lì la decisione del senatore di querelare e, a quanto si evince dalle parole dello stesso Gasparri, della casa editrice di correggere successivamente il tiro.

Carla Cace svergogna il libro “E allora le foibe?”: «Un titolo aberrante e offensivo. Risponderemo». Viola Longo sabato 2 Gennaio 2021 su Il Secolo d'Italia.  Una scelta “aberrante”, che ammicca alla “satira di cattivo gusto”. Ma “un conto è la satira sulla politica, un altro è farla su un genocidio”. Carla Cace, nuovo presidente dell’Associazione nazionale dalmata, interviene sul caso del libro E allora le foibe? di Eric Gobetti che, dietro la facciata del “fact checking”, si annuncia invece come un’operazione negazionista in piena regola. Per Cace quel lavoro, che di fatto mette in discussione l’entità del massacro degli italiani del confine orientale a opera dei partigiani titini, si connota dal titolo come “inaccettabile e offensivo per le migliaia e migliaia vittime delle Foibe massacrate dai partigiani di Tito e per i loro familiari”. Ed è “un insulto anche per tutti gli esuli giuliano dalmati italiani”. “Noi come associazione – ha spiegato la presidente in un’intervista con l’agenzia di stampa Adnkronos – stiamo aspettando di avere una copia del libro appena uscirà per analizzarne il contenuto. Ma già il titolo e la locandina non promettono nulla di buono”. “E allora le Foibe? Ma come si può fare un titolo simile?”, si domanda quindi la Cace, ricordando che quella frase era il perno di uno sketch della comica Caterina Guzzanti. Dunque, “una frase che sa di satira di cattivo gusto, una frase che è diventata un tormentone social di una certa area politica”. Ma “un conto è la satira sulla politica, un altro su un genocidio”, ha sottolineato la presidente dell’Associazione nazionale dalmata, parlando di “una copertina giustificazionista e revisionista”. “Intanto – ha spiegato – denunciamo la palese inopportunità del titolo che offende tutti noi, una scelta a dir poco aberrante”. “Ricordiamo a tutti – ha quindi aggiunto Cace – che esiste dal 2004 una legge dello Stato, che va a ricordare la strage delle Foibe e le migliaia di esuli. Poi, una volta recuperata una copia, alcuni nostri storici, lo studieranno e risponderanno, con un pamphlet, punto per punto sui contenuti”. Infine, una considerazione anche sull’asilo che l’operazione hanno trovato in una casa editrice “importante” come Laterza. “Ha il dovere culturale di indirizzare, ci lascia perplessi che si sia prestata a questo gioco”, ha detto Cace, ricordando anche che il “volume uscirà un mese prima del Giorno del Ricordo delle Foibe: un’altra mossa che riteniamo molto offensiva”. “Purtroppo – ha concluso la presidente dell’Associazione nazionale dalmata – nonostante si sia lavorato molto sull’argomento, il tema delle Foibe è ancora molto divisivo. Non è la prima volta e non sarà l’ultima”.

Foibe, dall’Anpi ai sedicenti “storici”: ecco la galleria degli orrori negazionisti. Gigliola Bardi mercoledì 10 Febbraio 2021 su Il Secolo d'Italia. Sono passati ormai 17 anni da quando una legge dello Stato, promossa dall’allora deputato di An, Roberto Menia, istituì il Giorno del Ricordo. Da allora ogni 10 febbraio sono previste commemorazioni e cerimonie pubbliche per omaggiare e impedire che vada persa la memoria degli italiani gettati nelle Foibe dai partigiani comunisti di Tito e di quelli cacciati dalle loro terre e costretti all’esodo. Eppure, nonostante il Giorno del Ricordo abbia ormai quasi raggiunto la “maggiore età” e da più parti siano stati profusi sforzi per renderlo memoria collettiva e condivisa, in questo 10 febbraio 2021, intorno alle Foibe bisogna ancora stare a fare i conti con negazionisti, riduzionisti, giustificazionisti di ogni fatta. Tanto che la questione tiene banco quasi quanto – talvolta perfino di più – della stessa commemorazione. Il Corriere della Sera di oggi dedica al tema un lungo articolo firmato da Goffredo Buccini, dal titolo “Foibe, farla finita con l’oblio. Riconquistiamo la memoria”. Nel pezzo, che si apre parlando esplicitamente di “pulizia etnica”, Buccini ricorda il recente caso del libro E allora le foibe?, edito da Laterza e “a firma – sottolinea il giornalista – di un giovane storico ‘militante’, Eric Gobetti”, che “inciampa nel riduzionismo se non nel giustificazionismo”; rispolvera la vecchia tesi secondo cui “non vi fu nulla di etnico, ma molto di politico e di antifascista nell’operazione” dei comunisti titini; “lima il conto delle vittime”. Buccini si sofferma quindi sul vero nodo della questione memoria delle Foibe: “Sulla sua cifra ‘politica’ si fonda la cappa di silenzio che per decenni ne ha coperto la storia”. Ovvero sul ruolo del Pci che ebbe tanta parte nel coprire i massacri ed emarginare come reietti “fascisti” gli esuli. Sul Giornale, poi, Fausto Biloslavo, in un pezzo dal titolo “Eventi cancellati e insulti. Negare le Foibe si può”, offre una vera e propria galleria degli ultimi orrori negazionisti intorno al Giorno del Ricordo. Per Biloslavo “l’episodio più grave, perché coinvolge le scuole” è la “cancellazione, dalla sera alla mattina, del 10 febbraio all’istituto Fossati-Da Passano di La Spezia”. Uno dei relatori, fra i quali c’era anche Andrea Manco, presidente locale dell’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia e figlio di un esule da Pola, era l’avvocato Emilio Guidi. Guidi, da sempre impegnato sulla tragedia delle foibe, anni fa fu candidato alle comunali con CasaPound. E tanto è bastato perché una insegnante scrivesse una lettera infuocata contro l’evento. Ricevendo pieno ascolto dal dirigente dell’ufficio scolastico regionale Roberto Peccenini, che lo ha cancellato con la bizzarra motivazione di assenza di “pluralismo culturale”, in un momento in cui il Paese è alle prese con “la crisi sanitaria ed economica”. In una scuola di Portogruaro, poi, la dirigente scolastica ha rigettato la richiesta degli studenti di sentire un’esule, sostenendo che “del Giorno del Ricordo si occuperanno gli insegnanti di storia”. A Reggio Emilia il consigliere comunale Pd, Dario De Lucia, non ha ritenuto di intervenire in alcun modo per ‘moderare’ sulla propria pagina Facebook un dibattito sulle foibe il cui tenore era “sempre detto che sulle colline carsiche c’era ancora un sacco di posto”; “vedi cosa succede a lasciare le cose a metà”; “l’apologia di calci nel culo esiste?”; “ecco cos’era quell’odore di merda”. Fra i commenti anche quello dell’ex consigliere comunale del Pd, oggi con incarichi di vertice nell’amministrazione, Andrea Capelli, che lamentava come “non abbiamo mai finito di defascistizzare l’Italia”. In Toscana, l’Anpi si è scagliata contro l’invito del Consiglio comunale a Emanuele Merlino, autore della graphic novel Foiba Rossa, incentrato sulla storia della Medaglia d’oro al valor civile Norma Cossetto. A Vicenza, sempre l’Anpi, ha tuonato contro la decisione del consiglio comunale di intitolarle una piazza. Un caso simile si era verificato a Reggio Emilia, dove hanno messo in discussione la stessa attribuzione della Medaglia d’oro. A Pavia la censura della Rete antifascista si è abbattuta sulla presentazione del libro del Giornale, Verità infoibate. Mentre, ricorda Bilosvalo, “la grande stampa” ha concesso “ampio risalto” a E allora le foibe?, “omettendo di pubblicare le foto dell’autore con una maglietta con il faccione di Tito e il pugno chiuso”. Infine, una menzione particolare merita quell’anonimo che sui social ha postato una foto mentre urina su una cavità del terreno che sembra una foiba, con il commento “Io ricordo”. Un episodio che dà l’esatta misura della levatura dei negazionisti delle foibe e di quanto ancora resti da fare.

"E allora le foibe?" l'inaccettabile libro che offende gli infoibati. La casa editrice Laterza ha pubblicato un libro dello storico Eric Gobetti intitolato "E allora le foibe?", un titolo offensivo nei confronti delle migliaia di italiani uccisi dai partigiani comunisti titini che esce a pochi giorni dalla "Giornata del Ricordo". Francesco Giubilei, Martedì 29/12/2020 su Il Giornale. Non giudicare un libro dalla copertina è la prima lezione che si impara in una casa editrice. La seconda è che il titolo e la copertina sono aspetti fondamentali per vendere un libro. È quello che devono aver pensato alla casa editrice Laterza quando hanno scelto il titolo del nuovo testo dello storico Eric Gobetti in uscita a metà gennaio “E allora le foibe?”. Premettiamo che, dovendo ancora uscire, non abbiamo letto il libro in questione e ci limiteremo perciò ad alcune osservazioni sul titolo, il contenuto della sinossi e il profilo biografico dell’autore. La libertà di parola e di espressione sono due elementi cardine della democrazia ma lo è anche il rispetto per i morti e l’etica dovrebbe essere un elemento alla base dell’operato di ogni editore, in particolare per un marchio storico come Laterza. Intitolare un libro “E allora le foibe?” per vendere qualche copia in più e per creare un dibattito su una tragedia costata la vita a migliaia di persone, è inaccettabile. Anche il periodo di pubblicazione non è casuale a pochi giorni dal 10 febbraio in cui ricorre il “Giorno del Ricordo” istituito con la legge 40 marzo 2004 n.92 per «conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale». Come afferma Emanuele Merlino, presidente del Comitato 10 Febbraio: “trovo vergognoso che nel 2021 una casa editrice così importante possa dar spazio a prodotti editoriali provocatori già dal titolo e che nascono con l’intento di sminuire la tragedia degli italiani di Istria fiume e Dalmazia riconosciuta come tale dagli italiani partire dai Presidenti della Repubblica che hanno detto parole definitive sull’argomento”. Lo scorso anno Sergio Mattarella si è espresso senza giri di parole definendo le foibe e l’esodo una “sciagura nazionale” con un monito contro il negazionismo. Parole che non devono essere giunte all’orecchio di Eric Gobetti che qualche anno fa si fece fotografare con il pugno chiuso di fianco a un ritratto di Marx, con il fazzoletto rosso al collo e alle spalle la bandiera dei partigiani titini, gli stessi che trucidarono migliaia di italiani. Difficile che un profilo del genere possa compiere un’analisi oggettiva sulla drammatica vicenda delle Foibe come scritto nella sinossi del libro e senza dubbio, leggendo altri suoi interventi pubblici, fa emergere una visione ideologica, il contrario di quanto dovrebbe fare un bravo storico. D’altro canto continuare a definire le vittime delle foibe “fascisti” come fa Gobetti (citiamo testualmente: “nella narrazione pubblica del Giorno del Ricordo si sta affermando sostanzialmente la visione per la quale solo i partigiani sono carnefici, mentre i fascisti sono solo vittime”) e non persone la cui unica colpa era quella di essere italiani, vuol dire travisare del tutto la realtà dei fatti. Sconcertante che un editore come Laterza si presti a un’operazione editoriale di questo genere con un titolo provocatorio e offensivo che per rispetto delle vittime delle foibe, dei loro parenti e di tutti gli italiani, andrebbe per lo meno cambiato.

Quando il confine fu venduto: il massacro nascosto di italiani. La storia di due fratelli, al termine della Seconda guerra mondiale, e il confine orientale ceduto ai titini. Matteo Carnieletto, Lunedì 01/02/2021 su Il Giornale. Nei Promessi Sposi, Alessandro Manzoni le aveva definite "gente meccaniche, e di piccol affare". Operai e artigiani che guadagnano poco e che sono, allo stesso tempo, attori e spettatori impotenti della grande Storia. È quello che succede quotidianamente attorno a noi, mentre il mondo sfreccia sempre più veloce. È quello che è successo a migliaia di italiani al termine della Seconda guerra mondiale, quando l'Italia, sconfitta, si vide costretta a cedere gran parte dei suoi territori orientali alla Jugoslavia di Josip Broz Tito. Chi, fino a quel momento, si sentiva parte del nostro Paese venne abbandonato oltre confine, in una terra che si faceva ogni giorno più ostile e che avrebbe visto la fuga di almeno 300mila connazionali. Una emorragia che sarebbe durata 13 anni - dal 1943 al 1956 - e che avrebbe preso il nome di esodo giuliano dalmata. Ma non tutti scapparono. A decine di migliaia finirono prima ammazzati e poi gettati nelle foibe, le cavità carsiche che tutto inghiottono. È in questa cornice che, ne Il confine tradito (Leone editore), Valentino Quintana dipinge la storia dei fratelli Gherdovich, Giorgio e Mattia. Due personaggi sui generis. Il primo, prima di essere un fascista deluso, è un galantuomo che ama l'Italia. Il secondo, un partigiano "che imbraccia la visione del Risorgimento italiano ed europeo". Quando l'8 maggio del 1945 i titini entrano a Trieste, Mattia è in estasi: "Attendeva quel momento da anni: suo era il compito di raccontare ai triestini l'iniquità del Fascismo, esaltare la libertà e la lotta di liberazione e la tanto agognata resa dei tedeschi". La realtà, come è noto, è però diversa. Per quaranta giorni i titini martoriarano Trieste: "I prelievi di persona da parte degli occupanti jugoslavi non cessavano e la gente continuava a parlare insistentemente del 'Pozzo della Miniera' di Basovizza, una voragine profonda 250 metri, nella quale, se ci riferiva alle voci correnti, 1200 persone erano già state gettate". La prima tappa degli italiani che non si arrendono a Tito è San Pietro del Carso, dove avviene la cernita dei dissidenti e il loro smistamento in Jugoslavia, per essere poi internati o definitivamente eliminati. Come ricorda Quintana, "il pozzo di Basovizza, la foiba Golobivniza di Crognale, San Servolo, il Castello di Moccò, Scadaiscina, la foiba di Casserova, le sorgenti del Risano, Sant'Antonio in Bosco, Dignano solo alcuni dei luoghi del massacro". Il 12 giugno del 1945 sembra finalmente terminare l'incubo per Trieste. I titini abbandonano la città, portando con sé tutto quello che possono: "A suon di ordinanze, si sequestrò il patrimonio dell'Enic, si rubò dall'ospedale militare tutta l'apparecchiatura, si spogliò la Telve; un'azienda telefonica; si confisarono le macchine della Società editrice italiana de Il Piccolo, il giornale di Trieste, si depredò l'Eiar, l'ente italiano audizioni radiofoniche istituito dal regime fascista. Danni incalcolabili per la città, che subiva una spogliazione senza precedenti". La paura sembra alle spalle: "Dopo quaranta giorni di amara passione il tricolore poteva nuovamente sventolare sulla città, in quella precoce estate, al grido comune di Italia! Italia! Italia!". Ma è solo una illusione. La gente continua a sparire e i due fratelli, che si pensava fossero così diversi, si riscoprono simili. Galantuomini pronti a tutto per la propria terra, che non può non essere italiana.

Per dare un nome ai resti dei Marò infoibati da Tito raccolti 18.000 euro. Fausto Biloslavo su Panorama il 22/1/2021. Un ex Capo di stato maggiore della Difesa, l'Associazione degli incursori di Marina, ma anche i parenti di Norma Cossetto, la martire istriana violentata e infoibata dai partigiani di Tito, esuli, persone comuni e un folto gruppo di amici di Bologna hanno aderito alla raccolta fondi per l'identificazione dei resti dei marò trucidati ad Ossero, sull'isola di Cherso, alla fine della seconda guerra mondiale. Un mese dopo il lancio dell'iniziativa della Comunità degli esuli di Lussino su panorama.it sono stati donati 18.210 euro. Pubblichiamo i nomi dei sostenitori del progetto, che punta a dare un nome e un cognome ai resti di 21 marò della X Mas e 6 militi italiani del battaglione Tramontana di Cherso, che hanno combattuto senza speranze nell'aprile 1945 contro l'avanzata dei partigiani di Tito sulle isole del Quarnero. Le ossa sono state riesumate 74 anni dopo da due fosse comuni dietro la chiesa di Ossero e traslate al sacrario dei caduti d'oltremare di Bari in 27 cassettine avvolte nel tricolore, ma catalogate come "caduto ignoto". «Per finanziare l'identificazione con esame ultra specialistici compresi i sistemi più innovativi nel campo alla comparazione del Dna si sono mobilitati in tanti. Vengo da Tarvisio, dal confine orientale, ho contributo con entusiasmo - spiega Mario Arpino, ex Capo si stato maggiore della difesa - A nove anni ho visto i carabineiri ammazzati a picconate dai partigiani. I titini, accompagnati dai comunisti italiani, sono venuti a prendere mio padre che è riuscito a scappare dal retro correndo verso gli inglesi che stavano arrivando». Il generale ha guidato gli aerei italiani nella prima guerra del Golfo e suo padre non era un criminale di guerra, ma aveva la "colpa" di essere iscritto la Partito fascista come funzionario amministrativo delle Cave del Predil. «Norma per mezzo secolo è stata dimenticata e per i marò ci sono voluti quasi 75 anni per riportarli a casa. Per questo la nostra famiglia ha versato un piccolo contributo per identificarli», spiega Loredana Cossetto. Suo padre, Giuseppe, era il cugino della martire istriana, che le ha liberato i polsi legati con il filo di ferro dopo la riesumazione dalla foiba nel 1943. Alcuni familiari dei marò rintracciati dalla Comunità degli esuli di Lussino hanno partecipato alla raccolta fondi. Tarcisio Arca, nipote di Fabio Venturi, spiega che «mia madre Lucia ha sempre pensato che il fratello fosse disperso. Non avevano neppure idea dove l'avessero ucciso». L'ultimo segnale di vita sono delle lettere e cartoline da Venezia, nel 1944, con il giovanissimo marinaio sorridente davanti alla basilica di San Marco, in attesa di partire per il fronte. «Fabio più che fascista si sentiva italiano. Nelle lettere non parlava mai della guerra e mandava sempre «un saluto alla piccola Lucia», mia madre - racconta il nipote - Adesso ha ottant'anni, ma è pronta a collaborare per l'identificazione. Sarebbe bellissimo portare lo zio da noi a Terni». L'Associazione nazionale arditi incursori con sede a La Spezia raggruppa i veterani dei Comsubin, i corpi speciali della Marina. Il presidente, contrammiraglio nella riserva, Marco Cuciz, spiega che «abbiamo fatto un versamento come Associazione e inviato i dati per la raccolta fondi a tutti gli iscritti. Per noi erano marinai italiani schierati, dimenticati e alla fine massacrati». Un'altra associazione d'arma, dei Volontari di guerra, originaria fin dai tempi dei garibaldini ha pure partecipato all'iniziativa. La Verità ha finanziato il progetto, ma sono tante le persone comuni e gli esuli nella lista delle donazioni. Il giornalista Massimiliano Mazzanti ha mobilitato «gli amici di Bologna, in ricordo della splendida serata del 1996, quando, con il patrocinio del Comune, allora sindaco Walter Vitali del Pd, nell'aula più prestigiosa della città si ripercorse la gloriosa storia della X Mas, con gli interventi del comandante Sergio Nesi, bolognese e di Giano Accame (intellettuale "scomodo" di destra nda), Ugo Franzolin (corrispondente di guerra della X Mas nda) e Aldo Giorleo (veterano della Folgore e giornalista nda)». Fra i sostenitori qualcuno ha "adottato", uno dei fuciliati, come Arrigo Veronesi «per l'identificazione del Marò Giuseppe Ricotta oppure Nino Cozzi per l'identificazione del Marò Iginio Sersanti». All'idea lanciata da Panorama.it ha dato la sua adesione il deputato di Fratelli d'Italia, Salvatore Deidda, capogruppo in Commissione Difesa. «Insieme alla Comunità Caravella di Cagliari ho deciso di aderire e promuovere l'iniziativa - dichiara il parlamentare - Il 2021 è il centenario del Milite Ignoto e in questo caso sarebbe un segnale importantissimo dare un nome e un cognome ai nostri militari e a tutti gli italiani, ma anche sloveni e croati massacrati dal regime comunista di Tito e permettere ai familiari di avere una tomba dove deporre un fiore per piangere i loro cari riemersi dall'oblio ideologico del passato, giusta o sbagliata che fosse la loro scelta». Per il "cold case" di Ossero si è messo a disposizione Paolo Fattorini, esperto di identificazione genetica dell'Università di Trieste, con le tecniche innovative chiamate "next generation". E ha offerto gratuitamente il suo aiuto Francesco Introna, cattedratico di Medicina Legale a Bari ed esperto in antropologia forense, che coordinerà la ricerca scientifica. Da Torino è disponibile Emilio Nuzzolese, responsabile del laboratorio di identificazione personale dell'Università di Torino, persuaso «che - oltre le valenze tecniche sul Dna - potrebbe essere possibile con l'odontologia forense pervenire a maggiori informazioni circa il profilo biologico dei resti umani da identificare, indipendentemente dalla presenza/assenza di schede dentali». I 18.210 euro raccolti in un mese con 169 versamenti di 219 singoli e associazioni dimostra che il "sangue dei vinti", prigionieri di guerra che si sono arresi, riemerge dalla storia come un fiume carsico. In tempi di pandemia e Caporetto economica il successo della raccolta fondi per dare un nome e un cognome ai resti dei marò di Ossero dipende dal fatto che per oltre 70 anni la loro sorte è rimasta un tabù. A distanza di 75 anni dal tragico maggio del 1945 continuiamo l'opera di verità per fare luce su una delle pagine più drammatiche della storia locale e nazionale. Il timore di strumentalizzazioni o di suscitare rancori non deve impedirci di onorare la memoria dei nostri fratelli scomparsi. Per le deportazioni da Gorizia da parte di partigiani comunisti filo jugoslavi abbiamo trovato un nuovo elenco di nomi da aggiungere alla lista già riportata sull'esistente lapidario al parco della Rimembranza del capoluogo isontino. La Lega nazionale ha recuperato presso la Farnesina le liste originali delle deportazioni datate 1 ottobre 1945. Fra le centinaia di documenti, anche inediti, abbiamo trovato un rapporto dell'ambasciatore inglese secondo il quale a Lubiana c'erano circa 4000 prigionieri italiani. La Nunziatura della Sante Sede elenca 1560 persone deportate da Gorizia. Dopo un approfondito lavoro di ricerca sulle liste e sui rientri successivi al 1 ottobre '45, incrociando i dati emersi fino ai nostri giorni, abbiamo ricavato 101 nomi di deportati in più (rispetto ai 665 già riportati sul lapidario esistente nda) e ottenuto l'approvazione dalla Soprintendenza per la posa di un nuovo monumento. Sul secondo lapidario verranno riportati i nuovi nomi "delle vittime ingiustamente spezzate con le deportazioni (…) per mano di partigiani comunisti filo Jugoslavia". Per la prima volta si individueranno chiaramente i responsabili dei crimini nei partigiani comunisti, come su centinaia di monumenti vengono giustamente ricordate le vittime del nazi-fascismo. Il 50% dei fondi è stata già reperita, ma serve uno sforzo per compiere l'opera, che potrebbe venire inaugurata il 9 febbraio 2022, alla vigilia del Giorno del ricordo della tragedia delle foibe e del dramma dell'esodo. E ogni anno saranno aggiunti sul nuovo lapidario gli ulteriori nomi dei deportati accertati dalle ricerche storiche. Luca Urizio presidente della Lega nazionale di Gorizia.

·        Il Genocidio degli armeni.

"Ecco come fu pianificato il genocidio degli Armeni". Matteo Sacchi il 17 Settembre 2021 su Il Giornale. Lo storico turco, oggi a Pordenone legge, ci racconta perché ancora oggi la Turchia finge di non sapere. Fra gli eventi più attesi al festival Pordenonelegge, oggi, la presentazione del libro Killing Orders. I telegrammi di Talat Pasha e il genocidio armeno (Guerini e Associati) di Taner Akçam, coraggioso intellettuale e storico turco, da anni rifugiatosi negli Stati Uniti per la sua lotta a favore della verità sul destino del popolo armeno e ancora oggi persona sgradita per il regime di Ankara. Alle 11 (nello Spazio San Giorgio) Akçam racconterà, tradotti per la prima volta in lingua italiana, i telegrammi di Talat Pasha, l'architetto del Metz Yeghern, il Grande Male, lo sterminio. Ha accettato di parlarne in anticipo con il Giornale.

Professor Taner Akçam come mai attorno al genocidio armeno c'è stato un silenzio così lungo?

«Possiamo rispondere alla domanda su tre diversi livelli: primo, dal punto di vista degli armeni. Ci sono voluti decenni perché il popolo armeno portasse il genocidio nella sua agenda. A differenza dell'Olocausto, i governanti ottomani iniziarono il genocidio sterminando intellettuali e leader comunitari armeni. Gli armeni hanno perso quasi tutta la loro classe intellettuale durante il processo di genocidio. E ci sono volute tre-quattro generazioni di armeni per costruire le condizioni di una riflessione intellettuale su quanto era successo al loro popolo. Il piccolo stato armeno, fondato nel 1918, perse la sua indipendenza nel 1921 e fu bolscevizzato. Parlare di genocidio in Armenia fu vietato fino al 1965. A causa di tutti questi fatti, gli armeni hanno potuto alzare la voce con forza solo dopo il 1965, ma non avevano abbastanza potere. Quando cominciarono ad alzare la voce, nessuno li udì».

E la Turchia?

«Il secondo livello di cui le dicevo è la Turchia. La Turchia è stata fondata principalmente dal partito e dai quadri che hanno organizzato il genocidio armeno. Il nuovo regime ha vietato di parlare di storia e l'ha resa tabù. Cosa sarebbe successo se i nazisti avessero fondato la Germania di oggi? L'espulsione forzata degli Armeni superstiti dalla Turchia in vari modi continuò nei primi anni della Repubblica. Non c'è più alcuna comunità in Turchia che possa portare alla luce le esperienze degli armeni. La piccola comunità di Istanbul ha vissuto nella paura. E poi il terzo livello: l'opinione pubblica internazionale. Il tema del genocidio avrebbe potuto essere sollevato, soprattutto nel mondo occidentale, ma per le grandi potenze sarebbe impensabile rendere la vita difficile a una Turchia che è diventata membro della Nato. Quando tutti questi fattori sono messi insieme, penso che il silenzio intorno al genocidio armeno sia comprensibile».

Ha trovato documenti che provano che il genocidio è stato pianificato con cura. Quali?

«Classificherei questi documenti in due diversi livelli. La prima categoria di documenti è quella che mostra che l'intero genocidio è stato organizzato come un piano demografico. I governanti ottomani miravano a deportare gli armeni, che costituivano il 25% della popolazione nelle regioni in cui erano concentrati, come la Siria, e ridurre il loro numero a un livello che non supererebbe il 10%. Ciò significava ridurre gli armeni da 1,8 milioni a circa 150mila. E hanno raggiunto gli obiettivi. Infatti, il numero di armeni sopravvissuti al genocidio in Siria è stato di circa centomila. È possibile seguire questo processo con centinaia di documenti attualmente disponibili negli archivi di epoca ottomana. Il secondo gruppo di documenti è costituito da carte relative a ordini o pratiche di uccisione diretta. È possibile raccoglierli in tre diversi gruppi. La prima sono le lettere e i telegrammi contenenti le decisioni e gli ordini di sterminio scritti da Bahaettin akir, membro del Comitato centrale del Partito dell'Unione e del Progresso e responsabile della Tekilat-i Mahsusa (Organizzazione speciale) incaricata di sterminare gli armeni. Il secondo sono le decisioni di sterminio locale limitate ad alcune province prese dal Comitato centrale di Erzurum dell'Organizzazione speciale. Il terzo gruppo sono gli ordini di sterminio di Talat Pasha, il ministro degli Interni. Ho pubblicato alcuni di questi documenti nel mio libro Killing Orders».

Perché i telegrammi di Talat Pasha sono così importanti per comprendere la genesi del genocidio?

«Questi telegrammi sono ordini di uccisione diretta: erano tutti documenti cifrati scritti con codici speciali del ministero dell'Interno. Quindi, la loro autenticità è fuori discussione. Non possono negare che si tratti di documenti autentici. Questi documenti sono il colpo più significativo alle politiche di negazione dei governi turchi che esistono da decenni»

Perché la Turchia di oggi non è disposta ad ammettere le responsabilità di allora, dopo così tanto tempo?

«Ci sono vari motivi per negare. Il primo semplice motivo è la paura di pagare un risarcimento. Se la Turchia accetta che il genocidio ha avuto luogo, sarà obbligata a pagare i risarcimenti. Anche se ti rifiuti di definire gli eventi del 1915 come genocidio, ma riconosci che nel 1915 in Turchia è accaduta una ingiustizia, devi restituire qualcosa. Pertanto, per evitare di farlo, negare completamente il genocidio ha molto senso. La seconda ragione importante per il negazionismo turco è quello che io chiamo il dilemma di trasformare gli eroi in cattivi. L'argomento è semplice: la Repubblica turca è stata fondata dal Partito dell'Unione e del Progresso, gli architetti del genocidio armeno del 1915. E così, un numero significativo dei quadri fondatori della Turchia è stato direttamente coinvolto nel genocidio armeno o si è arricchito saccheggiando le proprietà armene. Ma questi individui erano anche i nostri eroi nazionali. Se la Turchia riconosce il genocidio, dovremo accettare che alcuni dei nostri eroi nazionali e padri fondatori erano assassini, ladri o entrambi. Questo è il vero dilemma. Dall'istituzione della nostra Repubblica, abbiamo creato una realtà comunicativa che pone il nostro modo di pensare e di esistere su Stato e nazione. Alla fine, questa realtà comunicativa ha creato un segreto collettivo che copre come un guanto tutta la nostra società. Ha creato un grande, gigantesco buco nero. Questo silenzio segreto ci avvolge come una coperta calda e soffice. L'ultimo motivo della negazione turca del genocidio armeno è quello che io chiamo argomento di Pinocchio. È difficile cambiare te stesso una volta che hai detto una bugia, anche nella normale vita quotidiana. Uno stato che mente da 90 anni non può semplicemente invertire rotta».

Quali sono le difficoltà che incontra uno storico nel reperire documenti di quell'epoca?

«La difficoltà principale è che i governi turchi hanno nascosto i documenti critici agli studiosi nel corso dei decenni. Gli archivi furono ripuliti durante i successivi governi repubblicani, in particolare il governo dell'Unione e del Partito del Progresso, che organizzarono il genocidio. Se i documenti critici nell'archivio non venivano bruciati o distrutti venivano comunque segretati. Ad esempio, gli archivi militari ad Ankara sono ancora chiusi agli studiosi che vogliano valutarli. È difficile da immaginare, ma tutti i documenti relativi alla Prima guerra mondiale e alle deportazioni armene non sono accessibili».

Matteo Sacchi. Classe 1973, sono un giornalista della redazione Cultura e Spettacoli del Giornale e tenente del Corpo degli Alpini,  in congedo. Ho un dottorato in Storia delle Istituzioni politico-giuridiche medievali e moderne  e una laurea in Lettere a indirizzo Storico conseguita alla Statale di Milano. Il passato, gli archivi, e le serie televisive sono la mia passione. Tra i miei libri e le mie curatele gli ultimi sono: “Crudele morbo. Breve storia delle malattie che hanno plasmato il destino dell’uomo” e “La guerra delle macchine. Hacker, droni e androidi: perché i conflitti ad alta tecnologia potrebbero essere ingannevoli è terribilmente fatali”. Quando non scrivo è facile mi troviate su una ferrata, su una moto o a tirare con l’arco. 

Le tensioni. USA riconoscono il genocidio degli armeni: schiaffo di Biden alla Turchia, Erdogan furioso. Antonio Lamorte su Il Riformista il 22 Aprile 2021. Una decisione storica, quella che avrebbe preso il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Riconoscere il genocidio degli armeni. Furono circa un milione e mezzo le vittime dell’Impero Ottomano tra il 1915 e il 1916. Una strage commemorata ogni anno il 24 aprile e da sempre fonte di grande imbarazzo e tensioni, soprattutto per la Turchia. Che quel massacro lo ha sempre negato e che adesso è furiosa, e con lei il Presidente Recep Tayyip Erdogan. A oggi sono una trentina i Paesi che in tutto il mondo hanno riconosciuto ufficialmente il genocidio. Scatenando sempre grandi polemiche e ritorsioni da parte di Ankara. A dare la notizia il New York Times. L’annuncio è previsto per il 106esimo anniversario del massacro di massa. Biden sarò il primo Presidente USA a riconoscere lo sterminio. Tra Washington e Ankara si prevedono tensioni vista anche la loro influenza all’interno dello scacchiere Nato. La Turchia, fondamentale come avamposto eurasiatico dell’Organizzazione, ha minacciato di chiudere la base militare di Incirlik, dove sono ospitate testate nucleari americane. La posizione del Paese è quella di considerare il genocidio all’interno degli scontri della Prima Guerra Mondiale. Il riconoscimento americano è comunque il risultato di anni di sforzi della diaspora armena negli Stati Uniti. A fine ottobre il Congresso americano, controllato dai democratici, ha approvato a larghissima maggioranza una mozione che ha riconosciuto il primo genocidio del ventesimo secolo. Poche settimane dopo, a metà Novembre, il turno del Senato americano, ancora a maggioranza repubblicana, a votare all’unanimità il riconoscimento del genocidio. Una scelta bipartisan dunque. A confermare il largo consenso che ormai il tema gode presso la politica e l’opinione pubblica anche un editoriale da Samantha Powell, diplomatica che aveva servito anche nella seconda amministrazione del Presidente Barack Obama e membro del Partito Democratico, sul The New York Times. Nel articolo si faceva riferimento al riconoscimento come a un atto dovuto e anche alla fine delle pressioni della Turchia la cui “pressione autocratica” aveva spinto gli Stati Uniti al silenzio “per troppo tempo”. Pochi giorni dopo Ankara convocò l’ambasciatore degli Stati Uniti. Dall’elezione di Biden molto è cambiato nell’atteggiamento nella politica estera a stelle e strisce. Il Presidente ha confermato il ritiro entro l’11 settembre delle truppe dall’Afghanistan ma ha anche riaperto il dossier sul nucleare iraniano e gli accordi di Abramo. Segnali per contenere l’influenza di Ankara sia in Siria che in Libia, dove la Turchia da battitore libero gioca un ruolo di leader regionale in un Medioriente allargato. Solo poche settimane fa, dopo il caso del Sofagate – della sedia mancante per la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen in un vertice in Turchia – il Presidente del Consiglio Mario Draghi aveva definito Erdogan “un dittatore”. Parole che avevano scatenato tensioni tra Roma e Ankara.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

·        Il Genocidio degli Uiguri.

(ANSA il 22 aprile 2021) La Camera dei Comuni britannica ha approvato stasera una mozione, promossa senza il placet del governo di Boris Johnson, che riconosce come "un genocidio" la repressione delle autorità di Pechino contro la minoranza musulmana degli uiguri nello Xinjiang. La mozione non impegna l'esecutivo, secondo il quale un eventuale verdetto del genere spetta prima a una corte internazionale, ma è stato promosso da deputati sia delle opposizioni - Labour in testa - sia della maggioranza, come l'ex leader conservatore Iain Duncan Smith o l'ex sottosegretaria Nus Ghani, entrambi sanzionati dalla Cina in un recente atto di ritorsione.

Dagotraduzione dal Sun il 25 settembre 2021. Secondo gli attivisti cinesi, Pechino sta conducendo barbari esperimenti medici sui musulmani uiguri detenuti presso la loro rete di «campi di rieducazione». Una pratica utilizzata durante il nazismo, quando i medici sottoponevano gli ebrei e le altre minoranze perseguitate a esperimenti medici e che, una volta emersa alla fine della Seconda Guerra Mondiale, sconvolse il mondo intero. Un rapporto di Amnesty International rivela che gli ex prigionieri hanno denunciato di essere stati sottoposti ad esperimenti medici, proprio come facevano i nazisti. Secondo le stime occidentali, tra un milione e due milioni di persone nella provincia nordoccidentale dello Xinjiang sono state incarcerate in strutture cinesi durante la campagna di oppressione di Pechino. Sacha Deshmukh, CEO di Amnesty International UK, ha dichiarato a The Sun Online: «Il trattamento a cui sono sottoposti gli uiguri nei campi dello Xinjiang è a dir poco orribile. Sappiamo che è diffusa la convinzione tra i detenuti che su di loro venga praticata la sterilizzazione forzata e siamo preoccupati anche per altre forme di sperimentazione medica senza consenso». «La nostra ricerca ha sollevato seri sospetti sulla documentazione del governo relativa alla somministrazione dei vaccini, e in particolare sulla frequenza allarmante con cui alcuni detenuti hanno riferito di essere stati iniettati con le vaccinazioni». «L'unico modo per scoprire con certezza cosa sta succedendo nello Xinjiang è consentire agli osservatori dei diritti umani e ai giornalisti di avere libero accesso, fino ad allora qualsiasi smentita suona solo vuota». Secondo le denunce degli ex prigionieri, i detenuti avrebbero ricevuto iniezioni misteriose e prelievi di sangue senza motivo. «Alcuni detenuti hanno detto di aver ricevuto iniezioni o di dover prendere pillole ogni due settimane». Secondo le testimonianze, dopo aver ingerito queste pillole, i detenuti sembravano «felici» o «ubriachi». Alcuni ex detenuti maschi sostengono che l’assunzione di questi medicinali li ha resi impotenti, altri hanno riferito perdite di memoria, della vista o del sonno. Una ex detenuta, Sayragul Sauytbay, musulmana cinese di 45 anni di origine kazaka, ha raccontato la sua esperienza nei campi che risale al novembre 2017. Parlando al quotidiano israeliano Haaretz, ha detto: «Ai detenuti sono state somministrate pillole o iniezioni. Gli è stato detto che servivano a prevenire alcune malattie, ma le infermiere mi hanno suggerito in segreto di non ingoiarle perché erano pericolose». «Le pillole hanno avuto diversi tipi di effetto. Alcuni prigionieri erano cognitivamente indeboliti. Le donne hanno smesso di avere il ciclo e gli uomini si sono ritrovati sterili». Anche un tribunale cinese indipendente, di stanza a Londra e presieduto da Sir Geoffrey Nice QC, nominato cavaliere per i suoi servizi alla giustizia penale internazionale, ha concluso l'anno scorso che ai prigionieri vengono prelevati gli organi mentre sono ancora vivi. Il Tribunale ha concluso che «migliaia di persone innocenti sono state mutilate e i loro corpi aperti mentre erano ancora vivi per fare in modo che reni, fegato, cuore, polmoni, cornea e pelle potessero essere rimossi e trasformati in merce da vendere». Proprio per questo motivo, il dottor Adnad Sharif, del Dipartimento di Nefrologia e Trapianti al Queen Elizabeth Hospital di Birmingham, ha chiesto di boicottare la pubblicazione di ricerche scientifiche sui trapianti con provenienza la Cina. Sul British Medical Journal, Sharif ha scritto: «Considerate le accuse, credibili, e in assenza di prove contrarie, possiamo essere sicuri che la pratica cinese sia conforme al diritto internazionale e alle norme etiche?». «Molte riviste hanno rifiutano le ricerche sui trapianti che utilizzano organi di prigionieri giustiziati. Ma oltre il 90% dei 445 studi cinesi sui trapianti pubblicati tra il 2000 e il 2017 non hanno seguito questa linea editoriale». Sharif ha accusato le riviste di «complicità e azzardo morale».  

Usa vietano importazioni ad alcune società cinesi: “Sfruttano lavoro forzato degli Uiguri”. Le Iene News il 26 giugno 2021. La Casa Bianca ha deciso di sanzionare alcune aziende cinesi attive nella produzione nel commercio di materiali per i pannelli solari. Per il Dipartimento del commercio Usa sfruttano il lavoro forzato degli Uiguri: un tema di cui noi de Le Iene ci siamo occupati con la nostra Roberta Rei. “Sfruttano il lavoro forzato degli Uiguri”: gli Stati Uniti hanno disposto il divieto sulle importazioni negli Usa di uno dei materiali principali per la produzione di pannelli solari dalla società cinese Hoshine Silicon Industry. La motivazione è chiara: quei materiali sono ottenuti - almeno secondo il Dipartimento del commercio americano - sfruttando anche i lavori forzati a cui sono obbligati gli Uiguri nella regione dello Xinjiang. Altre tre aziende si sono viste imporre limiti all’esportazione verso Washington dei loro prodotti. Durissima la motivazione rilasciata dal Dipartimento del commercio e divulgata da Reuters: secondo loro quelle aziende “sono state coinvolte in violazioni e abusi dei diritti umani nell’attuazione della campagna cinese di repressione, detenzione arbitraria di massa, lavori forzati e sorveglianza tramite l’uso di tecnologie avanzate contro Uiguri, Kazaki e altri membri di minoranze musulmane nello Xinjiang”. A Marzo l’Unione europea aveva direttamente sanzionato quattro funzionari della provincia dello Xinjiang, dove da tempo è in corso la repressione degli Uiguri. I quattro dirigenti non potranno entrare sul suolo europeo e i loro beni sotto la giurisdizione dell’Ue saranno congelati. Oltre ai quattro funzionari, l’Ue ha imposto un embargo sui prodotti della Xinjiang Production and Construction Corps, legata all’esercito di Pechino che impiega circa un decimo della popolazione della provincia. È stata la prima volta dalla strage di piazza Tienanmen che l’Ue impone sanzioni contro la Cina. Gli Uiguri sono una minoranza etnica turcofona di fede musulmana che vive in Cina. Della loro storia si è occupata la nostra Roberta Rei, raccontandoci questo popolo, composto di milioni di persone, e di come la potenza militare e tecnologica del governo di Pechino sembrerebbe esser stata usata contro di loro per annientarli. Le più autorevoli organizzazioni che si occupano di diritti umani pensano che gli Uiguri siano vittime del più grande internamento di massa dalla Seconda guerra mondiale. Anche Papa Francesco ha definito gli Uiguri “perseguitati”. Gli Uiguri sono circa 16 milioni, di cui 11 vivono nella regione dello Xinjiang, nel nord ovest della Cina. Dopo una lunga storia di tensioni con il governo di Pechino, le cose sono precipitate con l’avvento al potere del presidente Xi Jinping, anche a causa di una serie di attentati terroristici compiuti da Uiguri. Da qui il governo cinese ha lanciato un’offensiva durissima, che però non toccherebbe solo i terroristi ma tutto il popolo degli Uiguri. “È parte della strategia cinese etichettare come terrorismo tout-court una richiesta di diritti culturali”, ci dice Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. “Da qui questa politica di chiuderli in luoghi eufemisticamente chiamati Centri per la formazione professionale che sono campi di concentramento veri e propri”. Roberta Rei ci racconta cosa sembra accadere in quei campi grazie a una testimone diretta. “Sono stata lì dentro un anno, tre mesi e dieci giorni. Ho contato ogni singolo giorno”, ci racconta la donna. “Lo stupro è all’ordine del giorno”, ci racconta una testimone diretta di quanto avverrebbe in quei campi di prigionia. “Ho visto donne impazzire. Andavano nei bagni, prendevano gli escrementi e si disegnavano baffi e barba. Dicevano: ‘guarda, sono diventata un uomo’”. Notizie che destano ancora più clamore, considerando che oggi 26 giugno ricorre la Giornata internazionale a sostegno delle vittime di tortura, proclamata dalle Nazioni Unite il 12 dicembre del 1997. Ecco qui sopra, nel servizio di Roberta Rei, il suo racconto e perché il destino degli Uiguri ci riguarda da vicino.

La Cina, gli Uiguri e i campi di prigionia segreti. Le Iene News il 15 dicembre 2020. Gli Uiguri sono una minoranza etnica turcofona e di fede musulmana che vive in Cina: il governo di Pechino sembra aver usato la sua forza militare e tecnologica per perseguitarli. Con l’aiuto di una ex prigioniera e del portavoce di Amnesty International Italia, Riccardo Noury, Roberta Rei ci fa conoscere cosa sembra accadere nei campi di prigionia segreti. E perché questo ci riguarda da vicino.

Perché la repressione degli Uiguri da parte della Cina ora è una questione europea. Imponendo sanzioni a Pechino per la prima volta dal 1989, Bruxelles mette fine allo status quo delle relazioni con il gigante asiatico. Ecco quali sono le conseguenze. Federica Bianchi su L'Espresso il 7 aprile 2021. I rapporti tra la Cina e l’Europa non saranno più gli stessi. Dopo anni di relazioni cordiali in nome degli interessi economici dei 27, nell’ultima settimana di marzo Bruxelles ha varato contro Pechino le prime sanzioni dai tempi del massacro di piazza Tiananmen nel 1989, spalancando le porte a un più complesso rapporto di forza con il nuovo peso massimo della politica internazionale. Le sanzioni decise all’unanimità sono state poca cosa. Coinvolgono solo un’impresa e quattro responsabili di medio livello e risparmiano Chen Changuo, l’ideatore della repressione sistematica del popolo uiguro nella regione dello Xinjiang. Ma il fatto che siano state per la prima volta coordinate con gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e il Canada ha rafforzato il messaggio. E Pechino ha risposto con forza, ribadendo che l’Occidente deve smettere di interferire nei suoi affari interni. E, a due ore dall’annuncio, ha a sua volta imposto sanzioni a dieci cittadini europei, tra europarlamentari e studiosi, nove britannici, due americani e un canadese, oltre a nove organizzazioni che studiano la Cina e il suo costante abuso dei diritti umani. «La reazione è il segnale che finalmente stiamo facendo la cosa giusta», ha detto da Washington Adrian Zenz, lo studioso tedesco che da anni segue il dramma di tibetani e uiguri, e che ha denunciato, dati e testimonianze alla mano, l’oppressione del popolo uiguro perpetrata dai cinesi a partire dal 2017: «Pechino non teme più nessuno. Difendere gli uiguri non è soltanto una questione di diritti umani ma anche di sicurezza nazionale». I numeri non lasciano dubbi su quello che sta succedendo in questa immensa regione occidentale all’ombra dell’altipiano tibetano. Di origine turcomanna e di fede musulmana, gli uiguri sono circa 11,5 milioni. Storicamente, come i tibetani, hanno goduto di autonomia culturale e sociale all’interno delle loro comunità. Ma nell’ultimo ventennio non si sono adeguati allo sviluppo economico e al credo materialista imposto al Paese dal partito comunista. Sono rimasti una comunità arretrata, legata alla terra, alla religione e alle tradizioni. Quando hanno cercato di rafforzare le proprie radici culturali nei primi anni Duemila i cinesi hanno risposto con l’oppressione. Sono seguite le sommosse di Urumqi nel 2009 e l’auto bomba a piazza Tiananmen nel 2014. «Una situazione inaccettabile per un partito totalitario che vede come minaccia al proprio potere qualsiasi comunità, credo o ideologia alternativa», dice Zenz. Così nel 2016 il presidente Xi Jinping invia nello Xinjiang Chen, il governatore che domò col sangue le proteste tibetane del marzo 2008. Prima mossa: l’assunzione di centomila poliziotti e la costruzione di settemila stazioni di polizia in dodici mesi. Seconda mossa: l’apertura dei campi di rieducazione e dei campi di lavoro forzato (pubblicizzati nel resto della Cina come dorate opportunità lavorative per gente rozza e ignorante) in cui sono entrati circa 1,8 milioni di uiguri, quasi un quinto dell’intera popolazione. Infine, Chen crea scuole-dormitorio destinate a uniformare al credo del Partito i figli di detenuti, internati e prigionieri. Gli intellettuali e i personaggi carismatici che si oppongono a questa strategia sono spediti in un carcere da cui difficilmente riemergeranno. È lo stesso metodo applicato al dissidente cinese Liu Xiaobo, Nobel per la pace “in absentia” nel 2010, morto in prigione nel 2017, e copiato oggi da Vladimir Putin per l’oppositore Aleksey Navalny. Il simbolo della resistenza uigura è Ilham Thoti, l’economista che criticava la politica cinese nello Xinjiang e chiedeva autonomia per il suo popolo. Arrestato nel 2009 e poi liberato sotto pressione internazionale, nel 2014 è stato nuovamente incarcerato. Da allora è sparito, nonostante la Ue gli abbia conferito nel 2019 il Premio Sacharov, la più alta onorificenza, ritirato dalla figlia Jewher. «Non lo sento del tutto da tre anni, nessuno della mia famiglia ha più sue notizie e temo per la sua vita», dice lei dagli Stati Uniti, dove è rifugiata politica, mentre denuncia le condizioni di vita nei campi di detenzione e di lavoro forzato: «Sono simili a quelle dei campi nazisti. La gente non muore di fame ma le donne sono sistematicamente sterilizzate e violentate in gruppo. A molti vengono somministrate medicine non testate e impedito di dormire; sono torturati con l’elettroshock; sono deprivati regolarmente di acqua e cibo. Vivono in 30-40 in una stanza, devono decidere chi dorme e chi resta in piedi. La doccia è un sogno. Le malattie realtà quotidiana». Per anni le autorità cinesi hanno avuto buon gioco nel rappresentare gli uiguri come pericolosi terroristi, aiutati dal fatto che Washington, all’indomani degli attacchi alle torri gemelle nel 2001, avesse definito il Partito islamico del Turkestan dell’Est (Etim), fondato nel 1997 in Pakistan da uno uiguro poi ucciso nel 2003, un’organizzazione terrorista e l’avesse accusata di incendi, assassinii e attentati a mercati e alberghi su territorio cinese. «Si trattava di uno scambio con la Cina per ottenere l’avallo all’invasione dell’Iraq», dice James Millward, professore di storia cinese all’università di Georgetown: «È dal 2003 che non è più una minaccia». Ma la Cina ha continuato ad usare la propaganda contro l’Etim per giustificare le crescenti misure repressive in Xinjiang fino al novembre scorso, quando gli Usa hanno tolto l’organizzazione dalla lista dei terroristi internazionali. Gli uiguri sono diventati ufficialmente vittime. E non vittime qualsiasi. Secondo l’amministrazione Biden e i parlamenti di Olanda e Canada sono vittime di genocidio. «Quello che le autorità cinesi presentano come un programma di riduzione della povertà è in realtà una misura volta a distruggere le strutture sociali uigure, la loro composizione demografica e il loro modo di pensare», scrive Zenz nel suo ultimo rapporto sul trasferimento forzato di manodopera in Xinjiang: «Secondo la definizione del tribunale penale internazionale si tratta di crimini contro l’umanità». Il volto europeo della battaglia politica a favore degli uiguri è l’eurodeputato socialista francese Raphaël Glucksmann, che come Zenz e il collega verde tedesco Reinhard Bütikofer, capo della Commissione dell’europarlamento per le relazioni con la Cina e l’intera Commissione per i diritti umani, è sulla lista rossa di Pechino. «Proprio noi europei non possiamo dimenticare che la nostra Unione è nata sulle ceneri di una lezione chiave», dice Glucksmann a Bruxelles: «I crimini contro l’umanità riguardano l’intera umanità». Per questo le istituzioni europee non possono più chiudere gli occhi: «La Cina considera noi europei deboli, incapaci di opporci alla sua ascesa. Non possiamo permettere a una potenza che compie tali crimini di crescere senza incontrare resistenza. Dobbiamo smettere di pensare che non possiamo farci nulla». Lo scorso 30 dicembre, dopo sette anni di negoziati, Commissione e Consiglio europeo hanno siglato in fretta un accordo di investimento con la Cina. A volerlo a tutti i costi era stata la cancelliera tedesca Angela Merkel, presidente di turno dell’Unione, con in testa gli interessi di Volkswagen. Il consenso dell’Europarlamento avrebbe dovuto essere una formalità. Ma in soli tre mesi il clima è drasticamente cambiato. E Pechino ha finito per sanzionare proprio coloro che avrebbero dovuto ratificare l’accordo, avallando la tesi di chi ha sempre sostenuto che l’obiettivo cinese non fosse economico ma strategico: allontanare l’Europa dagli Usa nel momento di passaggio tra le due amministrazioni. «Pechino teme un’alleanza internazionale e non è un caso che, a tre giorni dalle sanzioni, abbia spedito il suo ministro della Difesa in Turchia, Grecia, Macedonia, Serbia e Ungheria per parlare di alleanze militari», dice Theresa Fallon, direttrice del Centro studi euro-asiatici di Bruxelles: «Sta dicendo all’Occidente che non sarà facile isolarla». Ma non è detto che l’eccesso di attivismo cinese porti i risultati sperati. L’accordo sugli investimenti siglato a fine anno ha finito involontariamente per fare molta luce sulle persecuzioni nello Xinjiang. L’Unione europea è tenuta a inserire clausole ambientali e sociali nei nuovi accordi internazionali: le parti devono impegnarsi a rispettare le convenzioni sul lavoro dell’Ilo. Ma quando il testo di quell’accordo è stato diffuso il mese scorso è diventato immediatamente chiaro che le uniche aziende europee che ne avrebbero tratto benefici sarebbero state le multinazionali in grado di investire oltre un miliardo di euro e che i cinesi non si sarebbero seriamente impegnati a rispettare i diritti dei lavoratori. Così la questione del lavoro forzato degli uiguri nei campi di cotone dello Xinjian, dove si raccoglie il 20 per cento del cotone mondiale, è diventata una linea rossa talmente imprescindibile da mettere d’accordo i capi di Stato europei sulla bontà delle sanzioni. Contestualmente, la campagna lanciata mesi fa dalla “Coalizione per porre fine al lavoro forzato degli uiguri”, che vuole convincere le multinazionali dell’abbigliamento a cessare l’acquisizione del cotone uiguro, ha ritrovato slancio. Dopo H&M, Nike e Marks & Spencer anche la tedesca Hugo Boss e l’italiana Oviesse hanno annunciato di non avere nessuna azienda della loro filiera che acquista in Xinjiang. La Cina, che nega ogni abuso, ha risposto incoraggiando il boicottaggio contro tali aziende. Dal canto loro politici e attivisti per i diritti umani hanno annunciato di volere lo strumento di un boicottaggio politico ed economico contro le Olimpiadi invernali che Pechino ospiterà nel 2022. «Non chiediamo agli atleti di non competere ma domandiamo agli sponsor di spendere diversamente i loro soldi e ai capi di Stato di non presenziare», dice Bütikofer, cogliendo l’invito di una Coalizione di oltre 180 organizzazioni. Le probabilità che abbiano successo al momento sono poche. Tanta è invece la differenza con tredici anni fa. Le Olimpiadi del 2008 celebrarono Pechino come nuova superpotenza economica. Quelle del 2022 vorrebbero sancirne il ruolo di nuovo leader mondiale. Ma questa volta non tutti avranno voglia di festeggiare.

Campi di prigionia per gli Uiguri, l'Unione europea sanziona la Cina. Le Iene News il 22 marzo 2021. Per la prima volta dalla strage di Piazza Tienanmen nel 1989 l’Unione europea ha sanzionato la Cina. Bruxelles ha imposto limitazioni su quattro dirigenti della provincia dello Xinjiang per violazione dei diritti umani degli Uiguri. Noi de Le Iene vi abbiamo raccontato la condizioni di questa minoranza etnica di fede musulmana con Roberta Rei. L’Unione europea ha deciso di sanzionare la Cina per abuso dei diritti umani: Bruxelles ha imposto restrizioni su quattro funzionari della provincia dello Xinjiang, dove da tempo è in corso la repressione degli Uiguri. I quattro dirigenti non potranno entrare sul suolo europeo e i loro beni sotto la giurisdizione dell’Ue saranno congelati. Oltre ai quattro funzionari, l’Ue ha imposto un embargo sui prodotti della Xinjiang Production and Construction Corps, legata all’esercito di Pechino che impiega circa un decimo della popolazione della provincia. È la prima volta dalla strage di piazza Tienanmen che l’Ue impone sanzioni contro la Cina. Una scelta, quella dell’Unione europea, soprattutto simbolica per denunciare le condizioni degli Uiguri in Cina: secondo diverse analisi indipendenti, oltre un milione di persone sarebbero state rinchiuse in campi di indottrinamento e lavori forzati. Pechino ha reagito duramente, inserendo nella sua “blacklist” dieci parlamentari europei tra cui il capo delegazione per i rapporti con la Cina. Noi de Le Iene vi abbiamo raccontato delle condizioni degli Uiguri in Cina nel servizio di Roberta Rei, che potete vedere in alto. Gli Uiguri sono una minoranza etnica turcofona di fede musulmana: sono circa 16 milioni, di cui 11 vivono nella regione dello Xinjiang, nel nord ovest della Cina. Dopo una lunga storia di tensioni con il governo di Pechino, le cose sono precipitate con l’avvento al potere del presidente Xi Jinping, anche a causa di una serie di attentati terroristici compiuti da Uiguri. Da qui il governo cinese ha lanciato un’offensiva durissima, che però non toccherebbe solo i terroristi ma tutto il popolo degli Uiguri. “È parte della strategia cinese etichettare come terrorismo tout-court una richiesta di diritti culturali”, ci dice Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. “Da qui questa politica di chiuderli in luoghi eufemisticamente chiamati Centri per la formazione professionale che sono campi di concentramento veri e propri”. Roberta Rei ci racconta cosa sembra accadere in quei campi grazie a una testimone diretta. “Sono stata lì dentro un anno, tre mesi e dieci giorni. Ho contato ogni singolo giorno”, ci racconta la donna. “Lo stupro è all’ordine del giorno”, ci racconta una testimone diretta di quanto avverrebbe in quei campi di prigionia. “Ho visto donne impazzire. Andavano nei bagni, prendevano gli escrementi e si disegnavano baffi e barba. Dicevano: “Guarda, sono diventata un uomo””.

Scontro Ue-Cina. Se si tratta di “genocidio”, sappiamo con “che cosa” abbiamo a che fare. Alessandro Maran, Consulente aziendale, appassionato di politica estera, su Il Riformista il 23 Marzo 2021. A 32 anni dai fatti di Piazza Tienanmen, l’Unione Europea è tornata a sanzionare la Cina. E lo ha fatto in coppia con gli Stati Uniti. Nel mirino dell’inedita risposta coordinata delle democrazie liberali, ci sono le azioni repressive di Pechino, dagli oltre 9.000 arresti durante le proteste di Hong Kong del biennio 2019-2020 alla continua violazione dei diritti umani e civili della minoranza islamica e turcofona degli uiguri, nella regione autonoma di Xinjiang. La Cina ha fato immediatamente sapere che “si oppone e condanna con forza le sanzioni unilaterali decise dall’Ue a carico di persone ed entità cinesi rilevanti, citando le cosiddette questioni relative ai diritti umani nello Xinjiang“. Inoltre, solo pochi istanti dopo l’annuncio delle sanzioni della UE, Pechino ha varato a sua volta sanzioni contro cinque eurodeputati di spicco (Reinhard Butikofer, Michael Gahler, Raphaël Glucksmann, Ilhan Kyuchyuk e Miriam Lexmann), la sottocommissione parlamentare per i diritti umani e i massimi accademici europei che si occupano della Cina. In aggiunta, la Cina ha dichiarato di aver sanzionato anche il Comitato politico e di sicurezza del Consiglio della UE, composto da 27 ambasciatori con sede a Bruxelles (ma non è ancora chiaro se gli stessi diplomatici siano stati colpiti) e perfino i think tank consultati di funzionari europei. Dopo la reazione cinese anche l’accordo commerciale Pechino-Bruxelles, come ha scritto Stuart Lau su Politico Europe, è ora attaccato al “supporto vitale”. I parlamentari europei presi di mira dalle sanzioni cinesi minacciano ora di non ratificare il super accordo sugli investimenti tra UE-Cina siglato a dicembre. “Che differenza fanno tre mesi“, ha scritto Lau. Alla fine dello scorso anno, infatti, i leader europei come la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Emmanuel Macron “hanno fatto a gara per assicurarsi un accordo con il presidente cinese Xi Jinping, sperando di rendere la vita più facile ai principali investitori UE in Cina, come le case automobilistiche“. Non per caso, “mentre gli U.S.A. hanno descritto gli abusi di Pechino contro gli uiguri come un genocidio e hanno imposto un embargo commerciale, l’UE ha assunto una posizione molto meno conflittuale. L’elenco di sanzioni accuratamente calibrato annunciato dall’UE lunedì ha preso di mira quattro funzionari cinesi nello Xinjiang e l’ufficio di pubblica sicurezza della regione“. Dato l’approccio prudente (e molto limitato), l’immediato contrattacco di Pechino è giunto perciò inatteso. Con l’escalation, “gli intransigenti Wolf Warriors cinesi hanno fatto sapere di essere disposti a sacrificare l’accordo commerciale con Bruxelles, prendendo di mira direttamente il Parlamento, piuttosto che ricevere lezioni dall’Europa su ciò che considerano una questione di sicurezza interna”. Va da sè che, per molti parlamentari europei, ciò rappresenta un buon motivo per mandare tutto all’aria. A dire il vero, negli ultimi tempi, ogni giorno che passa sembra assestare un nuovo colpo alle relazioni con la Cina. Dopo il primo astioso colloquio tra la nuova amministrazione americana e quella di Xi Jinping la settimana scorsa in Alaska, Washington ha tolto il sigillo alle sanzioni con una mossa, coordinata con l’Unione Europea e la Gran Bretagna, che rappresenta l’atto finora più deciso del suo sforzo di costruire un ampio fronte contro Pechino. Alle sanzioni ha fatto seguito una dichiarazione congiunta da parte della «Five Eyes» (l’alleanza di intelligence che comprende gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, l’Australia, la Nuova Zelanda e il Canada) che sostiene gravi violazioni dei diritti umani nella provincia dello Xinjiang. Il segretario di stato americano Antony Blinken ha accusato inoltre Pechino di commettere «genocidio» contro gli uiguri detenuti nei campi di prigionia. La notizia, riferisce la CNN, ha entusiasmato i dimostranti radunati fuori dal quartier generale delle Nazioni Unite a New York lunedì mattina. “Passi come questo ci danno speranza. Ma è stato tutto estremamente lento“, ha detto Rushan Abbas, una attivista uiguro-americana di primo piano, che racconta che sua sorella è detenuta nello Xinjiang e non ha sue notizie da due anni e mezzo. Abbas vuole che venga fatto qualcosa non soltanto contro alcuni funzionari cinesi isolati ma anche nei confronti di chiunque nel Politburo del Partito comunista cinese o tra i funzionari sia coinvolto nella gestione dei campi di internamento e sostiene il boicottaggio globale dei prodotti che provengono della regione nord-occidentale della Cina. Ma mentre il destino degli uiguri finalmente comincia a suscitare una reazione internazionale, la dimensione modesta della manifestazione (che ha richiamato poche decine di persone) sottolinea l’enorme squilibrio di potere tra la Cina e chiunque faccia pressioni per chiamarla a rendere conto. “È davvero frustrante. Il regime cinese spende milioni e milioni di dollari per diffondere disinformazione e propaganda raccontando che quel che accade non è mai successo“, ha detto Abbas alla CNN. La copertina dell’Economist di questa settimana, intitolata “The brutal reality of dealing with China”, ha posto, non a caso, una domanda epocale: di fronte all’ascesa della Cina, come deve fare il mondo libero per garantire la prosperità, ridurre il rischio di una guerra e proteggere la libertà? Secondo il settimanale inglese, la parabola di Hong Kong rappresenta una sfida per chiunque cerchi una risposta semplice. Anche se la Cina ha dato un colpo alla democrazia, il territorio sta vivendo un boom finanziario. Lo stesso accade nella terraferma: la repressione nella regione occidentale dello Xinjiang lo scorso anno va di pari passo con 163 miliardi di dollari di nuovi investimenti multinazionali e 900 miliardi di dollari di flussi cumulativi esteri verso i mercati dei capitali cinesi. Alcuni consigliano un completo ritiro occidentale dalla Cina, nel tentativo di isolarla e costringerla a cambiare. Si tratta di un prezzo che varrebbe la pena di pagare se l’embargo avesse qualche chance di successo. Ma ci sono molte ragioni per ritenere che, sostiene con prudenza e realismo il magazine inglese, l’Occidente non sia in grado di penalizzare il Partito comunista cinese e privarlo del potere e che, in un modo o nell’altro, bisognerà trovare il modo per far funzionare la “relazione”. Resta il fatto, tuttavia, che se si tratta davvero di “genocidio”, cioè di crimini violenti commessi (come recita la Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Crimine di Genocidio) “con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale”, sappiamo con “chi” e con “che cosa” abbiamo a che fare. Sappiamo anche che cosa dobbiamo fare. Nel suo recente intervento alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, Joe Biden l’aveva detto chiaro e tondo: “Siamo ad un punto di svolta tra quanti sostengono che, date tutte le sfide che dobbiamo affrontare – dalla quarta rivoluzione industriale alla pandemia globale – l’autocrazia sia il miglior modo di procedere, e quelli che comprendono che la democrazia è essenziale; essenziale per far fronte a tali sfide“. “E credo – con tutto me stesso – che la democrazia prevarrà e dovrà prevalere (…) Dobbiamo difenderla, combattere per essa, rafforzarla, rinnovarla“. Gli europei sono pronti a prendere parte alla battaglia?

Usa contro Cina: “Torture e stupri contro i musulmani Uiguri”. Le Iene News il 04 febbraio 2021. Il racconto di una donna a Le Iene. Dopo un reportage della Bbc, gli Stati Uniti rilanciano le accuse contro Pechino di genocidio della minoranza turcofona e musulmana degli Uiguri nella regione autonoma nordoccidentale dello Xinjiang. Noi de Le Iene ve ne abbiamo parlato in dicembre con Roberta Rei, che ha raccolto anche la testimonianza di una donna che ha vissuto per oltre un anno nei campi di detenzione. Dura presa di posizione degli Stati Uniti contro la repressione, le torture e gli stupri sistematici che avverrebbero nei campi di detenzione in Cina contro gli Uiguri, la minoranza turcofona e musulmana che vive nella regione autonoma nordoccidentale dello Xinjiang. Washington torna a farsi sentire subito dopo un reportage della Bbc. Anche noi de Le Iene ve ne avevano parlato in onda con il servizio di Roberta Rei che trovate qui sopra. Dopo l’intervento della Bbc, che riporta testimonianze di “un sistema di stupri, abusi sessuali e tortura di massa contro Uiguri e minoranza musulmana”, il Dipartimento di Stato della nuova amministrazione Biden prevede “serie conseguenze” nei rapporti con Pechino ribadendo le accuse di “crimini contro l’umanità e genocidio” già rilanciate negli ultimi tempi della presidenza Trump. Accuse che la Cina ha sempre respinto: questa volta parla di “falsità” nel resoconto della Bbc, di “mancanza di riscontri fattuali” e dei testimoni come “attori che diffondo informazioni false”. Di tutto questo ci siamo occupati anche noi, come potete vedere qui sopra, con Roberta Rei che ci ha ci raccontato cosa sembra accadere in quei campi grazie a una testimone diretta. “Sono stata lì dentro un anno, tre mesi e dieci giorni. Ho contato ogni singolo giorno”, ci dice la donna. “Lo stupro è all’ordine del giorno. Ho visto donne impazzire. Andavano nei bagni, prendevano gli escrementi e si disegnavano baffi e barba. Dicevano: ‘Guarda, sono diventata un uomo’”. La Iena ci parla anche della storia degli Uiguri e di come la potenza militare e tecnologica di Pechino sembrerebbe essere usata contro di loro per annientarli con un controllo sistematico di ogni aspetto della vita. Le più autorevoli organizzazioni che si occupano di diritti umani pensano che siano vittime del più grande internamento di massa dalla Seconda guerra mondiale. Anche Papa Francesco li ha definiti “perseguitati”. Gli Uiguri sono circa 16 milioni, di cui 11 vivono nella regione dello Xinjiang nel nord ovest della Cina. Dopo una lunga storia di tensioni con il governo di Pechino, le cose sono precipitate con l’avvento al potere a Pechino dell’attuale presidente Xi Jinping, anche dopo una serie di attentati terroristici compiuti da estremisti Uiguri. Il governo cinese ha lanciato un’offensiva durissima che però non toccherebbe solo i terroristi ma tutto il popolo degli Uiguri. “È parte della strategia cinese etichettare come terrorismo tout-court una richiesta di diritti culturali”, sostiene Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. “Da qui questa politica di chiuderli in luoghi eufemisticamente chiamati Centri per la formazione professionale che sono veri e propri campi di concentramento”.

Schiaffo finale prima dell'era Biden. Usa-Cina, l’ultima “bomba” di Trump: “In corso genocidio contro gli uiguri”. Redazione su Il Riformista il 19 Gennaio 2021. “Genocidio contro gli uiguri“. E’ l’ultimo schiaffo di Donald Trump ai rapporti diplomatici tra Usa e Cina prima di uscire di scena e lasciare spazio al neo presidente Joe Biden. “Il genocidio è in corso e stiamo assistendo al sistematico tentativo della Cina di distruggere gli uiguri”, afferma il segretario di stato, Mike Pompeo, secondo quanto riporta il New York Times. Gli Stati Uniti sono il primo Paese al mondo ad adottare il termine “genocidio” per descrivere le violazioni dei diritti umani nello Xinjiang. In una nota firmata da Pompeo nell’ultimo giorno dell’amministrazione Trump, si legge che la campagna di “internamenti di massa, lavori forzati e sterilizzazioni coatte” da parte della Cina nei confronti di un milione di musulmani uiguri nella regione dello Xinjiang, nel nord-ovest della Repubblica popolare, costituisce “un genocidio” e “un crimine contro l’umanità”. “Dopo un attento esame di tutti i fatti disponibili, ho determinato che almeno dal marzo del 2017 la Repubblica popolare cinese, sotto la direzione e il controllo del Partito comunista cinese, ha commesso crimini contro l’umanità nei confronti degli uiguri e di altri membri dei gruppi etnici e religiosi minoritari nello Xinjiang”, si legge nel documento. Tali crimini, prosegue Pompeo, sono ancora in corso e includono “l’imprigionamento arbitrario di oltre un milione di persone”, “le sterilizzazioni forzate”, “la tortura dei detenuti”, “il lavoro forzato”, “le restrizioni alle libertà di culto, di espressione e di movimento”. Lo Xinjiang, un territorio autonomo nel Nord-ovest della Cina, è una vasta regione di deserti e montagne che ospita circa 11 milioni di uiguri e altre minoranze musulmane che da tempo denunciano una dura repressione “religiosa e culturale” da parte del Partito comunista cinese.

·        La Shoah dei Rom.

Da open.online il 10 ottobre 2021. Enrico Michetti torna sulle polemiche scoppiate ieri per un suo vecchio articolo sulla Shoah. «Nonostante abbia con fermezza condannato ogni forma di discriminazione razziale, anche in tempi non sospetti, ed in primis quella rappresentata dalla Shoah, mi rendo conto che in quell’articolo ho utilizzato con imperdonabile leggerezza dei termini che alimentano ancora oggi storici pregiudizi e ignobili luoghi comuni nei confronti del popolo ebraico», ha dichiarato il candidato sindaco di Roma. «Per questo mi scuso sinceramente per aver ferito i sentimenti della comunità ebraica, che come tutti gli italiani apprezzo e ritengo parte perfettamente ed orgogliosamente integrata della città di Roma da sempre e nel Paese tutto». Nell’articolo finito al centro delle polemiche, Michetti scriveva: «Ogni anno si girano e si finanziano 40 film sulla Shoah, viaggi della memoria, iniziative culturali di ogni genere nel ricordo di quell’orrenda persecuzione. E sin qui nulla quaestio, ci mancherebbe. Ma mi chiedo perché la stessa pietà e la stessa considerazione non viene rivolta ai morti ammazzati nelle foibe, nei campi profughi, negli eccidi di massa che ancora insanguinano il pianeta. Forse perché non possedevano banche e non appartenevano a lobby capaci di decidere i destini del pianeta».

L’Olocausto (gitano) dimenticato, mezzo milione di vittime rimosse. Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 2 agosto 2021. Il culmine fu nella notte tra il 2 e 3 agosto 1944 ad Auschwitz: tremila, tra sinti e rom, furono massacrati. Spesso ai colpevoli di quelle stragi furono inflitte pene irrisorie. «Ricordo che quella mattina il primo pensiero fu quello di andare a dare uno sguardo al di là del filo spinato. Non c’era più nessuno, c’era solo silenzio... Ci bastò dare un’occhiata ai camini dei forni crematori che andavano al massimo della potenza per capire che quella notte, tutti, tutti gli zingari di quello che chiamavano lo Zigeunerlager erano stati assassinati. Tutti...». Piero Terracina, uno degli ultimi testimoni della Shoah, sopravvissuto ad Auschwitz, morto un paio d’anni fa, aveva un groppo in gola quando tornava a parlare di quell’alba lontana. Conosceva bene quel campo al di là del reticolato: «Era denominato lo Zigeunerlager, il lager degli zingari. (...) C’era tanta vita, noi avevamo un colore quasi unico, eravamo vestiti con quella specie di pigiami a righe, dall’altra parte avevano conservato i loro abiti, quindi tanto colore, avevano conservato i capelli, noi eravamo completamente rasati a zero, c’era un’enormità, tantissimi bambini...». Finché, la notte prima, lui e gli altri prigionieri ebrei avevano sentito i camion, l’arrivo di reparti tedeschi, i cani che abbaiavano rabbiosi, le urla delle donne, il pianto disperato dei piccoli: «Poi all’improvviso, dopo più di due ore, silenzio. Non si sentiva più niente». Solo il vento che faceva sbattere porte delle camerate totalmente svuotate: «Il ricordo di quelle porte che battevano con il vento e non c’era nessuno che le fermasse mi è rimasto dentro...». Furono tremila su trentamila, secondo un dossier della storica francese Henriette Asséo sulla rivista «Etudes Tsiganes», i rom sopravvissuti ad Auschwitz. Un decimo. Tutti gli altri morirono di fame, di stenti, di freddo o «passati il camino» come quei 2.998, «soprattutto donne e bambini piccoli», decimati quella notte tra il 2 e il 3 agosto del 1944. Ed è quella appunto, dal 2015 (solo dal 2015: dopo decenni di imbarazzi e rimozioni), la data scelta per la Giornata europea di commemorazione del genocidio dei gitani. Che molti ricordano come il Porrajmos («lo stupro» o «il divoramento», ma il termine è contestato), altri come il Samudaripen: lo sterminio. Quanti furono gli zingari (altra parola contestatissima per quanto usata con rispetto e affetto dagli ultimi Papi a partire da Paolo VI, da giornalisti come Orio Vergani, da musicisti come Enzo Jannacci…) spazzati via nell’ondata di odio razzista parallela a quella vissuta dagli ebrei? Difficile rispondere. Il polacco Tadeusz Joachimowski, racconta Luca Bravi nel libro Attraversare Auschwitz. Storie di rom e sinti: identità, memorie, antiziganismo, a cura di Eva Rizzin (Gangemi), era il prigioniero incaricato di segnare su due libri gli ingressi di sinti e rom, maschi, femmine, bambini. Un attimo prima che i nazisti si ritirassero sotto l’avanzata dei russi dopo aver cercato d’occultare le tracce della loro ferocia, riuscì a nascondere i volumi avvolti negli stracci in un secchio sepolto sottoterra: dovevano essere salvati. Proprio perché a fronte dell’immensa mole di ricordi, libri, lettere, filmati, deposizioni processuali della Shoah, il «popolo viaggiante» ha conservato del genocidio subìto molto poco...Questo vecchio secchio restituì appunto un paio di migliaia di nomi. Ma gli altri? Quanti furono, gli assassinati? C’è chi sostiene: da duecentomila a un milione. Ipotesi. «Diciamo che convenzionalmente si pensa a mezzo milione di vittime», risponde lo storico Leonardo Piesare, autore di più libri sul tema tra cui I rom d’Europa (Laterza). «Ma è quasi impossibile contarle, ormai. La larga maggioranza non era in grado di lasciare resoconti scritti. I documenti sovietici desecretati, inoltre, rivelano come i nazisti, nell’Europa dell’Est conquistata, annientassero al passaggio interi villaggi, spesso di sinti e rom stanziali, contadini già colpiti dalla repressione di Stalin». Non bastasse, accusa la Treccani, pesarono sulle stragi i pregiudizi storici: «Anche a Norimberga non fu riconosciuto il carattere razziale del genocidio e nessun parente delle vittime fu quindi risarcito». Di più: agli eccidi pianificati da Heinrich Himmler (che peraltro aveva deciso inizialmente di stralciare la sorte di un po’ di «ariani puri» appartenenti in teoria allo stesso ceppo di lontane origini indiane dei tedeschi, ma da non confondere coi «meticci») presero parte volenterosi assassini, cittadini comuni che si sentivano autorizzati dalle leggi hitleriane a macellare ogni zingaro dei dintorni. Una strage. Dai numeri incalcolabili. Erano secoli, del resto, che in Europa arrivavano ondate di «permessi» di quel genere. Basti citarne, tra i tanti, uno nostrano. Della Serenissima Repubblica di Venezia, che nel 1558 stabilì che chi avesse consegnato alle autorità uno zingaro ricevesse dieci ducati «possendo etiam li detti Cingani, così homini come femmine, che saranno ritrovati nei Territori Nostri esser impune ammazati, si che gli interfettori (gli assassini, ndr) per tali homicidi non abbino ad incorrer in alcuna pena». Incoraggiamenti, diffusi, alle cacce all’uomo. Basate, come nel caso dello sterminio dei disabili, sulla autorizzazione ai medici a «concedere una morte pietosa» a chi viveva «vite indegne di essere vissute». Compresi non solo i non autosufficienti colpiti dalle patologie più invalidanti, ma anche quanti erano bollati come inutili e incorreggibili. Tipo Ernst Lossa, un ragazzino rom «eutanizzato» perché «troppo vivace» (ne parlano il libro Nebbia in agosto di Robert Domes, Mondadori, e il racconto teatrale Ausmerzen di Marco Paolini) nel manicomio di Irsee, a un’ottantina di chilometri da Monaco. Dov’era caposala la famigerata Mina Wöhrle, l’infermiera nazista condannata per 210 omicidi («Ho solo eseguito gli ordini») a diciotto mesi di carcere. Due giorni e mezzo di galera a delitto. Per non dire del primario, Valentin Faltlhauser, teorico della soppressione a basso prezzo «per fame» e degli esperimenti sui bambini: tre anni. Evaporati con la concessione della grazia. Il tutto, come ricorda la storica Henriette Asséo, nonostante nessun medico fosse «mai stato obbligato a partecipare» ai «più spaventosi esperimenti». A partire da quelli prediletti da Joseph Mengele, sugli «zingari gemelli». Racconta Rita Prigmore, un’anziana sopravvissuta bavarese di etnia sinti nel libro curato da Eva Rizzin: «Il 3 marzo 1943, siamo nate mia sorella Rolanda ed io. Subito dopo la nascita gli uomini della Gestapo vennero a prenderci e ci portarono in un ospedale. Werner Heyde ci sottopose a esperimenti medici. Mia mamma era spaventata e non poteva reggere quella situazione di angoscia e di paura... Così entrò nell’ospedale dove eravamo rinchiuse e, dopo molte insistenze, riuscì a convincere un’infermiera che le mostrò solo me. Mia madre insistette per vedere anche mia sorella Rolanda. L’infermiera cercò di resistere, di negarsi, ma alla fine la portò in bagno e le indicò il corpicino di Rolanda steso sul fondo di una vasca da bagno: era morta. I medici le avevano fatto delle iniezioni di inchiostro negli occhi per tentare di cambiarle il colore...». 

Oggi l’onda sovranista ha alimentato vecchi stereotipi. Rom, la Shoah silenziosa di cui è proibito parlare. Pasquale Hamel su Il Riformista il 7 Aprile 2021. L’8 aprile 1971, nella città di Orpington, a pochi chilometri da Londra, si riuniva il primo Congresso internazionale dei Romanì, tappa decisiva di un percorso di quel Movimento per la tutela dei diritti del popolo Rom sorto dopo la tragedia della guerra. Il Congresso aveva avuto come sostenitori il Consiglio ecumenico delle Chiese – non dimentichiamo che la Chiesa cattolica nel 2000 chiese ufficialmente perdono per non avere denunciato le persecuzioni nei confronti dei Rom – e il governo indiano; l’India è il luogo d’origine di questo popolo. In quell’occasione i Rom si riconobbero come un popolo e ne fissarono i simboli: la lingua, la bandiera, l’inno. Quel congresso diede vita ad una struttura di rappresentanza permanente, la “Romani Union”, ufficialmente riconosciuta dall’ONU nel 1979. E proprio quella dell’8 aprile, a ricordo di quel primo congresso, nel 1990 è stata scelta come data di riferimento per la giornata mondiale del popolo Rom. La storia del popolo Rom è stata una storia di violenze ed emarginazioni di cui gli anni che vanno dal 1939 al 1945, cioè gli anni della follia nazista, sono stati i più drammatici. I numeri oscillano fra i duecentocinquantamila e il milione di vittime; forse non sapremo mai la cifra esatta, resta il fatto che, dopo quello degli ebrei, il genocidio del popolo Rom resta la drammatica testimonianza di come il male possa raggiungere vertici mai toccati di disumanità. Quella tragedia fu infatti espressione di un odio razziale di antiche radici, diffuso non solo in Germania ma in un po’ tutta Europa, che trovava ora, proprio nel regime nazionalsocialista e in molti suoi alleati – non dimentichiamo la liquidazione dell’intera popolazione Rom nella Croazia degli Ustascia o le misure di internamento attuate dal governo di Vichy in Francia, per citarne un paio – il loro efferato carnefice. Una storia drammatica, fatta di sofferenze inenarrabili e di morte, ma che, ironia della sorte, purtroppo, non ha trovato quel rilievo e quell’attenzione che avrebbe dovuto avere. Diversamente da quanto era accaduto per gli ebrei, assassinati a milioni nei campi di sterminio, di questo fatto sconvolgente si è, infatti, parlato e, ancor oggi, si parla poco, lo si è quasi considerato una appendice, in qualche modo abusiva, della Shoah. Non è un caso che solo nel 1979 la Germania, certamente troppo tardi, abbia operato ufficialmente il riconoscimento della colpa (schulden) per la persecuzione nazista motivata da pregiudizio razziale, con le conseguenze risarcitorie collegate a questa ammissione. Eppure, come l’antisemitismo, anche l’antizingarismo – il termine, lo troviamo nella risoluzione del Parlamento Europeo dell’aprile del 2015, è poco usato ma andrebbe adeguatamente valorizzato –, che è un’evidente forma di razzismo, ha segnato molti passaggi della storia culturale anche dell’Europa tanto da divenire sentimento diffuso nell’immaginario collettivo che, purtroppo, si declina nella quotidianità attraverso le tante discriminazioni e i pregiudizi di cui, in maniera palese ma, troppo spesso, in maniera subdola, sono quotidianamente vittime gli stessi Rom. Atteggiamenti discriminatori le cui radici affondano, molto spesso, in stereotipi negativi, in visioni tanto leggendarie quanto risibili circa la stessa identità di questo popolo di migranti, come la storiella che un patto con il demonio li abbia dotati di abilità magiche o che questa gente, depravata per natura e ribelle ai canoni della civiltà, al lavoro anteporrebbe il furto e perfino che rubino i bambini per educarli all’accattonaggio. Tutte espressioni di ostilità preconcetta che verrebbero giustificate appellandosi al modo di vita dei Rom considerata una sorta di diversità insopportabile, una rottura rispetto alla tradizione occidentale. Alla luce di ciò non possono sorprendere, dunque, le conclusioni di uno studio psico-sociale, pubblicato nel 2011, che faceva riferimento all’immigrazione rumena di cui una parte è Rom, che questi ultimi in ogni caso ispirano nell’opinione pubblica un sentimento di minaccia, un senso di insicurezza e di paura. A complicare le cose ha contribuito, in questi ultimi tempi, il nuovo clima politico. In parecchi Paesi europei è montata l’onda sovranista che ha alimentato e legittimato i vecchi stereotipi per finalità di basso profilo politico. Stati come l’Ungheria di Orban, ma non solo quello, hanno posto un freno agli sforzi avviati per abbattere le barriere culturali – gli zingari sono visti e si vedono come gruppi sociali separati – ai normali processi di integrazione. E tutto questo mentre le organizzazioni internazionali e, soprattutto, l’Unione Europea continuavano a insistere sugli Stati, come fa la risoluzione n.2509 del Parlamento Europeo del 12 febbraio 2019, per elaborare strategie «nazionali di integrazione dei Rom con un’ampia serie di settori prioritari, obiettivi chiari e vincolanti, calendari e indicatori per monitorare e affrontare le sfide specifiche e riflettere la diversità delle comunità Rom, e stanziare a tal fine sostanziali fondi pubblici». Se oggi, che celebriamo questo 50° anniversario della giornata del popolo Rom, non siamo all’anno zero, non si può non rilevare che il cammino da fare è ancora tanto e richiede ancora un “supplemento d’anima” e cioè molta pazienza e altrettanta volontà.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Chi comanda sul mare.

Talassocrazia: il dominio dei mari e la geopolitica anglo-statunitense. Cristiano Puglisi su Il Giornale il 23 agosto 2021. Nonostante quanto sta accadendo in Afghanistan abbia risvegliato le opinioni attestanti un loro supposto declino, gli Stati Uniti d’America sono ancora, almeno al momento, l’unica superpotenza mondiale, intendendo questa definizione nel senso classico. Un ruolo che gli USA ereditarono, dopo le due guerre mondiali, dall’Impero Britannico. Entrambi di cultura anglosassone, questi imperi condividono anche il medesimo destino geopolitico, quello che accomuna le potenze talassocratiche. Basate, cioè, sul dominio dei mari. Non è forse azzardato sostenere che, senza una presa di coscienza di questa realtà, del suo retroterra teorico e delle sue implicazioni, tutt’altro che secondarie, sarebbe forse impossibile comprendere le logiche sottostanti alle scelte strategiche di Washington e Londra negli ultimi due secoli. Utile per dissezionare l’universo concettuale e strategico alla base delle mosse anglo-americane del presente e del passato può essere, allora, un saggio di recente pubblicazione, opera di un brillante e giovane analista italiano, Marco Ghisetti ed edito da Anteo. Il titolo dell’opera, “Talassocrazia. I fondamenti della geopolitica anglo-statunitense”, illustra già in maniera chiara quali siano i suoi contorni. “Non vi è dubbio – spiega l’autore – che vi sia una forte continuità tra l’Impero britannico e l’Impero statunitense, tanto che si potrebbe dire che il secondo è l’erede legittimo del primo. Tale continuità è data non solo dalla forma e dalla sostanza, ma anche dal filo rosso che lega le due esperienze imperiali: infatti, l’impero statunitense si è formato ereditando quello britannico. Ho detto nella forma e nella sostanza perché entrambe le esperienze imperiali si fondano e si mantengono sull’azione e la volontà di uno Stato-isola (il centro dell’impero) che basa e promuove la propria egemonia per il tramite di un doppio movimento – si potrebbe dire di sistole e di diastole – di isolazionismo ed interventismo, ovvero di affermazione della propria insularità e di proiezione anche aggressiva della propria potenza marittima ed economico-finanziaria, oltre che da una particolare organizzazione e visione del mondo di tipo mercatistico e liberale. Inoltre, il loro pensarsi come uno Stato-isola che si affaccia a ridosso di un continente di dimensioni molto più grandi rispetto a loro (l’Europa per l’Inghilterra, l’Eurasia per gli Stati Uniti), pone loro in una condizione per la quale l’eventuale unificazione ed organizzazione economico-politica di quel continente comporterebbe il definitivo tramonto della loro egemonia, poiché lo Stato-continente disporrebbe di una potenza di molto superiore rispetto a quella dell’Isola. Per questa ragione, l’imperativo strategico che accomuna sia Inghilterra che Stati Uniti è di prevenire l’unificazione di tale continente, giocando il ruolo di bilanciatore d’oltreoceano ed inserendosi nelle delicate relazioni tra gli Stati continentali. Se l’Inghilterra quindi si è impegnata per tutto il periodo colombiano (XVI-XIX secoli) ad imporre e mantenere la propria egemonia marittima mentre giocava sulle divisioni continentali dell’Europa, gli Stati Uniti nel periodo postcolombiano (XX secolo-oggi) mantengono la propria egemonia marittima e finanziaria mentre si impegnano a prevenire ogni tipo di coalizione o di unificazione continentale”. Il libro analizza, in maniera dettagliata, il pensiero di tre personaggi: l’ammiraglio Alfred Thayer Mahan (1840-1914), il geografo Halford John Mackinder (1861-1947) e lo studioso Nicholas John Spykman (1893-1943). Questi tre individui sono stati forse i principali teorici al servizio dell’egemonia anglo-statunitense, influenzandola ancora oggi. “Il loro pensiero – spiega Ghisetti – influenza enormemente sia le considerazioni strategiche che l’orizzonte di senso con cui Inghilterra e Stati Uniti si muovono nel mondo internazionale. Innanzitutto, è proprio loro l’idea secondo la quale Stati Uniti (Mahan, Spykman) e Inghilterra (Mackinder) siano delle isole a ridosso di un grande continente (l’Europa per l’Inghilterra, l’Eurasia per gli Stati Uniti); continente, questo, che si caratterizza per una forte divisione politica ma che se unificato ed organizzato da un attore locale disporrebbe di una potenza tale da poter facilmente sconfiggere l’isola egemone. Per questa ragione, la strategia primaria che è derivata da questa osservazione e sistematizzata, pur tra alcune differenze nei dettagli, dai tre padri della geopolitica anglo-statunitense consiste in un doppio movimento: da una parte affermare la propria insularità (cioè distanza dal continente) per il tramite di una politica isolazionista e di dominio egemonico degli oceani e, dall’altra, di intervenire attivamente sul continente nell’ottica di mantenerlo in un neutralizzante equilibrio, quando non addirittura favorire la diffusione del potere (cioè il frazionamento degli Stati). L’affermazione della propria insularità ed il bisogno di dominare gli oceani per il tramite della propria marina implica anche una forte spinta al dominio commerciale e finanziario e, inoltre, una spinta a promuovere la caratterizzazione in chiave liberale, economicista ed individualista della propria ed altrui cultura. Lo sviluppo dottrinale, le riflessioni e le azioni che hanno caratterizzato Inghilterra e Stati Uniti hanno queste idee come nucleo centrale, le eventuali differenze essendo non altro che le proposte pratiche sul modo in cui sarebbe meglio promuovere i propri interessi. Vi sono certamente delle eccezioni, ma, appunto, rimangono eccezioni, ma i portatori di queste idee vengono solitamente esclusi dalle stanze dei bottoni. Per esempio, Mahan è piuttosto fiducioso circa la superiorità del potere marittimo su quello terrestre; Mackinder, al contrario, ritiene che il potere terrestre ha raggiunto, nell’epoca contemporanea, una tangibile superiorità rispetto a quello marittimo, mentre Spykman si pone a metà tra i due. Ma tutti e tre reputano il proprio Stato una isola che deve svilupparsi in senso marittimo, liberale e che deve prevenire l’unificazione del continente. Si prenda Brzezinski, in quanto autore più recente rispetto ai tre padri, come esempio. Anche egli afferma senza riserve che gli Stati Uniti sono un’isola circondata dall’enorme continente eurasiatico e che l’interesse permanente degli Stati Uniti sia quindi di mantenere tale continente in una situazione di mancata unificazione. Il modo pratico per farlo dopo il crollo dell’Unione Sovietica e con un’Europa colonizzata dagli Stati Uniti, secondo Brzezinski, è di frazionare gli imperi continentali, imporre le forze statunitensi nelle zone di congiuntura e di collegamento eurasiatico e prevenire il formarsi di un’alleanza anti-egemonica tra Russia, Iran e Cina. Insomma, il nucleo del suo pensiero è ancora quello sistematizzato da Mahan, Mackinder e Spykman. La medesima cosa vale per le nuove strategie di politica estera che Inghilterra e Stati Uniti hanno appena pubblicato: entrambe si muovono ancora nel solco tracciato dall’opera dei tre autori”.

Esistono oggi le prospettive per un cambio di paradigma? La tellurocrazia (cioè il dominio della terra) può sfidare il potere del mare? 

“Per rispondere a questa domanda – afferma ancora Ghisetti – bisogna innanzitutto capire quanto assoluta sia la diarchia tra talassocrazia, o potere marittimo, e tellurocrazia, o potere terrestre. È una domanda importante a cui la letteratura ha dato non solo risposte, ma anche interpretazioni diverse della domanda. Mahan, per esempio, mostra una forte sicurezza circa la prospettiva secondo cui la vera sede del potere mondiale sia l’“oceano unito”, ovvero nell’unità degli oceani raggiunta ed imposta dalla potenza navale e commerciale di uno Stato egemone. Quindi, le sfide che gli Stati Uniti dovranno eventualmente affrontare, non possono che venire da quegli attori che, dotati di una sufficiente profondità territoriale e capacità organizzativa, sfideranno la potenza marittima egemone sul mare, cercando ovvero di strappare l’egemonia talassocratica agli Stati Uniti. La Germania imperiale dell’anteguerra, la quale si mostrò in grado di organizzare intorno a sé l’Europa e di creare un’alleanza persino con l’Impero ottomano costituì infatti uno sfidante maggiore, secondo Mahan. Ma anche dall’Asia si può ergere uno sfidante, il quale sarà quello Stato che riuscirà ad organizzare la profondità terrestre asiatica e, quindi, sfruttare l’arricchimento economico ottenuto con il commercio marittimo per costruire una flotta in grado di sfidare quella statunitense. Detto altrimenti, la talassocrazia anglo-statunitense, secondo Mahan, può essere sfidata solo da un’altra talassocrazia. È significativo, in questo senso, che l’attuale Presidente della Repubblica popolare cinese abbia dichiarato che i cinesi devono abbandonare la loro tradizionale visione tellurica del mondo per “donarsi al mare” e che le accademie militari e le università cinesi leggano sempre più avidamente l’opera di Mahan. Gli enormi progetti di costruzione navale oltre che l’insistenza cinesi sul fatto che secondo loro il mediterraneo asiatico (cioè il Mar cinese meridionale ed orientale) costituisce un lago interno cinese mostra l’intenzione cinese di trasformare quelle acque in un mare interno (né più né meno di quanto fecero gli statunitensi con il mediterraneo americano, cioè il Mar Caraibico e del Messico nel Novecento) da cui, in un secondo momento, proiettarsi, per il tramite della marina, su tutto il mondo costituisce precisamente una delle sfide all’egemonia talassocratica statunitense che Mahan temeva. Si potrebbe in effetti dire che gli statunitensi, dopo aver raggiunto l’egemonia oceanica grazie all’opera di Mahan, sono ora sfidati dai cinesi, i quali li sfidano proprio grazie all’opera dello stesso Mahan. Le cose cambiano invece con Mackinder, il quale ritiene invece che la tellurocrazia, ovvero una potenza terrestre, sia effettivamente in grado di sconfiggere la talassocrazia poiché l’eventuale organizzazione di un territorio ricco e dotato di profondità territoriale – quali ad esempio alcune regione del continente eurasiatico – comporterebbe la messa a frutto di un potenziale di potenza che da solo sarebbe in grado di superare quello marittimo, con l’aggiunta che questa eventuale potenza tellurocratica sarebbe in grado, qualora lo volesse e grazie alla propria superiorità di risorse rispetto alla potenza marittima, di costruire una flotta talmente grande da sconfiggere quelle di qualsiasi altra potenza. Il Grande partenariato russo e la Nuova via della seta cinese sono i due principali progetti di integrazione continentale che, attualmente, spaventano i mackinderiani. Spykman, invece, si pone in una via intermedia rispetto a Mahan e Mackinder, ritenendo invece che le potenze veramente più pericolose per il dominio anglo-statunitense siano quelle anfibie e collocate ai margini del continente eurasiatico, quali ad esempio una Germania europea e la Cina. Queste potenze sono infatti in grado sia di sfruttare la profondità territoriale e le ricchezze del continente eurasiatico sia di lanciare una strategia marittima, oltre che di beneficiare molto facilmente del commercio mondiale, il quale avviene principalmente sulle grandi rotte degli oceani del mondo. L’esempio più lampante che viene in mente nella politica mondiale attuale circa questa eventualità è proprio la doppia dimensione terrestre e marittima che forma la Nuova via della seta cinese, la quale sta sempre maggiormente bussando alle porte dell’Europa. Vi sono certamente sia similitudini sia differenze nel pensiero di questi tre autori, e l’accumulazione del bagaglio dottrinale del pensiero internazionale e strategico anglo-statunitense si è pressoché completamente sviluppato lungo le linee da loro tracciate e mostra una notevole costanza, le uniche vere differenze essendo quelle già presenti nel pensiero dei tre padri della dottrina geopolitica talassocratica. Si può certamente discutere sull’eventualità della vittoria della tellurocrazia sulla talassocrazia; la domanda è aperta e bisogna innanzitutto decidere cosa si intende con questa diarchia, e nel libro mi sono impegnato di sviscerare le varie declinazioni proposte dalla letteratura accademica e dalle riflessioni e azioni strategiche dei principali attori politici mondiali, offrendo al lettore la possibilità di farsi un’idea autonomamente e di decidere con la sua testa quale sia la migliore definizione e declinazione dei termini. Quello che è certo, tuttavia, è che attualmente vi sono tutte le condizioni affinché si registri un cambio di paradigma, ovvero un profondo cambiamento nell’ordine mondiale, già nel medio termine. Tale cambiamento consiste nella nascita, solidificazione e cementificazione dell’ordine mondiale multipolare, che modificherebbe enormemente l’ordine mondiale unipolare nato con il crollo dell’Unione Sovietica. È infatti opportuno sottolineare che sono proprio le più recenti dottrine strategiche anglo-statunitensi, appena pubblicate, a sottolineare che il decennio nel quale ci troviamo sarà decisivo per decidere la bilancia di potere mondiale che il mondo assumerà per tutto il resto del secolo. Ed esse sottolineano altresì che i pericoli posti all’egemonia statunitense consistono proprio nel tentativo di alcuni attori internazionali (principalmente Cina, Russia ed Iran) di organizzare la massa eurasiatica a proprio favore (tellurocrazia) e di costruire una flotta sufficientemente forte (talassocrazia) nell’ottica di estromettere la potenza anglo-statunitense da alcune regioni di grande importanza strategica; estromissione, questa, che potrebbe comportare lo spezzarsi del dominio che gli Stati Uniti esercitano sull’oceano unito e sulle terre di confine eurasiatiche e, quindi, la drastica diminuzione dello strapotere statunitense, con la possibile conseguenza che potremmo assistere, in questo decennio, al venir meno dello strapotere statunitense. Se poi il mondo sarà caratterizzato per un paradigma di dominio o di ordine di tipo talassocratico, tellurocratico o una via di mezzo sarà da vedere”.

PERCHÉ IL MEDITERRANEO È SEMPRE MENO “NOSTRUM”. Occorre trasformare in Società per Azioni al massimo quattro realtà portuali del nostro Paese e dare origine a vere e misurabili alleanze con coloro che ormai hanno disegnato una cabina di regia vincente di questo nuovo sistema logistico. Ercole Incalza su Il Quotidiano dle Sud l'8 giugno 2021. Perché i romani chiamavano il Mar Mediterraneo Mare Nostrum? Gli antichi Romani chiamavano il Mediterraneo, Mare Nostrum perché tutte le terre affacciate in esso appartenevano all’antica Roma. Il Mare Mediterraneo, culla di civiltà e della nostra storia, è delimitato a nord dall’Europa, a sud dall’Africa e a est dall’Asia. Un teatro strategico davvero raro e che in questi ultimi anni ha raggiunto, come attività legata agli scambi, livelli davvero inimmaginabili. Per questo utilizzando anche Wikipedia ho ritenuto utile ripercorrere un po’ la storia che ha trasformato questo mare negli ultimi venti anni. Cominciamo con l’espansione turca iniziata già da tempo nel mare nostrum attraverso i crescenti investimenti nelle infrastrutture portuali. Una strategia di soft power impiegata già dalla Cina, che ha inserito il Mediterraneo nella Via della seta marittima e che ha ugualmente aumentato la propria presenza e influenza grazie alla cooperazione marittima con i Paesi mediterranei. Nel 2013 il presidente cinese Xi Jinping annunciò il faraonico progetto della Nuova via della seta (o Road Belt Initiative, Bri), il cui obiettivo era quello di collegare l’Asia all’Europa e all’Africa via terra e via mare aumentando gli interscambi commerciali tra i continenti e permettendo così alla Cina di espandere la propria influenza. Oltre ai più noti progetti infrastrutturali terresti, Pechino ha investito anche sul trasporto marittimo e lo ha fatto ancora prima della presentazione ufficiale della Nuova via della seta. Una delle più importanti acquisizioni cinesi risale infatti al 2008, quando la China Ocean Shipping Company investì 4,3 miliardi di dollari per l’acquisto di due terminal del porto greco del Pireo con un usufrutto esclusivo per i 35 anni seguenti. Da quel momento in poi l’ascesa di Pechino è stata lenta, ma costante. Un’altra tappa importante della strategia cinese è datata novembre 2015, quando ormai la Bri era stata pubblicamente annunciata e il Governo cinese iniziò a stringere accordi con i singoli Stati per il suo sviluppo. A guidare l’avanzata cinese nel Mediterraneo sono stati principalmente tre grandi compagnie: Cosco Shipping Ports, China Merchants Port Holdings (CMPort) e Qingdao Port International Development (QPI). Queste tre aziende hanno quote rilevanti nei porti del Pireo (Grecia), Valencia e Bilbao (Spagna), Marsiglia (Francia), Vado Ligure (Italia), Casablanca e Tanger Med (Marocco), Ambarli (Turchia), Port Said (Egitto), Cherchell (Algeria), Haifa e Ashdod (Israele). Una rete che copre quasi tutto il Mediterraneo e che garantisce alla Cina una presenza significativa in un’area particolarmente strategica dal punto di vista commerciale. Ad investire sui porti del Mediterraneo per aumentare la propria presenza nel mare nostrum c’è stata anche la Turchia grazie all’azienda Yilport Holding (appartenente al più grande Gruppo Yildirim) che si occupa principalmente di logistica. Come sottolineato recentemente da Limes, l’obiettivo della Turchia è puntare su investimenti nella logistica per lasciare ad altri – come ad esempio la Cina – il settore del commercio. I due Paesi, pur perseguendo lo stesso obiettivo, hanno adottato strategie diverse e complementari, che permetteranno loro di fare fronte comune per favorire i rispettivi interessi nell’area mediterranea. A legare Ankara e Pechino e a renderli potenziali partner nella corsa al Mediterraneo è anche la presenza della Yilport nella Ocean Alliance, il gruppo creato dalle compagnie Cosco Shipping Lines, Cma Cgm, Evergreen e Orient Overseas Container Line per far fronte ai danni causati dall’emergenza coronavirus. Della compagnia turca Yilport si è tornati a parlare di recente in merito al porto di Taranto: l’azienda ha ottenuto una concessione di 49 anni e promesso investimenti per 400 milioni di euro per lo sviluppo del San Cataldo Container Terminal, precedentemente nelle mani della taiwanese Evergreen. Lo scalo ionico garantisce alla Turchia una posizione strategica di accesso al mar Mediterraneo: Taranto si trova sulla rotta tra Gibilterra e il Canale di Suez Ma Taranto non è l’unico porto gestito dalla Yilport che affaccia sul mare nostrum: la compagnia turca si trova anche nel porto maltese di Marsaxlokk, per cui il suo arrivo nel terminal tarantino non fa che rafforzare la presenza nell’area mediterranea e più in generale la sua competitività. Tra l’altro la Turchia ha porti come quello di Ambarli con oltre 3 milioni di container e Mersin con oltre 1,5 milioni di container che, anno dopo anno, stanno sempre più diventando HUB forti nel Mediterraneo. Questa la storia, ma tutto sarebbe rientrato nella normale descrizione di una naturale evoluzione dei processi logistici che interessano l’intero “sistema Mediterraneo” se, negli ultimi anni, non fossero partite due iniziative che da sole denunciano e motivano perché il Mediterraneo non è più Mare Nostrum. La prima azione è la realizzazione del collegamento ferroviario e autostradale tra Bar (porto del Montenegro) e la Serbia. La tratta ferroviaria è stata già oggetto di un’apposita fattibilità da parte delle Ferrovie dello Stato attraverso la Società Italferr mentre per l’asse autostradale il Governo del Montenegro e la Cina hanno firmato, nel 2014, un contratto di ben 1 miliardo di dollari per la costruzione di un’autostrada che avrebbe dovuto collegare il porto di Bar con i Balcani e con la Russia e, al tempo stesso, aumentare il turismo nel Paese. Infatti l’autostrada di cica 130 Km si sarebbe dovuta collegare a una rete di autostrade dei “corridoi paneuropei” inseriti nelle Reti TEN – T. In realtà questa infrastruttura attualmente vive due distinte emergenze: il contratto per il finanziamento cinese prevede il pagamento del debito entro vent’anni, con un interesse del 2 per cento. Per i primi sei anni il Montenegro non ha dovuto pagare nulla, la prima rata sarebbe dovuta arrivare nel 2021. Tra poche settimane scadono i “sei anni bianchi”, ma il Montenegro non ha i soldi per pagare la prima rata. E qui si collega il secondo problema: l’opera non è conclusa. Infatti dei 130 km di autostrada previsti ne sono stati portati a compimento solo 41 km. I due assi in corso di progettazione e, in parte in corso di realizzazione, rappresentano un cordone ombelicale terrestre tra la Russia, i Balcani ed il Mediterraneo. La seconda azione è il progetto che proprio in questi giorni il Presidente turco Erdogan ha annunciato: per giugno partiranno i lavori del Kanal Istanbul. Attraversare da Nord a Sud i 45 chilometri della Tracia orientale per creare un nuovo istmo e fare posto a un Bosforo parallelo. Il 27 marzo di questo anno la Turchia ha approvato i piani di sviluppo per un enorme canale ai margini di Istanbul. Il canale collegherà il Mar Nero a nord di Istanbul al Mar di Marmara a sud e si stima che costerà 9,2 miliardi di dollari. Il governo afferma che faciliterà il traffico marittimo sullo stretto del Bosforo, uno dei passaggi marittimi più trafficati del mondo, e preverrà incidenti simili a quello sul Canale di Suez. Inoltre, la costruzione potrebbe aumentare la tensione già esistente della Turchia con la Grecia e Cipro – Paesi che negli ultimi anni hanno registrato una crescente vicinanza a Israele – e quindi influenzare anche gli interessi di Israele nel Mediterraneo orientale. Due azioni che non solo allargano il teatro logistico ma che, a mio avviso, offrono a tre porti del Mar Nero, due turchi ed uno russo, di diventare sempre più competitivi di tutti gli altri porti del Mediterraneo. In tutto questo il nostro Paese dovrà decidere se cambiare davvero la sua politica portuale, se cambiare davvero la sua offerta portuale. Nell’arco di soli dieci anni questo nuovo bacino fatto di due mari (Mediterraneo e Mar Nero) movimenterà oltre 80 milioni di container il rischio che l’Italia resti, come avviene ormai da diversi anni, sulla soglia di 10 milioni di container. Stiamo in realtà perdendo quella rendita di posizione che poneva il nostro Paese al centro di questo bacino – motore di tante economie e la cosa più grave è che negli ultimi anni non c’è stata coscienza di un simile grave ed irreversibile danno, di questo grave blocco alla crescita. Ancora una volta dobbiamo ammettere che nel nostro Paese è mancata intelligenza pianificatoria e gestionale nella organizzazione della offerta logistica portuale e questa nostra carenza ha consentito a Paesi come la Russia, la Turchia e la Cina di costruire le condizioni per un aumento di oltre il 200% delle potenzialità logistiche di un bacino che sarebbe rimasto controllato e gestito dai Paesi che si affacciavano su questo invidiabile teatro delle convenienze. Ora rimane, a mio avviso, possibile solo una proposta: trasformare in Società per Azioni al massimo quattro realtà portuali del nostro Paese e dare origine a vere e misurabili alleanze con coloro che ormai hanno disegnato una cabina di regia vincente di questo nuovo sistema logistico; in questa operazione il Mezzogiorno potrebbe e dovrebbe svolgere un ruolo ed una funzione essenziale.

La Pira, Moro, Andreotti: la via mediterranea della Prima Repubblica. Andrea Muratore su Indide Over l'8 giugno 2021. Il Mediterraneo è stato, nella storia dell’Italia unita, a rotazione confine (nelle fasi di maggiore apertura a una strategia “continentale”), faglia (nelle fasi in cui le sue acque sono state contese), punta di lancia (per la proiezione geo-strategica del Paese) della Penisola. La Repubblica ha a lungo vissuto in una profonda ambivalenza nel suo rapporto col Grande Mare. Da un lato, guardando inevitabilmente all’asse euro-atlantico come non evitabile e decisivo perno del suo posizionamento globale. Dall’altro, sentendosi destinata a proiettare influenza e operatività nel contesto mediterraneo. Per cogenti necessità (ad esempio gli approvvigionamenti energetici), questioni securitarie e comprensibili ragioni geopolitiche: il Mediterraneo, lungi dall’essere un “lago” dell’Oceano Atlantico, era negli anni della Guerra Fredda estremamente contendibile e diviso tra potenze giovani e rampanti e grandi attori globali e, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, non ha perso di importanza soprattutto a causa del rilancio di Suez come hub commerciale planetario. La classe dirigente della Prima Repubblica fu in tal senso conscia della necessità di consolidare una strategia mediterranea per l’Italia, elevando il Grande Mare a spazio d’elezione per l’azione degli apparati politici, diplomatici ed economici del Paese, per giocarsi con decisione i margini d’autonomia concessi nelle maglie del confronto bipolare, per aprire a una strategia in grado di normalizzare le tensioni politiche emerse tra Africa e Medio Oriente, per riannodare sulla scia dei legami storici rapporti consolidate tra le varie sponde del Mediterraneo. Libertà dei commerci, incontro di civiltà, distensione: la non subordinazione regionale che l’Italia seppe garantirsi tra gli anni Cinquanta e Sessanta fu il frutto dell’individuazione di un bacino geografico di riferimento ritenuto cruciale per i nostri interessi e di un preciso ambito strategico in cui operare un’azione originale. Convergenza di intenti che aveva la distensione regionale come Stella Polare che aprì all’Italia le porte di un dialogo completo con Paesi come Egitto, Iran, Iraq, Libia. Le varie “vie” con cui si costituirono le agende mediterranee della Prima Repubblica sono riassumibili seguendo la parabola politica e umana di tre figure: Giorgio La Pira, Aldo Moro, Giulio Andreotti. La Pira, sindaco “santo” di Firenze, politico e mistico, emblema della sinistra democristiana, fu l’artefice di un dialogo a tutto campo che volle promuovere l’incontro tra l’Italia, i Paesi del Mediterraneo e il Sud del mondo unificando il dialogo attorno al dato dell’incontro di civiltà. Il Mediterraneo per La Pira era il grande Lago di Tiberiade attorno cui nacquero e prosperarono le tre grandi religioni monoteistiche, Cristianesimo, Ebraismo e Islam, e sulle cui sponde dovevano parimenti confrontarsi le potenze del XX secolo.  La meditazione dello statista originario della Sicilia sul messaggio evangelico fornisce una motivazione in più ed un contenuto più profondo al dialogo inteso come vocazione comune dei popoli, ed in particolare di quelli che si affacciano sul Mediterraneo ed appartengono alla “triplice famiglia di Abramo” delle tre grandi religioni monoteiste. Ma La Pira era anche uomo di pensiero ed azione. La sua originale elaborazione, culminata nell’organizzazione dei Dialoghi Mediterranei a Firenze a partire dalla metà degli Anni Cinquanta, rese l’Italia una fondamentale piattaforma diplomatica e d’incontro e ne valorizzò il ruolo  nella cornice strategica del neoatlantismo, dottrina di politica estera che, nella cornice del mantenimento dei legami con gli Stati Uniti, garantiva all’Italia democristiana un grande spazio d’azione nel Mediterraneo. Aldo Moro guidò una commistione tra soft power e hard power: lo statista pugliese seppe usare con sagacia nell’agone mediterraneo gli strumenti del dialogo diretto e quelli da “retrobottega” del potere. Moro era un protagonista attivo e felpato della diplomazia mediterranea, da lui affrontata sia da presidente del Consiglio che da ministro degli Esteri, consapevole dei limiti della proiezione italiana, ma anche della centralità della sicurezza energetica, dell’importanza dell’apertura dei mercati di esportazione e del mantenimento di un equilibrio tra i fronti conflittuali della regione, in primis quello arabo-israeliano, per la sicurezza nazionale. Decisamente poco noto è il fatto che Moro seppe utilizzare, in particolare, le leve di un’intelligence personale guidata dal colonnello Stefano Giovannone, la “spia di Moro” dell’omonimo saggio di Francesco Grignetti, come strumento di conoscenza diretta dei terreni operativi del Mediterraneo e del Medio Oriente. Giulio Andreotti fu, al pari di Moro, premier e ministro degli Esteri. La sua azione mediterranea si concretizzò su più assi. Da un lato, attraverso un’originale e sorprendente apertura al mondo arabo di cui il Divo era profondo e interessato conoscitore. Da Hafez al-Assad a Muammar Gheddafi, erano numerosi i leader mediorientali che in Andreotti vedevano un punto di riferimento. In secondo luogo, da “amerikano” per eccellenza Andreotti fu l’uomo che potè con maggiore sicurezza e senza ambiguità costruire un dialogo a tutto campo con l’Unione Sovietica per portare, principalmente negli Anni Ottanta, al Mediterraneo la distensione tra i blocchi. Infine, da “cardinale laico” di Roma, Andreotti utilizzò spesso i suoi accessi alla Curia del Vaticano e prestò parimenti diversi favori alla Santa Sede sostenendo gli sforzi diplomatici dei pontefici da lui incontrati per un’apertura al dialogo con le Chiese del Medio Oriente e le altre istituzioni politiche e religiose dell’area. La Pira, Andreotti, Moro: tre figure accomunate dalla consapevolezza del Mediterraneo come area decisiva per i destini politici d’Italia. Tre maestri di politica estera tra loro diversi, ma concordi nel capire le linee guida dell’interesse nazionale italiano. Un Grande Mare che è vocazione inevitabile per Roma. Oggi più che mai chiamata all’elaborazione di un’agenda sistemica per avere nuovamente un ruolo nella definizione dei suoi equilibri. Che nei grandi della Prima Repubblica può avere dei maestri insuperabili.

Navi, sottomarini, missili: l’industria italiana conquista il mare. Lorenzo Vita, Paolo Mauri su Inside Over il 6 giugno 2021. L’industria militare italiana si posiziona ai vertici mondiali per quanto riguarda il livello tecnologico. Tuttavia, a fronte di un mercato fiorente, l’andamento delle esportazioni, pur ricco, è a livello complessivo altalenante con un trend calante che non accenna a diminuire da alcuni anni. Secondo dati ufficiali, nel 2018 esso ammontava a 5,2 miliardi di euro (pari a un 53% meno rispetto all’anno precedente). L’anno successivo era pari a 3,2 . Il Maeci, riferisce che le prime 25 società esportatrici pesano per circa il 97% sul totale, ed i primi quattro operatori del settore sono Leonardo (67,6%), Rwm Italia (6,1%), Mbda Italia (4,9%) e Iveco DefenseVehicles (4,1%). Il mercato si differenziava sostanzialmente in modo equo tra Paesi della Nato/Ue (Uk, Germania, Francia, Spagna, Usa) ed “extraeuropei” (Qatar, Eau, Egitto, Turchia e Pakistan), sebbene il peso sia notevolmente diverso: solo il 27,2% delle autorizzazioni all’esportazione è stato destinato ai primi, che rappresentano le più importanti alleanze internazionali per l’Italia, mentre il restante 72,8% è stato destinato ai secondi. Le cose in questi anni non sono certamente andate per il meglio. Complici anche alcune scelte di politica estera che hanno inciso sensibilmente sulla capacità italiana di vendere il prodotto della propria industria bellica nel mondo, il trend non ha mostrato grossi segni di ripresa. La relazione presentata quest’anno al Parlamento afferma che “nel 2020 il valore globale delle licenze di esportazione e di importazione, comprese le licenze per operazioni di intermediazione e quelle globali di progetto e di trasferimento, è stato pari a 4,821 miliardi di euro”. Di questo volume, 4.647 miliardi di euro sono per operazioni in uscita. In questo trend, l’elemento principale che ha dato ossigeno al mercato italiano delle esportazioni è stato l’Egitto di Abdel Fatah al-Sisi, che è passato da 7,1 milioni di euro di autorizzazioni alla vendita nel 2016 a 871,7 milioni di euro nel 2019. L’anno scorso, un maxi contratto di circa 11 miliardi di euro era stato definitivamente autorizzato per la vendita di armamenti all’Egitto che ha compreso, tra i vari sistemi, due navi militari Fremm. Ad oggi sembra che solo la vendita delle fregate costruite da Fincantieri si sia concretizzata, per note questioni di carattere umanitario. La conferma è arrivata dalla relazione annuale, che ha reso evidente come sia stato proprio Il Cairo il maggior cliente del 2020 per un volume di 990 milioni di euro.

Le unità di superficie. La questione egiziana e la vendita al Cairo delle due fregate destinate alla Marina Militare ci ricorda l’importanza della vendita di unità navali di superficie nell’industria italiana. Fincantieri, che rappresenta il leader del settore, ha sviluppato in questi anni una rete di interessi di estrema importanza che va dal Medio Oriente all’America non disdegnando anche fondamentali partnership con la cantieristica europea e anche alcuni primi programmi con India e Russia. L’ultima notizia, in ordine di tempo, è quella che è giunta dagli Stati Uniti, con Fincantieri che ha ricevuto il semaforo verde dalla Marina degli Stati Uniti per la seconda fregata della classe Constellation. Dopo la capoclasse, Fincantieri ha ottenuto, attraverso la sua controllata Marinette Marine, l’ordine di una seconda fregata, la Uss Congress, per un valore di 555 milioni di dollari. Le navi, che sono costruite in Wisconsin, rappresentano uno dei principali prodotti tecnologici esportati all’estero. E questo conferma l’azienda italiana si sia nel tempo costruita una solida rappresentanza americana confermata sia dagli studi per le navi-drone sia per la partecipazione nel consorzio per le Littoral Combat Ships della Lockheed Martin. Il programma per la nuova classe Freedom è uno dei capisaldi della nuova Marina americana, che cerca di costruire una flotta più moderna e sempre più multiruolo in grado di realizzare i diversi obiettivi posti dal Pentagono, sia in termini offensivi che difensivi. Sul fronte fregate, non va dimenticato inoltre che l’Italia si sta inserendo nella difficilissima partita per il rinnovo della flotta greca, con Atene che ha varato un imponente piano di modernizzazione del proprio arsenale e con Fincantieri ad aver iniziato a intavolare delle trattative. Inserirsi nella partita è complesso e sono in molti i pretendenti (Francia su tutti, Stati Uniti e anche Spagna), ma la proposta italiana sembra aver trovato l’attenzione della Grecia, consapevole anche dei rapporti diplomatici sul fronte del Mediterraneo centrale. In Medio Oriente, il prodotto italiano che è più in voga sono invece le corvette. E anche in questo caso l’agenda diplomatica italiana deve sostenere una difficile imparzialità nelle complesse relazioni tra monarchie del Golfo. Fincantieri in questo momento ha accordi molto importanti con il Qatar e con gli Emirati Arabi Uniti, Paesi che da qualche anno certamente non hanno relazioni positive. Pe quanto riguarda la Marina emiratina, l’Italia ha consegnato la corvetta della classe Abu Dhabi. Marina con cui si è arrivati anche alla consegna di due pattugliatori, Ghantut e Salahah, della classe Falaj 2. Mentre per la Marina qatariota, a febbraio c’è stato il il varo tecnico della Damsah e si sono avviati i lavori per la Sumaysimah, corvette della classe Al Zubarah, e sempre per i pattugliatori, è stato realizzato il Musherib. Questi che sono i mezzi più in vista rappresentano la parte più mediatica, e certamente più importante, dell’export di mezzi di superficie nel mondo. Ma non dobbiamo dimenticare una serie di altre operazioni che hanno coinvolto l’Italia e che confermano dinamiche molto complesse nell’ambito della vendita in questo settore. Fincantieri ad esempio ha costruito la RV Kronprins Haakon, nave rompighiaccio oceanografica consegnata al governo norvegese. Sempre Fincantieri ha collaborato con la Russia per Rossita, una nave in supporto delle operazioni di trasporto combustibile e di scorie nucleari e in servizio presso la Atomflot.

La tecnologia sottomarina. Oltre alle unità di superficie, l’Italia ha una lunga tradizione “sottomarina” che oggi, oltre che costruire battelli come gli U-212 e fornirne componentistica, attraverso il gruppo Leonardo/Fincantieri e consociate (ad es. la Fib del Gruppo Seri Industrial per le nuove batterie al litio-ferro-fosfato degli U-212 Nfs), ha capitalizzato la lunga tradizione di veicoli subacquei da assalto utilizzati sin dai tempi della “mignatta” di Paolucci e Rossetti. Un’industria importante in questo settore poco noto (perché poco reclamizzato) è la Cabi Cattaneo. La società milanese è uno dei principali produttori mondiali di veicoli subacquei e attrezzature pesanti per forze speciali e costruisce anche i container da trasporto presso-resistenti che potranno essere utilizzati proprio dai nuovi sottomarini tipo U-212 Nfs. Recentemente siamo venuti a conoscenza che proprio la Cabi Cattaneo sta costruendo due piccoli sottomarini per la Marina degli Emiri del Qatar. In una presentazione fatta al parlamento italiano il 17 maggio si notano immagini che potrebbero essere le prime rese pubbliche dei nuovi veicoli subacquei. La società sembra che stia collaborando con un’altra per costruire due sottomarini “nani” costruiti per un cliente straniero, e sebbene questo non sia stato esplicitato, potrebbe essere il Qatar. L’altra società italiana coinvolta deve essere la M23 Srl di Ciserano (Bg). Questa società risulterebbe essere uno spin-off dell’attività militare dell’affermato costruttore di sottomarini Gse Trieste. Le esportazioni in ambito navale riguardano anche sistemi più tradizionali come siluri, missili e artiglierie. Mbda Italia è ai vertici coi missili Marte Extended Range e Marte Mk2/N, insieme alla famiglia Teseo che recentemente si è ampliata con l’arrivo del Mk2/E. Come non citare poi nel campo della siluristica i Black Shark e Black Scorpion, costruiti dalla Wass del gruppo Leonardo, oppure, in quello delle artiglierie navali, il famoso Super Rapido/Compatto da 76/62 della Oto Melara anche lei confluita nel gigante della industria della Difesa italiana, che viene utilizzato su unità navali di Germania, Usa, Francia, Spagna, Norvegia, Taiwan, Paesi Bassi, Filippine, Sud Africa, Canada, Grecia, Corea del Sud, Irlanda, Perù, Danimarca e India. Un successo mondiale che testimonia l’alta qualità delle produzioni italiane nel campo degli armamenti. 

Da corriere.it il 6 maggio 2021. La nave Libeccio della Marina Militare sta intervenendo in soccorso di un marinaio italiano ferito dai colpi di avvertimento partiti da una motovedetta della Guardia costiera libica contro i due pescherecci Aliseo e Artemide circa 75 miglia a nord est di Tripoli. La Libeccio, che si trovava a poche miglia dalle due imbarcazioni italiane, è stata autorizzata dai libici ad approntare il soccorso. I due motopesca sono stati rilasciati.

(ANSA il 7 maggio 2021) E' in navigazione verso Mazara del Vallo il peschereccio "Aliseo", con sette uomini d'equipaggio, il cui comandante Giuseppe Giacalone è rimasto ferito dai colpi d'arma da fuoco sparati ieri da una motovedetta militare libica. L'assalto è avvenuto a 35 miglia a nord della costa di Al Khums, "all'interno della Zona di protezione di pesca nelle acque della tripolitana" come ha comunicato la Marina Militare intervenuta sul posto in soccorso con la fregata Libeccio. Un tratto di mare definito "ad alto rischio" dalle nostre autorità. L'arrivo dell'unità militare italiana ha convinto i militari libici a rilasciare l'imbarcazione che ha subito fatto rotta verso Mazara del vallo. Il peschereccio sta navigando alla velocità di circa 9-10 nodi all'ora; l'arrivo in porto è previsto per l'alba di domani. Le condizioni del comandante Giacalone, ferito lievemente anche alla testa da alcune schegge del vetro della cabina e medicato a bordo dai militari italiani, non destano preoccupazioni. (ANSA).

(ANSA il 6 maggio 2021)  Erano 3 i pescherecci italiani che si trovavano in una zona definita "ad alto rischio" verso i quali una motovedetta libica ha sparato alcuni colpi di avvertimento che hanno ferito il comandante di una delle tre imbarcazioni. Lo ricostruisce la Marina Militare che sta ancora operando nella zona - 35 miglia a nord della costa di Al Khums - e che è intervenuta con la fregata Libeccio. Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini è costantemente aggiornato sugli sviluppi della situazione.

(ANSA il 6 maggio 2021) La Marina libica, che controlla la Guardia costiera, ha smentito di aver sparato "contro" pescherecci italiani ma ammesso che sono stati esplosi "colpi di avvertimento in aria" per fermare imbarcazioni da pesca che a suo dire avevano sconfinato in acque territoriali libiche. "Non ci sono stati colpi esplosi contro imbarcazioni, ma colpi di avvertimento in aria", ha detto al telefono all'ANSA il commodoro Masoud Ibrahim Abdelsamad, portavoce della Marina libica senza fornire per il momento ulteriori dettagli sull'incidente. (ANSA).

(ANSA il 6 maggio 2021) Il motopesca "Aliseo" è stato liberato. Lo ha confermato Alessandro Giacalone, armatore del mezzo e figlio di Giuseppe, il comandante rimasto ferito lievemente. Il giovane ha avuto conferma tramite una telefonata con un cellulare satellitare ricevuta dal fratello Giacomo, attualmente a bordo dell'Anna Madre, l'altro peschereccio della società, che si trova anch'esso in battuta di pesca. L'Aliseo è già in navigazione verso le coste siciliane. Il peschereccio "Aliseo" della flotta di Mazara del Vallo, che era impegnato in una battuta al largo delle coste di Bengasi, è stato mitragliato da una motovedetta militare libica. I colpi d'arma da fuoco hanno ferito il comandante, Giuseppe Giacalone. Lo ha confermato all'ANSA il figlio Alessandro, aggiungendo che al momento non conosce le condizioni del padre.

Da corriere.it il 6 maggio 2021. La nave Libeccio della Marina Militare sta intervenendo in soccorso di un marinaio italiano ferito dai colpi di avvertimento partiti da una motovedetta della Guardia costiera libica contro i due pescherecci Aliseo(nella foto Ansa) e Artemide circa 75 miglia a nord est di Tripoli e a 3o da Misurata. La Libeccio, che si trovava a poche miglia dalle due imbarcazioni italiane, è stata autorizzata dai libici ad approntare il soccorso. I due motopesca sono stati rilasciati.La persona rimasta ferita è il comandante della nave Aliseo Giuseppe Giacalone: i libici, dopo che le navi erano entrate in acque di competenza di Tripoli, hanno sparato colpi di avvertimento ordinando a entrambe di fermarsi. Sia la Aliseo che la Artemide sono riuscite però a sottrarsi all’alt. Entrambe appartengono alla marineria di Mazara del Vallo.

I precedenti. L’Aliseo era riuscita già a sottrarsi a un tentativo di sequestro da parte delle autorità tunisine nel 2017 ma soprattutto pochi giorni fa, nella notte tra il 2 e il 3 maggio, l’Aliseo era scampato insieme ad altri sei pescherecci (Antonino Pellegrino, Giuseppe Schiavone, Nuovo Cosimo, Anna Madre e Artemide) a un tentativo di sequestro da parte di un gommone delle milizie del generale Khalifa Haftar al largo di Bengasi, nella regione orientale della Cirenaica. Anche in quella circostanza, i libici avrebbero sparato colpi in aria per intimare al comandante di fermarsi e un colpo di mitra avrebbe colpito la parte superiore del motopesca Giuseppe Schiavone, senza causare feriti tra i marittimi. Ben 108 giorni, invece, era durata la prigionia di 18 pescatori di Mazara, catturati a settembre 2020 dalle milizie di Haftar e liberati il 17 dicembre dopo una complessa trattativa e una visita lampo dell’allora premier Giuseppe Conte a Bengasi con il ministro degli esteri Di Maio.

La versione dei libici. La Marina libica ha fornito una prima sua versione dei fatti, ammettendo di aver sparato colpi di avvertimento ma di averli indirizzati in aria. Secondo Tripoli la Aliseo e la Artemide avevano sconfinato in acque territoriali libiche. «C’erano quattro o cinque pescherecci nelle acque territoriali libiche senza alcun permesso da parte del governo libico», ha riferito il portavoce della Marina libica: «La nostra Guardia costiera, fra le sue funzioni, ha quella del controllo della pesca», ha ricordato.

La posizione italiana. Secondo informazioni raccolte invece dalla Farnesina e dall’Aise Il Comando della Squadra Navale italiana (CINCNAV) ha inviato un velivolo da pattugliamento P72 e nel contempo ha disposto l’avvicinamento di Nave Libeccio che, a sua volta inviava il proprio elicottero sull’area interessata. Intorno alle 14.30 l’unità libica Obari aveva avvicinato tre pescherecci (e non due) italiani intimando il fermo. Successivamente la Obari sparava dei colpi di avvertimento. Il team sanitario della Nave Libeccio è intervenuto inviando un medico a bordo; anche personale libico della Obari sarebbe salito a bordo del peschereccio interessato dall’evento per controllare le condizioni del comandante ferito. Non è ancora chiaro - secondo le fonti italiane - se le ferite siano imputabili ad arma da fuoco o incidente a bordo. Avrebbe comunque riportato una «ferita leggera ad un braccio».

Alberto Gentili Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 7 maggio 2021. Non c' è partito, da Pd a Fratelli d' Italia, dalla Lega e Forza Italia, che non abbia immediatamente chiesto al governo di intervenire. E di mettere fine alla caccia dei libici ai pescherecci italiani. Ma il governo di Mario Draghi, che era andato in visita Libia il 7 aprile, è in imbarazzo. Come fanno sapere fonti della Difesa e del Ministero degli Esteri, le tre imbarcazioni italiane diventate bersaglio delle motovedette libiche navigavano in una zona vietata, la zona di pesca protetta (Zpp) della Libia. Uno spicchio di mare riconosciuto a Tripoli, implicitamente, anche dalla Commissione Europea a partire dal 2012. Più volte i pescatori di Mazara erano stati avvertiti e invitati a non effettuare sconfinamenti anche dalle autorità italiane. Non solo. Proprio il peschereccio Aliseo appena quattro giorni fa, lunedì, aveva sconfinato nella stessa area di mare. E in quell' occasione le navi militari italiane erano riuscite a evitare il peggio. Ciò non toglie che è forte la condanna nel governo per l'uso di armi contro i pescatori siciliani. L' esecutivo nei prossimi giorni svolgerà quella che fonti autorevoli chiamano «moral suasion» verso gli armatori siciliani per impedire altri sconfinamenti. E il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, avvierà una trattativa con Tripoli per «risolvere questo annoso problema, attraverso un accordo o una convenzione bilaterale». «Ma invocare l'intervento del governo contro la Libia», dice un'alta fonte dell'esecutivo, «è del tutto fuori luogo: i pescatori di Mazara erano nel torto.Questo però non può in alcun modo legittimare l' uso delle armi contro di loro». «Quelle acque lì - spiega un altissimo dirigente della Difesa - sono pericolose, fanno parte della zona di protezione pesca istituita da Gheddafi per il ripopolamento marino e mai contestata, dove è assolutamente vietato pescare. E dove sono previste sanzioni precise: il sequestro del peschereccio e del pescato, la multa e il rilascio. Ciò avviene da anni. Agli armatori il giochetto andava e va bene: nove volte su dieci la fanno franca, non succede nulla, e quando va male scatta il sequestro. Il problema è che questa volta i libici hanno sparato dei colpi di avvertimento a prua. Stiamo facendo le nostre indagini per capire perché è stato colpito il comandante Giacalone. Forse un colpo di rimbalzo, da quel che sappiamo non c'era la volontà dei libici di ferire...». Alla Difesa, che ha aperto un'inchiesta, sono convinti che senza l'intervento della Libeccio, di un elicottero e anche di un areo militare italiani, l'Aliseo sarebbe stata sequestrata. E portata a Tripoli. «La presenza della nostra nave ha evitato il peggio al 100%». Il fatto che i pescatori siano nel torto, che violino le regole, spinge più di un esponente di governo a stigmatizzare la reazione dei partiti politici: «Non ha senso chiedere l'intervento di Draghi come se dovesse andare alla guerra contro la Libia. Forse le parti politiche non hanno ben inquadrato la dinamica di ciò che è avvenuto. È il caso di gettare acqua sul fuoco, non di scatenare una tempesta». Anche perché il diritto internazionale sarebbe dalla parte dei libici, la zona di pesca protetta costituisce un'area di sovranità funzionale legittimamente proclamata dalla Libia sulla base delle norme consuetudinarie codificate nella Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare. Tuttavia l'oro rosso, il gambero a cui danno la caccia i pescherecci italiani è un crostaceo pregiato ed è questo che li spingerebbe a sconfinare. Il suo habitat è diffuso in tutto il Mediterraneo, in particolare nella zona a sud di Mazara, ma anche vicino alle coste libiche, in aree che sono regolate da regimi di sfruttamento esclusivo.

I libici: "Avevano sconfinato, colpi in aria". Guardia costiera libica spara contro tre pescherecci italiani: ferito comandante. Fabio Calcagni su Il Riformista il 6 Maggio 2021. Un marinaio italiano è rimasto ferito da colpi di avvertimento sparati da una motovedetta della cosiddetta Guardia costiera libica a circa 35 miglia nautiche dalla costa libica, al largo di Misurata. La notizia è stata confermata dalla Marina militare italiana, che ha riferito come nell’area in cui è avvenuto il "conflitto" erano presenti tre pescherecci italiani: Artemide, Aliseo e Nuovo Cosimo, tutti della flotta ti Mazara del Vallo. È ancora da confermare invece la circostanza che a sparare contro i pescherecci italiani sia stata la nave libica Obari, paradossalmente donata e assistita proprio dall’Italia ai guardia costiera libici nell’ambito del programma di impegno comune contro l’immigrazione clandestina. A rimanere ferito ad un braccio è stato comandante della nave Aliseo, Giuseppe Giacalone: il figlio Alessandro, sentito dall’Ansa, ha riferito che il padre è stato colpito dal fuoco sparato dalla motovedetta militare libica aggiungendo che al momento non conosce le condizioni del padre. Alessandro, anche armatore del mezzo, ha spiegato inoltre che il motopesca Aliseo è stato liberato, una notizia che gli è stata confermata tramite una telefonata con un cellulare satellitare ricevuta dal fratello Giacomo, attualmente a bordo dell’Anna Madre, l’altro peschereccio della società, che si trova anch’esso in battuta di pesca. L’Aliseo è già in navigazione verso le coste siciliane. In soccorso delle tre navi è intervenuta la fregata Libeccio della Marina militare, impegnata nell’Operazione Mare Sicuro. La Marina ha spiegato che la Libeccio al momento della segnalazione si trovava a circa 60 miglia dalla scena d’azione, quindi si è diretta verso i motopesca “alla massima velocità” ed ha mandato in volo l’elicottero di bordo, il quale giunto in area ha preso contatto radio con il personale della motovedetta. Degli spari sono stati segnalati da un velivolo da ricognizione della Marina Militare P-72, dirottato in zona dalla Libeccio. Secondo la Marina i tre pescherecci erano “in attività di pesca nelle acque della Tripolitania all’interno della zona definita dal Comitato di coordinamento interministeriale per la sicurezza dei trasporti e delle infrastrutture "ad alto rischio"”, precisamente a circa 35 miglia nautiche dalla costa libica, a nord della città di Al Khums. Una ricostruzione smentita da Masoud Ibrahim Abdelsamad, portavoce della Marina libica. Ad Agenzia Nova infatti ha spiegato di aver “esploso solo colpi in aria” a scopo di avvertimento dopo aver più volte intimato agli italiani di allontanarsi “dalle acque libiche”. All’Ansa Abdelsamad ha aggiunto che “quando i pescherecci arrivano, la nostra guardia costiera prova a fermarli”, ha aggiunto il portavoce promettendo maggiori dettagli  e insistendo nel sostenere che “non ci sono stati spari diretti contro l’imbarcazione”. “C’erano quattro o cinque pescherecci nelle acque territoriali libiche senza alcun permesso da parte del governo libico”, ha riferito ancora il portavoce: “La nostra Guardia costiera, fra le sue funzioni, ha quella del controllo della pesca”, ha ricordato.

LE REAZIONI POLITICHE – Non sono tardate ad arrivare le reazioni dal mondo politico alla notizia degli spari libici contro i tre pescherecci italiani. Per Enrico Letta, segratario del Pd, quel che è accaduto è “inconcepibile”. “Solidarietà al comandante del peschereccio italiano e non ci si potrà’ accontentare di scuse o vaghe spiegazioni”, ha scritto su Twitter il numero uno dei Dem. Tira in ballo il presidente del Consiglio Mario Draghi invece segretario nazionale di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni: “Non mi ricordo bene: di che cosa dovevamo ringraziare la Guardia Costiera Libica ? Dei pescatori italiani che vengono mitragliati? O dei naufraghi che vengono bastonati e riportati nei lager della Libia? Aspetto risposta dal presidente Draghi e dalla sua maggioranza”, posta sui social Fratoianni. Il senatore di Fratelli d’Italia Adolfo Urso chiede che il governo italiano “venga in aula a fine seduta a riferire su quanto accaduto relativamente ai due pescherecci italiani attaccati dalla Guardia costiera libica. Dalle notizie che giungono il comandante di uno dei due pescherecci sarebbe rimasto ferito e questo ci rimanda all’episodio del sequestro dei nostri marinai e alla loro lunga detenzione in Libia prima che fossero rilasciati. Si tratta del secondo episodio in pochi mesi e pretendiamo che il governo ci riferisca nel merito”. Richiesta che condivide il deputato di LeU Erasmo Palazzotto, che chiede all’esecutivo di spiegare “se a sparare è stata la stessa guardia costiera libica che il Presidente del Consiglio ha ringraziato qualche giorno fa per le deportazioni quotidiane di migranti e se lo ha fatto utilizzando una delle motovedette che gli abbiamo regalato. Dopo questo ennesimo e gravissimo episodio, occorre sospendere immediatamente la missione di supporto alla guardia costiera libica”.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Da Ansa.it il 7 maggio 2021. La motovedetta “Obari” in dotazione alla Guardia Costiera libica che ieri ha sparato alcuni colpi d'avvertimento verso i tre pescherecci italiani è stata ceduta alle autorità di Tripoli dall'Italia, nell'ambito della fornitura di mezzi navali per rafforzare il contrasto all'immigrazione clandestina da parte della Libia. La motovedetta, quando era in servizio in Italia, si chiamava 'G92 Alberti': era in dotazione alla Guardia di Finanza e faceva parte della classe “Corrubia”, motovedette d'altura con 14 persone di equipaggio lunghe 27 metri. È stata cancellata dal ruolo speciale del naviglio militare dello Stato il 10 luglio del 2018 in seguito al decreto che ha disposto la cessione alla Libia di 12 motovedette, dieci 'Classe 500' della guardia Costiera e due unità navali della classe "Corrubia".

Gli spari, l'abbordaggio: cosa è successo davvero nell'assalto al peschereccio italiano. Federico Garau il 7 Maggio 2021 su Il Giornale. I pescherecci, fanno sapere dalla Difesa, si trovavano in una "zona di protezione pesca istituita da Gheddafi per il ripopolamento marino e mai contestata, dove è assolutamente vietato pescare". C'è grande tensione dopo quanto accaduto ieri nel Mediterraneo, dove una motovedetta della Guardia Costiera libica ha aperto il fuoco contro le imbarcazioni dei nostri pescatori. Tutti i rappresentanti del mondo della politica si sono sollevati per chiedere a gran voce al governo italiano di intervenire, ma l'attuale esecutivo si trova in una condizione di estrema difficoltà: i tre pescherecci presi di mira, infatti, non avrebbero dovuto trovarsi in quel tratto di mare.

I fatti. È di ieri la notizia del duro intervento delle autorità libiche nei confronti dei nostri pescatori. La Guardia Costeria ha deciso di aprire il fuoco, e solo il tempestivo intervento della Marina Militare italiana ha riportato un minimo di calma ed evitato il sequestro dei motopesca. L'assalto dei militari libici, fra l'altro, arriva a pochi giorni di distanza da un altro tentativo di abbordaggio nei confronti di 8 pescherecci. Come confermato dalla Marina Militare italiana, ad essere attaccate sono state le imbarcazioni Artemide, Aliseo e Nuovo Cosimo, raggiunte dai libici durante l'attività di pesca. Nel corso della sparatoria, il comandante della Aliseo, Giuseppe Giacalone, ha riportato delle lesioni, fortunatamente non gravi: alcune schegge di vetro lo avrebbero ferito alla testa. Solo il tempestivo intervento della fregata Libeccio, arrivata insieme ad un elicottero e ad un aereo militare, ha impedito di fatto il sequestro dei motopesca.

Il luogo dell'assalto. In queste ultime ore sono stati in tanti a chiedere il risoluto intervento del governo italiano. Rappresentanti politici di ogni colore hanno preteso una presa di posizione. Eppure, stando a quanto riferito dalla stessa Marina Militare italiana, i tre pescherecci si trovavano "a 35 miglia a nord della costa di Al Khums, all'interno della Zona di protezione di pesca nelle acque della tripolitana". Un tratto di mare conosciuto per essere ad "alto rischio". Che fare, dunque? Le tre imbarcazioni italiane si trovavano in una zona vietata, un'area di pesca protetta (Zpp) della Libia, come riconosciuto anche dalla Commissione Europea. Non solo. Stando a quanto riferito da Il Messaggero, i pescatori di Mazara erano stati più volte avvertiti di non tentare rischiosi sconfinamenti. I militari libici, tuttavia, hanno aperto il fuoco, e ciò è stato duramente condannato anche dal governo italiano. Si tratta pertanto di una situazione difficile da risolvere. Le acque in cui si trovavano i nostri connazionali sono pericolose, come spiega al Messaggero anche un alto dirigente della Difesa: "Fanno parte della zona di protezione pesca istituita da Gheddafi per il ripopolamento marino e mai contestata, dove è assolutamente vietato pescare. E dove sono previste sanzioni precise: il sequestro del peschereccio e del pescato, la multa e il rilascio. Ciò avviene da anni. Agli armatori il giochetto andava e va bene: nove volte su dieci la fanno franca, non succede nulla, e quando va male scatta il sequestro". Le autorità italiane stanno ora cercando di capire in che modo sia rimasto ferito il comandante Giuseppe Giacalone.

L'intervento dell'Italia. Adesso sarà il ministro degli Esteri Luigi Di Maio a dover derimere la questione, avviando una trattativa con Tripoli. Allo stesso tempo, lo Stato interverrà per dissuadere una volta per tutte i pescatori italiani ad effettuare pericolosi sconfinamenti. La speranza è che si possa arrivare ad un accordo con i libici, tuttavia, come dicono alcune fonti dell'esecutivo, "invocare l' intervento del governo contro la Libia è del tutto fuori luogo: i pescatori di Mazara erano nel torto. Questo però non può in alcun modo legittimare l'uso delle armi contro di loro". L'intenzione dell'esecutivo, dunque, è quella di far calmare la situazione: nessuna voce grossa contro la Libia. Il diritto internazionale, infatti, non darebbe ragione all'Italia.

I pescatori stanno tornando in Italia. Il comandante Giacalone, medicato sul posto, non ha fortunatamente riportato gravi lesioni, e si trova attualmente in viaggio verso l'Italia con il resto dell'equipaggio. Il peschereccio, rilasciato dai libici, sta navigando alla velocità di circa 9-10 nodi all'ora, e domani dovrebbe già essere arrivato a Mazara del Vallo. A quanto pare, a spingere i pescatori ad addentrarsi in acque libiche sarebbe stata la necessità di catturare dei gamberi, crostacei molto richiesti che si trovano anche vicino alle coste della Libia.

Cosa c’è dietro l’ennesima sparatoria contro pescherecci italiani in Libia. Mauro Indelicato su Inside Over il 7 maggio 2021. Due episodi ravvicinati in grado di far ritornare repentinamente con la mente a quanto accaduto tra settembre e dicembre, quando cioè gli equipaggi di due pescherecci italiani sono stati sequestrati dalle milizie di Khalifa Haftar in Libia. Tra il 2 e il 3 maggio, sempre nella zona controllata dal generale della Cirenaica, altre motonavi con a bordo nostri pescatori hanno rischiato di essere abbordate. Infine il 6 maggio ad essere nel mirino dei libici è stato il peschereccio Aliseo. I due episodi però hanno presentato distinte peculiarità. A partire dai luoghi in cui si sono sviluppati gli eventi. L’incidente o, per meglio dire, il tentativo di sequestro è avvenuto a circa 30 miglia dalla costa di Misurata. Si è quindi in acque internazionali. Ma per i libici, i quali hanno dato sempre un’interpretazione molto larga del trattato di Montego Bay e del concetto di “Baia Storica”, quelle sono acque soggette alla propria sovranità. C’è un dettaglio però da non trascurare e che è stato sottolineato, poche ore dopo gli spari, dal sindaco di Mazara del Vallo, Salvatore Quinci: “È una novità che episodi del genere accadano al largo di Misurata”. Non era mai successo che un peschereccio venisse coinvolto in situazioni simili di fronte la costa della parte ovest della Libia. Il dettaglio non è solo geografico, ma anche politico. Se in Cirenaica è infatti presente Haftar, con le sue forze non riconosciute dalla comunità internazionale, a Misurata ad operare è la Guardia Costiera facente capo al nuovo governo insediatosi a Tripoli nello scorso mese di marzo. Esecutivo riconosciuto dall’Italia e con il quale Roma nelle ultime settimane ha avviato intensi colloqui. Lo dimostra la visita del presidente del consiglio Mario Draghi nella capitale libica del 6 aprile scorso dove, tra le altre cose, ha evidenziato il ruolo importante della marina tripolina nel contrasto all’immigrazione. Dunque a sparare questa volta sono state forze vicine all’Italia. Anzi, i colpi sono partiti, come dimostrato dalle foto pubblicate nelle scorse ore su Twitter, da una motovedetta italiana girata ai libici nel novembre 2018. Si tratta della “Ubari“, contrassegnata dal numero 660 scritto nelle fiancate. Il mezzo è stato fabbricato nel nostro Paese ed era in uso alla nostra Guardia di Finanza prima di prendere la via verso la sponda opposta del Mediterraneo. L’atto ostile contro il peschereccio di Mazara del Vallo dunque è paragonabile alla stregua di un vero e proprio “fuoco amico”. Perché quindi da Misurata (o da Tripoli) è partito l’ordine di sparare contro i pescatori italiani? Una domanda la cui risposta potrebbe celare non pochi segnali negativi per Roma. Sulla Guardia Costiera libica infatti si è addensata già da mesi l’ombra della Turchia. Ankara dal novembre 2019 è principale partner militare della Libia, almeno di quella occidentale. Sulla motovedetta Ubari nello scorso ottobre sono saliti anche ufficiali turchi, i quali hanno addestrato i “colleghi” libici. Segno dunque di come non è remota l’ipotesi di un ordine di sparare al peschereccio italiano impartito sì dalla Libia, ma con possibili collegamenti con Ankara. Anche perché da settimane Italia e Turchia sono ai ferri corti dopo che Mario Draghi ha definito Erdogan un dittatore e quest’ultimo gli ha risposto dandogli del maleducato. C’è poi anche una questione interna alla Libia. L’impressione è che tra est ed ovest sia partita una vera e propria gara a chi spara per primo agli italiani. Se Haftar ha dimostrato, tra settembre e dicembre 2020, di poter fare la voce grossa e trattenere pescatori siciliani a Bengasi, in Tripolitania non vogliono essere da meno. E dopo l’ultimo episodio del 3 maggio, in cui motovedette delle forze del generale hanno provato a sequestrare altri pescherecci italiani, Misurata tre giorni dopo ha risposto. L’Aliseo a breve tornerà a Mazara del Vallo, ma nelle acque del Mediterraneo la situazione è tutt’altro che calma.

Cambiano le rotte dei migranti: cosa c'è dietro il boom di sbarchi. Sofia Dinolfo e Mauro Indelicato il 20 Aprile 2021 su Il Giornale.

In questo 2021 gli stranieri che seguono la rotta centrale del Mediterraneo provengono dalla Libia. Meno tunisini in arrivo, qualcosa sta cambiando. Nei primi mesi del 2021 è già possibile tracciare il quadro generale del fenomeno migratorio nel Mediterraneo. Il trend degli arrivi nel nostro Paese si presenta superiore rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Ma c’è un cambiamento: oggi si parte maggiormente dalle coste libiche. Cosa sta accadendo?

Il trend delle rotte nel Mediterraneo. Sono dati interessanti quelli raccolti dall’Unhcr in questi primi mesi del 2021 facenti riferimento ai flussi nel Mediterraneo da parte dei migranti. Circa 16.558 stranieri lo hanno attraversato per raggiungere le mete prefissate. Entrando nei dettagli è possibile analizzare cosa sta accadendo lungo il tracciato delle tre rotte: quella centrale, quella occidentale e quella orientale. Quella centrale, che interessa l’Italia,risulta la più seguita con 8.472 migranti. Ad essa segue quella occidentale che ha come punto di approdo la Spagna con 7.051 stranieri e poi quella orientale che riguarda la Grecia con 1.998 stranieri. Il trend dei flussi lungo il Mediterraneo conferma già da adesso che la rotta centrale è quella più seguita proprio come il 2020. Dunque, fin qui nulla di nuovo. Un netto cambiamento invece lo si può riscontrare rispetto al 2019 dove invece, al contrario dei dati attuali, era la rotta orientale ad essere quella maggiormente navigata. In quell’anno infatti la Grecia ha registrato un boom di arrivi con 67mila persone. Dopo l’emergenza scattata in quel momento, il trend ha gradatamente iniziato a registrare una flessione a causa dette tensioni tra il governo di Atene e la Turchia. Le dispute politiche tra i due Paesi hanno attivato maggiori controlli sulle partenze che sono diminuite notevolmente.

La rotta libica il vero pericolo. La rotta del Mediterraneo centrale è quindi la più gettonata in questa prima fase dell’anno e quasi certamente lo rimarrà fino al 31 dicembre prossimo. Chiarito questo aspetto occorre far luce anche su un fatto emblematico del fenomeno migratorio:all’interno dello stesso tratto di mare l’Italia non è l’unica terra di approdo. Con essa c’è anche Malta. Ma se gli stranieri sbarcati finora sul suolo italiano sono stati 8.472, sul territorio maltese sono stati invece 65. Numeri dai quali emerge la netta sproporzione degli arrivi all’interno dei due Paesi che hanno sì diverse dimensioni territoriali ma dove la gestione del fenomeno migratorio viene attuata in modo completamente differente. Ma chi sono i migranti che arrivano? Sull’origine degli stranieri che varcano il confine italiano inizia ad essere sempre più marcata la differenza rispetto allo scorso anno. Nel 2020 infatti i tunisini sono stati i protagonisti indiscussi degli sbarchi con il 41% di presenze. In questo 2021 invece i dati parlano di un calo delle loro partenze dall’altra parte del Mediterraneo: fino ad oggi infatti l’arrivo dei tunisini in Italia si aggira al 15%. Da dove arrivano i migranti allora? Dalla Libia. Quando si parla di persone che arrivano dal territorio libico occorre fare un’ importante precisazione e cioè che dalla Libia non partono cittadini libici bensì i cittadini dell’Africa subsahariana. Cosa sta accadendo da quelle parti?

Perché si parte maggiormente dalla Libia. Fino allo scorso mese di dicembre la convinzione generale era che, anche per il nuovo anno, l'Italia sul fronte migratorio dovesse guardarsi dalla rotta tunisina. Il quadro adesso risulta completamente ribaltato. Il perché lo ha spiegato su IlGiornale.it il professor Vittorio Emanuele Parsi, docente dell'università Cattolica: “In Libia – ha dichiarato – gli sbarchi si azzerano se ci sono due condizioni: se c'è un totale controllo del territorio da parte delle milizie oppure, al contrario, se c'è totale anarchia”. Nel primo caso è l'attività dei miliziani ad impedire ai barconi di prendere il largo, nel secondo invece è l'insicurezza a scoraggiare i migranti a dirigersi verso i porti di partenza. Attualmente in Libia non c'è né l'una e né l'altra situazione: “Adesso a Tripoli si è insediato un nuovo governo – ha aggiunto Parsi – e questo di per sé è un bene. Ma le nuove autorità non sono ancora in grado di controllare il territorio. Da qui l'impennata di partenze verso l'Italia”. Una situazione che si potrebbe protrarre ancora a lungo, specialmente durante i mesi estivi: “Draghi nella sua recente visita – ha dichiarato ancora Parsi – ha rimarcato l'importanza della cooperazione con la Libia. Quello che ora Roma deve fare è cambiare realmente atteggiamento, guardare a una politica comune con l'Ue e non guardarsi indietro rimpiangendo Gheddafi”. Serve, in poche parole, far funzionare la rinnovata intesa con Tripoli per scongiurare nuove impennate di sbarchi.

Le conseguenze della pandemia. L'aumento di migranti lungo la rotta centrale del Mediterraneo è stata dovuta anche a una serie di congiunture: “Ad est – è la considerazione del docente – Vi è una situazione di forte tensione politica tra Grecia e Turchia e questo ha favorito l'afflusso di navi militari nell'area. Ad ovest, Spagna e Marocco continuano con una loro tradizionale politica di controllo”. I flussi migratori hanno quindi trovato naturale sfogo nel tratto di mare antistante l'Italia. E non c'è soltanto la Libia a preoccupare: “Noi guardiamo sempre con interesse alle rotte che partono dalla Tunisia – ha dichiarato una fonte della Procura di Agrigento su IlGiornale.it – buona parte degli sbarchi autonomi provengono da lì”. Un concetto ribadito anche dallo stesso professor Parsi: “La Tunisia è ancora il punto debole del Mediterraneo”. Il perché è presto detto: il Paese è quello che più sta risentendo della crisi innescata dalla pandemia. Con il turismo crollato e un'economia ancora più in affanno, lo spauracchio di un massiccio arrivo di migranti dalle coste tunisine non è affatto remoto. Secondo Vittorio Emanuele Parsi, così come da lui stesso descritto nel libro “Vulnerabili”, gli effetti del Covid sull'immigrazione sono destinati a rimanere visibili per lungo tempo: “Sono aumentate le diseguaglianze – ha ribadito – la pressione di migliaia di persone dall'altra parte del Mediterraneo nei prossimi anni sarà ancora più accentuata”.

Sofia Dinolfo. Sono nata il 30 marzo del 1982 ad Agrigento e sin da piccola ho chiesto ai miei genitori un microfono per avvicinarmi a chi mi stesse vicino e domandare qualsiasi cosa mi passasse per la mente. Guardavo i telegiornali e poi imitavo i giornalisti raccontando a modo mio quello che avevo appena ascoltato. Quella passione non mi ha mai abbandonato pur intraprendendo, una volta cresciuta, gli studi di Giurisprudenza. Appena laureata, non ho pensato di fare l’avvocato ma di andare avanti con il settore del giornalismo che nel frattempo non avevo mai accantonato coltivandolo come hobby. Ed ecco che poi sono arrivate le prime esperienze lavorative effettive: dalla conduzione di una trasmissione di calcio in una tv locale (dal 2006 al 2009), all’approccio con la cronaca tramite il quotidiano cartaceo La Sicilia (dal 2010 al 2012). Poi quella che, a livello personale, ha rappresentato una vera e propria palestra nella mia crescita lavorativa: il giornalismo televisivo. Dal 2011 al 2016, sempre ad Agrigento, mi sono occupata della stesura di servizi televisivi, della conduzione del telegiornale, della realizzazione e conduzione di programmi spaziando fra tutti i colori della cronaca, ma anche nel settore della medicina. Negli anni successivi ho intrapreso l’esperienza giornalistica in radio confrontandomi con una nuova metodologia di approccio al pubblico che mi ha spinto ad amare ancor di più questo lavoro. Scrivo per il Giornale.it assumendo con impegno ed orgoglio il dovere di raccontare ai lettori i fatti di cronaca di principale interesse.

Mauro Indelicato. Sono nato nel 1989 ad Agrigento, città in cui dirigo il locale quotidiano InfoAgrigento.it. Nel marzo 2017 conseguo la laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali presso l’Università degli Studi di Palermo, città dove sviluppo la mia curiosità per il Mediterraneo, per i suoi popoli e per le sue culture che da secoli arricchiscono una delle aree più suggestive del pianeta. Inizio la mia attività giornalistica nel marzo del 2009 con alcune testate locali, dal gennaio 2013 sono iscritto presso l’Ordine dei Giornalisti di Sicilia nell’albo.

Chi comanda sul mare. Lorenzo Vita su Inside Over il 25 gennaio 2021. Dimenticare cosa si è e quali sono le potenzialità che possono esse sprigionate è un errore che porta molto spesso alla rovina. L’errore, prettamente piscologico, diventa strategico quando a farlo è uno Stato: perché è anche grazie a questo errore che i suoi rivale si avvantaggiano conducendolo lentamente in una posizione di secondo piano. In questi ultimi anni l’Italia ha perso sicuramente tante delle sue vocazioni. Per motivi internazionali contingenti, scarsa abilità di alcuni interpreti delle politiche del Paese ma soprattutto per una forte miopia interna, l’Italia non sa più esattamente cosa è, perdendo di vista quello che è il teatro dove deve focalizzare il suo impegno: il Mediterraneo. Specchio d’acqua confusionario, combattivo, i incontro e di scontro, corridoio di grandi linee di comunicazione e palcoscenico della nuova corsa al dominio regionale e globale, oggi il Mediterraneo rischia di avere nell’Italia un grande assente. Una colpa ancora più grande se si pensa che nella cessione del (fu) Mare Nostrum si nasconde l’anticamera della completa perdita di opportunità in quello che è ormai definito il “Blue century”, il “secolo blu”. È il mare la vera autostrada dei traffici commerciali e della grandi rotte del gas e dei dati internet: è quindi il mare il vero terreno di scontro tra potenze e su cui si basa il nuovo assetto del potere. E il Mediterraneo, che ha perso il valore economico ma non il valore strategico, è oggi il mare più conteso del mondo, perché luogo in cui si affacciano potenze medie, Stati che vogliono assumere sempre più influenza nell’area e dove le superpotenze hanno deciso di darsi battaglia per evitare che l’avversario prenda il sopravvento. I dati sono estremamente chiari. A ottobre, Repubblica segnalava che per il Settimo Rapporto Annuale “Italian Maritime Economy” di Srm, centro collegato a Gruppo Intesa San Paolo il 27% delle navi container mondiali passano per il Mediterraneo. Più di un terzo dell’interscambio commerciale italiano avviene attraverso le rotte marine e i porti muovono merci per un valore di centinaia di miliardi di euro. Anche nel momento più buio della pandemia, quindi con un mercato che si è paralizzato, il settore navale è riuscito a evitare il tracollo. L’Italia è ancora un Paese leader in Europa sia per quanto riguarda la cantieristica sia per ciò che concerne la flotta da pesca. E nonostante la sfida dei porti del Northern Range sia estremamente ardua per le capacità infrastrutturali e logistiche dei Paesi del Nord Europa rispetto a quelle italiane, il Paese riesce in ogni caso a vantare un’eccellente capacità di attrazione e a movimentare più di 450 milioni di tonnellate di merci ogni anno. In questo regno delle grandi opportunità e del caos, l’Italia arriva con molte incertezze. La vocazione marittima del Paese è quasi taciuta da grande parte dei decisori politici, nonostante la posizione geografica e le evidenze dei dati dimostrino che invece servirebbe una forte propulsione verso il mare. Eppure sembra sempre più difficile che gli esecutivi pongano seriamente sul tavolo delle decisioni quello di investire sul mare, un “luogo” che è fonte di ricchezza ma in cui l’Italia sembra più avere voglia di disperdere energie.

Incanalarle non è comunque semplice. L’Italia, da quando ha chiuso il ministero della Marina mercantile, ha perso quel patrimonio di competenze centralizzate in un singolo referente per il governo. Dal 1993 quel potere e quell’insieme di “know-how” si è poi trasfuso in una serie di altri ministeri facendo però venire meno la logica di avere un centro specifico per quello che è a tutti gli effetti un settore unico, che può tutt’al più essere monitorato da diverse entità statali e autorità. Non va dimenticato, come sottolineato da Alessandro Marino su Limes, che in quegli stessi anni, mentre l’Italia aboliva il ministero, la Francia istituiva il Secrétariat général de la mer (Sg Mer) che coordinasse le varie decisioni dell’amministrazione francese concernenti il mare. In Italia ci sono state diverse iniziative in tal senso, ma l’idea di una sorta di Segretariato generale come quello francese non è mai stata presa in considerazione. Ed è un problema che non va sottovalutato dal momento che le competenze per una strategia marittima con un unico centro decisionale e di coordinamento sono particolarmente importanti in ottica europea, non solo a livello commerciale, ma anche infrastrutturale, di sfruttamento delle risorse e infine militare. Qualcuno ha parlato più volte della possibilità dell’istituzione di un ministero del Mare, sul modello appunto della Francia, che proprio dal 2020 ne ha uno apposito. Anche in questo, l’idea che uno dei nostri maggiori partner e rivali nel Mediterraneo abbia una direzione unica che si occupi del mare (nel loro caso Mediterraneo e Atlantico) è un elemento che può far comprendere chi parla di una necessaria razionalizzazione del potere, delle competenze e della burocrazia. Come ricordato anche da Giancarlo Poddighe del Centro Studi di Geopolitica e Strategia Marittima (CeSMar) “il tema era stato comunque trattato negli Stati generali dell’economia, quando con forza era stata richiesta la creazione di un’Agenzia del mare, qualcosa di diverso e di più di quello che si ventila da anni come modello, una sorta ‘Enac del mare'”. Per ora però tutto tace. L’Italia sembra proiettarsi a nord, verso il centro dell’Europa, con la speranza che sia a Bruxelles (o Berlino o forse Parigi) la vera salvezza dopo il quasi fallimento del sistema-Paese. E guarda a sud con preoccupazione, in quella faglia del caos dove Turchia, Russia, Algeria, Egitto, Paesi arabi e superpotenze si sfidano per la supremazia dell’altra costa del Mediterraneo, quella nordafricana. Nel mezzo un mare che andrebbe controllato e guidato. Ma nessuno ha il coraggio (o la volontà) di volerlo davvero fare.

·        L’Esercito d’Invasione.

Dall’antichità a oggi: i mercenari onnipresenti nella storia. Mauro Indelicato su Inside Over il 3 dicembre 2021. Ci sono delicati e importanti dossier militari in cui di recente ad emergere maggiormente è stata la figura del mercenario. Dalla Libia alla Siria, passando per l’Iraq all’inizio del nuovo secolo, l’uso di soldati non direttamente dipendenti da un esercito regolare è diventata una prassi. Questo per ragioni sia politiche che militari. Se un Paese non vuole essere coinvolto in modo diretto in un conflitto, preferisce affidarsi a compagnie, agenzie private o a gruppi addestrati in altri contesti. Inoltre la perdita di un soldato regolare crea molti più grattacapi politici rispetto a quella di un mercenario o di un contractors. Infine, occorre considerare il modo di fare la guerra, oggi profondamente cambiato. Si parla infatti sempre più spesso di conflitti per procura, portati avanti da terzi, e non di scontri diretti tra due eserciti.

Che cos’è un mercenario

Cosa si intende per mercenario? Nell’immaginario collettivo spesso viene additato come un soldato che non combatte per il proprio Stato, ma viene al contrario ingaggiato da società private o da altri Stati per essere spedito al fronte. Nel diritto internazionale sono due i documenti che richiamano alla definizione di mercenario. Il primo riguarda la Convenzione di Ginevra e, in particolare, i protocolli addizionali alla Convenzione stessa redatti nel 1977. L’articolo 47 traccia una descrizione del mercenario, la quale corrisponde a sei criteri ben precisi: combattente espressamente reclutato nel Paese o all’estero per combattere in un conflitto armato; prende parte diretta alle ostilità; ottiene un vantaggio materiale in termini di remunerazione; non è cittadino di una dei Paesi impegnati in guerra; non è membro delle forze armate partecipanti al conflitto; non è stato inviato da uno Stato diverso da una parte in conflitto. Questa descrizione è inserita al punto 2 dell’articolo 47 dei protocolli addizionali. Il punto 1 fissa invece un principio importante: il mercenario “non ha diritto di essere un combattente o prigioniero di guerra”.

Nel 1989 è stata adottata una specifica convenzione da parte delle Nazioni Unite “contro il reclutamento, l’utilizzazione, il finanziamento e l’istruzione di mercenari”. Approvata dall’assemblea Onu ed entrata in vigore il 20 ottobre 2001 con la risoluzione 44/34, la convenzione chiarisce ulteriormente il significato di mercenario all’articolo 1. La definizione contiene tutti i requisiti di cui si parla nell’articolo 47 dei protocolli addizionali alla Convenzione di Ginevra del 1977, ma aggiunge ulteriori due punti: è mercenario chiunque agisca “per rovesciare un governo o comunque minare l’ordine costituzionale di uno Stato, o pregiudicare l’integrità territoriale di uno Stato”; è inoltre “motivato a farne parte essenzialmente dal desiderio di guadagno significativo privato ed è spinto dalla promessa o il pagamento di un indennizzo materiale”.

L’adozione di quest’ultimo documento ha reso palese la condanna al ricorso ai mercenari, visti quindi come elemento destabilizzante all’interno di un conflitto tra le parti. Una connotazione negativa che tuttavia, agli albori del XXI secolo, non ha impedito la diffusione di società private di combattenti e del loro utilizzo in scenari di guerra delicati.

I mercenari in epoca moderna

La concezione attuale del mercenario non è stata la stessa nel corso delle varie epoche. In tutti i conflitti della storia non sono mancati apporti di militari non direttamente legati alle parti in conflitto. Uno degli esempi più noti arriva dall’antico Egitto, dove le cronache parlano dell’uso di combattenti prelevati dalla Sardegna da parte del faraone Ramesse II. Dai greci ai romani, passando anche per i cartaginesi, nelle varie guerre tutte le principali civiltà del Mediterraneo si sono serviti di soldati pagati per essere dalla propria parte. Discorso analogo può essere svolto per il Medioevo. I condottieri italiani o i Lanzichenecchi sono alcuni dei gruppi di mercenari più noti in questa epoca. La concezione odierna di mercenario, con le sue connotazioni negative, si è però sviluppata solo di recente. E, in particolare, con lo sviluppo del concetto di Stato nazione. L’uso della forza infatti ha incominciato a essere affidato unicamente alle autorità statali, dotate di eserciti costituiti da propri cittadini. Una svolta importante si è avuta nel 1733 con l’introduzione, da parte del Re di Prussia Federico Guglielmo I, della leva. Ogni cittadino è chiamato alla difesa dello Stato e l’esercito è strumento di difesa della nazione. Il ricorso a truppe pagate per combattere, oltre a essere sempre più sporadico, è visto come elemento negativo.

Jakob Vogel, autore del libro “Nazione in Armi”, parla di esercito celebrato quale “momento centrale del culto nazionale” sia in Germania che in Francia già a metà del XIX secolo. Chiaro quindi come in un contesto del genere, il mestiere di mercenario assume una connotazione anti nazionale e altamente dispregiativa. Ma il ricorso a gruppi di combattenti pagati non è mai cessato.

Le società private di fine ‘900

Il secolo scorso è ricordato soprattutto per le guerre che ha visto coinvolti gli eserciti nazionali. I due conflitti mondiali ne sono una testimonianza. Ma anche le guerre civili e le tante dispute regionali risolte con la forza hanno avuto come protagonisti soprattutto gli eserciti regolari. Molti gruppi estranei ai soldati regolari erano mossi non tanto dalla prospettiva del guadagno economico, quanto dalle lotte ideologiche da portare avanti. Forse anche per questo in ambito internazionale si è fatto cenno per la prima volta al concetto di mercenario soltanto con i protocolli aggiuntivi della Convenzione di Ginevra del 1977. Se dodici anni dopo l’Onu si è dovuto dotare di un documento contro l’uso dei mercenari, vuol dire allora che il fenomeno era più ampio del previsto.

In tal senso il secondo dopoguerra è stato caratterizzato soprattutto dalla nascita di società private, vere e proprie imprese che forniscono servizi militari stabiliti per contratto. Uno degli esempi più clamorosi riguarda la guerra civile in Sierra Leone. Qui il governo, impossibilitato con i propri soldati a fronteggiare i gruppi ribelli in fase di avanzata, nel marzo del 1995 ha stipulato un contratto con la Executive Outcomes, società di contractors sudafricana direttamente intervenuta nel conflitto. Il fondatore della compagnia, Eeben Barlow, in un’intervista riportata dal giornalista Ken Silvestrin in “Private Warrios“, ha spiegato i motivi del sempre più frequente ricorso alle società private: “La fine della guerra fredda aveva prodotto un gran vuoto ed io ho identificato un mercato di nicchia”. In Africa sempre più governi, ma anche aziende con interessi su territori in guerra, dopo la caduta del muro di Berlino hanno iniziato a chiudere contratti con compagnie private di militari. Un fenomeno però non circoscritto al continente africano. Dal 1994 in poi gli Stati Uniti, secondo PeaceReporter, hanno stipulato contratti con società militari private dal valore di cento miliardi di Dollari all’anno. Un giro di affari importante, in grado di garantire al singolo combattente impiegato quasi mille Dollari al giorno.

I mercenari nelle guerre del XXI secolo

E sono proprio legati agli Stati Uniti i primi casi noti di impiego di contractors nel nuovo secolo. Su tutti spicca il caso della guerra in Iraq del 2003. Società private hanno dato manforte agli eserciti di Usa e Gran Bretagna già nelle settimane di offensiva contro Saddam Hussein. Il fenomeno però è aumentato successivamente. In Iraq hanno messo piede decine di società con lo scopo di garantire la sicurezza di strutture strategiche o di fare da guardia del corpo a importanti personaggi politici e militari. Ma è stato certificato l’impiego anche in battaglia, soprattutto durante la fase più calda e cruenta dell’insurrezione irachena anti americana. L’avvento dell’Isis nella regione ha fatto incrementare la presenza di contractors. Si stima che dal 2015 al 2016, anni in cui lo Stato Islamico ha raggiunto la sua massima espansione tra Siria e Iraq, i soldati di società private impiegati sono passati da 250 a 2.028 unità. Di queste il 70% era statunitense, il 10% irachena e la restante parte di Paesi terzi.

Nel XXI secolo la pratica di rivolgersi a istituti privati è sempre più in aumento. Il mercato dei contractors è in espansione e il suo valore potrebbe ammontare fino a 400 miliardi di Dollari all’anno. Oltre all’esempio iracheno, oggi è possibile vedere la presenza dei mercenari su tutti i più delicati fronti di guerra. Come ad esempio nel Donbass oppure in Libia. Qui ad agire ci sono anche soldati russi della società Wagner, fondata da Evgenij Prigozin. Quest’ultimo è soprannominato “il cuoco di Putin” ed è quindi politicamente molto vicino al capo del Cremlino. Ma non è un suo diretto dipendente. Lì dove opera la Wagner, è possibile la presenza di interessi militari e politici russi non però direttamente sostenuti dal governo russo. In Libia i contractors della Wagner appoggiano il generale Khalifa Haftar, uomo forte della Cirenaica. Sempre nel Paese nordafricano, ma in Tripolitania, operano invece i mercenari inviati dalla Turchia. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di gruppi islamisti addestrati nella provincia siriana di Idlib contro l’esercito di Damasco e inviati a sostegno del governo di Tripoli.

Nei mesi scorsi ancora la Wagner ha sottoscritto un accordo con il governo del Mali per sostegno e addestramento militare. Cambiano le guerre e cambiano quindi le modalità di scontro. L’impressione è che il ricorso ai nuovi mercenari in futuro sarà sempre più marcato. Soprattutto in quelle guerre per procura che costituiscono oramai la maggior parte dei conflitti attuali. Dove a scontrarsi sono più gli interessi contrapposti che i soldati di due diversi eserciti. 

Guerre di contractors: le differenze fra Russia ed Occidente. Jean Marie Reure, Paolo Mauri su Inside Over il 3 dicembre 2021. Pmc è l’acronimo anglosassone di Private Military Company. Si tratta di società private che forniscono servizi di combattimento o di sicurezza armati a scopo di lucro. Le Pmc si riferiscono al loro personale operativo come “security contractors” (appaltatori della sicurezza) o private military contractors (appaltatori militari privati). I servizi e le competenze che vengono offerti dalle Pmc sono in genere simili a quelli delle forze di sicurezza governative, militari o di polizia, il più delle volte su scala ridotta.

Quando si parla di “contractors”, in riferimento alla Russia, si pensa immediatamente agli operatori del Gruppo Wagner, assurti agli onori delle cronache per il loro intervento in Crimea, in Siria e in Libia, ma il Gruppo, troppo sbrigativamente liquidato come “mercenario” da parte della stampa non specializzata, non è l’unico di cui può disporre Mosca. Esistono altre compagnie private, meno note e meno articolate, che però sono attive all’estero al pari del Gruppo Wagner.

Pmsc russe e occidentali a confronto

Quello delle Pmsc, ossia dei Private Military and Security Contractors, è un mercato in forte crescita su scala globale. La crescita delle compagnie di sicurezza privata coincide infatti con una tendenza generale di progressiva riduzione dei budget allocati alla pubblica sicurezza e alla difesa nazionale. Basti pensare che secondo alcune stime almeno metà della popolazione mondiale vive in paesi dove il numero di agenti di sicurezza privata supera quello delle forze di pubblica sicurezza.

Il mercato russo delle Pmsc non fa eccezione: sebbene sia ancora relativamente ridotto rispetto a quello occidentale è anch’esso in forte espansione. Tuttavia, per comprenderne le peculiarità e la rilevanza strategica, occorre innanzitutto definire cosa si intende per Pmsc. Questo acronimo racchiude infatti svariate imprese che offrono servizi piuttosto eterogenei: dai più comuni servizi di protezione personale, di guardia armata (o disarmata) di luoghi privati e pubblici o di sorveglianza all’addestramento di personale militare, alle attività di Ddr (Disarmament, demobilization and reintegration) e di sminamento passando per attività di supporto logistico, manutenzione e addestramento all’utilizzo di sistemi d’arma complessi.

Ad oggi, per esempio, i contractors hanno un ruolo di primo piano negli Usa. Oltre a colmare le lacune nell’organizzazione militare e condurre operazione di routine di logistica e supporto, conducono anche operazioni di supporto alla forza con i partner internazionali di Washington e ne addestrano le forze armate.

Distinguere le Pmsc sulla base dei servizi che offrono risulta quindi complicato vista anche la notevole capacità di adattamento alla domanda di queste aziende che possono sia specializzarsi in un preciso servizio sia, per converso, offrire un’ampia gamma di servizi, anche molto diversi fra loro. Sebbene le Pmsc occidentali lavorino sovente in stretta cooperazione con le forze armate, generalmente evitano ogni riferimento al termine militare nel loro nome, di modo da non essere associate a forze mercenarie.

A partire da metà degli anni 2000 le Pmsc occidentali si sono di fatto cimentate in un’opera di rebranding, distanziandosi da quelle aziende come Executive Outcomes o Sandline International, salite alla ribalta della cronaca negli anni ’90 per il loro operato in alcuni paesi africani (Uganda, Sierra Leone etc). Buona parte degli utili delle Pmsc odierne deriva infatti da lucrativi contratti con i governi occidentali, rendendole dunque più sensibili al rischio di immagine associato alla loro partecipazioni ad azioni strettamente militari.

E’ invece più agevole distinguere in tre macrocategorie i servizi che le Pmsc offrono. I servizi di protezione sono generalmente rivolti a compagnie commerciali, privati, Ong. Si tratta di servizi più “tradizionali”, il cui scopo è la protezione degli interessi del cliente. Ci sono poi le attività di supporto militare rivolte essenzialmente a eserciti nazionali, eserciti di paesi alleati ed in alcuni casi a milizie alleate. Questa tipologia di servizi include non solo il supporto logistico o il trasporto di mezzi pesanti e armamento ma anche attività di vera e propria intelligence. Il fine di questi servizi è quello di aumentare le capacità militari di una forza armata. Ci sono poi le attività legate al cosiddetto state building, rivolte essenzialmente ad agenzie statali (dei donors e dei recipienti), Ong e agenzie per lo sviluppo. Anche in questo caso la gamma di servizi è ampia e va dall’assistenza nella riforma del settore di sicurezza (attività di Ssr), all’addestramento delle truppe passando per la consegna di aiuti umanitari.

Rispetto alle controparti occidentali, le Pmsc russe presentano due significative differenze. In primo luogo, offrono servizi di combattimento attivo e non esitano a menzionarlo apertamente, definendosi come Pmc (Private Military Contractors) o aziende di consulenza militare (come nel casso l’Rsb group). In secondo luogo, non offrono quei servizi legati al cosiddetto supporto militare, o quantomeno lo fanno in misura largamente inferiore rispetto ai gruppi occidentali.

Un’ulteriore differenza emerge nel rapporto fra le Pmsc e il loro paese d’appartenenza. Se la maggior parte degli stati occidentali ha sottoscritto il documento di Montreux del 2008 che regola le operazioni delle Pmsc, i contractors russi operano in un vuoto giuridico. Nonostante numerosi progetti di legge siano stati discussi dalla Duma (nel 2009, 2012, 2016 e da ultimo nel 2018) nessuno di questi è mai stato approvato.

Secondo alcuni osservatori il fatto che non esista un quadro legislativo chiaro sulle Pmc russe è legato al disaccordo e alla competizione tra le agenzie di sicurezza russe, in particolare il Gru e l’Fsb, e il ministero della Difesa nonostante il Cremlino si sia espresso positivamente circa l’impiego di contractors. E’ però più probabile che l’assenza di un quadro giuridico sia voluta, poiché l’illegalità formale delle PMC in Russia permette di mantenere una “plausible deniability” circa l’operato delle Pmc russe al di fuori dei confini nazionali. Inoltre, l’assenza di un quadro giuridico di fatto aumenta il controllo che il Cremlino può esercitare su questi gruppi. Se il mercato nel quale operano le PMSC occidentali è marcatamente neoliberale, quello russo si può definire ibrido. Mosca controlla infatti il mercato della sicurezza privata e i fornitori di tali servizi, i quali non possono operare senza previa autorizzazione.

La storia delle Pmc Russe

Per comprendere appieno le differenze fra le Pmsc occidentali e quelle russe è bene inquadrare dal punto di vista storico/culturale quella che è la postura di Mosca verso le forze militari private.

L’uso di questo tipo di formazioni da parte della Russia per il raggiungimento di obiettivi geopolitici faceva già parte della strategia dell’Impero Russo pre-1917. Si ricorda, ad esempio, l’impiego di Carsten Rohde da parte di Ivan il Terribile durante la guerra di Livonia (1558-1583) per condurre operazioni militari e stabilire contatti economici nella regione del Mar Baltico. La stessa estensione a oriente, verso la Siberia, la si deve in parte all’iniziativa privata della famiglia Stroganov, che organizzò la spedizione Yermak Timofeyevich (1582–1584). L’impiego di forze mercenarie includeva anche un ampio ricorso a non russi, per esempio i Nogais di etnia turcomanna presenti nel Caucaso Settentrionale, che venivano impiegati come “eserciti privati”. Inoltre venivano utilizzati per “azioni asimmetriche” ante litteram per colpire efficacemente le linee di comunicazione di un avversario invasore, alla stregua delle formazioni partigiane della Seconda Guerra Mondiale.

In effetti, l’estensione continentale della Russia, le dure condizioni climatiche e la mancanza di infrastrutture adeguate hanno storicamente avuto un profondo impatto sugli strateghi militari di Mosca. Questi fattori materiali hanno quindi generato una dottrina militare che comprende il principio moderno di “conflitto asimmetrico”, prevedendo l’impiego di formazioni militari irregolari.

Nel periodo sovietico, l’ideologia comunista inaugurò un nuovo modello di uso da parte dello Stato di formazioni irregolari per scenari asimmetrici. In particolare, la Guerra Fredda fu segnata da numerosi conflitti regionali nel cosiddetto “Terzo Mondo” in cui furono coinvolte le due superpotenze sia apertamente che di nascosto in cui questo nuovo modello ha potuto espletarsi. Oltre a offrire supporto economico, i sovietici inviavano regolarmente anche “consiglieri militari”, che spesso e volentieri si sono trovati in prima linea in modo non ufficiale, esattamente come avveniva anche per gli Stati Uniti. Il Medio Oriente insieme all’Africa, in particolare, presentano i migliori esempi di come i consiglieri militari sovietici fossero un importante strumento della politica estera di Mosca. Solo in Egitto, tra il 1967 e il 1973, il personale militare sovietico che si è alternato nel Paese raggiungeva una cifra compresa tra le 30mila e le 50mila unità.

Il colpo di stato militare in Siria guidato da Hafez al-Assad ha spostato l’attenzione sovietica su Damasco, che ha ricevuto un’importante assistenza economica e militare da Mosca, entrando de facto nella sua sfera di influenza e permettendole di avere il tanto agognato sbocco in un “mare caldo”. Anche in questo caso, soldati e militari sovietici, raggiungevano il Paese come “turisti” in modo che il loro impiego nei conflitti arabo-israeliani potesse essere negabile plausibilmente.

Inoltre, l’Unione Sovietica ha approvato l’utilizzo di “consiglieri militari” cubani in tutta l’Africa nei suoi sforzi di diffusione della dottrina socialista e contrasto all’Occidente, come avvenuto, ad esempio, in Angola a partire dal 1975.

Con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, e l’insorgere di conflitti regionali in quello che era il suo spazio, le formazioni paramilitari sono state usate da Mosca come strumento per continuare ad avere una certa forma di controllo nel suo estero vicino senza dover intervenire direttamente con le proprie forze armate.

Questa esperienza, tuttavia, è stata caratterizzata da diversi fallimenti importanti, anche all’interno dei confini della Russia: ad esempio in Cecenia durante la prima battaglia di Grozny (1994-1995). La Russia ha utilizzato forze irregolari anche in altri teatri strategicamente di valore come in Jugoslavia durante il conflitto etnico dei primi anni ’90 dove si era registrata la presenza di “volontari” russi. In particolare, nella città di Visegrad, nel 1993, venne dispiegata un’unità cosacca formata da 70 elementi.

Col tempo, si è cercato di creare una struttura più istituzionalizzata prestando maggiore attenzione alla formazione e all’organizzazione: un primo esempio è dato dalla Rubikon, con sede a San Pietroburgo che si dice aver giovato del coordinamento del servizio di sicurezza federale (Fsb). La Rubikon rappresenta il primo tentativo di creare una Pmc russa per obiettivi geopolitici specifici.

Tra il 1997 e il 2013, le società militari private di Mosca hanno subito un’interessante trasformazione qualitativa e quantitativa: il loro numero complessivo è aumentato notevolmente e allo stesso tempo ci sono stati alcuni importanti cambiamenti strutturali per i quali le Pmc russe hanno iniziato a perseguire obiettivi economici di più ampia portata oltre che obiettivi geopolitici ristretti.

È questo il periodo prodromico all’avvento della “dottrina Gerasimov” per l’hybrid warfare. Il generale Valery Gerasimov, allora capo di Stato maggiore delle forze armate, nel 2013 elaborò, sulla base delle esperienze maturate dalla Russia nella guerra asimmetrica e grazie a testi precedenti, tra i quali anche “Guerra senza limiti” dei generali cinesi Qiao Linag e Qang Xiangsui (1999), il concetto russo di guerra ibrida in cui le Pmc vengono utilizzate come uno dei tanti strumenti che ha lo Stato per contrastare l’attività dell’avversario e per colpirlo anche in modo “non convenzionale”, intendendo con questo termine il non fare ricorso alle forze armate regolari.

Per il generale il coordinamento tra le unità paramilitari, le forze speciali e l’infiltrazione dello spazio informativo è fondamentale per l’applicazione della strategia “non lineare” russa che vuole la mobilitazione delle forze convenzionali solo come ultima risorsa e grazie, possibilmente, a una richiesta ufficiale da parte della autorità internazionali (Onu), ad esempio con operazioni di peace keeping o peace enforcing.

Le Pmc in questo scenario giocano un ruolo importante: essendo formalmente entità private, sebbene finanziate e sottoposte a una qualche forme di controllo statale, permettono alla Russia la “negazione plausibile” di ogni suo possibile coinvolgimento in conflitti a bassa intensità. Questa possibilità di “negazione” lascia, dall’altro lato, molta libertà di azione alle Pmc che sono libere da qualsiasi tipo di regole di ingaggio.

L’esercito fantasma di Mosca alla conquista dell’Africa. Jean Marie Reure su Inside Over il 28 settembre 2021. Secondo una notizia fatta trapelare dall’agenzia Reuters la settimana scorsa, confermata da ben sette fonti diplomatiche, il governo di transizione maliano starebbe per siglare un accordo con l’agenzia di sicurezza privata russa Wagner per un valore complessivo di circa 10 milioni di dollari al mese. Se i dettagli del contratto rimangono segreti, la Pmc (Private Military Contractor) russa provvederebbe all’addestramento delle truppe maliane e fornirebbe i suoi servizi di scorta ai vertici di Bamako in cambio, oltre ad un lauto pagamento mensile, dello sfruttamento di tre giacimenti minerari, due di oro e uno di magnesio.

La reazione di Parigi non si è fatta attendere: il ministro degli Affari Esteri Jean Yves Le Drian, ha infatti prontamente affermato che “la presenza di contractors russi in Mali è assolutamente inconciliabile con quella francese”. Anche Berlino, per bocca del suo ministro della Difesa, ha ribadito che la presenza di contractors russi metterebbe a repentaglio l’operato delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea in Mali e nel Sahel.  Il governo maliano ha invece smentito, definendo la notizia una diceria e dichiarando che il governo del Mali dialoga con tutte le parti.

Il colpo di stato e il flop di Parigi

Questa notizia si inserisce in un contesto di crescenti tensioni fra Bamako e Parigi: l’impegno ormai quasi decennale della Francia in Mali sembra infatti aver sortito relativamente pochi risultati se non sul piano strettamente militare. Il nesso fra sicurezza e sviluppo in cui confidava la Francia per stabilizzare uno dei paesi più estesi dell’Africa subsahariana ha infatti rivelato tutte le sue debolezze. I progetti di sviluppo tardano a partire e sovente non riescono a raggiungere le zone più remote del paese. La costante instabilità politica unita ad una gestione del potere personalistica e corrotta ha creato una sfiducia diffusa nei confronti del governo centrale che non ha saputo ridurre l’alto tasso di disoccupazione giovanile né porre fine alla crisi alimentare che mette a rischio la vita di più di 7 milioni di persone.

Le carenze nella gestione della pandemia di Covid-19 hanno poi agito da moltiplicatore, accrescendo ulteriormente le tensioni sociali e le disparità tra centro e periferia. Proprio queste carenze nella governance del paese avevano portato ad un colpo di stato militare, la notte del 19 agosto 2020, che aveva rimosso il presidente democraticamente eletto Ibrahim Boubacar Keita (IBK) dando vita al Comitato Nazionale per la Salute del Popolo (Cnsp). Accolto con favore dalla popolazione, il comitato presieduto dai vertici dell’esercito maliano si era impegnato ad organizzare una transizione politica e ad indire nel più breve termine nuove elezioni. La Francia, l’Unione europea e l’Ecowas avevano accolto la notizia del colpo di stato con preoccupazione ma le rassicurazioni dei militari circa il mantenimento degli accordi presi dal precedente governo non avevano di fatto intaccato la natura del loro impegno in Mali, visto anche il supporto popolare di cui godeva il nuovo governo. 

Il 24 Maggio 2021, a soli 8 mesi dal primo colpo di stato, i militari maliani arrestano il presidente ad interim Bah N’Daw e il suo primo ministro Moctar Ouane, poco dopo la nomina di un nuovo governo che li vedeva esclusi da alcune posizioni apicali, come quelle del ministero della Difesa e della Sicurezza. Non solo questo secondo golpe non gode del favore popolare, ma porta anche la Francia e i partner internazionali a sospendere le operazioni congiunte con le forze armate maliane. Il 10 giugno 2021 Macron annuncia la fine dell’operazione Barkhane, escludendo un ritiro completo delle truppe francesi ma annunciando una sostanziale trasformazione dell’impegno francese.

In realtà agli osservatori non era sfuggito come già durante il golpe di agosto del 2020 alcuni manifestanti sventolassero bandiere russe e cartelli inneggianti all’amicizia fra Russia e Mali, elemento piuttosto peculiare dal momento in cui i due paesi non intrattengono relazioni bilaterali significative. Già nel 2019 però, a margine del primo summit russo-africano, i due paesi avevano stretto un accordo di cooperazione in ambito di sicurezza che aveva comportato l’arrivo di alcuni elicotteri d’attacco MI-35M consegnati da Mosca a Bamako. Contestualmente i militari francesi avevano dovuto affrontare una campagna di disinformazione in chiave anti-francese sui social media. La notizia di un possibile contratto stipulato dal governo del Mali con la PMC Wagner si inserisce quindi in un contesto complesso, che porta ad interrogarsi sulle mire della Russia in Africa sub-sahariana.

Wagner, la punta della lancia della penetrazione russa in Africa

Secondo un rapporto del Centro di Studi Strategici ed Internazionali (Csis) di luglio del 2021, le Pmc rivestono un ruolo fondamentale nella strategia di espansione dell’influenza russa. Occorre innanzitutto sottolineare che in questo caso il termine Pmc è improprio poiché sebbene si tratti di aziende nominalmente private i vari contractors russi (fra cui figurano l’Anti-terror Group, Center R, Moran Security Group, RSB Group, E.N.O.T., Shchit, Patriot e l’ormai famoso Wagner Group) sono tutti legati ad agenzie di sicurezza russe come l’Fsb, il Gru o direttamente il ministero della Difesa. Inoltre, la nomea di alcuni di questi gruppi potrebbe far pensare a piccole unità di operatori altamente specializzati assimilabili alle forze speciali ma non è così.

Le Pmc russe hanno diverse componenti al loro interno che vanno da interi reparti di fanteria a unità specializzate passando per istruttori e personale tecnico e di supporto. Altresì eterogeneo è il loro impiego: oltre a condurre operazioni di combattimento i contractor russi sono anche in grado di fornire servizi di intelligence e analisi (humint, sigint, osint), di protezione di personale Vip, di sicurezza per siti strategici ed operazioni di informazione e propaganda. La versatilità delle Pmc russe, la loro relativa convenienza economica e la cosiddetta plausible deniability, cioè l’impossibilità di ricondurre ufficialmente il loro operato alla Russia, costituiscono i punti di forza di queste aziende.

Largamente impiegate nel 2015 nella guerra in Ucraina dell’est, il loro impiego non ha smesso di crescere, fino a diventare uno dei principali strumenti della guerra asimmetrica o ibrida russa. Se nel 2105 le Pmc russe operavano in soli 4 stati ad oggi operano in più di 27 paesi: la loro presenza è stati infatti evidenziata in Africa (Repubblica Centro Africana, Sudan, Libia, Repubblica Democratica del Congo, Madagascar, Botswana, Guinea…), in Medio Oriente (in particolare in Siria, Yemen ed Iraq), in Europa, in Asia (Afghanistan, Azerbaijan) e in America Latina (in Venezuela in particolare).

Divenute un formidabile strumento per proiettare l’influenza russa nel mondo, queste Pmc spesso agiscono secondo un preciso modus operandi. Intervengono in contesti difficili, in paesi relativamente deboli, la cui governance del territorio è spesso contestata da gruppi ribelli. Le Pmc russe svolgono quindi un servizio di stabilizzazione, puntellando lo stato target ed accrescendone le capacità. Al contempo avanzano gli interessi russi accrescendo l’influenza di Mosca nel paese, ottenendo l’accesso a risorse naturali ed aumentando i margini profitto degli oligarchi russi che le controllano. Grazie alla presenza delle sue Pmc, la Russia sarà poi in grado di imporsi come attore ineludibile dalle trattative sulle sorti del paese (come nel caso della Libia) e sarà anche in grado di ostacolare la proiezione degli interessi dei suoi rivali storici quali gli Usa e gli altri partner atlantici.

Nel caso dell’Africa sub-sahariana, la presenza delle Pmc russe è stata osservata in ben 16 stati, tutti caratterizzati dalla presenza di risorse naturali e da una governance del territorio parziale e indebolita. La Russia ha così potuto offrire il suo supporto militare e la sua expertise in fatto di sicurezza pubblica, ottenendo in cambio vantaggi economici, geopolitici e militari. Uno dei casi più lampanti è quello della Repubblica Centro Africana (Car): la Russia a novembre del 2017 riceve l’autorizzazione all’esportazione di armi dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (Unsc) in deroga all’embargo che vige per il paese dal 2013. Oltre all’esportazioni di armi, la Russia attraverso le sue Pmc in breve tempo prenderà a fornire diversi servizi a Bangui fra cui l’addestramento delle truppe, operazioni di combattimento contro i ribelli che a inizio del 2021 minacciavano di avanzare verso la capitale, protezione dei siti estrattivi del paese, scorte armate, operazioni di (dis)informazione e addirittura consulenza politica.

È proprio nella Repubblica Centro Africana che la propaganda pro Russa e anti francese si fa più virulenta, tanto da sfociare in una guerra di informazione coi servizi francesi. Frattanto Valery Zakharov, un ex ufficiale del GRU, diviene consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Touadéra. Zakharov, oltre ad avere stretti rapporti con l’FSB, è alle dipendenze di una società di comodo ricollegabile all’oligarca Eugeny Prigozhin, il quale controlla attraverso una serie di società di comodo la Pmc Wagner Group oltre ad alcune compagnie estrattive che operano in Africa sub-sahariana. Secondo la professoressa di Scienze Politiche al Barnard College ed esperta di Pmc Kimberly Martens, Zakharov non solo sarà in grado di formare una milizia privata fedele a Touadéra, ma riuscirà anche a intavolare delle negoziazioni fra il governo del Car e i ribelli, riuscendo laddove le Nazioni Unite e l’Unione Africana avevano fallito e ottenendo contemporaneamente concessioni minerarie piuttosto lucrative.

I veri interessi di Mosca

La penetrazione russa in Africa non è stata sempre un successo: in Madagascar, per esempio, i contractors russi non sono riusciti a far vincere nelle elezioni del 2018 i candidati cui avevano offerto i loro servizi. Il Mozambico recede il contratto con Wagner dopo che numerosi uomini della Pmc vengono sopraffatti dai ribelli nella parte nord del paese, incrinando contestualmente l’immagine di successo del gruppo. Se le operazioni della galassia di Pmc russe in Africa non hanno sempre riscosso dei successi, il loro utilizzo risponde comunque a tre interessi principali del governo russo. In primo luogo, ci sono infatti gli interessi economici.

La Russia in Africa non ha che un ruolo residuale, di gran lunga inferiore a quello americano, francese o cinese, ma la possibilità di un accesso prioritario alle risorse naturali nel suolo africano permette al Cremlino di mantenere la competitività nei settori in cui eccelle, in particolare quello minerario ed energetico. Ci sono poi gli interessi geopolitici: la “svolta africana” della Russia permette a Mosca di espandere la sua influenza, ostacolando gli interessi dei suoi competitors e creando una nuova rete di alleanze per uscire dalla fase di isolamento internazionale dovuta all’annessione della Crimea. La creazione di basi navali nei paesi africani, come in Sudan, garantirebbe inoltre un accesso diretto al Mar Arabico e all’Oceano Indiano. Sul piano militare l’espansione nel continente africano permette invece a Mosca di stringere nuovi accordi di cooperazione in ambito di sicurezza e difesa (dal 2015 ad oggi la Russia ha firmato ben 21 accordi di cooperazione militare), di accrescere la vendita di armi e di costruire nuove basi militari in zone che finora erano pressoché inaccessibili per il Cremlino.

È quindi naturale che la notizia di un possibile accordo fra il governo del Mali e il Wagner group desti preoccupazione nelle capitali europee ed occidentali. Il paese non solo è nel cuore della tradizionale sfera di influenza francese in Africa, ma è anche una sorta di banco di prova per una missione europea a guida francese. Se Parigi dovesse perdere la sua influenza in Mali e nei paesi del c.d G5 Sahel, dovrebbe anche ridimensionare le sue ambizioni di paese guida in un possibile (ed auspicabile) progetto di difesa europea. In summa, dopo i fallimenti della Siria e della Libia la Francia e i suoi partner europei non possono perdere in Mali.

Hybrid Warfare. Che cos’è la guerra ibrida. Paolo Mauri su Inside Over il 4 dicembre 2021. “La guerra non è che la continuazione della politica con l’aggiungersi di altri mezzi”. La ben nota massima dello stratega prussiano Karl von Clausewitz rappresenta in modo estremamente sintetico la definizione che meglio calza per spiegare cosa sia la Hybrid Warfare (Guerra Ibrida). Ultimamente, sempre più spesso e a volte a sproposito, si sente parlare di questa forma di conflitto come se fosse qualcosa di nuovo, ma in realtà il concetto di Guerra Ibrida è qualcosa di conosciuto da tempo negli ambienti militari. Nella sua accezione contemporanea, la Hybrid Warfare comincia a essere teorizzata nella prima metà degli anni ’90, come vedremo a breve, ma giova, ai fini della nostra trattazione, fornire un panorama storico/politico di lungo periodo per capire come si sia giunti alle moderne forme di conflitto ibrido e come esso dipenda strettamente dai principi della Guerra Asimmetrica.

Gli albori

La Seconda Guerra Mondiale viene unanimemente considerata il vero punto di svolta nella definizione di un conflitto moderno: le guerre formalmente dichiarate, con scambi di dichiarazioni tra le diplomazie, cessano di esistere dalla fine di quello scontro globale e pertanto assumono contorni più sfumati, asimmetrici, irregolari, grazie al terreno fertile stabilito dalla divisione in blocchi contrapposti (la Guerra Fredda) che cristallizza la possibilità di uno scontro convenzionale su grande scala a causa del possesso di arsenali nucleari, che si paventava (e si paventa ancora se pur drammaticamente in modo diverso) sarebbero stati usati in caso di conflitto aperto.

Stati Uniti e Unione Sovietica si affrontano “altrove” rispetto all’Europa, dove passava la “linea del fronte”, ovvero in conflitti in Paesi terzi, non allineati, in Medio Oriente, Africa, America Latina, Estremo Oriente sfruttando quelli che oggi vengono definiti proxy nel quadro della Guerra Asimmetrica: attori locali, statuali e non, che combattevano sostenuti politicamente e direttamente dai due contendenti globali.

I due schieramenti (Usa/Nato e Urss/Patto di Varsavia) perseguivano cioè i propri obiettivi strategici (l’indebolimento dell’avversario e il possibile collasso del suo sistema) in modo indiretto, non attribuibile, sfruttando quindi organismi e organizzazioni non propriamente combattenti (Cia e Gru) da cui dipendevano gli attori locali che di volta in volta veniva usati o che agivano direttamente “dietro le linee nemiche”.

A ben vedere questo meccanismo comincia prima: già nella Prima Guerra Mondiale erano state sviluppate unità speciali d’assalto che venivano impiegate dietro le linee del fronte in azioni di sabotaggio, mostrando il primo embrione di attitudine a operare in modo irregolare, che maturerà nel conflitto successivo quando le formazioni partigiane saranno uno degli strumenti dei Paesi Alleati per sconvolgere la retroguardia dell’Asse e da usare ad hoc per preparare il terreno per operazioni militari (ad esempio per l’operazione Overlord).

La propaganda, in quegli anni, era invece il mezzo politico per cercare di minare la fiducia del nemico, e combinata con l’attività di spionaggio, sabotaggio e coordinamento delle forze partigiane ha rappresentato il primo nucleo dottrinale di quella che diventerà poi la moderna Guerra Ibrida.

Guerra senza limiti

Gli anni ’90 del secolo scorso vedono la fine di un mondo diviso nelle logiche dei blocchi contrapposti ma non la cessazione dei conflitti. Restando nel nostro “vicinato”, oltre al conflitto nei Balcani, esplodono guerre nell’estero vicino russo animato da sentimenti di indipendenza.

Tra di essi la Cecenia ha rappresentato un caso di studio che ha evidenziato la necessità di riformulazione della Hybrid Warfare: sono le forze separatiste cecene ad aver messo in pratica una nuova forma di questo tipo di contrasto, riuscendo a mettere in seria difficoltà la Russia, esattamente come l’Iraq, anni dopo, ha rappresentato il prototipo di guerra ibrida messa in pratica da attori non statuali per gli Stati Uniti.

Nasce così la “scuola americana” per la Hybrid Warfare che viene intesa come multidimensionale e poggiante su 4 pilastri fondamentali: attori coinvolti (mercenari, terroristi, agenti domestici), mezzi (armi convenzionali, sperimentali e di uso comune), tattiche (azioni convenzionali, legittime, illegittime, guerriglia, terrorismo, propaganda) e moltiplicatori (guerra psicologica, informatica, informativa, sfruttamento reti sociali, estorsione, cyberterrorismo).

Però a metà di quel decennio, dall’altro capo del mondo, qualcuno aveva teorizzato, se pur in modo prettamente filosofico, la nuova Guerra Ibrida. Si tratta dei generali cinesi Wang Xiangsui e Qiao Liang che pubblicano il saggio “Guerra senza limiti” (Unrestricted Warfare) mettendo nero su bianco per la prima volta la teoria di una guerra moderna mirata a stravolgere i canoni convenzionali di un conflitto, unica modalità possibile, per la Cina di allora, di contrastare una superpotenza come gli Stati Uniti.

Il soldato, il carro armato, perfino l’agente segreto, diventano parte marginale di uno scontro che si perpetra attraverso tutti gli strumenti possibili, leciti e illeciti: da quello diplomatico a quello informativo passando per, ad esempio, la manipolazione del mercato azionario. La guerra, quindi, non è più appannaggio di personale “in divisa”, ma si sfuma in molteplici dimensioni, dove il ricorso al soldato, usato in modo convenzionale, è solo l’ultima ratio.

I due generali cinesi, lasciando trapelare tutta la base filosofica propria della loro cultura (Sun Tzu), affermano che si deve “combattere la guerra adatta alle armi di cui disponiamo”, cioè ricercare la tattica ottimale per le armi che si dispongono, e “costruire armi idonee alla guerra”, vale a dire prima stabilire le modalità di combattimento, poi sviluppare le armi.

Si tratta di una rivoluzione, la cui portata è stata meglio compresa e sviluppata dalla Russia rispetto all’Occidente, anche per una questione strettamente legata alla cultura, alla storia e alle tradizioni di quel Paese. Sempre nel 1995, proprio dalle parti di Mosca, il generale Machmut Achmetovic Gareev pubblica il saggio “If war comes tomorrow? The contours of future armed conflict” che contribuisce a lanciare – e svecchiare – la visione del warfare russo verso quella che viene definita Political Warfare, o Guerra Ibrida. Egli sposta il classico concetto di “difesa di profondità” che si basa sulla distanza fisica che divide un opponente all’altro, verso una teoria più ampia, identificabile come Information Warfare, che però ha un’accezione diversa rispetto a quella occidentale avendo una postura prettamente strategica e con uno spettro d’azione a 360 gradi. Il generale Gareev, cioè, preconizza che le guerre del futuro devono essere (anche) condotte sul piano della propaganda e della disinformazione mirata, che sono utili per agire sia sulla società civile, minandone la fiducia nel sistema nazionale o creando disordini pubblici, sia sulle forze armate in generale, indebolendone la struttura con un impegno costante. Quindi non più un conflitto aperto, dichiarato, che implicherebbe una difesa convenzionale (in profondità) ma una provocazione costante, “invisibile”, attuata su più fronti per fratturare il tessuto sociale avversario, la sua economia, la sua sicurezza e capacità di controllo politico. Una guerra “indiretta” (o non-contact) che comprende “attacchi di precisione senza contatto diretto contro uno Stato e i suoi sistemi di controllo militari, le sue comunicazioni, la sua economia” come descritto da un contemporaneo di Gareev, il generale Vladimir Slipcenko.

Abbiamo detto che l’occidente ha “faticato” di più per comprendere la rivoluzione in atto, ma non per questo non ha utilizzato metodologie di Hybrid Warfare. Essendo risultato vincitore della Guerra Fredda, e avendo quindi uno strumento potentissimo dato dal sistema capitalista, lo ha sfruttato per cercare di ottenere gli stessi risultati. Dagli anni ’90 in poi, infatti, l’economia e il mercato vengono utilizzati come veri e propri “strumenti bellici” per ottenere gli stessi risultati della Guerra Ibrida di formulazione cinese o russa. Sanzioni economiche, istituzione di dazi, svalutazioni di monete nazionali ad hoc, perfino la penetrazione culturale o l’attività illecita finanziaria di società operanti nelle borse mondiali, o di Ong (Organizzazioni Non Governative) vengono usate come strumento per ottenere un fine strategico simile, se non sovrapponibile, a quello delineato dalla dottrina russa o cinese, tanto che è possibile parlare di “operazioni militari diverse dalla guerra”.

Del resto proprio gli Stati Uniti hanno usato le sanzioni internazionali, gli embarghi, con estrema disinvoltura nel corso della loro storia per raggiungere i loro obiettivi di politica estera senza dover ricorrere a una guerra guerreggiata, anche se, è bene ricordarlo, questa attività può determinare un conflitto aperto (vedere il caso giapponese nella Seconda Guerra Mondiale). Ancora una volta si “combatte” con le armi di cui si dispone.

La “Dottrina Gerasimov”

A febbraio del 2013 il generale Valery Vasilyevic Gerasimov pubblica su Voenno-Promyshlennyj Kuryer (traducibile come “il corriere militare-industriale”) l’articolo, ormai arcinoto, “The value of science is in the foresight: new challenges demand rethinking the forms and methods of carrying out combat operations” che dettaglia ulteriormente il modello di Hybrid Warfare precedentemente messo a punto da Gareev e Slipcenko aggiungendo un mix di componenti diplomatiche, pressione economica e politica e altre ingerenze non militari (facendo tesoro quindi della metodologia occidentale) per riuscire ad annientare il nemico.

Per il generale, allora capo di Stato maggiore della Difesa di Mosca, è l’aspetto politico quello che più incide nella guerra di nuova generazione ed è solo grazie alla sua formulazione che vengono per la prima volta nominati i corpi paramilitari e le Pmc (Private Military Companies) in modo aperto come strumenti essenziali di questa dottrina. In particolare la “Dottrina Gerasimov” individua sei fasi nello sviluppo e risoluzione dei conflitto tra Statio in cui si adottano metodi “non militari”:

La modellizzazione occulta dell’ambiente obiettivo

La pressione e l’escalation

Lo sfruttamento mediatico della crisi e l’isolamento dell’obiettivo con esercizio della deterrenza

L’intervento militare circoscritto

La de-escalation e la risoluzione del conflitto

La pacificazione

In questo piano, il generale Gerasimov valuta che il rapporto tra misure non militari e militari sia di 4 a 1.

In realtà la Hybrid Warfare così come la conosciamo oggi è dovuta a una estensione della “Dottrina Gerasimov” ad opera di due militari russi in pensione diventati accademici di alto livello: il colonnello Sergey Cekinov e il generale Sergey Bogdanov. Sono loro, infatti, a inserire elementi come l’uso strumentale delle Ong, quello dei media di ogni livello e dei social network, l’azione delle istituzioni culturali in loco, e di attori di alto profilo nel campo dell’ecologia, della guerra psicologica e dello spionaggio.

Recentemente stiamo assistendo a un ulteriore ampliamento degli strumenti di Guerra Ibrida: le ondate migratorie provocate ad hoc. Queste vengono usate sia per gettare discredito in ambito internazionale sui Paesi che le bloccano o tentano di farlo, minando nel contempo la stabilità interna facendo leva sui sentimenti “umanitari” della popolazione bersaglio, sia come strumento ricattatorio per ottenere condizioni favorevoli in campo commerciale oppure direttamente elargizioni di denaro.

Un caso di studio: l'Ucraina

Quanto accaduto in Ucraina nel 2014 rappresenta un caso di studio unico in quanto permette di confrontare un successo e un parziale insuccesso dell’applicazione della Hybrid Warfare russa, ormai considerabile come dottrina universale di Guerra Ibrida moderna.

Le sei fasi della “Dottrina Gerasimov” si possono condensare, per semplicità di narrazione, in tre: la preparazione al Political Warfare, l’attacco e la stabilizzazione.

Nel caso della Crimea il successo, determinato dall’avvenuta fase di stabilizzazione con relativa annessione unilaterale della penisola nella Federazione Russa, è stato raggiunto grazie a due fattori: la velocità con cui la Russia ha isolato la Crimea dal governo di Kiev, e lo sfruttamento di fattori sociali quali la supremazia economica dei suoi investimenti sul territorio (dove già era presente una exclave importante rappresentata dalla base navale di Sebastopoli) condita dal fattore sociale principale rappresentato dalla stretta vicinanza culturale della popolazione locale con quella russa.

Nel Donbass, invece, sebbene la fase preparatoria sia avvenuta in modo pressoché identico a quella messa in atto in Crimea, il fallimento della Hybrid Warfare russa (la regione, nonostante l’autoproclamazione di indipendenza delle repubbliche di Donetsk e Lugansk è ancora de facto attraversata da un conflitto congelato) è imputabile principalmente al non riuscito isolamento che ha permesso a Kiev di reagire in tempi molto più rapidi.

In ogni caso Mosca ha raggiunto un obiettivo tattico, che è quello di tenere in stallo la situazione non permettendo così ogni possibile ingresso in Europa e nella Nato dell’Ucraina, proprio in quanto alle prese con un conflitto la cui risoluzione sembra impossibile. Soprattutto la natura non attribuibile della minaccia, che si configura ufficialmente quindi come un’insurrezione interna, non permette all’Ucraina di appellarsi alle sue alleanze occidentali per la risoluzione del conflitto e inoltre pone Kiev nella condizione di non poter separarsi dalla Russia e guardare definitivamente a Occidente poiché il prezzo che dovrebbe pagare, la perdita della sua regione orientale, sarebbe troppo alto dopo quella della Crimea.

Una vittoria tattica, quella russa, che però non è affatto strategica: aver conquistato la Crimea, aver messo in stallo Kiev, significa in realtà che il Cremlino ha perso l’Ucraina, una delle sue due porte occidentali – insieme alla Bielorussia – che servono a garantire una “fascia di sicurezza” per proteggere da una possibile invasione il cuore pulsante della cultura e dell’economia russa, che si trova “al di qua” degli Urali.

Che cos’è la guerra del Darfur. Mauro Indelicato su Inside Over il 4 dicembre 2021. La guerra del Darfur è un conflitto che interessa la regione occidentale sudanese del Darfur e che vede coinvolte diverse sigle, tra forze governative, milizie e gruppi paramilitari. Il conflitto esplode ufficialmente nel 2003 e viene dichiarato concluso nel 2009, anche se scontri si verificano sia prima che dopo queste date. La guerra del Darfur diventa nota a livello internazionale per via delle voci di razzie e veri e propri genocidi attuati dalle forze in campo. Si calcola che gli scontri e le azioni d violenza hanno causato almeno 400.000 morti e qualcosa come due milioni di sfollati.

Le cause del conflitto nel Darfur

Il Darfur è una regione storica del Sudan, situata nella parte occidentale del Paese, lungo i confini con il Ciad. A livello politico, secondo l’impostazione amministrativa dello Stato sudanese, è divisa in cinque Stati: Darfur Occidentale, Darfur Settentrionale, Darfur Meridionale, Darfur Centrale e Darfur Orientale. Il termine Darfur indica negli idiomi locali “Terra dei Fur”, ossia dell’etnia maggiormente concentrata in questa regione. Si tratta, al pari di altre etnie predominanti nel Darfur, di una popolazione di origine centroafricana che tra il XIV e il XVIII secolo dà vita a un sultanato indipendente. Soltanto nel 1916 infatti il Darfur viene accorpato dai britannici al Sudan, il quale al suo interno ha invece una maggioranza araba e arabofona.

È proprio quest’ultimo aspetto a essere considerato come perno della guerra poi scatenatasi negli anni recenti. Le popolazioni africane composte soprattutto dai Fur, dai Zaghawa e dai Masalit (a loro volta poi divise in diverse tribù) lamentano storicamente un trattamento di emarginazione da parte del governo centrale e delle tribù arabofone presenti in zona. La contrapposizione tra africani e arabofoni diventa molto forte tra gli anni ’60 e ’90 del secolo scorso, spingendo entrambe le parti a confluire in numerosi movimenti sorti nel frattempo per portare avanti le rispettive rivendicazioni.

Oltre ai contrasti etnici, occorre anche considerare dispute di natura economica. La popolazione di origine africana è in gran parte composta da agricoltori sedentari, mentre quella arabofona da pastori nomadi. In questo contesto, già dagli anni ’60 sorgono conflitti locali per il controllo della terra. Inoltre nel Darfur sono presenti importanti giacimenti di oro e, in anni più recenti, vengono scoperte significative riserve di petrolio. È in questo clima che si arriva, con l’inizio del XXI secolo, a una profonda divergenza tra africani e arabofoni. Il comune richiamo alla fede islamica a cui appartengono entrambi i gruppi non serve, negli anni successivi, a placare le tensioni.

Le forze in campo

Nel 2002 il governo di Khartoum registra primi attacchi da parte di gruppi armati nel Darfur. Secondo i cronisti Julie Flint e Alex de Waal, profondi conoscitori delle dinamiche conflittuali sudanesi, queste prime azioni sono il frutto di un’alleanza siglata l’anno prima tra tribù dei Fur e tribù dei Zaghawa per lottare contro il governo centrale. L’inizio degli attacchi permettere di avere una prima conoscenza delle forze in campo.

Sul fronte delle milizie del Darfur si trovano in particolare due gruppi. Si tratta del Justice and Equality Moviment (Jem) e dell’Esercito di Liberazione del Sudan (Sla). Il primo è un movimento di ispirazione islamista, il secondo invece nei primi anni 2000 è noto come “Fronte di Liberazione del Darfur” ed ha al suo interno due personaggi destinati a diventare fondamentali nella storia del conflitto: Minni Minnawi e Abdul Wahid Al Nur.

Dall’altra parte si ha invece ovviamente l’esercito regolare sudanese, preoccupato dall’escalation dei gruppi filo africani. A supporto dei militari di Khartoum arriva una milizia arabofona già arriva negli anni ’90 e nota con il nome di Janjaweed, termine che in arabo è traducibile con “demoni a cavallo”. È formata da membri delle etnie arabofone dei Baggara e degli Abbala. Nel primo gruppo di distingue la tribù dei Rizeigat, da cui provengono buona parte dei comandanti. Questo perché a proteggere e finanziare nei primi anni la milizia è lo sceicco Musa Hilal, personalità di massimo riferimento dei Rizeigat. Tra i principali comandanti occorre annotare Mohamed Hamdan Dagalo, noto con il nome di Hemmeti, e Ali Kushayb.

26 febbraio 2003, l'inizio della guerra nel Darfur

Dopo le prime avvisaglie e i primi scontri in diverse province del Darfur, il primo vero atto bellico è datato 26 febbraio 2003. Quel giorno un gruppo di miliziani attacca un quartier generale dell’esercito nella località di Golo. A differenza dei precedenti attentati, questa volta si ha una rivendicazione pubblica. A comunicarla è il gruppo del Fronte di Liberazione del Darfur, pochi mesi dopo noto come Esercito di Liberazione del Sudan (Sla). È per questo motivo che la storiografia tende ad attribuire ai fatti di Golo il rango di prima escalation bellica del Darfur.

Un mese dopo si ha una nuova offensiva. Il 25 marzo 2003 i miliziani Sla occupano la città di frontiera di Tine. L’operazione ha successo per i ribelli anti Khartoum in quanto consente di recuperare un’ingente quantità di materiale bellico dalle caserme. La sensazione di essere in guerra però si ha il 25 aprile 2003. Alle 5:30 del mattino quel giorno combattenti dello Sla e del Jem si coalizzano per occupare Al Fashir. Quest’ultima è una località dal grande valore strategico e politico. Al Fashir non solo è la capitale dello Stato del Darfur Settentrionale, ma è anche la più grande città dell’intera regione storica del Darfur, centro nevralgico economico e politico per tutte le popolazioni di questa parte del Sudan.

I ribelli sfruttano l’effetto sorpresa. I militari dentro le guarnigioni e le caserme dormono ancora quando i combattenti entrano a bordo di 33 pickup. L’esercito, impreparato agli eventi, non riesce a reagire. Vengono fatti prigionieri più di 30 soldati, in 75 invece risultano uccisi. Inoltre i miliziani distruggono velivoli, armi, carri armati e altri mezzi. Durante le ore dell’attacco, le sigle ribelli perdono solo nove uomini. Per il governo di Khartoum si tratta di uno smacco senza precedenti. L’intero Sudan, già provato da altre guerre, è colto alla sprovvista.

La reazione di Omar Al Bashir

A Khartoum al potere dal 1989 c’è Omar Al Bashir. Per il suo governo non sono anni semplici. Non solo il Sudan è preda di una grave crisi economica, ma deve fronteggiare le ribellioni nell’est del Paese e soprattutto nel sud, dove la popolazione cristiana chiede l’indipendenza. Inoltre aver ospitato Osama Bin Laden fino al 1994 pone Bashir in una condizione di semi isolamento internazionale.

Dunque per il presidente sudanese la questione Darfur rappresenta una nuova spina nel fianco. La sua priorità è sedare ogni ribellione in questa regione prima che sia troppo tardi. Ecco perché da Khartoum, dopo i fatti di Al Fashir, Omar Al Bashir promette pungo duro e una risposta militare senza precedenti. Sono minacce per la verità poco reali a prima vista. La coperta dell’esercito è troppo corta per fronteggiare anche i gruppi del Darfur. I militari sono duramente impegnati nella guerra nel sud del Sudan.

Al Bashir allora, davanti all’avanzata dei gruppi ribelli, decide di servirsi della milizia arabofona dei Janjaweed. In comune tra le due parti vi è la priorità di preservare il dominio delle forze filoarabe, siano esse legate al governo sudanese oppure alle tribù locali. Non è la prima volta che i Janjaweed vengono chiamati in azione. Tra il 1996 e il 1999 nel Darfur i miliziani operano per sedare alcune rivolte guidate dai Masalit.

Da Khartoum vengono inviati soldi, mezzi e armi a loro favore. Il gruppo interviene nel conflitto ma non si concentra solo sui miliziani Sla o del Jem. Al contrario, vengono presi di mura soprattutto i civili delle etnie africane. Un primo spaccato dell’operato dei Janjaweed si ha in un rapporto di alcuni osservatori Onu datato 25 aprile 2004. Il personale delle Nazioni Unite si trova nel distretto di Shattaya e descrive una situazione drammatica. I 23 villaggi abitati dai Fur della zona sono rasi al suolo, senza più persone al loro interno. I civili sono stati uccisi o deportati altrove. C’è poi un elemento che attira l’attenzione degli osservatori. I villaggi a maggioranza araba adiacenti a quelli distrutti sono intatti e con la popolazione al suo posto al loro interno. È il segno di un’inquietante pulizia etnica in corso: i Janjaweed aspirano ad espellere dal Darfur tutti i cittadini non arabi.

La prima fase della guerra: 2003 - 2006

L’emersione delle razzie attuate dai Janjaweed iniziano ad attirare le attenzioni della comunità internazionale. Ma le poche comunicazioni e la posizione periferica del Darfur ritardano ogni risposta. Nel frattempo nel vicino Ciad iniziano a confluire migliaia di profughi. Anche questo un segno della catastrofe umanitaria in corso. Il presidente ciadiano Idris Debby prova a mediare. A NDjamena viene raggiunto l’8 aprile 2004 un accordo per un cessate il fuoco tra il governo sudanese e le forze di Sla e Jem. I combattimenti però non si fermano. Parte dei gruppi ribelli non accetta l’accordo, mentre i Janjaweed proseguono con le loro gravi azioni a danno dei civili.

L’irruzione dei miliziani arabofoni nei villaggi crea molta preoccupazione. L’allora segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, parla di vero e proprio genocidio e paragona la situazione in Darfur alla guerra in Ruanda del 1994. Si muove l’Unione Africana, che vara l’avvio di una missione di 7.000 uomini. La guerra però non si ferma. È in questo periodo forse che raggiunge il livello di massima violenza. Il mancato accesso a cure e generi di prima necessità da parte di migliaia di persone, genera un’ulteriore fuga verso il Ciad.

Un rapporto dell’Onu del gennaio 2005, parla apertamente di omicidi di massa e stupri perpetuati come arma militare contro la popolazione civile. Sotto accusa ancora una volta vengono messe le milizie Janjaweed. Le Nazioni Unite non parlano ufficialmente di genocidio, nonostante la presa di posizione precedente di Kofi Annan, ma descrivono comunque una situazione molto simile a quella verificata nell’ex Jugoslavia negli anni ’90. Si rileva, in particolare, la sistematica aggressione contro i civili, donne e bambini compresi.

A livello militare, le milizie del Darfur appaiono in difficoltà. L’avanzata dei Janjaweed e il terrore generato dalle loro incursioni nei villaggi, fanno perdere terreno sia al Jem che a al Sla. Nel dicembre 2005 poi il conflitto sconfina in Ciad. Viene infatti attaccato il villaggio di Adre, posto in territorio ciadiano. Il governo di Deby incolpa il Sudan e dichiara guerra a Khartoum. Migliaia di soldati del Ciad vengono schierati lungo il confine con il Darfur.

L'accordo del maggio 2006

La violenza va avanti per tutta la prima fase del 2006. Uno spiraglio sembra aprirsi a maggio. Hanno esito positivo infatti alcune trattative portate avanti tra il governo sudanese e rappresentanti del Sla. Il leader del gruppo ribelle, Minni Minnawi, firma un accordo con Khartoum in cui si sancisce la deposizione delle armi e si chiede anche il disarmo dei Janjaweed. Sembra il preludio a una fase distensiva.

La ripresa del conflitto nel Darfur

Le speranze di tregua vengono però ben presto disattese. Il Jem non sigla gli accordi di maggio. Inoltre l’altro importante leader del Sla, Abdul Wahid Al Nur, disconosce l’intesa e prosegue la guerra con i propri fedelissimi. Il primo settembre 2006 inoltre, report parlano di un importante attacco militare dell’esercito regolare sudanese contro le sigle ribelli. Il giorno prima, il 31 agosto, il consiglio di Sicurezza dell’Onu vota a favore dell’istituzione di una missione internazionale. In particolare, è previsto l’invio di 17.000 caschi blu, da integrare ai 7.000 soldati dell’Unione Africana già presenti. Omar Al Bashir si oppone a questa eventualità, appoggiata invece dal Ciad.

Tuttavia a novembre arriva il via libera di Khartoum all’ingresso dei caschi blu. In quel mese però vengono segnalate nuove offensive dell’esercito ai danni dei ribelli. Inoltre proseguono le incursioni in alcuni villaggi a maggioranza Fur da parte dei Janjaweed. Si ha notizia dell’eccidio di 400 civili attuato dai miliziani nel marzo 2007 in una località vicina al confine con il Ciad. In quel periodo di avviano anche le prime inchieste sui crimini attuati durante il conflitto. La corte penale internazionale, in particolare, mette sotto accusa il ministro sudanese per gli affari umanitari, Ahmed Haroun, e il comandante Janjaweed Ali Kushayb. Poco dopo l’inchiesta coinvolge lo stesso presidente Omar Al Bashir.

Sempre nel 2007, il 31 luglio si dà ufficialmente il via alla missione Onu Unamid, il cui compito è quello di evitare nuove stragi in Darfur. I caschi blu arrivano a partire dal 31 dicembre successivo. Prima di allora si assiste a nuovi scontri, a volte anche tutti interni alle parti in causa. Ad esempio, diversi gruppi che compongono i Janjaweed iniziano ad essere maggiormente autonomi e ad occupare territori in varie parti del Darfur.

Lo sfaldamento del fronte arabofono e la prospettiva dell’invio dei caschi blu sembrano allentare la tensione. Tanto che nel settembre 2007, nella città libica di Sirte, si avviano alcuni importanti colloqui a cui prendono parte le principali sigle coinvolte nel conflitto. Inizia un lungo periodo di trattative, destinato a terminare però solo dopo diversi anni.

Lo scontro di Khartoum del 2008

Che la tensione non viene del tutto smorzata lo dimostra anche l’episodio del 10 maggio 2008. Quel giorno la guerra arriva a due passi da Khartoum. Un gruppo vicino ad Al Nur penetra con le proprie milizie fino a Omdurman, città alle porte della capitale. Ne nasce uno scontro a fuoco molto violento, in cui muoiono 93 soldati e 13 poliziotti. Il governo decreta lo stato d’emergenza e impone il coprifuoco in tutta l’area urbana di Khartoum. Oltre agli uomini di Al Nur, a partecipare all’assalto sono anche miliziani del Jem.

La situazione ritorna alla normalità soltanto in tarda serata. Il governo dichiara di aver ucciso 400 miliziani e aver preso numerose loro armi e diversi loro mezzi. L’attacco dimostra la situazione di estrema tensione in tutto il Paese. Ma è anche uno degli ultimi episodi documentati del conflitto.

2009: l'Onu considera chiusa la guerra

Dopo gli scontri di Khartoum la guerra vive una fase di stallo. L’Onu non registra altri attacchi su vasta scala, né nelle aree intorno alla capitale e né in Darfur. Una circostanza che spinge il generale Martin Agwai, comandante della missione Onu, a dichiarare ufficialmente concluso il conflitto il 27 agosto 2009. Secondo i responsabili delle Nazioni Unite, in quel momento in Darfur sono rintracciabili episodi di violenza riconducibili però all’opera di bande locali o di regolamento di conti tra tribù.

Il miglioramento della situazione generale spinge a nuovi round di colloqui. Nel febbraio del 2010 partono nuove trattative a Doha, capitale del Qatar. Il 23 febbraio si giunge all’annuncio della deposizione delle armi da parte del Jem. Quello stesso giorno il presidente sudanese Al Bashir dichiara il Darfur come zona sicura. Le intese prevedono, tra le altre cose, maggiore autonomia per il Darfur e maggiore rappresentanza per la popolazione locale. Resta però fuori dall’accordo la fazione del Sla fedele ad Al Nuri.

La guerra del Darfur sui media internazionali

L’attenzione mediatica sul Darfur si accende nel 2004, quando diverse organizzazioni internazionali pongono l’accento sulle razzie e sulle uccisioni di massa ad opera dei Janjaweed. L’esodo di massa poi delle popolazioni di origine africana ha dato modo di osservare l’entità della tragedia umanitaria in corso.

Per questo, a metà degli anni 2000, la guerra nel Darfur, pur non seguita capillarmente dai media, appare uno degli argomenti internazionali più trattati. Diverse le campagne volte a fermare il conflitto e ad aiutare i profughi fuggiti dai villaggi rasi al suolo. Così come sono molti gli appelli compiuti in occidente per promuovere una tregua.

Di Darfur si parla molto anche per due campagne capaci di raggiungere un pubblico molto vasto. La prima è del 2007 e vede protagonista l’azienda statunitense Google, la quale sulle mappe del servizio Maps pone in evidenza i villaggi rasi al suolo durante il conflitto. L’altra invece ha per protagonista il gruppo musicale britannico Mattafix, il quale nel settembre 2007 pubblica la canzone “Living Darfur”, diventata nell’anno successivo una delle hit più ascoltate in Europa e negli Stati Uniti.

Gli scontri negli anni successivi

La dichiarazione di fine della guerra e gli accordi del 2010 non spengono comunque del tutto le tensioni. Alcuni gruppi, come quelli fedeli ad Al Nuri, rimangono attivi. E inoltre le reciproche diffidenze tra popolazioni africane e arabofone continuano nel dopoguerra e danno vita a nuovi scontri, seppur di carattere locale.

Tra il 2013 e il 2014 le situazioni più critiche. Dal gennaio 2013 fino a maggio altri 300.000 sfollati vengono costretti a trovare riparo fuori dalle proprie abitazioni. L’anno successivo si verifica l’assalto al villaggio Fur di Tabit. Secondo le Nazioni Unite, in quell’occasione circa 200 donne vengono violentate, mentre gli uomini sono arrestati. Coinvolti nell’episodio sarebbero anche i soldati regolari sudanesi. In un rapporto di fine anno, l’Onu stima almeno 3.300 villaggi coinvolti da violenze nel 2014.

La creazione delle Forze di Supporto Rapido nel 2013 e il ruolo di Hemeti

La situazione nel 2013 si fa così grave che il presidente Omar Al Bashir decide di dar luogo alle cosiddette Forze di Supporto Rapido (Rsf). Si tratta di forze speciali la cui guida è affidata a Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemeti. Quest’ultimo è uno dei leader più importanti dei Janjaweed durante la guerra.

Le nuove forze, secondo le accuse arrivate da diverse associazioni umanitarie, sarebbero costituite proprio da miliziani Janjaweed a cui viene affidata una divisa. È dunque forte il timore dell’applicazione degli stessi metodi usati durante il conflitto contro le popolazioni del Darfur e in altri scenari in cui le Rsf vengono impiegate.

La costituzione delle nuove forza speciali favorisce tra le altre cose la scalata di Hemeti quale nuovo uomo forte del Sudan. Numerosi rapporti delle stesse Nazioni Unite, indicano Hemeti come personalità in grado, grazie anche al peso raggiunto dalle Rsf, di essere al centro di numerosi interessi economici e politici. Grazie anche a proprie società, Hemeti controllerebbe buona parte dell’economia sudanese.

Il ruolo del leader delle Rsf appare palese subito dopo il colpo di Stato dell’aprile 2019, con il quale l’esercito rovescia Omar Al Bashir. Il golpe ha luogo anche grazie al via libera di Hemeti, nominato vice presidente della nuova giunta transitoria.

La situazione oggi

Sul finire del 2020, nell’ambito del percorso transitorio che dovrebbe portare il Sudan verso le elezioni nel 2023, il governo centrale di Khartoum sigla diversi trattati di pace con i vari gruppi ribelli sparsi nel Paese. Tra questi spiccano anche quelli presenti nel Darfur. Formalmente la situazione appare pacificata, ma nei fatti le tensioni locali sono ancora molto forti e non mancano episodi di violenza.

Le preoccupazioni arrivano anche dall’instabilità dell’intero Sudan. Nell’ottobre 2021 un nuovo golpe rovescia il governo civile di transizione e dona ai militari il potere. Una circostanza capace potenzialmente di creare nuovi conflitti nel Paese. Riguardo al Darfur, preoccupa lo strapotere assunto dalle Rsf e dal leader Hemeti.

Sui fatti occorsi tra il 2003 e il 2009, è in corso un processo impantanato però da anni in una grave fase di stallo. Nel 2009 viene emanato un mandato di apparizione all’ex presidente Omar Al Bashir, mai però eseguito nonostante la sua deposizione. L’unico progresso nel processo arriva nel giugno 2020, quando nella Repubblica Centrafricana viene arrestato Ali Kushayb, uno dei comandanti Janjaweed. Ancora però mancano all’appello molti soggetti e nessuno ha pagato per i crimini commessi. Dopo il golpe del 2019 a Khartoum viene ventilata l’ipotesi di un processo sudanese per la guerra in Darfur, ma l’instabilità politica attuale rende difficile anche questa via.

·        La Genesi di un'invasione.

Quel boom di baby migranti: "In Italia spinti dai social". Federico Garau il 27 Novembre 2021 su Il Giornale. Sempre più i migranti minorenni che raggiungono le coste del nostro Paese. A spingerli, secondo gli operatori del settore dell'accoglienza che sono a contatto con loro, sarebbero anche i social network. Coste italiane prese letteralmente d'assalto da cittadini stranieri (a volte in viaggio su navi Ong, altre a bordo di imbarcazioni di fortuna), decisi a raggiungere il nostro Paese con la convinzione di trovare delle condizioni di vita a loro più favorevoli. Di recente, stando alle ultime informazioni raccolte anche dalle stesse strutture d'accoglienza, si sta assistendo ad un autentico boom di extracomunitari minorenni, o presunti tali.

Il caso Genova

A spiegare il fenomeno ai microfoni di Agi è il consigliere delegato alle politiche sociali del Comune di Genova Mario Baroni, che parla di un costante arrivo di "migranti" minorenni. A spingere i giovanissimi a lasciare il loro Paese d'origine ed a partire alla volta dell'Italia, sarebbero, pare, i social network. "Attualmente abbiamo 327 minori stranieri non accompagnati presi in carico, un numero enorme rispetto al passato. Alcuni sono in comunità, altri in albergo", ha dichiarato Baroni. "Qui a Genova abbiamo 183 posti, tutti pieni a oggi, che ovviamente non sono sufficienti. Un'ottantina di minori è attualmente in albergo e stiamo studiando un piano d'intervento per far fronte a questa situazione", ha aggiunto.

Molti degli stranieri, stando a quanto dichiarato dalle autorità preposte, arrivano da Egitto, Tunisia, Albania, Somalia, Congo, Siria ed Afghanistan. Al momento i ragazzi alloggiano in alcune strutture alberghiere, in attesa di una migliore sistemazione. Il Ceis (Centro solidarietà Genova onlus) si trova in prima linea nell'accoglienza ai minori, come spiegato dal presidente Enrico Costa, che conferma il costante aumento del numero di giovani in arrivo. "Fino a qualche anno fa avevamo più a che fare con l'emergenza del profugo che scappa dalla guerra, da una tragedia, dalla violenza politica o religiosa della sua terra natia", ha dichiarato Costa. "Oggi ci interfacciamo più spesso con quello che cinicamente viene chiamato 'migrante economico'", ha aggiunto.

"Fate sbarcare i 463 migranti". La Sea Watch punta l'Italia

Ma da cosa dipende tutto ciò? Secondo Costa ad influire molto sarebbero i social network: "La costante diffusione in tempo reale d'immagini di ricchezza e opportunità di altri Paesi come l'Italia, la Germania, la Francia, la Gran Bretagna, ma anche la possibilità di comunicare con chi è già partito, ha infuso a molti ragazzi, specie negli ultimi 5 anni, la giusta dose di coraggio per lasciare tutto e partire". È il passaparola a far avviare il processo. Le persone interessate a partire adesso sanno dove andare e come andarci, hanno contatti ed una vera e propria rete di accoglienza a cui rivolgersi, prima ancora di cercare i canali istituzionali.

"Migranti" sempre più giovani

Il fenomeno sta coinvolgendo sempre più giovani, se non addirittura minori o dichiarati tali. Secondo Costa, "su 1000 che arrivano, oggi il 20% sono minori". Si parla di 12enni, 13enni, pronti a lasciare tutto e partire alla volta dell'Europa.

Per rispondere a questa emergenza, il Ceis ha messo a disposizione diverse strutture a Genova, una di queste è il centro Galata, che ospita 20 ragazzi. Qui i giovani conducono una vita relativamente normale, e sono costantemente assistiti. A parlare di loro è il responsabile del centro Roberto Buzzi, che ad Agi racconta come i ragazzi abbiano già affrontato molte difficoltà malgrado la loro età anagrafica: "Parliamo di viaggi che durano sei-sette mesi: quando arrivano qui, questi ragazzini sono esausti. Noi siamo comunità di seconda accoglienza, quindi prima passano attraverso altre strutture che rappresentano una 'prima linea sul fronte'. Una volta da noi, comincia il vero percorso d'integrazione e costruzione del loro futuro". Fra le attività proposte ai ragazzi, anche la scuola, per poter acquisire sicurezza e consapevolezza. Molti, infatti, non solo non conoscono l'italiano, ma sono analfabeti. Il loro unico desiderio è quello di trovare un lavoro.

Quello strano boom di minori Cosa c'è dietro questi sbarchi

I ragazzi, spiega Buzzi, provengono da famiglie povere, alcuni hanno traumi sociali alle spalle. Ad avere maggiori difficoltà sarebbero i giovani tunisini, che hanno "problematicità comportamentali maggiori: sono più riottosi, sfuggono al legame, è qualcosa che va oltre l'aggressività dell'adolescente. Chi accoglie non viene visto da loro come il referente con cui creare una relazione, ma uno sconosciuto qualunque di passaggio da un luogo ad un altro".

"Fame di soldi"

Il presidente Enrico Costa si è detto preoccupato per il destino di questi ragazzi, che spesso ragionano solo in termini economici. Non hanno un sogno. Desiderano solo guadagnare denaro da inviare poi a casa. "Anche se tredicenni, hanno una fortissima fame di soldi: vogliono mandare denaro a casa, anche perché spesso i genitori li hanno spinti, o costretti, a partire proprio per questo", ha spiegato Costa. "Se si mischia questa fame all'ostacolo della incomunicabilità iniziale, il giovane viene naturalmente spinto tra le braccia di qualcosa di più comodo e veloce come l'illegalità: spaccio e piccola criminalità rappresentano l'Eldorado su cui mangiare e un regalo, purtroppo, per le associazioni criminali", ha aggiunto.

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018

Scappano da inondazioni e crolli: i migranti ambientali sono i nuovi esiliati. Ed è un problema anche italiano. Saranno fino a 250 milioni entro il 2050 in tutto il mondo. Persone costrette a lasciare case e terre a causa del cambiamento climatico. E anche nel nostro Paese il fenomeno sta contribuendo a spopolare le aree interne. Chiara Sgreccia su L'Espresso il 26 ottobre 2021. Il rumore delle pietre era assordante. Battevano l’una contro l’altra, trascinate dalla forza del torrente. Ha piovuto per tre giorni e tre notti a Rajù, frazione del comune di Fondachelli Fantina, borgo del Messinese che dopo l’alluvione del 1972 è rimasto silenzioso, disabitato. Nessuno dei residenti poteva scappare. Ai lati del borgo, due ruscelli ingrossati impedivano il passaggio. Davanti, il torrente Fantina zeppo di fango e di quei grossi sassi che colpendosi facevano lo stesso chiasso di dieci aerei in partenza. Alle spalle, una frana dalla montagna aveva distrutto un paio di case dopo 24 ore di pioggia. Sono morte quattro persone, ferite altre. Terrorizzati, senza dormire né mangiare, gli abitanti di Rajù si sono riuniti in poche abitazioni, per condividere, come erano soliti fare, le scelte e i momenti più importanti. «Pregavamo, aspettavamo. Senza sonno né cibo, avevo un fortissimo dolore alla testa. Mi sono rassegnato alla morte». A parlare è Giovanni Furnari, oggi in pensione, allora un ventiseienne geometra freelance appena sposato, nato e fino a quel momento vissuto a borgo Rajù. «Dopo giorni di pioggia incessante, il 2 gennaio del ’73, è tornato il sole. Ce ne siamo andati tutti, senza nessuna ordinanza: eravamo d’accordo. A piedi nel fango. Sono arrivato a Barcellona Pozzo di Gotto, lontana 30 km. Qui dove vivo tutt’ora». Neanche dieci volte in cinquant’anni Furnari è tornato nell’abitazione di Rajù perché fa troppo male vedere il paese così desolato, distrutto dal torrente che continua ad alzarsi inghiottendo le case. Perché tornano forte il dolore alla testa, la sensazione di morte, le lacrime agli occhi. Così si sente chi ha dovuto lasciare la propria casa senza averlo deciso e senza la possibilità di tornare. I migranti ambientali, persone che a causa di catastrofi naturali, uragani, inondazioni, tempeste, siccità, terremoti, sono costrette ad abbandonare la propria terra, saranno fino a 250 milioni entro il 2050, secondo l’Unhcr. Non si tratta di migrazioni transfrontaliere di massa ma di piccoli sfollamenti, spesso per poche decine di chilometri, che rendono le persone vulnerabili fino a privarle, in alcuni casi, dei diritti fondamentali. Non esiste una definizione legale chiara di migrante ambientale, sono una parte degli sfollati interni totali che secondo il Global Report on Internal Displacement hanno raggiunto i 55 milioni nel 2020 e sono costati 20,5 miliardi di dollari. «Il cambiamento climatico è sempre trattato come materia scientifica ma è anche un problema socio-economico che intacca sia la sfera sanitaria sia quella dei diritti», spiega Serena Giacomin, climatologa e presidente dell’Italian Climate Network. «Un singolo evento meteo non stabilisce una tendenza climatica ma il loro schizofrenico susseguirsi sì. Nel bacino del Mediterraneo abbiamo a che fare con un’estremizzazione: ondate durature di caldo estremo si alternano a momenti di freddo meno frequenti, ma più intensi». Per Giacomin questo stressa il territorio causando problemi alle persone che lo occupano. Le azioni per mitigare l’impatto del cambiamento climatico, che trasforma la produttività e la resistenza delle aree, sono costante oggetto di studio del Consiglio nazionale dei geologi. «Nel momento in cui un territorio non ti dà più risorse idriche, terreni fertili, ti mette in difficoltà con eventi inaspettati come i 48,8 gradi di quest’estate nel Siracusano, ecco che gli insediamenti umani si devono spostare». Così è successo a Cavallerizzo di Cerzeto, un piccolo centro calabro-albanese, in provincia di Cosenza, franato nella notte tra il 6 e il 7 marzo del 2005, sotto una pioggia che non dava tregua. Vito Teti, antropologo e scrittore, ha documentato la tragedia da quando è accaduta a oggi: «Ogni giorno Domenico Golemme misurava con una corda l’ampliarsi della frana. Quando Golemme, detto Burithi, la talpa in arbëreshe, (la lingua parlata dalla minoranza albanese d’Italia, ndr) si accorse che la crepa portava verso il crollo era notte e diede l’allarme. Suonarono le campane, i citofoni, i telefoni, così tutti gli abitanti riuscirono a scappare in tempo». Secondo Teti, il disboscamento incontrollato, le nuove costruzioni in cemento armato, l’incuria, le strade che si spaccavano, le case che si abbassavano, erano tutte avvisi rimasti inascoltati di una catastrofe prevedibile che ha messo in fuga una comunità. La maggior parte dei residenti avrebbe voluto ricostruire Cavallerizzo dov’era ma, a causa dell’inagibilità dichiarata nonostante solo una parte della frazione fosse stata colpita dalla frana, nel 2011 iniziò la consegna degli alloggi della New Town, distante qualche centinaio di metri. Oggi la vecchia Cavallerizzo è vuota, «perfino i cavi dell’energia elettrica si sono portati via», racconta Carlo Calabria, un geologo che vi abitava ma che ora vive in Sicilia, mentre la nuova Cavallerizzo si sta gradualmente spopolando perché «non c’è più un luogo fisico comune a tutti dove potersi incontrare, ci sono solo una serie di case tutte uguali». Secondo il rapporto sul territorio del 2020 dell’Istat, ci sono 250 mila persone in meno rispetto al 2014 che vivono nelle aree interne, cioè in zone distanti dall’offerta di servizi essenziali, tipicamente di montagna o di collina, complice anche l’indice di vecchiaia superiore alla media nazionale. Per l’Anci, l’associazione nazionale comuni italiani, sono soprattutto i borghi che contano meno di 5 mila abitanti a spopolarsi: almeno un migliaio ha perso il 50 per cento dei residenti, alcuni fino all’80 per cento. Oltre alla mancanza di servizi, lavoro e opportunità, concorre allo spopolamento anche il rischio di dissesto idrogeologico. «Il 91,3 per cento dei comuni italiani è in pericolo. Nel 2021 ci sono stati 1600 eventi estremi, il doppio rispetto all’anno precedente. In tre ore viene giù tutta la pioggia che è mancata per mesi. Questo danneggia sia l’agricoltura sia il territorio, accrescendo il rischio di frane e alluvioni», spiega Lorenzo Bazzana di Coldiretti. Perché, come chiarisce Bazzana, le gelate ci sono sempre state ma ora arrivano quando non te le aspetti, alla fine del periodo invernale quando le colture hanno ripreso a crescere, danneggiandole. Inverni non troppo freddi ed estati siccitose hanno favorito anche la diffusione degli insetti, come il bostrico, un piccolo coleottero che si nutre del legno degli abeti rossi, soprattutto dei più deboli, che ha trovato nelle aree colpite nel 2018 dalla tempesta Vaia il territorio giusto per la proliferazione. «Gli alberi già fragili per la mancanza d’acqua sono caduti sotto i colpi del vento che ha raggiunto i 120 chilometri orari. Il terreno non era pronto per assorbire una tale quantità di pioggia. Un vero e proprio tifone si è originato dalla differenza di temperatura di 30 gradi tra il versante nord e il versante sud delle Alpi, quando la difformità di solito è di cinque o sei gradi. Vaia ha distrutto oltre 42 mila ettari di bosco. Non era mai stato registrato niente di simile da quando abbiamo la strumentazione, dalla fine del ‘700», spiega Diego Cason, sociologo di Belluno. Il tifone oltre ad aver causato la morte di otto persone, danni per quasi tre miliardi di euro, colpito 494 comuni tra le Prealpi venete e le Dolomiti, parte del Trentino Alto-Adige, della Lombardia e del Friuli, sta causando gravi difficoltà economiche alle comunità locali che dalla vendita del legno, il cui prezzo è diminuito dopo la tempesta vista la grande quantità immessa sul mercato, ricavano profitti da investire nella tutela delle infrastrutture e del territorio. E se adesso è ancora troppo presto per parlare di spopolamento, resta vivido il ricordo dell’alluvione del 1966 che colpì duramente le stesse aree e portò all’abbandono di tanti piccoli borghi. «È un meccanismo infernale: lo spopolamento porta abbandono e incuria dei territori che a loro volta accrescono il pericolo di dissesto idrogeologico, che provoca spopolamento». Raffaele Giannone è un ingegnere di Civitacampomarano, comune di 351 abitanti in provincia di Campobasso, colpito da una frana nel 2017, un anno di precipitazioni eccezionali. Giannone ha dovuto lasciare la casa, che era la stessa in cui più di duecento anni fa visse il militare e letterato molisano Gabriele Pepe. «Oggi abbandonata, con le finestre che sbattono al vento, perché nessuno se ne occupa». Sono passati più di cinque anni dal giorno in cui Civitacampomarano, che giace su uno sperone di roccia, non su un terreno franoso, si è spaccata. La zona rossa è rimasta tale. Gli abitanti, che ora vivono nelle campagne e nei paesi limitrofi continuano a pagare le imposte, seppur ridotte del 50 per cento, su abitazioni a cui non accedono più. «Nell’Italia del 2021 che si riempie la bocca di diritti e democrazia succedono ancora queste cose. Le persone che sono migrate non torneranno perché il tempo è una goccia che cava la pietra e chi è andato via costruirà la propria vita altrove». La gente è fatta di storia, radici, ricordi, cultura, famiglia, tradizione, perdere i piccoli borghi d’Italia significa perdere l’identità.

Tanti sono i migranti spariti senza lasciare traccia dal 2014. Quarantamila fantasmi, in 6 anni inghiottiti dall’egoismo. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 2 Settembre 2021. A immaginarseli.  Contarli. Uno dopo l’altro. Volti.  Bambini. Neonati. Adolescenti. 40.000. Donne, uomini. Anime perse. Corpi  scomposti.  Speranze accostatesi lungo le frontiere: stretti di terra, miglia d’acqua; distese d’arroganza, scrigni d’egoismo impossibili da conquistare.  Sono in quarantamila i migranti scomparsi senza traccia dal 2014, secondo Missing Migrants, un progetto diretto dalla OIM, l’organizzazione internazionale migranti. La maggior parte sono spariti lungo il confine fra Messico e Stati Uniti. A seguire, i fantasmi più numerosi, si sono registrati nelle rotte Mediterranee. L’Europa e l’America, il sogno più grande per chi scappa; il rischio più alto di finire in un buco nero. Morire per sempre senza mai diventare il segno di un dolore, il bersaglio di una lacrima, il volto sorridente di una foto che sta lì a  dire che per tutti c’è stato un istante di gioia. Nel gergo della mafia, le sparizioni si chiamano lupare bianche, alla morte si aggiunge il supplizio della sottrazione dei corpi. E l’Occidente, rispetto alle disperazioni in fuga, agisce spesso con logiche mafiose, concede chance solo attraverso viaggi della morte, non dà altre scelte: per aprire le proprie porte si deve essere disposti a morire. I più sfortunati debbono mettere in conto di finire sott’acqua senza risalire, di finire sottoterra senza essere più ritrovati. Vanno via così, al ritmo di 6000 per ogni anno, separati sul corso di diverse frontiere, abbracciati sul corso della morte, fra estranei per avere meno dolore nella scomparsa eterna. Nemmeno una moneta da dare a un qualunque traghettatore pietoso, che lasci tracce del passaggio, che anche in forma anonima invii un messaggio, indichi un posto. 40000 e passa, di volti senza segni. Ogni sette anni troveranno posto su un articolo di giornale, o, nelle ballate di un cantore ispirato. Poi, mano nella mano torneranno ai loro luoghi sconosciuti.

Gioacchino Criaco. E' uno scrittore italiano, autore di Anime nere libro da cui è stato tratto l'omonimo film.

Patrizio J. Macci per affaritaliani.it - 19 maggio 2021. Il video è su una pagina celebrativa della Prima repubblica, quindi ascrivibile ai primi Anni novanta. Andreotti è in forma smagliante, determinato e deciso; usa un esempio colto come quello del libro di Dino Buzzati per dare una forma palpabile alla platea dei presenti della marea di possibili immigrati che negli anni a venire sarebbero potuti arrivare se non si fossero incentivati gli aiuti nei loro territori, parla di industria, turismo e agricoltura da incentivare immediatamente per scongiurare un dramma simile. Tutte le altre proposte o critiche (“devono aiutarsi tra di loro” -i Paesi del continente africano- “perché abbiamo tanti problemi noi in Italia”) “sono materiale buono per scrivere libri”, conclude Andreotti. E’ un’analisi concreta la sua, certo la situazione geopolitica era profondamente diversa. Le uova erano ancora tutte nel paniere (la Primavera Araba neanche immaginabile) e i conflitti tra stati nazionali africani limitati. Eppure Andreotti antevedeva, o forse aveva capito che sarebbe stato impossibile mantenere un equilibrio simile per sempre. E l’Italia sarebbe stato il primo Paese investito dallo tsumami migratorio. Alcuni commentano il suo intervento a pie’ di pagina sostenendo quanto una simile previsione fosse relativamente semplice da pronunciare, ma sfido chiunque a registrare una testimonianza simile consegnata a un video, quindi scolpita e autografata nella pietra, a sotterrarla nell’ipotalamo di miglia di ore di comizi, interventi in sedi istituzionali, meeting e a rispolverare il contenuto tra venti trent’anni. Forse Andreotti aveva dati e analisi che mancavano ai più, ma -visto come è andata a finire- nessuno ha ascoltato le sue parole. Il tempo c’era tutto per porre rimedio a quello che stava per accadere. Poco o nulla di quanto consiglia nel suo intervento è stato fatto. Forse non sarebbe bastato, ma in parecchi casi nemmeno si è cominciato. Andreotti, come il Tenente Drogo raccontato nel romanzo di Buzzati, era certo che i Tartari sarebbero arrivati dal confine. Sarebbe bastato ascoltare Andreotti o leggere Buzzati. Al momento politici come Andreotti “scarseggiano” e il romanzo è divenuta una tragica e dolorosa realtà. A questo punto ci si accontenterebbe anche solo di politici che abbiano almeno letto Buzzati.

Dal primo sbarco del 1992 ad oggi: storia dell’immigrazione in Italia. Mauro Indelicato, Sofia Dinolfo su Inside Over il 25 giugno 2021. Con gli sbarchi tra il 1991 e il 1992 è iniziata la oramai trentennale storia dell’immigrazione verso l’Italia: da allora sono stati diversi gli eventi di cronaca e gli sconvolgimenti politici che hanno caratterizzato l’approccio a un fenomeno tanto complesso quanto difficile da interpretare.

Ottobre 1992: il primo sbarco di migranti a Lampedusa. Era l’ottobre del 1992 quando Lampedusa si è confrontata per la prima volta con il fenomeno degli sbarchi. In quell’occasione sull’isola maggiore delle Pelagie sono approdati 71 stranieri che si sono dichiarati tunisini. In realtà, la loro cittadinanza è rimasta per sempre ignota. Quando da Palermo è arrivato il console di Tunisi, nessuno ha realmente dimostrato di provenire dal Paese nordafricano a noi dirimpettaio. L’evento ha colto tutti impreparati, autorità politiche comprese. Il signor Andrea, cittadino lampedusano, oggi ha 60 anni e ha raccontato su InsideOver quegli attimi: “Ricordo ancora quando si è diffusa la notizia – ci dice – mi trovavo a fare la spesa e vedevo i miei concittadini agitarsi nel raccontare che era accaduto qualcosa di strano. Era arrivata gente scesa da un barcone, un evento allora impensabile. Momenti di confusione che nei primi attimi mi hanno disorientato”. “Poi – prosegue il signor Andrea – ho capito cos’era successo e ho fatto la mia parte. Ho comprato alcune bottiglie di acqua e le ho consegnate a chi si occupava della raccolta. Non sono andato al porto ma ricordo che quello è stato per tutti un giorno carico di tensione e, nei giorni a seguire, il nostro pensiero era rivolto a come aiutare quelle persone”. I migranti sull’isola sono infatti rimasti per circa un mese. Ospitati dentro la caserma dei carabinieri, a provvedere al loro sostentamento sono state la parrocchia e la popolazione: “Non esisteva – racconta un poliziotto all’epoca in servizio a Lampedusa – un ufficio preposto alla gestione dell’accoglienza, era una novità per tutti, nessuno era pronto”. I migranti hanno lasciato l’Isola grazie ai biglietti della nave per Porto Empedocle acquistati con una colletta tra i lampedusani.

Gli sbarchi dall’Albania. Quello dei 71 migranti è stato per Lampedusa il primo sbarco, ma c’era chi, già nel 1991, in un’altra parte d’Italia, si era confrontato con il primo evento di questo tipo. L’8 agosto di quell’anno, a bordo della nave Vlora, sono approdati a Bari più di 20mila migranti. Partita da Durazzo, l’imbarcazione ha raggiunto il porto del capoluogo pugliese e, da allora, il fenomeno migratorio della rotta adriatica è diventato una costante per tutti gli anni ’90. Quello della Vlora è considerato il più grande sbarco di migranti a bordo di una sola nave. Attaccati gli uni agli altri, senza spazio e senza respiro, in molti, arrivati vicino al porto, hanno iniziato a tuffarsi in mare. Chi era lì racconta di immagini forti come in un film. Quando gli stranieri sono stati fatti scendere dall’imbarcazione, sul molo si è creato un tappeto umano. Gli albanesi sono rimasti nella zona portuale per alcuni giorni, poi sono stati trasferiti allo stadio. Per loro i baresi avevano raccolto vestiti e scarpe. Dopo il trasferimento in altre città italiane, per la maggior parte è stato disposto il rimpatrio.

25 aprile 1996: il primo naufragio documentato. La prima tragedia in mare di cui si ha documentazione risale al 25 aprile del 1996. Teatro del naufragio sono state le coste di Lampedusa. In questa occasione, 21 tunisini a bordo di una barca a motore sono annegati a causa delle avverse condizioni meteorologiche nei pressi dell’isola dei Conigli. L’imbarcazione, lunga 12 metri, era partita da Sfax. Dopo quasi 12 ore di navigazione era arrivata lungo il canale di Sicilia trovando il mare in tempesta. In prossimità di Lampedusa, a 500 metri dalle coste, i migranti, per non farsi notare, hanno deciso di affondare il mezzo. Le onde però hanno travolto anche loro. Solo in quattro, a nuoto, sono riusciti a raggiungere la costa ed essere salvati. Questo naufragio non è stato l’unico di quell’anno. Alcuni mesi dopo, ovvero la notte del 25 dicembre, si è consumata la “tragedia di Natale” con la morte di circa 300 migranti tra pakistani, indiani e cingalesi Tamil. Gli stranieri erano a bordo di un mercantile in sosta tra Malta e la Sicilia in attesa di un’imbarcazione sulla quale sarebbero stati trasferiti per raggiungere Siracusa. Ma le acque agitate hanno provocato un grave incidente: durante il trasbordo, la nave madre ha speronato il barcone facendolo affondare nel giro di poco tempo con circa 300 persone a bordo.

La crisi del 1997 e la legge Turco-Napolitano. Le vicende relative all’immigrazione clandestina erano entrate oramai nel dibattito politico. Era arrivato il momento di contrastare il fenomeno tramite nuove leggi. La spinta verso una normativa specifica si è avuta soprattutto a seguito degli effetti della crisi in Albania del 1997. Già all’inizio degli anni ’90 il crollo del comunismo aveva portato a uno choc economico nel Paese. Negli anni successivi, la situazione è divenuta insostenibile e, proprio nel 1997,  migliaia di albanesi sono partiti verso l’Italia facendo registrare un fenomeno migratorio senza precedenti. La Puglia si è ritrovata assediata dai continui sbarchi. Una situazione che ha destato allarme: dopo il blocco navale voluto dal governo Prodi I, con la legge 6 marzo 1998, nota come legge Turco-Napolitano dai nomi del ministro alla Solidarietà Sociale Livia Turco e dell’allora ministro dell’Interno Giorgio Napolitano, è stata introdotta una legislazione per il superamento della fase di emergenza. L’intento è stato quello di restringere i flussi migratori consentendo di rimanere sul territorio italiano solo ai regolari. Per gli irregolari, è stato introdotto il centro di permanenza temporanea in attesa del loro rimpatrio.

Legge Bossi-Fini. Negli anni a seguire gli sbarchi hanno continuato ad essere una costante. Quelli dall’Albania verso la Puglia e quelli dall’Africa verso le coste siciliane. Non più eventi occasionali ma episodi con cadenza periodica al punto da rendere necessario un intervento legislativo che disciplinasse il fenomeno dell’immigrazione in modo più incisivo. La risposta è arrivata con la legge n. 189 del 30 luglio 2002, nota come legge Bossi-Fini dal nome dei primi firmatari Gianfranco Fini (vicepresidente del consiglio dei ministri nel governo Berlusconi) e Umberto Bossi (ministro per le Riforme Istituzionali e la Devoluzione). Entrata in vigore il 10 settembre di quello stesso anno, la legge disciplinava, tra le altre cose, le espulsioni con accompagnamento alla frontiera e l’inasprimento delle pene per i trafficanti di esseri umani. Pochi giorni dopo l’entrata in vigore della legge Bossi-Fini, l’attenzione dell’opinione pubblica è stata dirottata verso l’ennesima strage del mare. A mezzo miglio da Capo Rossello, in provincia di Agrigento, si è rovesciato un barcone con a bordo migranti liberiani. Circa una ventina i morti e 90 i superstiti. In quell’occasione i due scafisti sono stati individuati ed arrestati. Quella del 2002 è stata probabilmente la prima estate veramente calda sul fronte migratorio.

Giugno 2004: l’incidente della Cap Anamur. Il 20 giugno del 2004 si è avuta un’anticipazione del futuro braccio di ferro tra Ong e governo. Una nave dell’organizzazione tedesca Cap Anamur, nota in passato per le missioni di salvataggio di profughi vietnamiti in mare, ha soccorso tra la Libia e Lampedusa 37 migranti subsahariani. La nave aveva riparato il motore a Malta e, durante un giro di prova, si è imbattuta in questa missione. Dopo 21 giorni di attesa in mare, il natante ha ottenuto il permesso di attraccare nel porto di Porto Empedocle. Il governo italiano ne ha consentito l’ingresso dopo giorni di braccio di ferro nei quali contestava alla Cap Anamur di dover attraccare a Malta, dal momento che era entrata nelle acque di sua competenza. Per quanto concerne l’accoglienza dei migranti, l’Italia delegava la responsabilità alla Germania, visto che la nave era battente bandiera tedesca. Quando la nave è entrata a Porto Empedocle il presidente dell’associazione umanitaria Elias Bierdel, il comandante Vladimir Dachkevitce e il primo ufficiale della nave Stefan Schmdt sono stati arrestati in flagranza di reato con l’accusa di “favoreggiamento aggravato dell’immigrazione clandestina”. I 37 migranti sono stati invece rimpatriati fra il Ghana e la Nigeria.

L’immagine di Lampedusa come porta del Mediterraneo. Nel 2008, nel corso di una cerimonia tenuta a Lampedusa, è stata inaugurata una scultura destinata a diventare emblema del fenomeno migratorio nel Mediterraneo. Si tratta della cosiddetta “Porta d’Europa”, opera dell’artista Mimmo Paladino situata in quello che da molti è oramai considerato come il primo lembo del Vecchio Continente dopo il territorio africano. Al di là della simbologia applicata alla scultura, la sua apposizione ha testimoniato ancora una volta il clamore mediatico e sociale raggiunto dall’immigrazione. Per frenare i flussi di barconi e gommoni il governo italiano, retto all’epoca da Berlusconi, ha siglato con la Libia il cosiddetto “trattato di amicizia”. L’accordo è stato stretto con l’allora rais libico Muammar Gheddafi: in cambio degli investimenti economici Roma ha chiesto il controllo delle coste per evitare nuove partenze. Ai libici sono state donate delle motovedette e la locale Guardia Costiera ha iniziato a respingere i migranti: “Per due anni almeno – ha confermato un residente di Lampedusa – di sbarchi ne abbiamo contati molto pochi, sembrava la fine di un lungo periodo”. Nel giugno del 2009 sono avvenuti anche dei respingimenti ad opera delle autorità italiane, giudicati però irregolari negli anni successivi. La porta del Mediterraneo ad ogni modo in quel momento è apparsa di colpo chiusa.

La crisi del 2011. La situazione però era destinata a cambiare. Tutto è partito nel gennaio 2011, quando in Tunisia le manifestazioni popolari hanno rovesciato il governo di Ben Alì. Crollato lo Stato, nessuno controllava più le coste. Un via libera generale che ha fatto riversare in mare migliaia di barconi. Nei mesi successivi a crollare è stata anche l’era di Muammar Gheddafi: il contagio delle cosiddette primavere arabe, quando è arrivato in Libia, ha coinciso con un drammatico aumento degli sbarchi. E del resto lo stesso rais lo aveva in qualche modo previsto: “Senza di me, milioni di africani andranno in Europa”, ha dichiarato in uno dei suoi ultimi discorsi prima dell’intervento della Nato.

La “pax” degli anni precedenti è durata poco. La tensione sociale derivante dalla massiccia ondata di migranti è esplosa in tutta la sua violenza ancora una volta a Lampedusa nel settembre di quell’anno. Quando è entrato in vigore un accordo tra Roma e Tunisi per il rimpatrio immediato dei tunisini, centinaia di loro hanno inscenato proteste sull’isola. Il centro di accoglienza è stato dato alle fiamme, per le vie del centro la Polizia, in tenuta antisommossa, ha dovuto caricare gruppi di migranti che minacciavano di far esplodere delle bombole del gas rubate da alcuni ristoranti. Gli isolani hanno reagito scendendo in piazza e chiedendo l’immediato trasferimento di chi era approdato. A vent’anni dal primo sbarco, le conseguenze sociali dell’immigrazione incontrollata si sono svelate sotto gli occhi di tutti.

La strage del 3 ottobre 2013. Il fenomeno migratorio è andato avanti a ritmi sostenuti anche dopo le primavere arabe. Ad alimentarlo, tra le altre cose, l’instabilità di una Libia piombata nell’anarchia dopo la fine di Gheddafi. Ad accendere ancora una volta i riflettori sui flussi è il naufragio del 3 ottobre 2013, rimasto nella storia per il suo importante clamore mediatico e per essere avvenuto a pochi mesi dalla storica visita di Papa Francesco a Lampedusa. Teatro della tragedia, sempre le acque antistanti l’isola più grande delle Pelagie. Un momento di tensione tra i migranti generato da un principio di incendio a bordo di un barcone, ha provocato il ribaltamento del mezzo. Più di 300 persone sono annegate, pochi i superstiti. Una tragedia che ha avuto come conseguenza politica l’avvio, decretato dall’allora governo di Enrico Letta, dell’operazione “Mare Nostrum” per il pattugliamento delle coste.

Gli anni record del 2016 e del 2017. La falla libica ha avviato un flusso senza precedenti negli anni successivi alla strage del 3 ottobre. L’apice è stato toccato nel biennio 2016-2017: in questi 24 mesi, in Italia, sono arrivati circa 300.746 migranti, molti dei quali sbarcati tra Lampedusa e la Sicilia. Particolare rilevanza ha avuto, soprattutto nel 2017, il fenomeno degli sbarchi fantasma. Approdi cioè effettuati con piccoli barchini provenienti dalla Tunisia o dall’Algeria e in cui i migranti, subito dopo il loro arrivo, facevano perdere le tracce. “Non passava giorno che qui in provincia di Agrigento – ha ricordato Claudio Lombardo, presidente di MareAmico Agrigento – nell’estate del 2017 non si annotavano sbarchi fantasma, di migliaia di migranti si sono perse le tracce”. Un fenomeno che ha destato preoccupazioni anche sul fronte terrorismo, con il procuratore della città dei templi, Luigi Patronaggio, che ha parlato di possibili infiltrazioni di jihadisti. L’esodo dall’Africa ha costretto l’allora governo guidato da Paolo Gentiloni a correre ai ripari. Nella primavera del 2017 l’Italia ha stretto un memorandum con la Libia per il controllo delle coste. Gli sbarchi sono progressivamente diminuiti, ma l’emergenza è comunque rimasta.

L’avvento delle Ong. Nel biennio nero dell’immigrazione c’è stata anche la comparsa delle organizzazioni non governative. Per la verità il primo teatro in cui le Ong hanno operato è quello del mar Egeo, durante la crisi della rotta balcanica tra il 2015 e il 2016. Successivamente il raggio d’azione di queste organizzazioni, dotate di navi con equipaggio al seguito, si è spostato nel Mediterraneo centrale. Da Medici Senza Frontiere a Save The Children, passando per Sea Watch, Sos Mediterranée, Open Arms e altre sorte negli anni successivi, le Ong hanno preso a bordo migliaia di migranti spesso poi fatti sbarcare in Italia. Obiettivo dichiarato degli attivisti è sempre stato quello di puntare su una politica europea dell’accoglienza. Un comportamento che ha destato non poco clamore politico. Nel 2017 il governo italiano ha diramato un codice di comportamento per le Ong al fine di evitare l’afflusso massiccio di migranti lungo le nostre coste. Si è aperta così una stagione di scontro tra Roma e le Ong, il cui apice è stato raggiunto nell’estate del 2018 e del 2019, quelle dove a guidare il ministero dell’Interno era Matteo Salvini. In quei due anni sono state emanate norme volte ad evitare l’arrivo di migranti dalle navi degli attivisti. In alcuni casi sono stati ingaggiati dei duelli anche di carattere giudiziario.

Le preoccupazioni di oggi. I numeri del biennio 2016-2017 non sono stati più raggiunti. Nel 2019 i migranti sbarcati in Italia sono stati 11.471, cifre molto basse rispetto alle annate precedenti. Dal 2020 si sta assistendo a una ripresa che preoccupa e non poco, specialmente per le contingenze internazionali: la crisi in Libia non è stata mai risolta e la pandemia da coronavirus sviluppatasi l’anno scorso potrebbe aver dato ulteriore impulso al fenomeno migratorio. A livello politico l’Italia è impegnata nel chiedere maggiore solidarietà e nuove norme in ambito europeo, senza al momento precise risposte. 

Immigrazione: l’agenda italiana per prevenire gli sbarchi. Mauro Indelicato, Sofia Dinolfo su Inside Over il 30 giugno 2021. L’ampiezza raggiunta dal fenomeno migratorio rende sempre più necessario un intervento. Per questo l’Italia dovrebbe pensare ad un’agenda che non sia soltanto economica, volta cioè a semplici investimenti nelle locali economie, ma anche sociale e politica. Ecco dove l’Italia potrebbe intervenire.

Quale agenda per l’Italia. Di recente il tema dell’intervento politico ed economico nei Paesi da cui parte il flusso migratorio è tornato tra le priorità. Nel Consiglio europeo del 25 giugno scorso è passata la linea della cosiddetta “dimensione esterna”. Intervenire cioè esternamente all’Ue per frenare in origine la partenzA dei migranti. Una linea chiesta in primis dall’Italia e che prevede lo stanziamento di somme importanti. Il problema però appare molto più vasto. Pensare di risolvere una questione così delicata con un generico investimento economico potrebbe essere fuorviante. Anche perché, come dichiarato da Paolo Quercia su InsideOver, la questione non è soltanto economica.

Anzi, se da un lato l’immigrazione è spinta dall’arretratezza, dall’altro il numero di migranti è aumentato proprio nel decennio in cui il gap tra Europa ed Africa è diminuito. Serve, in poche parole, un intervento organico al di là del Mediterraneo che non si concentri su singoli temi ma che guardi nella sua interezza la situazione africana. È proprio questa la differenza tra un’operazione spinta da una specifica emergenza e un’agenda a lungo termine. L’Italia deve mirare a un piano politico, economico e sociale in grado di far sentire la sua presenza nel continente dirimpettaio. E, in tal modo, ridimensionare nel medio e lungo termine l’emergenza immigrazione.

Il G5 del Mediterraneo. Intervenire e incidere nella radice del problema non è di certo cosa semplice ma nemmeno impossibile. Proprio per questo motivo una maggiore cooperazione fra i Paesi che si affacciano nel Mediterraneo e che sono fortemente coinvolti dai flussi migratori, potrebbe essere il punto di partenza. Non a caso si è iniziato a parlare di “G5 del Mediterraneo”, formato da Italia, Malta, Spagna, Grecia e Cipro.  Ognuno di questi Paesi ha problemi sull’immigrazione. Malta, come l’Italia, si trova spesso coinvolta non solo dall’arrivo dei migranti, ma anche dalle richieste delle Ong di poter sbarcare le persone recuperate a largo della Libia. La Spagna si ritrova invece investita dai flussi migratori che coinvolgono Ceuta e Melilla. Grecia e Cipro si confrontano con le rotte del mediterraneo orientale. L’Italia potrebbe essere capofila di un ristretto gruppo di Paesi in grado di rappresentare gli interessi della sponda europea del Mediterraneo. Sarebbe per Roma un primo importante passo politico. Occorre poi guardare nella sponda opposta del mare nostrum. Un’agenda italiana potrebbe riguardare la Libia, il Sahel, il Corno d’Africa e la Nigeria. Da qui partono buona parte dei migranti diretti poi verso le nostre coste. Non a caso anche nell’ultimo consiglio europeo si è parlato, seppur non nel dettaglio, di piani di investimento economici in grado di arginare le partenze. Maggiori investimenti equivalgono a maggiori opportunità lavorative nei Paesi di partenza, più persone quindi potrebbero avere interesse a lavorare nel proprio territorio senza dover valutare il rischio di affrontare un viaggio nel Mediterraneo. La questione è anche politica: ci sono molti Paesi coinvolti da tensioni e conflitti che hanno l’effetto di generare instabilità economica e provocare quindi le partenze.

Cosa accade in Libia. I movimenti migratori africani che coinvolgono l’Italia hanno, il più delle volte, la Libia come base di partenza. Da qui infatti i trafficanti organizzano i viaggi della speranza a cui prendono parte coloro che provengono dall’Africa subsahariana. Niger, Mali, Sudan, Ciad, Burkina Faso e Mauritania sono le nazioni da cui inizia il viaggio per raggiungere il territorio libico. Un viaggio faticoso, che costa tanto e che mette a dura prova la resistenza fisica dei protagonisti: dura circa 20 mesi e, una volta arrivati in Libia, i tempi di attesa sono dai 5 ai 15 mesi. Poi la fase più importante, ovvero la tappa finale in barca che li porterà in Italia. Il nostro Paese in questo contesto può operare soprattutto a livello politico. Negli anni sulla Libia sono state riversate diverse somme volte a finanziare l’addestramento della locale Guardia Costiera. Ma è chiaro che senza stabilità i trafficanti qui avranno sempre vita facile. Il Paese nordafricano vive in uno stato di anarchia dal 2011, da quando cioè è crollato il regime di Muammar Gheddafi. Da allora i vari governi non hanno mai avuto, specialmente in Tripolitania, un deciso controllo del territorio. Risolvere la matassa libica per Roma è prioritario. E questo non solo per l’immigrazione, ma anche per altri interessi nazionali a partire da quelli energetici ed economici. Riprendere in mano in modo costante il dossier è l’unica strada per l’Italia per uscire dall’impasse.

Le partenze da Sahel e Corno d’Africa. Da questa regione si continua a partire. Povertà e carestie, così come un mai domato passaparola tra i più giovani, spingono migliaia di persone ad andare via. È così che il Niger diviene per molti la porta d’uscita dall’Africa attraverso Agadez. Posta al confine con la Libia, la città rappresenta una tappa obbligata per chi deve attraversare il Mediterraneo. Questo perché il Niger fa parte della Cedeao (o Ecowas, secondo che si utilizzi l’acronimo in francese o in inglese), un’organizzazione che ha sede ad Abuja e che crea, tra i Paesi del Sahel, un’area di libero scambio. Non ci sono né dogane né controlli alla frontiera e questo si traduce in agevolazione per i movimenti migratori di massa. Nella regione l’Italia è ben presente. Dal 2018 è partita una missione militare in Niger volta ad addestrare l’esercito locale per fermare i flussi migratori. Da qualche mese invece è iniziata la missione in Mali, nell’ambito dell’operazione Takuba promossa a livello europeo. Qui la funzione della presenza italiana è più orientata verso le attività di contrasto al terrorismo, ben radicato sul territorio. A prescindere dalla natura delle missioni militari, è chiaro che per l’Italia investire sulla stabilità della zona è prioritario. Non è un caso che nel 2018 è stata aperta un’ambasciata a Niamey e nei prossimi mesi un’altra rappresentanza sarà inaugurata a Bamako. Operare nella regione appare sempre più prioritario. Posto nella fascia orientale del continente, il Corno d’Africa comprende Paesi come Etiopia, Eritrea, Somalia e Gibuti e rappresenta un altro punto focale dei flussi migratori. In queste zone le partenze dei migranti sono spinte soprattutto da motivi politici. Per le persone che partono dall’Eritrea, ad esempio, la ragione principale è legata a un servizio obbligatorio di leva che potrebbe durare anche per più di 30 anni. L’Etiopia invece, dall’inizio del mese di novembre del 2020, è interessata dalla guerra che si combatte nel Tigray. Da qui è in fuga gran parte della popolazione contribuendo ad incrementare i flussi verso il Mediterraneo. L’Italia in questa parte del continente africano potrebbe sfruttare la sua storica influenza derivante dal suo passato coloniale anche se, sia in Eritrea sia in Somalia, il nostro Paese è progressivamente uscito di scena negli ultimi anni. Altri attori hanno iniziato ad avere maggior peso politico ed economico. C’è in particolare la forte pressione delle potenze del golfo, così come della Turchia in Somalia. Per attenuare i flussi migratori dal Corno d’Africa, l’Italia dovrebbe riattivare i suoi storici contatti sul territorio. Occorre però una costanza nell’azione politica che dalla seconda metà degli anni ’90 in poi si è persa. Tornare ad essere influenti qui vorrebbe dire poter investire anche sul fronte economico e dialogare con i governi per l’attenuazione delle partenze.

Le partenze dalla Nigeria. La Nigeria è il Paese più popoloso del continente africano e gran parte dei suoi abitanti sono giovani. Entro il 2050 il Paese potrebbe avere più di mezzo miliardo di abitanti. Ben si comprende quindi la possibile spinta migratoria che da qui potrebbe partire. La Nigeria ha risorse importanti grazie ai suoi giacimenti di petrolio, ma l’economia è caratterizzata da una forte disuguaglianza. C’è poi il fardello del terrorismo islamico in grado di alimentare maggiore instabilità. In tanti ogni anno decidono di andar via e oggi i nigeriani rappresentano la popolazione di origine subsahariana più numerosa in Italia. L’importanza strategica della Nigeria nei flussi migratori impone una seria attenzione politica sul Paese da parte dell’Italia. Nel 2018, l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini aveva avviato dei colloqui con il governo locale, ma la situazione non è cambiata. La Nigeria è sì un Paese instabile, ma non è in guerra. Dunque è possibile stringere degli accordi simili a quelli già in vigore con la Tunisia, soprattutto in tema di rimpatri.

Come l’Italia può intervenire in Africa. In conclusione, si può dire che l’Italia non è assente dal contesto africano. Al tempo stesso però urge istituire un’agenda organica in grado di dare al nostro Paese gli strumenti per interventi più strutturati. Roma non parte da zero: molte imprese operano già in Africa, su molti fronti sono presenti nostri militari, l’Italia in generale è presa in considerazione dagli africani. Ma occorre fare in fretta per estendere una decisa influenza nelle aree più calde. Lo deve fare il nostro Paese, così come l’intera Europa. I margini ci sono, il tempo però sta inesorabilmente stringendo.

·        Quelli che …lo Ius Soli.

Ius soli, che cos’è, come funziona in Italia e nel mondo. L’odissea di un milione di bambini e giovanissimi. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera l'1 dicembre 2021. È il 27 luglio 2019 quando il 13enne Ramy Shehata e il 12 enne Adam El Hamami, entrambi nati in Italia da genitori di origine egiziana, ricevono la cittadinanza italiana come massimo riconoscimento per essere riusciti, su un autobus dirottato e poi dato alle fiamme, ad avvertire il 112 e i genitori senza farsi scoprire. Il loro coraggio è stato determinante nello sventare il piano dell’autista del bus sul quale viaggiavano insieme a compagni e insegnanti della scuola media Vailati di Crema. «Questi giovani hanno reso eminenti servizi al nostro Paese per aver contribuito, con il proprio gesto di alto valore etico e civico, a sventare la tentata strage», sono state le parole pronunciate dal sindaco di Crema, dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, e dal presidente della Repubblica, che il 14 giugno 2019 ha firmato il decreto di cittadinanza italiana per i due ragazzi. Le loro storie, insieme a quelle degli sportivi italiani finiti sotto i riflettori alle scorse Olimpiadi, commuovono per qualche giorno, ma poi il problema resta. Oggi ci sono almeno un milione di ragazzini minorenni nati in Italia, o che frequentano da anni le nostre scuole, ma che non sono cittadini italiani. Continuiamo a definirlo Ius soli, ma è sbagliato. Si chiama così negli Stati Uniti e significa che sei automaticamente cittadino del Paese in cui nasci. Quello di cui si discute in Italia da oltre vent’anni è il «diritto di cittadinanza», e si riferisce all’emigrato che diventa cittadino italiano in base a una serie di requisiti stabiliti dalla legge 91 del 1992, firmata dall’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga e dal premier Giulio Andreotti. Di tutti i cittadini stranieri che acquisiscono la cittadinanza italiana ogni anno (127 mila nel 2019), la metà ha meno di 29 anni (61.508). Il tema aperto è proprio su come possono ottenere oggi la cittadinanza i bambini e i giovanissimi figli di genitori spesso arrivati su un barcone, ai quali è stato riconosciuto uno status provvisorio (come richiedenti asilo, con una protezione sussidiaria o una speciale), e poi hanno ottenuto il permesso di soggiorno grazie ad un lavoro regolare che garantisce un reddito minimo, e da rinnovare di anno in anno.

Bambini e giovani stranieri: come diventano italiani?

Un minorenne può avere la cittadinanza se uno dei genitori con cui vive l’ha ottenuta dopo 10 anni di residenza regolare in Italia e possiede un reddito minimo di 8.263 euro (tecnicamente si chiama «cittadinanza per trasmissione»). Con questa modalità, dal 2015 al 2019, l’hanno presa in 254.420. Invece chi ha il genitore che non ha ancora ottenuto la cittadinanza, anche se è nato in Italia, deve attendere il compimento del diciottesimo anno di età. E per richiederla ha un solo anno di tempo. È la cosiddetta «cittadinanza per elezione», e a trascrivere l’avvenuto acquisto è l’Ufficiale di Stato civile del Comune di residenza. Dal 2015 al 2019 l’hanno presa in 36.303. Il giovane che non è nato in Italia, infine, ed è stato residente in Italia ininterrottamente per dieci anni, può presentare la domanda al ministero dell’Interno quando diventa maggiorenne. Per legge la domanda deve essere accolta o respinta entro 2-3 anni, ma spesso ne passano anche 4. Vuol dire che è difficile ottenere la cittadinanza prima dei 22 anni. Chi, per esempio, è arrivato in Italia a 9 anni, la può chiedere solo dopo 10 anni, cioè a 19, e qui le cose si complicano perché è maggiorenne, e quindi deve presentare domanda di permesso di soggiorno, che può ottenere se ha un reddito da lavoro o va all’università, o i suoi genitori hanno un reddito sufficiente a garantire per lui. In caso contrario diventa un «irregolare». Nei cinque anni di riferimento i giovani stranieri che sono diventati cittadini italiani «per residenza» tra i 19 e i 29 anni sono 62.071.

Cosa ci dicono le storie dei campioni sportivi

Abdelhakim Elliasmine, 22 anni, mezzofondista con 10 titoli nazionali, arrivato in Italia dal Marocco a 7 anni, non è riuscito ad averla compiuti i 18 anni perché al reddito familiare mancavano 300 euro. Gli è stata concessa lo scorso agosto per «alti meriti sportivi» su decreto del presidente della Repubblica. Danielle Madam, in Italia da 17 anni, ossia da quando ne aveva 7, per 5 volte campionessa italiana di lancio del peso, è riuscita a ottenere la cittadinanza italiana solo il 30 aprile 2021, a 24 anni, anche grazie all’intervento del sindaco leghista di Pavia Mario Fabrizio Fracassi. Questo perché è cresciuta in una casa-famiglia, e non riusciva a dimostrare di avere avuto la residenza regolare di 10 anni, anche se ha frequentato regolarmente le scuole. Mentre Eseosa Desalu, detto Fausto, nato a Casalmaggiore (Cremona) nel 1994 da genitori nigeriani, è il velocista vincitore della medaglia d’oro alle Olimpiadi nella staffetta 4×100 metri, emozionando l’Italia intera. Ebbene, è diventato italiano nel 2012 compiuti i 18 anni, e fino ad allora non ha potuto partecipare a gare internazionali. 

I diritti riconosciuti e quelli negati

Senza cittadinanza il giovane straniero ha diritto ad andare a scuola, essere curato dal servizio sanitario nazionale, partecipare a competizioni sportive nazionali, ma non può votare anche se ha compiuto 18 anni, né partecipare a concorsi pubblici e competizioni internazionali come le Olimpiadi, né fare viaggi studio o di lavoro all’estero senza visto. Impedimenti che comportano risvolti psicologici negativi: ti senti diverso dai compagni di scuola, fai fatica ad integrarti, e rischio di comportamenti devianti. 

Cosa fa il resto d’Europa

Non c’è un Paese europeo che faccia aspettare così tanto per dare la cittadinanza ai ragazzi o ragazze con genitori residenti, o arrivati quando erano piccoli. In Gran Bretagna i bambini nati da genitori che hanno la residenza, la cittadinanza viene concessa subito, mentre i nati in Uk la ottengono dopo 5 anni di residenza. I nati in Spagna dopo un anno di residenza nel Paese (gli altri 10 anni); in Francia possono averla a 13 anni (gli altri a 18 con 5 anni di residenza). Dunque, nel resto d’Europa, almeno ai bambini nati nel Paese viene data la possibilità di avere la cittadinanza ben prima di diventare maggiorenni, e per chi proviene da un Paese extracomunitario il tempo d’attesa è più breve. Più simile all’Italia la Germania, che comunque è meno rigida: la cittadinanza tedesca può essere acquisita solo a 18 anni, ma ci sono 5 anni di tempo per richiederla (non uno solo come da noi). E chi non è nato lì può fare domanda sempre a 18 anni, ma dopo 8 anni di residenza stabile, e non dieci come da noi. 

Mezzo milione di bambini e giovani in un limbo

Su come rivedere il diritto alla cittadinanza in Italia si discute da oltre vent’anni. Le proposte di legge presentate in Parlamento nella XVI (2008-2013) e nella XVII legislatura (2013-2018) sono 40. Il 13 ottobre 2015 la Camera approva un testo unificato di 25 proposte di legge: viene riconosciuta automaticamente la cittadinanza italiana al bambino nato in Italia se uno dei due genitori si trova legalmente nel Paese da almeno 5 anni, oppure quando è nato in Italia o è arrivato prima dei 12 anni, ed ha frequentato regolarmente per almeno 5 anni uno o più cicli di studio. Per chi non è arrivato entro i 12 anni, deve risiedere legalmente da almeno sei anni, e avere frequentato nel medesimo territorio regolarmente un ciclo scolastico (Ius culturae). Il provvedimento si è impantanato al Senato finché le Camere si sono sciolte. Risultato: in base a questi requisiti, secondo le stime di Dataroom su dati Istat, su oltre un milione di bambini e ragazzi stranieri che oggi vivono in Italia, almeno la metà potrebbe essere italiano subito, e invece è in un limbo.

Rendergli la vita difficile vuol dire non integrarli e questo ci porta solo svantaggi.

Oggi in Parlamento sono depositate altre tre proposte di legge:

1) quella del Pd ricalca all’incirca quella del 2015 passata alla Camera;

2) Leu lascia le maglie più larghe (cittadinanza dopo un anno per i nati in Italia da genitori con permesso di soggiorno);

3) la proposta di Renata Polverini, Fi, che alle regole attuali aggiunge per i nati in Italia la possibilità di ottenere la cittadinanza con ciclo di studi delle elementari completato, oppure la residenza di tre anni e un esame di cultura e lingua italiana. 

Dopo il fallimento del Ddl Zan contro le discriminazioni sessuali, il segretario del Pd Enrico Letta, uno dei principali fautori dello Ius soli, ha preso atto: «In questo Parlamento la maggioranza purtroppo non c’è». Nel frattempo, continuerà a ricevere la cittadinanza italiana per naturalizzazione chi ha un lontano avo emigrato italiano, anche se in Italia non ha mai vissuto e tantomeno parla la nostra lingua. Chi è nato e cresciuto qui invece no. 

Lorenzo Mottola per “Libero Quotidiano” il 17 agosto 2021. Prima hanno provato a trasformarlo in un simbolo delle battaglie per i diritti dei migranti. Poi lui si è messo a dire che dello Ius soli non gliene potrebbe fregare di meno. Così ora, non riuscendo a usarlo, gli danno del cretino. Parliamo ancora di Khaby Lame, l'influencer diventato nel giro di pochi mesi più famoso della Ferragni, con un patrimonio di 100 milioni di seguaci su Tik Tok e varie decine di milioni su Instagram (per rendersi conto di cosa ciò significhi, citiamo una stima: chi ha più di 5 milioni di fan incassa fino a 60.000 euro ogni volta che decide di pubblicare sui social un qualsiasi intervento, che si tratti di un colpo di genio o di un commento idiota da grigliata di Ferragosto). Ci tocca scusarci per l'utilizzo della brutta parola inglese "influencer", ma in effetti non è semplice descrivere il lavoro di Lame, autore di una serie di video dove - in sintesi - prende in giro altri colleghi in maniera esilarante (provare per credere). Utilizza sempre la stessa espressione, che vedete riprodotta al centro di questa pagina, per sottolineare il suo stupore di fronte alle esagerazioni di chi, pur di attirare l'attenzione degli utenti, s'inventa di tutto. E si tratta sempre di filmati "muti": pochi conoscono la voce del 21enne nato in Senegal e trasferito a Chivasso. Ha sempre evitato la politica, almeno fino alla pubblicazione di un'intervista pochi giorni fa su Sette. Domanda fatidica: "La questione della cittadinanza lo fa arrabbiare?". Risposta abbastanza inaspettata: «No, perché io sono italiano, mi ci sono sempre sentito. Non lo dico solo io. Leggo: "Khaby, l'italiano più seguito al mondo". Allora mi dico: vedi, sono italiano, non mi serve un foglio di carta per saperlo». E l'intervistatore insiste: "Però non avere la cittadinanza toglie diritti". Risposta secca: «Sì, per esempio non posso andare facilmente negli Stati Uniti e ci vorrei andare tanto. Ma solo ora che sono diventato famoso pensano alla mia cittadinanza, prima non importava a nessuno». Come dare torto a Lame? Ci sono partiti, come il Pd, che chiacchierano di Ius soli da una vita ma che si sono sempre fermati, una volta arrivati al potere. Ma d'altra parte il ragazzo spiega che, comunque sia, a lui di queste faccende davvero non gli importa granché: «molti ragazzi mi scrivono sui social e so che questa questione della cittadinanza a loro pesa più che a me. Io sono fortunato». Come dire, spiace, ma sono problemi loro. Risultato: a rilanciare le parole di Lame sui social sono stati soprattutto politici di centrodestra, a partire dal profilo ufficiale della Lega per arrivare a chi parla di una "lezione per Enrico Letta". La seconda in pochi giorni dopo le improprie polemiche sul centometrista Marcell Jacobs, nato da madre italiana e quindi italianissimo. E qui si è aperto il caso nel caso. Khaby, in pratica, è stato accusato di non aver capito nulla e di fare il gioco di chi vorrebbe vederlo "a raccogliere pomodori" come Salvini e la Meloni. Twitter e Facebook sono pieni di accuse al piemontese nato in Africa, anche da parte di altri giovani immigrati che lo attaccano pubblicando la lista delle cose che una persona senza cittadinanza non può fare in Italia ("Anche perché per fare il tiktoker grazie a Dio non ti serve quel documento, ma per viaggiare, per studiare, per lavorare per votare, per contare qualcosa nel nostro paese eccome se serve"). A condividere si trova anche qualche giornalista spesso ospite delle navi delle Ong che fanno la spola tra Libia e Italia. Perché Lame, ci spiegano, "semplicemente non ha capito". Tradotto: se non è d'accordo con loro, dev'essere per forza un fesso. Un fesso da 60mila euro a post.

L'ultima balla sullo ius soli. Andrea Muratore il 12 Agosto 2021 su Il Giornale. Un paper Fmi sembra certificare un rapporto tra ius soli e crescita economica. Ma le cose non stanno così. Recentemente Repubblica, nel pieno del dibattito agostano sullo ius soli aperto dall'impatto mediatico del successo di numerosi atleti azzurri di origine straniera alle Olimpiadi di Tokyo, ha voluto promuovere la causa della legge sulla cittadinanza collegandola direttamente al tema della crescita economica. Secondo il quotidiano progressista, a promuovere la causa dello ius soli come fattore di crescita economica sarebbe il Fondo Monetario Internazionale in una sua pubblicazione. Per essere precisi, più del Fmi come istituzione bisognerebbe sottolineare che a parlare è la testata Finance and Development, che nel suo issue di marzo 2019 ha ospitato un saggio di ricerca scritto dagli economisti Patrick Imam e Kangni Kpodar che mette in diretta correlazione la presenza di leggi sulla cittadinanza basate sullo ius soli e tassi di crescita in diversi Paesi. E che a detta degli economisti avrebbe garantito dal 1970 al 2014 tassi di sviluppo più elevati per i Paesi che hanno superato il tradizionale sistema basato sullo ius sanguinis. Tale considerazione si apre a diverse critiche, in primo luogo metodologiche. In sostanza, l'analisi empirica dei due economisti appare viziata dall'utilizzo di un modello proprio degli studi dei celebri economisti Daron Acemoglu e James A. Robinson, principali esperti a livello mondiale del ruolo delle istituzioni come fattore di sviluppo, in cui la variabile chiave è data proprio dalla presenza o meno di leggi più inclusive sulla cittadinanza. E dato che nel contesto delle nazioni che utilizzano lo ius soli si ritrovano Stati Uniti e Canada così come Niger, Pakistan, Venezuela e Irlanda, ovvero un campione estremamente eterogeneo di Paesi, appare quantomeno fuorviante la scelta di utilizzare il tasso di crescita del Pil pro capite come variabile determinante. Senza addentrarci in specificazioni economiche ed econometriche eccessivamente complesse, sarebbe come proporre un'analisi sulla differenza del tasso di crescita dovuta alla presenza o meno delle unioni civili in un ordinamento o dei contratti di apprendistato nel mercato del lavoro. L'analisi è poi viziata da un presupposto ideologico che indica come associata inevitabilmente all'assenza dello ius soli una minore capacità di integrazione delle minoranze etniche nel mercato interno di un Paese e una sorta di discriminazione economica. Questo può avere un senso parlando di Paesi in via di sviluppo, ma risulta fuorviante quando ci si addentra in contesti dove diritti e rule of law sono consolidati. Terzo punto è quello legato all'aleatorietà del concetto stesso di leggi sulla cittadinanza. Certo, ius soli e ius sanguinis sono categorie chiaramente distinguibili, ma al loro interno ogni storia è a sé. Lo ius soli americano, ad esempio, fu introdotto nel 1868 per garantire la cittadinanza agli schiavi affrancati dopo la guerra civile; Germania, Francia, Regno Unito adottano forme ibride e, anche se formalmente improntato sullo ius sanguinis, il regime italiano di concessione della cittadinanza non può certamente dirsi restrittivo ed esclusivo. Passando dal dato del Pil pro capite a quello del Pil in termini di tasso di crescita, infine, si avrebbero risultati ben più contestabili: l'ascesa di Paesi come Cina e India, la crescita di economie come quelle di Turchia, Vietnam, Etiopia, Nigeria, Kazakistan (per prendere esempi da vari continenti) è avvenuta dagli Anni Novanta in avanti nonostante l'assenza di leggi di ius soli nei loro ordinamenti. E dei Paesi che nel decennio precedente la fine dello studio, quello 2001-2010, hanno conseguito i maggiori tassi di crescita maggiore media del Pil anno dopo anno solo il Mozambico e la Cambogia, ottavi e noni, hanno forme temprate di ius soli. Le altre nazioni (Angola, Cina, Myanmar, Nigeria, Etiopia, Ciad, Ruanda, Kazakistan) adottano regimi di ius sanguinis puro. Tutto questo testimonia il fatto che un approccio ideologico alle statistiche rischia di risultare fazioso e inficiare gli studi. E per i fautori dello ius soli, resta lo smacco di fondo che addurre ragioni economiciste per giustificare una legge di questo tipo può far venire meno ogni pretesa "umanitaria" legata alle loro proposte.

Giovanni Sallusti per "Libero Quotidiano" il 12 agosto 2021. Lo sprint è il contrario dell'ideologia, è esplosione muscolare senza calcoli aggiuntivi, non può concedersi i bluff della retorica, solo verità ed endorfine. Per cui non ci meravigliamo che Marcell Jacobs, ragazzone nato a El Paso e italiano al 101%, come l'adorata mamma con cui è venuto nel Belpaese a una manciata di settimane di vita, abbia metaforicamente bruciato tutto il caravanserraglio immigrazionista filopiddino, a partire dal comandante in capo (si fa per dire) Enrico Letta. Non ci meravigliamo, ma ce ne rallegriamo, non tutti gli sportivi nostrani sono starlette impomatate vogliose di essere issate a vestali del pensiero unico twittarolo, esistono anche uomini di coraggio e di fatica che voglio rimanere tali. È da quando ha riscritto la storia dell'atletica italiana, prendendosi quei 100 metri che sembravano epica tabù, che Marcell Jacobs è assediato da generali, colonnelli e semplici attendenti del progressismo tricolore affinché si dichiari simbolo dello ius soli (che con lui non c'entra un fico, essendo italiano per ius sanguinis, fosse per lo ius soli sarebbe americano, ma per costoro la logica è da sempre al servizio del Partito). Ebbene, ieri ecco la sortita fulminante, lo scatto, i 100 metri filosofici di Marcell Jacobs, tramite conversazione col Foglio: «Lo ius soli? Mah, non lo so, non voglio essere un simbolo, io corro». E già vorresti abbracciarlo, «non voglio essere un simbolo», la sconfessione integrale della fola ideologica dell'impegno sartriano applicato allo sport. «Non mi interessa la politica». Lo dice espressamente, potete appallottolare e scaraventare nel cestino tutte le lenzuolate "inclusiviste" dei giornaloni all'indomani dell'impresa agonistica (che è sempre esclusivista per definizione), potete cancellare i goffi tentativi politicisti del presidente del Coni Giovanni Malagò («non riconoscere lo ius soli sportivo è aberrante») e quelli appena più evoluti del segretario dem («dopo le Olimpiadi la consapevolezza credo sia divenuta più generale. Per questo rivolgo un appello a tutte le forze politiche a trovare una soluzione sullo ius soli»). Né riconoscimenti né appelli, a Marcell interessa solo correre. È talmente consapevole della sua forza in pista, che ha l'onestà di ammettere la sua debolezza altrove. Di fronte allo stimolo ripetuto del cronista del Foglio sulla priorità del Pd (per il Paese ripassare), diventa se possibile ancora più chiaro: «Non mi interessa, non sono preparato. Non voglio essere usato». Non può che rivendicare il principio di competenza, uno che da quando ha dieci anni sputa sangue inseguendo se stesso e la propria ossessione infine realizzata, l'oro olimpico. «Non sono preparato», frase mia sfuggita a quei ministri che hanno collocato la Russia nel Mediterraneo o si sono inventati tunnel sotto le montagne inesistenti. Di più: «Non voglio essere usato». Non sto al vostro gioco, il mio sono 9 secondi e rotti dopo uno sparo, l'anima e le budella lasciate nella mia corsia, la strumentalizzazione volontaria come rito d'iniziazione per essere ammesso nella società dei (finti) Buoni e dei (falsi) Dotti non mi interessa, tenetevela, io mi tengo quei pochi tic d'orologio che valgono l'universo. Che lezione, e non è finita. Non si sente dunque un vessillo da sventolare? «Sono arrivato lunedì sera. Non ho letto nulla su questo argomento. Direi cose per accontentare o scontentare qualcuno. Faccio l'atleta, voglio essere un simbolo per quello che faccio in pista». Che tranvata, per Letta, Lamorgese e tutti i jacobsiani interessati e di risulta, nel linguaggio di un alto sport si parlerebbe di Ko tecnico. Loro a superare il livello di guardia dell'ipocrisia, a costruire il culto profano dello ius soli sull'epopea olimpica e sulla rimozione costante di un dato di fatto, gli sbarchi clandestini completamente fuori controllo che minano la convivenza e la sicurezza degli italiani e degli immigrati regolari. Lui senza sconti a nessuno e neppure a se stesso, a rivendicare il proprio senso in poche decine di metri divorati oltre la fisica comune, e la politica come non-senso, trappola levantina, vuoto a perdere. Quando taglia il traguardo, Letta&Co non sono ancora partiti. 

Marcell Jacobs: “Ius soli? Non mi interessa la politica, non sono preparato, non voglio essere usato”. Asia Angaroni l'11/08/2021 su Notizie.it.  "La politica non mi interessa. Voglio essere un simbolo per quello che faccio in pista". A dirlo è il campione olimpico Marcell Jacobs. È diventato un simbolo per l’Italia intera, che grazie a lui (e molti altri campioni che si sono fatti conoscere a Tokyo 2020) è tornata a sognare. Marcell Jacobs, dopo aver vinto due medaglie d’oro alle ultime Olimpiadi, parla dello ius soli.

Marcell Jacobs parla dello ius soli. In un’intervista al quotidiano Il Foglio, Marcell Jacobs ha dichiarato: “Voglio essere giudicato in pista, non seguo la politica. Lo ius soli? Non mi interessa, non sono preparato, non voglio essere usato”. A riportare l’attenzione sul tema dello ius soli sportivo è stato il presidente del Coni Giovanni Malagò, che in conferenza stampa aveva detto: “La nostra proposta è quella di anticipare l’iter burocratico per lo ius soli sportivo, che oggi è infernale, un girone dantesco. Abbiamo reso felice un Paese. La responsabilità era grande”. Quindi aveva fatto sapere: “Ci sono decine di pratiche che giacciono sui tavoli. È vero che a 18 anni puoi fare quello che vuoi, ma se aspetti il momento per fare la pratica hai perso una persona. A volte ci sono tre anni di gestazione e nel frattempo, se l’atleta non ha potuto vestire la maglia azzurra, o smette o va nel suo Paese di origine o ancora peggio arriva qualche altro Paese che studia la pratica e in un minuto gli dà cittadinanza e soldi”. Nell’intervista rilasciata a Il Foglio Jacobs è stato interpellato sull’argomento, ma lui con un’onestà che gli fa onore ha subito precisato: “Non mi interessa, non sono preparato. Sono ignorante in materia e francamente questa roba mi interessa il giusto. Non ho letto nulla su questo argomento. Direi cose per accontentare o scontentare qualcuno. Faccio l’atleta. Voglio essere un simbolo per quello che faccio in pista”.

Marcell Jacobs, dallo ius soli alle accuse della stampa estera. I più invidiosi (e meno sportivi) sembra non abbiano facilmente accettato la vittoria di Marcell Jacobs, che non affronta l’argomento “ius soli”, ma non tarda a rispondere alle accuse ricevute. Dopo la medaglia d’oro nei 100 metri piani alle Olimpiadi di Tokyo 2020, dalla stampa estera sono arrivate velate accuse nei confronti del campione azzurro nato a El Paso nel 1994, ma tornato sulla sponda bresciana del lago di Garda quando era ancora un bambino, dopo la separazione dei suoi genitori. I media americani parlavano dell’uso di sostanze dopanti e di scarpe in grado di favorire la performance sportiva. Ma Jacobs ribatte: “Io sono contento, sono tranquillo e sereno. La pressione non mi spaventa”.

Marcell Jacobs, dallo ius soli al “no” alle Olimpiadi a Roma. Marcell Jacobs ha commentato anche il “no” di Virginia Raggi all’idea di ospitare nel 2024 le Olimpiadi a Roma. “Un vero peccato. Dopo un’Olimpiade così sarebbe stato il top disputare la prossima a Roma. Mi è dispiaciuto. Tuttavia, siamo carichissimi per Parigi. Ma so, e ho visto, che dietro a questo evento c’è una grande organizzazione”, ha detto l’atleta.

Marco Bonarrigo per corriere.it l'11 agosto 2021. «Aspetto una risposta da due anni, sperando che ogni giorno sia quello buono. Sognavo che l’ok arrivasse prima dei campionati europei di Tallin, ma niente. Dal ministero sempre le stesse parole: ci stiamo lavorando ma è cosa lunga». Abdelhakim Elliasmine ha 22 anni e vive in Italia da quando ne aveva otto. Genitori marocchini, documenti in regola, licenza media, diploma di perito elettronico e un segno particolare: è tra i più forti giovani mezzofondisti continentali grazie al suo 1’46” sugli 800 metri. Per la federazione di atletica, Hakim — che gareggia come «italiano equiparato» — ha vinto 10 titoli tricolori tra pista e cross, sei medaglie d’argento e sette di bronzo. Un curriculum con pochi eguali. Per il ministero degli Interni è e resta un cittadino marocchino. «Non posso gareggiare nelle manifestazioni internazionali — spiega dal ritiro di allenamento di Brunico, che paga di tasca sua — non posso vestire la maglia azzurra e accettare la proposta di arruolamento fattami da un gruppo sportivo militare, che per me sarebbe una svolta decisiva». Per una nazionale che ai Giochi olimpici ha vinto 4 medaglie su 10 grazie a italiani di seconda generazione, una storia emblematica ma comunissima. «Il padre di Hakim — spiega Achille Ventura, combattivo presidente dell’Atletica Bergamo che coltiva mille giovani atleti — ha presentato domanda di cittadinanza quando il figlio ha compiuto 18 anni. Istanza respinta perché dal reddito familiare mancavano 300 euro. Il 19 novembre 2019 il presidente della Fidal Alfio Giomi ha chiesto per lui alla ministra Lamorgese la cittadinanza italiana per alti meriti sportivi ai sensi dell’articolo 9 della legge 91/1992. Soltanto un mese fa, grazie all’interessamento di tre deputati, siamo riusciti ad avere la conferma che la pratica è stata ricevuta. Dall’ufficio del sottosegretario Scalfarotto ci hanno suggerito di presentare anche la domanda di cittadinanza tradizionale e avere pazienza. Mi sono cadute le braccia. Hakim è a un bivio: da una parte lo sport, con un futuro credo luminoso, dall’altra il lavoro. In Lombardia il 30% dei giovani che fanno atletica è nato in Italia ma non ha la cittadinanza. Sono ragazzi e ragazzi forti, senza paura di faticare, affamati di successo: così ce li perdiamo per strada. Da noi naturalizzare chi ha un trisavolo italiano e non parla la nostra lingua è cento volte più facile che un ragazzo nato qui e che si esprime in dialetto bergamasco». Abdellatif, il padre di Hakim, è operaio in una cooperativa: «A mio figlio — spiega — ho sempre detto che avremmo sostenuto il suo sogno e il suo talento con tutte le nostre forze, anche quando il Covid mi ha lasciato senza lavoro. Ora faccio fatica a vedere un futuro». Un futuro che Hakim continua a sognare: «Le vittorie di Tamberi e Jacobs a Tokyo mi hanno emozionato. Resto fiducioso, la cosa che più fa male a me e a chi è nella mia situazione è non avere risposte certe, trovarsi sempre davanti a un muro di silenzio».

Le parole della ministra dell'Interno e l'attacco del leader della Lega. Ius soli, cosa è e perché dopo Tokyo è in atto uno scontro tra Lamorgese e Salvini. Claudia Fusani su Il Riformista il 10 Agosto 2021. Il sasso era stato tirato quando la cerimonia conclusiva delle Olimpiadi era ancora in corso a Tokyo. «Ius soli per gli sportivi, non possiamo più permetterci di perdere tempo prezioso con talenti sportivi che non possiamo nazionalizzare perché non maggiorenni e ancora non aventi diritto alla cittadinanza italiana» ha detto il presidente del Coni Giovanni Malagò a cui prima o poi certe parti politiche dovranno chiedere scusa per il costante boicottaggio che negli ultimi anni è stato fatto in Italia. Ai Giochi, al Comitato Olimpico e allo sport. Annusata la tendenza, il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni ha subito stoppato: «Ius soli? Non se ne parla proprio, non serve». Poi, nel giro di 24 ore il sassolino nello stagno, è diventato un’onda alta e possente. Perché dopo Malagò ha parlato la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese. Poche semplice e dirette parole: «Quello sollevato dal presidente del Coni, Giovanni Malagò è un tema che si pone e di cui dobbiamo ricordarci non solo quando i nostri atleti vincono delle medaglie». Intervistata dal direttore de La Stampa Massimo Giannini, la ministra – che è un tecnico – non ha avuto dubbi: «La politica dovrà fare i suoi riscontri e spero si arrivi presto ad una sintesi politica. È nostro dovere aiutare le seconde generazioni a farle sentire parte integrante della società». Due esempi, per tutti: Eseosa Fostine Desalu, il nigeriano nato a Casalmaggiore il 19 febbraio 1994, il terzo frazionista della 4×100, fino a 18 anni non ha potuto omologare i suoi record nelle bacheche italiane perché non aveva la cittadinanza. Lucio Zurlo, il maestro di pugilato che ha lanciato Irma Testa dalla sua palestra di Torre Annunziata, ha detto di avere un’altra “piccola Irma” nella sua palestra, già quasi pronta per andare alle Olimpiadi a Parigi nel 2024: solo che ha 13 anni, è marocchina e non farà in tempo ad avere la cittadinanza. La lista dei casi è lunga e copre tante discipline sportive. Copre soprattutto i capitoli dei diritti negati per le tante seconde generazioni nate in Italia da genitori stranieri e che aspettano da anni di entrare a pieno titolo nella cittadinanza italiana anche prima dei 18 anni e senza dover sottostare ad iter burocratici assurdi. E disincentivanti. Parliamo di un milione e trentamila giovani stranieri che tra attese e burocrazia rischiano di finire in un limbo frustrante di diritti negati. Da cui possono nascere rabbia e rancore sociale. Fatto sta che lo ius soli, uscito dalla finestra del governo di unità nazionale per i No di Lega e Forza Italia al tentativo del segretario dem Enrico Letta, è tornato in agenda grazie alla forza di Olimpiadi stellari per le medaglie e le prime per il melting pot italiano. E se a Malagò («ho parlato di ius soli sportivo») ha risposto in molto piccato il sottosegretario Molteni («Malagò è stato maldestro»), alla ministra Lamorgese ha risposto a stretto giro Matteo Salvini. «Invece di vaneggiare di ius soli visto che con la legge attuale siamo il paese europeo che negli ultimi anni ha concesso più cittadinanze in assoluto – ha tagliato corto il segretario della Lega – il ministro dell’Interno dovrebbe controllare chi entra illegalmente in Italia. Ci sono decine di migliaia di sbarchi organizzati dagli scafisti senza che il Viminale muova un dito». Lui, Salvini, il dito lo aveva mosso lasciando la gente a bagnomaria sulle navi delle Ong costrette a non avvicinarsi ai porti italiani. Più che una soluzione, una rimozione del problema. Così a settembre il Parlamento rischia di trovarsi nei guai non solo per green pass, giustizia, leggi per il mondo del lavoro e ddl Zan ma anche per la legge sulla cittadinanza. Salvini-Lamorgese, ius soli Sì, ius soli No: e il rassicurante dualismo di sempre è di nuovo servito. Era necessario? Era indispensabile? La vita, la cronaca che ne è la rappresentazione, non fa mai calcoli politici. Le dinamiche anche politiche si mettono in moto per caso. Questa volta il detonatore sono stati i giochi olimpici più medagliati di sempre. Lasciando Tokyo, Malagò – che s’è ben guardato di dire un fiato sulle Olimpiadi “perse” da Roma e nei fatti consegnate a Parigi dal Movimento 5 Stelle – ha spiegato cosa sarebbe necessario adesso: «Sport a scuola e ius soli per gli sportivi». E poi, nel dettaglio: «Se noi aspettiamo che un ragazzo inizi la pratica per diventare italiano a 18 anni abbiano già perso. Lo condanniamo ad un iter burocratico infernale ed è già successo che ci abbiano fregato atleti in attesa». E poi investimenti sulla scuola dove non ci sono palestre, non si fa attività sportiva e molti professori ancora considerano chi la fa come un fastidio per il buon andamento della classe. Tutto questo ci butta in fondo alla classifica europea. Eppure queste Olimpiadi ci hanno issato sul tetto d’Europa. Malagò e Lamorgese, pur avendo ottimi rapporti, non si sono parlati in questi giorni. Dunque, giusto per chiarire, l’appello del Presidente del Coni non era stato concordato con il successivo appello della ministra. Nessun asse tra i due, contrariamente a quello che può pensare chi individua non solo nei 5 Stelle ma anche nella Lega i “nemici” del Coni di Malagò. Molteni è stato tranchant tanto quanto Salvini di cui è la longa manu al Viminale. «Malagò è stato maldestro. Queste medaglie ci confermano che siamo nel giusto. Quella di Desalu è una storia bellissima, la storia di un italiano che ha deciso di diventarlo a 18 anni, ora ha vinto e sono molto orgoglioso di lui. La cittadinanza è uno status non un diritto, deve essere una scelta e non un automatismo». Per Molteni, e per la Lega di governo, la legge del 2016 consente già ai minori stranieri di essere tesserati dalle federazioni sportive italiane. A 18 anni chiedono la cittadinanza e faranno parte della Nazionale. Eppure Molteni sa benissimo che nello sport 18 anni sono troppo tardi per iniziare un iter burocratico complesso come quello della cittadinanza. Per la Lega la legge del 1992 è ancora uno strumento molto utile che «non va modificato. Lo ius soli non passerà mai. E la Lega è la garanzia di ciò». Per Forza Italia, lo dicono il sottosegretario Debora Bergamini e il deputato Luca Squeri, occorre invece rimettere mano a quella legge, rendere l’iter più facile e nel caso parlare di ius culturae, cioè una cittadinanza acquisita dopo aver dimostrato di aver assimilato i principi cardine della cultura italiana. Nicola Fratoianni (Sinistra Italiana), qualche giorno fa, ha rilanciato per primo il tema dello ius soli. Così, lungo un inedito asse Malagò- Lamorgese-Fratoianni, la cittadinanza per i giovani stranieri italiani torna sul tavolo. Nel 2015 la legge ebbe il via libera dalla Camera. Al Senato la maggioranza Pd non ebbe il coraggio di forzare la mano e portarla in aula. Esattamente quello che adesso invece promette di fare con il ddl Zan. Come se non ci fosse mai il tempo giusto per regolarizzare giovani stranieri perfettamente italiani. Al di là della magia delle medaglie olimpiche.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

Vittorio Feltri durissimo contro Luciana Lamorgese: "Così incapace da farmi ridere come una barzelletta". Libero Quotidiano il 10 agosto 2021. Dopo le ultime dichiarazioni sul Green pass e sugli sbarchi non si fa che parlare di lei, la ministra dell'Interno Luciana Lamorgese. Sul fronte della certificazione digitale, infatti, la titolare del Viminale aveva escluso l'obbligo dei controlli da parte dei gestori dei locali, parlando solo di verifiche a campione da parte dei vigili urbani. Le sue parole, però, non sarebbero piaciute a Palazzo Chigi, come riporta il Messaggero in un retroscena. Così sarebbe arrivata la strigliata: "Il decreto varato dal governo prevede controlli e sanzioni e controlli e sanzioni ci saranno". A dire la sua sull'operato dell'ex prefetto di Milano è stato anche il direttore di Libero Vittorio Feltri, che su Twitter ha scritto: "La ministra Lamorgese è talmente incapace che mi fa ridere come una bella barzelletta". Un'opinione in realtà condivisa da molti componenti della maggioranza. Tra questi il ministro della Pa Renato Brunetta, che ha commentato le parole della Lamorgese sul pass così: "Siamo nel mondo dell'incomprensibile". E non è tutto. Perché la ministra sta ricevendo critiche anche sul fronte immigrazione, in primis dal leader della Lega Matteo Salvini. Dopo le dichiarazioni della Lamorgese, che si è detta favorevole alla misura dello Ius soli mentre continuano gli sbarchi sulle coste italiane, il capo del Carroccio l'ha rimproverata dicendo: "Invece di vaneggiare di Ius Soli, il ministro dell’Interno dovrebbe controllare chi entra illegalmente, viste le decine di migliaia di sbarchi organizzati dagli scafisti, senza che il Viminale muova un dito". 

Immigrazione, Pietro Senaldi contro Luciana Lamorgese: "Ministro di matrice giallorossa, non c'entra niente con Draghi". Libero Quotidiano l'11 agosto 2021. Luciana Lamorgese? "Un pesce fuor d'acqua in questo governo". Pietro Senaldi, ospite a L'Aria Che Tira su La7, non le manda di certo a dire e sul ministro dell'Interno si toglie qualche sassolino dalla scarpa. Complice l'ultima uscita sullo Ius soli sportivo. "La Lamorgese non c'entra nulla, l'esecutivo di Draghi ha dei ministri politici che sono espressione della larga maggioranza che lo sostiene, ha dei tecnici di fiducia del premier e poi ha un paio di ministri che ha ereditato dal governo precedente". Tra questi la Lamorgese appunto, a cui il condirettore di Libero affida "una linea tutta sua". In particolare quando si tratta di immigrazione: "Ha sull'immigrazione un parere tutto suo che non ha nulla da vedere con quello di Draghi, è di matrice giallorossa e di fatto non sta facendo nulla". Non è un caso per Senaldi che il ministro vanti "un gradimento inferiore a quello di Alfano", così come dimostrato da AnalisiPolitica (qui il sondaggio). Proprio nella giornata del ritorno in patria dei campioni di Tokyo 2020 la Lamorgese si era lasciata andare a una proposta tutta sua, seguendo la scia del Pd di Enrico Letta. "È un tema che si pone - aveva detto sulla cittadinanza italiana sportiva - e di cui dobbiamo ricordarci non solo quando i nostri atleti vincono delle medaglie". E ancora: "Dobbiamo aiutare le seconde generazioni a sentirsi parte integrante della società". Parole che avevamo acceso l'ira del suo predecessore, Matteo Salvini: "Invece di vaneggiare di Ius Soli, il ministro dell'Interno dovrebbe controllare chi entra illegalmente in Italia". E pare essere dello stesso parere il presidente del Consiglio, che più volte ha battuto i pugni sul tavolo dell'Europa nel vano tentativo di chiedere più collaborazione. 

Luciana Lamorgese, perché è il "punto debole di Mario Draghi": sbarchi e Green Pass, il caos è totale.  Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 10 agosto 2021. Il ministro dell'Interno è alle prese con due problemi, il ritorno in grande stile dell'immigrazione clandestina e l'entrata in vigore del passaporto verde. Il primo è legato alla ripresa degli sbarchi di profughi sulle coste siciliane, che non si riescono ad arginare; il secondo è dovuto alla difficoltà di controllare che chi entra nei luoghi dove è richiesto il green pass ne abbia uno regolare green pass e non ne mostri uno taroccato o quello di un altro. Per entrambe le questioni la titolare del Viminale ha la risposta sbagliata, una soluzione che, anziché risolvere l'emergenza, la amplifica. Quanto agli sbarchi, Lamorgese ha dichiarato che «sono autonomi, e pertanto non possiamo fermarli»; d'altronde, spiega illuminante la signora, «il contrasto all'immigrazione via mare è molto diverso da quello via terra». La ministra esibisce grande flemma, dovuta al fatto che, a differenza del suo predecessore, Salvini, non ritiene che gli sbarchi siano un'emergenza: «Lo sarebbe» argomenta, «se i migranti rimanessero tutti in Sicilia, ma siccome dopo la quarantena vengono distribuiti sull'intero territorio», non c'è nessun allarme. Ecco finalmente spiegato perché il ministero non muove un dito contro gli scafisti: ritiene che i profughi non siano una questione prioritaria e comunque, non sapendo come fermarli, alza le braccia e si volta dall'altra parte.

STILE BOLDRINI. Anche il problema della cittadinanza, per l'inquilina del Viminale, è di facile soluzione. Basta riconoscerla a chiunque, attraverso l'introduzione dello ius soli, per rendere italiani i figli degli stranieri fin dalla nascita e non dopo il compimento del ciclo di studi, come è oggi, perché il «tema non può porsi solo quando un atleta di origine straniera vince una medaglia». Insomma, quando c'è un guaio che non sa sbrogliare, la ministra, in stile Boldrini, la battezza risorsa e la rogna è risolta. Quanto al green pass, Lamorgese, con una frase lo rende al contempo inefficace e aggirabile, disinnescando in un attimo le argomentazioni di chi accusa il documento di essere liberticida perché esclude l'accesso a ristoranti, palestre e stadi a chi non si è vaccinato. «È importante rispettare le regole, sono fiduciosa», premette prima di far sapere che «non si può pensare che sia la polizia a fare i controlli sul passaporto verde, perché significherebbe distogliere gli agenti dal loro compito prioritario, che è garantire la sicurezza». Se proprio vogliono, siano i vigili a occuparsene, anche perché i gestori dei locali «possono chiedere il green pass, ma non il documento di identità», visto che non sono pubblici ufficiali. Insomma, qualsiasi ragazzo può andare al pub con il passaporto verde del nonno e, se poi arrivano i vigili e lo scoprono, la multa la pagherà anche chi, non potendo farlo, non lo ha controllato. Affermazione inquietante, tanto che si incarica perfino il Viminale di smentire la sua titolare, facendo sapere che «le forze di polizia sono pienamente impegnate per garantire il rispetto delle regole e le verifiche del caso sul green pass». 

TROPPI ERRORI. Queste perle di saggezza la ministra le ha dispensate a Torino, dove era in visita per presiedere la riunione sul comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza. A chi le faceva notare che nel territorio sono aumentate le truffe informatiche, la signora ha replicato che non c'è nulla di cui stupirsi visto che «il periodo di particolari costrizioni e limitazioni che tutti hanno vissuto ha aumentato l'uso del computer», e quindi i reati a esso annessi. Elementare Watson. Quanto alla caccia ai colpevoli, Lamorgese è un poliziotto, e infatti più di Sherlock Holmes ricorda il comico e impacciato commissario Lestrade. Quando ha fatto il governo dei migliori, Draghi ha potuto scegliere la propria squadra economica, non poteva non sostituire il Guardasigilli Bonafede, mentore, pretoriano e braccio armato dell'ex premier Conte, e poi ha dovuto, ha ritenuto, o è stato indotto a confermare alcuni ministri giallorossi, come Speranza e Lamorgese. Entrambi sembrano non aver capito che a Palazzo Chigi e nella maggioranza è cambiato qualcosa e vanno avanti seguendo il copione di un anno fa. Proprio per questo, sono i punti deboli dell'esecutivo. La titolare del Viminale è nel pallone. Se rinunciare al tentativo di fermare l'arrivo dei clandestini può essere spacciata per una scelta politica, che presa da un tecnico comunque stona, alzare bandiera bianca al terzo giorno di green pass legittima i cittadini che la subiscono e i partiti che la sorreggono a chiedersi cosa ci faccia la signora dove sta ora e come intende l'adempimento del suo ministero. 

Francesco Olivo per “La Stampa” il 9 agosto 2021. Le Olimpiadi più vincenti, sono anche quelle più multietniche. L'Italia cambia più velocemente delle sue leggi. Le proposte di riforma delle norme sulla cittadinanza sono molte, ma tutte hanno subito lo stesso destino: arenate in parlamento. E niente lascia intendere che le cose cambieranno nel corso di questa legislatura. E, forte delle quaranta medaglie ottenute a Tokyo, il presidente del Coni Giovanni Malagò rimette al centro del dibattito il tema dello Ius soli per gli sportivi. Una legge del 2016 consente ai minori stranieri di essere tesserati dalle federazioni sportive, ma senza passaporto non si può andare in Nazionale (il Cio, tra l'altro, non lo accetterebbe). Così occorre aspettare i 18 anni per cominciare l'iter della cittadinanza, che dura per lo meno due anni, con tutti le lungaggini che la burocrazia provoca. «Ma se tu aspetti i 18 anni per fare la pratica rischi di perdere la persona — dice Malagò — allora farò una proposta: anticipare l'iter burocratico che è infernale. Altrimenti il rischio è che o l'atleta smette, o si tessera con il Paese di origine o arrivano altri Paesi che studiano la pratica e lo tesserano loro». Malagò, come è ovvio, parla per gli sportivi, ma il tema si estende a tutti gli altri minorenni nati in Italia da genitori stranieri. La politica si scalda, Matteo Salvini ha messo le mani avanti: «La Lega è la garanzia che robe strane, come lo Ius soli, non verranno approvate, perché la cittadinanza non è un biglietto premi al luna park. La cittadinanza va conquistata, scelta e meritata». Il segretario del Pd Enrico Letta, sin dai primi giorni della sua segreteria aveva imposto il tema. Rilanciato poi dalle Olimpiadi: «Ognuna delle storie di questi atleti racconta di com'è l'Italia — dice il deputato Pd Filippo Sensi— basta andare in una scuola elementare o prendere un autobus per accorgersene». Le proposte di legge per riformare la cittadinanza sono ferme in commissione Affari costituzionali, nessuna in realtà prevedeva uno Ius soli automatico, la concessione del passaporto viene legata al percorso di studio (Ius soli temperato o Ius culturae). Le audizioni sono andate avanti, ma in pochi credono che in questa legislatura si possa portare in aula il provvedimento. «Sono realista, non sarà facile — ammette Matteo Mauri del Pd, sottosegretario all'Interno del governo Conte 2 —. Il cambio di governo ha relegato nel cassetto la proposta. Faccio un appello ai partiti, dobbiamo approvare una riforma delle leggi sulla cittadinanza, anche con delle modifiche rispetto alla propo-sta di legge in commissione. Devono essere le forze della vecchia maggioranza a portare avanti questo provvedimento». Per Mauri «le leggi non possono essere più indietro della società, disegnare un percorso di integrazione è un vantaggio per tutti, negare quel pezzo di carta a ragazzi che di fatto sono italiani vuol dire allontanarli e questo va ben oltre le Olimpiadi». Una delle più attive su questo tema in Parlamento è Renata Polverini, deputata di Forza Italia, che ha ripresentato la proposta di "Ius culturae", arrivata vicino all'approvazione nella scorsa legislatura, «il percorso della cittadinanza va cominciato alla fine delle scuole elementari non a 18 anni. Io spero che Draghi, visto che ha questi poteri magici di mediatore, trovi il modo di convincere la Lega».

Ius soli sportivo, cos’è e perchè Malagò lo ha chiesto dopo l’oro di Jacobs a Tokyo 2020. Felice Emmanuele e Paolo De Chiara il 02/08/2021 su Notizie.it. Malagò vuole rivedere la legge sullo "ius soli sportivo", in vigore in Italia dal 2016. Arriva la replica di Matteo Salvini. La vittoria olimpica di Marcell Jacobs avvenuta ieri, 01/08/2021, ha riacceso il dibattito su un tema che spesso ha spaccato in due l’opinione pubblica: lo “ius soli“, in questo caso lo “ius soli sportivo“. A riproporre questo tema il Presidente del Coni Giovanni Malagò, che dopo l’oro olimpico di Jacobs, nato negli Stati Uniti da padre americano e madre italiana, ha affermato a caldo: “Non riconoscere lo ius soli sportivo è folle”. Ma cosa significherebbe adottare questo “ius soli sportivo”? Adottare lo “ius soli sportivo” permetterebbe di far accedere alle competizioni sportive per le squadre italiane i cittadini stranieri minorenni che non hanno ancora lo status di cittadini italiani. In Italia è già stato adottato dal 2016 lo “ius soli sportivo”, ma in maniera molto limitata. La proposta di Malagò è quella di eliminare delle restrizioni alla legge, in quanto le vittorie degli atleti che rappresenterebbero l’Italia sono motivo d’orgoglio per la nostra Nazione e per evitare il traffico illecito di giovani calciatori. In Italia, come accennato in precedenza, la legge sullo “ius soli sportivo” è entrata in vigore nel 2016 per favorire l’integrazione sociale attraverso lo sport. Tale legge prevede che tutti gli immigrati, sprovvisti di cittadinanza italiana e con un’età massima di 17 anni, possano essere tesserati da un club italiano e partecipare regolarmente alle competizioni. Vi è però un requisito minimo per poter usufruire di questa legge, ossia essere residenti in Italia almeno dal compimento del decimo anno d’età. Ciò che limita questa legge è il fatto di non poter essere convocati alle selezioni nazionali, quindi non competere con la casacca azzurra fino all’ottenimento dello status di cittadino italiano, che si può richiedere una volta raggiunta la maggior età: 18 anni. Non poteva mancare la risposta del leader della Lega, Matteo Salvini, che con gli altri partiti del centro-destra si è da sempre opposto all’adozione dello “ius soli”. Matteo Salvini ha replicato a Malagò dicendo: “Oggi sono strafelice delle medaglie, ma con lo ius soli non c’entra nulla. Non c’è nulla da cambiare. La legge va bene così com’è. Spero che ne vinciamo sempre di più ma con lo ius soli non c’entra un fico secco”. Salvini ha fatto intendere, con le sue parole, che non ha voglia di riaprire un dibattito che dopo il 2015 è quasi finito nel dimenticatoio.

Tokyo 2020, la fucilata di Maria Giovanna Maglie: "Di cosa stiamo parlando? Ecco chi è Marcell Jacobs". Ius soli, Malagò ko. Libero Quotidiano il 02 agosto 2021. “Noi vogliamo occuparci di sport e non riconoscere lo ius soli sportivo è qualcosa di aberrante, folle. Oggi va concretizzato: a 18 anni e un minuto chi ha quei requisiti deve avere la cittadinanza italiana”. Così Giovanni Malagò ha colto al balzo la storica medaglia d’oro vinta da Marcell Jacobs nei 100 metri alle olimpiadi di Tokyo 2020. Per la prima volta l’uomo più veloce del mondo è italiano: in realtà Jacobs è nato in Texas, negli Stati Uniti, ma è cresciuto a Desenzano sul Garda e italianissimo. Ospite de L’aria che tira su La7, Maria Giovanna Maglie ha commentato le parole del numero uno del Coni: “A me pare straordinariamente superfluo. Lui evoca lo ius soli sportivo per un figlio di un’italiana nato negli Stati Uniti, ma di che stiamo parlando? Se vuoi fare un discorso generale, ti rispondo che a 18 anni puoi ottenere la cittadinanza”. Poi la Maglie ha fatto un esempio di come la burocrazia colpisce tutti indistintamente: “Io ancora non riesco a rinnovare il mio passaporto da italiana”. Una testimonianza piuttosto singolare, quella della Maglie: “Viaggio con un passaporto scaduto con deroga del ministero fino al 30 settembre, quindi il figlio di un’italiana nato negli Stati Uniti sta bene come sta”. Nel frattempo Mario Draghi ha invitato Jacobs e Tamberi a Palazzo Chigi.

Terrore in Germania, armato di coltello uccide 3 persone. Federico Garau il 25 Giugno 2021 su Il Giornale. L'uomo, ferito alla gamba con un colpo di arma da fuoco, è stato tratto in arresto: ancora ignote le cause della furia omicida. Armato di coltello, ha aggredito alcuni passanti nel centro di Würzburg, città extracircondariale della Baviera, in Germania. Protagonista dell'attacco un uomo di colore, che sarebbe stato ferito da un colpo di arma da fuoco prima di finire in manette. Stando alle prime notizie rese di pubblico dominio dalla polizia locale sarebbero stati numerosi i feriti nell'agguato: inizialmente si parlava di almeno due vittime accertate, ma il numero, ancora provvisorio, era destinato a crescere ben presto.

Tre morti e sei feriti. Secondo gli ultimi aggiornamenti sarebbero tre i morti e sei i feriti, un bilancio decisamente pesante, anche se le forze dell'ordine stanno cercando di tranquillizzare la popolazione diffondendo la notizia del fermo dell'omicida. Tramite Twitter, la polizia locale ha fornito un'ulteriore conferma della versione dei fatti, spiegando che un uomo scalzo armato di coltello si è avventato contro alcuni cittadini che si trovavano a passare a Barbarossaplatz, nel centro della città bavarese di Würzburg. Nessuna conferma ufficiale sul numero dei morti e dei feriti da parte delle autorità, ma la Bild continua a parlare di tre vittime e di sei feriti, cinque dei quali versano tuttora in gravi condizioni di salute e si trovano in prognosi riservata. Sui social network hanno iniziato anche a circolare dei video nei quali vengono documentati quegli attimi drammatici, con alcuni passanti, almeno una ventina di persone, che tentano il possibile per arrestare la furia omicida dell'aggressore. Per fermare l'uomo, le forze dell'ordine sono state costrette ad aprire il fuoco, ferendolo ad una gamba prima di far scattare le manette ai suoi polsi. La Bild riferisce che l'omicida non sarebbe comunque al momento in pericolo di vita. Nonostante la circolazione nella cittadina bavarese non sia ancora ripresa regolarmente, la polizia ci tiene a sottolineare che non c'è più alcun pericolo per la popolazione locale. Per strada restano solo le pozze di sangue ed ancora tanta paura. Nessuna notizia sul movente dell'agguato letale.

L'attacco al grido di "Allah Akhbar". Il responsabile, un uomo di 24 anni, si sarebbe scagliato contro i suoi obiettivi al grido di "Allah Akhbar" (Allah è grande): questo secondo quanto riferito durante una conferenza stampa tenuta dal ministro dell'interno bavarese Joachim Herrmann, che ha raggiunto Würzburg subito dopo aver ricevuto la notizia della violenta aggressione. Il ministro ha anche rivelato alla stampa locale che il responsabile era stato di recente ricoverato in un ospedale psichiatrico.

Il commento di Salvini. "Almeno tre morti e sei feriti, riferisce Bild. Accoltellati i passanti nel centro di Würzburg, arrestato l'aggressore. Sconcertante, inviamo la nostra vicinanza", ha twittato il leader del Carroccio Matteo Salvini dopo la terribile notizia.

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dove mi occupo soprattutto di cronac

Terrore sull'autobus, egiziano ferisce 2 persone con coltello. Rosa Scognamiglio il 25 Giugno 2021 su Il Giornale. L'aggressore è un egiziano di 31 anni denunciato per lesioni aggravate ai danni di due persone che erano sull'autobus. Momenti di alta tensione e grande paura su un autobus a Firenze. Un egiziano di 31 anni ha aggredito con la lama due passeggeri: una donna di 63 anni e un uomo di 52 ferendo entrambi gravemente. Lo straniero è stato intercettato da una pattuglia della polizia mentre tentava la fuga per le vie del centro. Ora dovrà rispondere di lesioni aggravate, resistenza a pubblico ufficiale, interruzione di pubblico servizio e possesso ingiustificato di oggetti atti a offendere.

La furia dell'egiziano. I fatti risalgono alla tarda serata di giovedì 24 giugno, sul bus della linea 30 di Firenze. Stando a quanto si apprende dal sito de La Nazione, l'aggressione è avvenuta nel bel mezzo della corsa, all'altezza di via Pratese, in prossimità del centro storico del capoluogo toscano. A scatenare la furia incontrollata dell'egiziano sarebbe stato un invito da parte del conducente ad indossare la mascherina, così come prescrivono le norme anti contagio attualmente vigenti. Infuriato per il rimprovero, lo straniero ha inveito dapprima verbalmente contro l'autista del bus poi, subito dopo, contro un eritreo di 52 anni e una donna fiorentina di 63 anni che era intervenuta nella discussione per sedare gli animi. In men che non si dica, il 31enne ha scatenato il pandemonio.

L'aggressione con la lama. Accecato dall'ira, l'egiziano ha estratto la lama - verosimilmente un taglierino - dalla tasca dei pantaloni per scagliarsi contro il 52enne eritreo che lo aveva reguardito per la mascherina. Non contento, dopo averlo ferito col coltello, lo ha letteralmente assaltato con calci e pugni. A quel punto, una 63enne fiorentina che si trovava a bordo del mezzo ha cercato invano di ricondurlo alla ragione. Lo straniero ha colpito anche lei procurandole una ferita profonda alla mano. Gli altri passeggeri del bus, sotto choc per l'aggressione, hanno allertato immediatamente la polizia e il soccorso sanitario. Il 31enne è stato intercettato subito dopo i fatti, mentre tentava la fuga. Fermato dagli agenti è stato denunciato per lesioni aggravate, resistenza a pubblico ufficiale, interruzione di pubblico servizio e possesso ingiustificato di oggetti atti a offendere. Le due persone ferite, trasportate nel vicino ospedale, hanno rimediato ferite e lesioni varie con una prognosi di 7 giorni uno e di 10 l'altro. 

Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.

"Sporco bianco...": stranieri pestano il cameraman di Sky. Alessandro Imperiali il 25 Giugno 2021 su Il Giornale. Venti ragazzi nella notte tra martedì e mercoledì a Piazza Trilussa, a Roma, hanno aggredito un giovane cameraman di Sky mentre gli gridavano "sporco bianco". Notte da incubo per un giovane cameraman di Sky aggredito a Roma al grido di "sporco bianco". Erano le 2:30, tra martedì e mercoledì, quando a Trastevere, storico rione romano, M. M. è stato attaccato a piazza Trilussa. Si trovava lì con un paio di amici, la sua ragazza e la sorella. Era una serata tranquilla, i cinque avevano appena finito di festeggiare il suo compleanno. Al momento dei saluti però, quando ormai tutti si stavano recando alle macchine per raggiungeere casa propria, è avvenuta l'aggressione. "Ho pensato di morire lì per terra, di fare la stessa fine di Willy Monteiro Duarte a Colleferro" - racconta il il venticinquenne su il Messaggero- "Avevo quattro su di me che mi sferravano calci e pugni con la ferocia delle bestie e altri sei che se la stavano prendendo allo stesso modo con il mio migliore amico. Senza motivo, solo per scaricare la loro rabbia e cieca violenza". Ad accerchiarli sono stati da una ventina di ragazzi, tutti tra i 18 e i 20 anni. "Erano stranieri all'apparenza per via della loro carnagione scura, ma parlavano italiano benissimo, con inflessione romana, forse si tratta di figli di immigrati" spiega ancora il ragazzo. Il pretesto dell'aggressione sono stati dei pesanti insulti alle ragazze che erano con loro, "nient' altro che un pretesto per attaccare briga". "Quando io e un altro mio amico gli abbiamo detto di smetterla e loro hanno iniziato a insultarci tutti, abbiamo replicato ancora di lasciare perdere, che la nostra serata era finita, che ce ne stavamo andando via, che non ci interessava discutere", continua raccontando la notte da incubo. "Mi gridavano per farmi stare zitto sporco bianco, ti buco, ti sparo". Accade in pochi secondi il peggio, calcio e pugni sia a lui che al suo migliore amico. Colpi "sferrati con maestria di chi sa battersi e menare le mani". Al di là dell'aggressione, un altro dettaglio inquietante è che a quell'ora in piazze c'erano ancora molte persone eppure nessuno è intervenuto. "C'era gente che guardava, alcuni filmavano la scena con i telefonini, ma si sono fatti i fatti propri, si sono tutti ben guardati dall'intervenire e venirci in aiuto. Quando, poi, in lontananza si sono sentite le prime sirene della polizia, allora si sono dileguati tutti. Compresi i guerrieri che erano sbucati davanti a noi improvvisamente" commenta M. M. ancora sotto choc. Medicati prima sul posto e poi all'ospedale di Ariccia, in due riporteranno un trauma cranico e addominale. "In un attimo" - ricorda la fidanzata, anche lei presente alla scena - "il mio ragazzo era a terra, circondato da 4 persone che lo hanno preso a calci in faccia e sul torace, lui era rannicchiato e chiuso a riccio mentre queste persone continuavano a prenderlo a calci senza pietà. Una di queste ha anche minacciato di sparargli. Ho avuto paura che ammazzassero il mio fidanzato così come è successo al povero Willy lo scorso settembre". Sempre la ragazza, inoltre, ha lanciato un appello su Twitter per farsi inviare i video della rissa così da poter procedere alla denuncia ed evitare che ciò che è accaduto ieri avvenga anche in futuro. Un appello a cui hanno risposto in molti, sono tanti i video arrivati, non solo di quella sera.

Alessandro Imperiali. Nato il 27 gennaio 2001, romano di nascita e di sangue. Studio Scienze Politiche e Relazioni Internazionali alla Sapienza e ho preso la maturità classica al Liceo Massimiliano Massimo. Sono vicepresidente dell'Associazione Ex Alunni Istituto Massimo e responsabile di ciò che riguarda il terzo settore. Collaboro con ilGiornale.it da gennaio 2021 e con Rivista Contrasti. Ho tre credo nella vita: Dio, l’Italia e la Lazio.

Roma e Firenze, immigrati terrorizzano con coltelli e pali di ferro: è questa l’integrazione? Redazione Pubblicato il 25 Giugno 2021 su romait.it. Degrado, solitudine, mancata integrazione sociale e opportunità professionali, questi gli elementi che fanno da detonatore alle esplosioni di violenza avvenute in questi giorni. Degrado, solitudine, mancata integrazione sociale e opportunità professionali, sicuramente questi gli elementi che fanno da detonatore alle esplosioni di violenza avvenute in questi giorni a Firenze e Roma.

Immigrati terrorizzano le città con coltelli e pali di ferro. Il 24 giungo, alla stazione Santa Maria Novella di Firenze un immigrato ha impugnato un palo di ferro (quelli che si usano per recintare le zone dei lavori in corso), è salito sul tetto di una vettura e ha iniziato a colpirla urlando senza controllo. E’ accaduto alle 10 di mattina, quando sono intervenuti gli agenti della polizia invitando l’uomo a stare calmo. Solo quando il palo di ferro finalmente gli sfugge di mano i poliziotti sono scattati per ammanettarlo.

Indagato il poliziotto che ha sparato al ghanese armato. Intanto è indagato per eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi il poliziotto che lo scorso sabato ha sparato ad un ghanese di 44 anni che brandiva un coltello alla stazione Termini. Per la procura si tratta soltanto di un atto dovuto in vista delle verifiche di rito. L’uomo aveva già precedenti per azioni violente, minacce, per avere deturpato statue e lanciato bottiglie contro il centro islamico di San Vito. L’individuo si aggirava nella zona dello scalo ferroviario impugnando un coltello da cucina e saltando sui motorini. Il poliziotto gli ha dunque sparato alle gambe. Per la stessa motivazione di procedimento formale gli è stata anche ritirata la pistola di ordinanza. Nel frattempo al soggetto che impazzava con l’arma in mano seminando il panico viene scalata l’ipotesi di tentato omicidio. Dovrà rispondere infatti solo di porto abusivo d’armi e resistenza al pubblico ufficiale. Appare sempre più urgente, stando a quanto dimostrano i fatti di cronaca, ripensare quelle politiche che definiamo di accoglienza da un lato. Ma anche le leggi in merito al confine tra sicurezza della cittadinanza e garanzie di tutela delle forze dell’ordine ed eccesso della stessa.

Violenze, incendi e degrado: i palazzi occupati dai migranti. Viale Molise a Milano è un'escalation di delinquenza e di episodi violenti come denuncia Silvia Sardone: dopo la rissa anche l'incendio. Francesca Galici - Lun, 29/03/2021 - su Il Giornale. Continuano i problemi in viale Molise a Milano, strada nota per l'elevata concentrazione di immigrati ed extracomunitari, molti dei quali irregolari. A denunciare l'ennesimo caso è stata Silvia Sardone, europarlamentare della Lega, che si spende nei sopralluoghi cittadini nelle aree a maggior criticità. "Questa notte c'è stato un incendio nelle palazzine Liberty di Viale Molise da tempo occupate da immigrati irregolari. Sempre qui, la settimana scorsa, c'era stata una rissa con accoltellamento con 3 feriti", ha raccontato Silvia Sardone. Il livello di criminalità di questo quartiere della periferia di Milano è altissimo. I cittadini sono spaventati dall'escalation di violenza e dalla mancanza delle istituzioni, che sembrano aver lasciato questo quartiere in mano ai delinquenti, agli immigrati irregolari e agli extracomunitari, molti dei quali vivono di espedienti tra i quali lo spaccio: "La situazione preoccupa un intero quartiere mentre il Comune e il Sindaco sono totalmente disinteressati da quanto sto avvenendo". Silvia Sardone ha voluto documentare quanto accade all'interno delle palazzine abbandonate di viale Molise e nel suo reportage condiviso sui social si evince il dramma che si consuma quotidianamente in questa parte di Milano. "Ieri mattina ho svolto un sopralluogo all'interno di questi stabili. Ho trovato una situazione drammatica: decine e decine di immigrati di ogni nazionalità e provenienza ammassati nelle stanze tra cumuli di rifiuti. Non c'è stato alcuno sgombero in questi giorni né il Comune ha provveduto a mettere in sicurezza le entrate", ha denunciato Silvia Sardone. L'eurodeputata ha raccolto le testimonianze di quelle persone che vivono in condizioni precarie nei palazzi occupati. "I presenti mi hanno raccontato di essere qui da tempo e di essere venuti in Italia negli anni con i barconi o seguendo la rotta balcanica. Il degrado all'interno dei lunghi corridoi delinea uno scenario da inferno, con intere camere coperte da immondizia e alcuni locali con evidenti segnali di incendi passati", ha spiegato Silvia Sardone. L'europarlamentare, quindi, tira le somme di quanto visto: "D'altronde ovunque ci sono fili elettrici volanti e i rischi per i presenti sono enormi. I presenti non lavorano, vivono in condizioni pietose e affermano di non aver mai visto il Comune nè i servizi sociali venire a trovarli. Insomma in quest'area tra 2 palazzine occupate da clandestini e un'altra occupata dal centro sociale Macao, ci troviamo in una situazione di totale abusivismo con illeciti di ogni tipo". La situazione di degrado è in peggioramento in quel quartiere periferico: "È questo il concetto di legalità caro alla sinistra? È questo il modello di accoglienza di cui si vanta ogni giorno il Pd? Cosa deve succedere d'altro prima che qualcuno intervenga, ci deve scappare il morto? È scandaloso che il Sindaco non si sia mai presentato in questa zona a rendersi conto, di persona, dello squallore a cui sono costretti alcuni quartieri. L'immobilismo di Palazzo Marino è una vergogna per la città!". 

Andrea Morigi per “Libero quotidiano” il 26 marzo 2021. In alternativa allo ius soli, è nato il progetto di «una confederazione di quartieri ad alto tassi di comunità di immigrati», che intende costituire «un paese a sé, con le nostre leggi e le nostre regole». È la teoria dell' invasione straniera, proposta come prassi rivoluzionaria in uno dei passaggi del Manifesto per la sostituzione etnica, sottotitolato Dal Piano Kalergi al Piano Wii, nel quale si annuncia provocatoriamente: «Sfonderemo i confini e faremo scorrere, finalmente, come in una cascata, tutta la migrazione repressa che è stata attuata da decenni: capirete il peso del passato e vi assumerete la responsabilità». Lo si trova, all' interno del numero zero di Antirazine, pubblicazione realizzata con 10mila euro di denaro dei contribuenti e disponibile presso le librerie Feltrinelli, ma anche online, per consentirci di trascorrere in letizia l' attuale settimana contro il razzismo, che attualmente si sta celebrando e durerà fino al 27 marzo.

I CATTIVI MAESTRI. È il prodotto dell' ingegno collettivo di "Il Razzismo è una brutta storia", associazione che «si sostiene anche grazie a un contributo annuale del Gruppo Feltrinelli che è socio fondatore e tramite la ricerca di fondi pubblici e privati». Nel suo consiglio direttivo siedono fra gli altri Carlo Feltrinelli, Inge Feltrinelli e Gad Lerner. Dovrebbe essere una garanzia per le istituzioni come l' Unar, l' ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali, che attraverso commissioni ad hoc sono chiamate a valutare decine di progetti ed eventualmente a decidere se ammetterli al finanziamento con circa di fondi pubblici l'anno. Nella graduatoria relativa al bando per la XVII settimana antirazzista, l' ufficio per la promozione della parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni fondate sulla razza o sull' origine etnica, dipendente dal Dipartimento Pari opportunità della presidenza del Consiglio dei ministri, il progetto è il primo. Che la chiave interpretativa del testo vada ricercata nel paradosso degli stereotipi della cultura razzista è chiaro fin dalla prima lettura. Altrimenti, né all' Unar né altrove si potrebbero tollerare proposizioni del tutto assimilabili alle espressioni di hate speech come: «Non sono considerati bianchi in questo manifesto le persone che sono nate e cresciute dal Lazio in giù, il Sud è Mediterraneo, vi abbracciamo come fratelli e alleati», oppure «I bianchi vorranno essere sempre più come noi» e «noi vogliamo una semplice cosa: il loro POTERE».

ATTACCO ALLA POLIZIA. Anche perché il famigerato “piano Kalergi”, attraverso il quale si vorrebbe soppiantare la popolazione autoctona dell’Occidente con masse di migranti provenienti dall’Africa e dall’Asia, non è mai stato formulato in quei termini da Richard Nikolaus Eijiro, conte di Coudenhove-Kalergi, il cui progetto di Paneuropa si limitava a riconoscere il diritto all’autodeterminazione dei gruppi etnici e prefigurava una «razza eurasiatica-negroide del futuro», salvo poi essere ricevuto per due volte da Benito Mussolini. Accanto alle bufale, sparse volontariamente o no, fra le pagine compare anche qualche tavola a fumetti che appare come un’invettiva contro le forze dell’ordine, che si conclude con domande, piuttosto imbarazzanti per gli uffici di Palazzo Chigi che le hanno avallate, del tipo: «Come valutano e concepiscono il concetto il razzismo le forze dell’ordine?» Sono i Black Lives Matter de noantri, a caccia di una sponsorizzazione istituzionale, purché con un po’ di quattrini. Che si potrebbero spendere molto meglio, comunque.

Ius soli, Toscani va all'attacco: "Salvini non vuole? Fatelo..." Il fotografo sale sul carro di Letta: "Piuttosto chiediamo agli stranieri se vogliono essere italiani. Con questo Paese.." Federico Garau - Lun, 15/03/2021 - su Il Giornale. Non risparmia frecciate nei confronti del Partito democratico e dell'accozzaglia di anime politiche che convivono al suo interno, Oliviero Toscani, ma al contempo si dice entusiasta del fatto che lo Ius Soli sia tornato finalmente alla ribalta. Oltre a ciò, tuttavia, come suo solito, calca ulteriormente la mano arrivando a chiedersi se davvero gli innumerevoli extracomunitari presenti sul territorio nazionale sarebbero felici di diventare italiani vista la pochezza del Paese in cui sono ospitati. Ma come vede il celebre fotografo radical chic la scelta di affidare il Pd nuovamente nelle mani di Enrico Letta? Proprio quell'Enrico Letta silurato da Matteo Renzi il quale, fino a pochi giorni prima della pugnalata alle spalle dell'ex collega di partito, continuava a rassicurarlo. Un episodio divenuto celebre, che lo stesso Oliviero Toscani vuole ricordare nel momento in cui commenta la scelta del neosegretario. "Spero che dopo lo "stai sereno" abbia capito come tirare i fulmini, che abbia capito che non deve stare sereno sennò verrà fregato". Le grane del Partito democratico, tuttavia, sono ben altre, e prescindono da chi si trova al timone. "Il problema non è Letta ma questo Pd. Ci sono i democristiani, i comunisti diventati democristiani e i democristiani diventati comunisti", spiega il fotografo all'AdnKronos. Un vero e proprio guazzabuglio la compagine di centrosinistra, all'interno della quale è difficile cogliere un pensiero dominante e, soprattutto, comune. "È un insieme di tanti residuati bellici politici che sicuramente non andranno mai d'accordo", attacca ancora senza troppi giri di parole. "Voglio rilanciare lo Ius soli" ha promesso Letta ai suoi. Si tratta di una "norma di civiltà. Io sarei molto felice se il governo di Mario Draghi fosse quello in cui dar vita alla normativa dello Ius soli". Un concetto ribadito con energia dal neosegretario dem, cosa che aveva scatenato le reazioni positive di Liberi e Uguali e grillini e le critiche di Matteo Salvini."Lo Ius Soli è una priorità italiana", dichiara il fotografo. Gli extracomunitari "sono dei nostri concittadini, vanno a scuola, parlano la nostra lingua e sono nati qua. Piuttosto chiediamogli se veramente vogliono essere italiani, in un paese dl genere non ne sarei così sicuro". Sulle critiche da parte del segretario del Carroccio, Toscani così commenta:"Salvini vada in spiaggia al Papete. Quando avrà pieni poteri potrà fare quello che vuole, per ora per fortuna non li ha. Per fare un giusto Governo bisogna ascoltare Salvini e fare esattamente l'opposto". "Penso che Draghi lo abbia preso per questo per capire cosa deve fare e cioè il contrario di quello che dice Salvini", affonda ancora il fotografo. A schierarsi a sostegno del ritorno dello Ius soli, non soltanto Toscani, ma anche diverse personalità da sempre a favore della cittadinanza ai cittadini stranieri. Il primo è stato il capomissione di Mediterranea Luca Casarini che, ai microfoni di AdnKronos, ha manifestato entusiasmo nei confronti del programma di Letta, augurando al nuovo segretario del Pd di raggiungere i propri obiettivi. "L'unica cavolata la dice invece il solito Salvini, quando per contrastare lo Ius Soli grida 'prima gli italiani'. Sono infatti assolutamente italiani quel milione di ragazze e ragazzi nati e cresciuti qui, che vivono qui e studiano nelle nostre scuole, ma non hanno ancora la cittadinanza", ha dichiarato. E ancora: "Salvini e l'estrema destra stanno discriminando italiani, e l'Italia, che senza questa legge di civiltà, rischia di somigliare più all'Ungheria di Orban che alla Francia o alla Germania. Ma forse Salvini e la Meloni questo vogliono...". Duro anche il commento del senatore del gruppo Europeisti-Maie-Cd, Gregorio De Falco, che sulla propria pagina Facebook si è scagliato a sua volta contro il leader della Lega: "Per Salvini lo Ius soli, tema rilanciato ieri da Enrico Letta, significa 'la cittadinanza facile per gli immigrati'. È efficace: gli bastano sei parole per dimostrare la propria insipienza". Si è fatto sentire anche Monsignor Giancarlo Perego, l'arcivescovo di Ferrara soprannominato il "vescovo dei migranti". Il prelato ha bollato le dichiarazioni dell'ex vicepremier come "strumentali" e "ideologiche" . "Un dato di fatto che il discorso deve essere ripreso per il bene dell'Italia e dei suoi cittadini coniugando la tutela dei diritti, la promozione e l'integrazione sul solco del Papa", ha affermato. Anche Matteo Mauri, rappresentante del Partito democratico, ha voluto dire la sua Facebook:"Il Segretario Enrico Letta ha messo come priorità una nuova legge sulla Cittadinanza dei figli dei non italiani. Condivido al 100%! E guarda caso Salvini e tutta la destra alzano le barricate e il sottosegretario della Lega Molteni oggi dice che la Lega non permetterà che venga approvata una legge così! Che strano eh?!", ha scritto nel suo post. "E allora io aggiungo che, oltre a fare una nuova Legge sulla Cittadinanza, dobbiamo abolire la Bossi-Fini e fare un nuovo Testo Unico sulle politiche migratorie".

Paolo Bracalini per "il Giornale" il 16 marzo 2021. Non far passare lo ius soli in Italia è stato «un atto di paura, crudele e miope». A parlare così qualche anno fa era proprio Enrico Letta e ce l' aveva proprio con il centrosinistra allora al governo con il premier Paolo Gentiloni. Lo ius soli infatti non è un nuovo slogan del Pd, anzi è almeno una decina di anni che i dem ne parlano come di una priorità assoluta, un traguardo imprescindibile, un «segno di civiltà» come lo definì nel 2009 David Sassoli, oggi presidente del Parlamento Ue. La cittadinanza automatica ai figli degli immigrati è un vecchio cavallo di battaglia della sinistra italiana, un tormentone che di tanto in tanto ritorna in auge, ma che non si è mai tradotto in legge anche se il Pd, dal 2013 ad oggi, cioè dal premier Letta al premier Conte bis passando dai premier Renzi e Gentiloni, ha di fatto sempre governato, se si eccettua l' anno del governo gialloverde. Ma in quattro governi targati Pd, il Pd non è mai riuscito a portare a casa lo ius soli, che invece è rimasto un argomento da dibattito politico ricorrente. Letta ci aveva provato, nominando una ministra ad hoc per l' Integrazione, la dimenticabile Cecile Kyenge, che appena nominata chiarì quale fosse la sua agenda ministeriale: «Quella dello ius soli è una delle mie prime priorità, poi ci sono tante cose che dovranno cambiare ma questa rimane comunque una priorità al di sopra di tutto». Il problema è che il tema della cittadinanza agli immigrati è uno di quelli che dividono ogni maggioranza, e anche quella dell' allora premier Letta non fece differenza. Insieme al Pd, come costola piccola ma indispensabile nei fragili equilibri di maggioranza, c' era il partitino di Angelino Alfano, che almeno nel nome era di centrodestra, e quindi lo ius soli non poteva digerirlo troppo facilmente. Tanto che il tema agitò il governo per mesi, finchè Letta non proclamò che lo avrebbe messo nel nuovo contratto di governo da siglare tra le forze di maggioranza all' inizio del 2014. Cioè proprio quando Letta fu invitato da Napolitano a tornarsene a casa per fare spazio allo scalpitante Matteo Renzi, nuovo premier, sempre Pd. E sempre convinto della fondamentale importanza dello ius soli, che anche sotto il nuovo governo tornò ad aleggiare come riforma urgente ma sempre rinviata. E così infatti, tra infiniti dibattiti e polemiche, fu rinviato e rimpallato al successivo esecutivo, quello di Paolo Gentiloni, sempre Pd e anche lui convinto dell' assoluta necessità dello ius soli. È stato quello il momento in cui il Pd è arrivato più vicino a passare dalle parole ai fatti, ma fermandosi ancora una volta prima del traguardo. Il testo di riforma della cittadinanza, calendarizzato in Senato, finì con l' essere rinviato per non turbare la maggioranza che comprendeva anche i centristi, contrari allo Ius soli, in prossimità di un voto importante sul Def in cui serviva anche il loro appoggio. Quindi, per l' ennesima volta, nulla di fatto, così come con Conte. Ma anche nel governo Draghi non sembrano esserci le condizioni, visto che in maggioranza c' è anche il centrodestra. Che, oltre a quello scontato della Lega, contempla anche il no di Forza Italia: «Sono tante le emergenze causate dal Covid. Certamente tra queste non ci sentiamo di annoverare lo ius soli o il voto ai sedicenni» dice il capogruppo azzurro Roberto Occhiuto. E il M5s? Non lo ha mai appoggiato, Grillo lo definì «un pastrocchio invotabile», Di Maio «uno strumento di propaganda» del Pd. Ma si sa che i grillini possono cambiare idea su tutto se serve per mantenere stipendio e privilegi.

Michela Marzano per “La Stampa” il 16 marzo 2021. A parte l'ex premier Mario Monti, sembrano tutti d'accordo con la proposta di Enrico Letta di far votare tutti e tutte già a partire da 16 anni. È favorevole persino Matteo Salvini, nonostante gli sia andata di traverso l'idea di rimettere al centro del dibattito la questione dello ius soli. E allora perché faccio così fatica a unirmi a quest' unanime consenso? Cos' è che non capisco quando Letta dice che è un modo per prendere sul serio i più giovani, le loro idee e i loro interessi? Intendiamoci. Sono anch' io profondamente convinta che i ragazzi e le ragazze vivano oggi una situazione molto più difficile rispetto a quella che abbiamo vissuto noi quando avevamo la loro età. So perfettamente che di fiducia nel futuro, tra i più giovani, ce n' è ben poca. Così come percepisco bene la loro paura e il loro disincanto, il loro sconforto e la loro diffidenza nei confronti degli adulti. Per non parlare poi della rabbia della "generazione Greta", che è forse la risposta più ovvia di fronte all' impotenza, soprattutto quando ci si sente talmente trasparenti da non credere più nel proprio valore. Ma siamo sicuri che, per sentirsi nuovamente ascoltati e visti, i nostri ragazzi e le nostre ragazze si accontentino del voto ai sedicenni? Siamo certi che è questo che vogliono, cercano, chiedono, talvolta urlano, oppure si tratta di una soluzione semplice a un problema ben più complesso, e che dovrebbe costringere noi adulti a rimetterci davvero in discussione, riflettendo su tutto ciò che non siamo stati capaci di dare ai nostri figli e ai nostri studenti? Cos' è che ci rimproverano veramente i più giovani? Di non votare a 16 anni oppure di non poter ottenere un posto di lavoro nonostante si diplomino e si laureino? Di non sentirsi rappresentati in Parlamento oppure di imporre loro il nostro narcisismo, quello che ci porta a dire sempre "io" senza lasciare spazio al "tu"? Cos' ha fatto l' ex premier Giuseppe Conte per andare incontro a tutti quei sedicenni e diciassettenni tagliati fuori dalla didattica a distanza perché privi di computer o tablet oppure senza una connessione internet sufficientemente stabile? Oltre a voler concedere loro il voto, si ha in mente di riscrivere i programmi scolastici, e quindi di discutere con loro di diritti e di giustizia distributiva, di uguaglianza e di memoria, di crisi ambientale e di utilizzo responsabile dei social - formando prima di tutto i loro insegnanti - oppure si pensa di buttarli nell' arena politica senza strumenti, magari senza nemmeno suscitare in loro il desiderio di esserci? Immagino già le obiezioni: "sei antica", "sei fuori moda", "sei paternalista". E forse "antica" e "fuori moda" lo sono anche. Lo ero già quand' ero adolescente, figuriamoci ora. Ma paternalista no, non lo sono mai stata e non comincerò certo adesso. Anzi. Se c' è qualcosa in cui credo profondamente è proprio l' autonomia, che è l' esatto contrario del paternalismo. Per potersi autodeterminare, però, bisogna averne la possibilità. E per averne la possibilità, si deve necessariamente passare attraverso l'educazione. Non ho mai osato nemmeno pensare che i giovani siano "choosy" o "viziati", come hanno invece dichiarato alcuni di coloro che oggi applaudono Enrico Letta. Penso l'opposto. Molti di loro, negli ultimi anni, sono stati costretti a lasciare l'Italia, a dimenticare in fretta e furia la propria madre lingua, ad adattarsi e lottare lontano da casa. Tanti sono sfiduciati e non ci credono più che, un giorno, avranno pure loro la possibilità di mostrare quanto valgono e realizzarsi. Alcuni sono totalmente all' abbandono. Ma, proprio per questo, sono convinta che il compito della politica, invece di andare a caccia di nuovi voti, sia quello di dare a tutti e tutte gli strumenti adeguati per crescere e per formarsi uno spirito critico: fare lo sforzo di ascoltare invece di parlare sempre; capire invece di pontificare; permettere ai ragazzi e alle ragazze di diventare cittadini consapevoli invece di adularli chiamandoli, come ha fatto Salvini, "informati" e "svegli". E se la si smettesse di strumentalizzare la "generazione Greta" e si iniziasse a costruire un Paese in grado di non sacrificare le generazioni future e capace di aprire loro un orizzonte di speranza?

·        Gli Affari dei Buonisti.

La sinistra "buona" di Milano butta coperte e materassi dei senzatetto. Francesca Galici il 17 Dicembre 2021 su Il Giornale. Non si è sollevato nessun coro di sdegno per lo sgombero dei senzatetto di Milano durante le notti più fredde dell'anno. La sinistra italiana si vanta di essere caritatevole e misericordiosa, di schierarsi accanto agli ultimi e fa di questo un suo cavallo di battaglia politico, soprattutto in merito al dibattito sui migranti. Milano si è più volte vantata di essere la città dell'inclusione e dell'accoglienza ma la realtà dice in realtà il contrario. Sono migliaia i migranti irregolari sul suolo milanese, che vivono di espedienti al limite, e spesso ben oltre, i confini della legalità, diventando un pericolo per la sicurezza locale. Sono centinaia quelli che abitano degli edifici occupati, il più delle volte in condizioni igienico-sanitarie disdicevoli, ancora di più quelli che dormono nelle strade e nei pressi delle stazioni. Davanti a tutto questo, l'amministrazione comunale guidata da Beppe Sala ha spesso chiuso entrambi gli occhi, non attuando mai misure atte a contenere questi fenomeni degradanti per la stessa Milano. Eppure, nelle ultime ore, da palazzo Marino si è deciso per un intervento radicale. I senzatetto che dormono di notte nelle gallerie che conducono in stazione Centrale sono stati sgomberati dagli uomini della polizia locale. Materassi e coperte sono stati buttati con l'ausilio dell'Amsa, lasciando queste persone all'addiaccio nelle gelide notti dicembrine di Milano. La denuncia è arrivata dal profilo Instagram di un'associazione di Milano, che ha pubblicato una foto degli agenti impegnati nell'operazione di sgombero. "Chissà se lo avessero fatto i cattivoni di centrodestra quanti titoloni sui giornali, quante richieste di spiegazioni in aula, quale macchina del fango si sarebbe azionata: invece no, se le coperte e gli effetti personali dei senzatetto decide di buttarle via il Comune di Milano a guida Pd va tutto bene", ha denunciato Silvia Sardone, consigliere comunale della Lega a Milano. Le sue parole non sono basate su semplici ipotesi, perché solo pochi anni fa accadde qualcosa di simile a Como e si scatenò l'ira funesta dei buonisti contro il sindaco lariano. "Questi ovviamente non sono che i risultati delle politiche d'accoglienza sfrenata tanto care al sindaco Sala e alla sua giunta: prima fanno arrivare chiunque a Milano poi, rendendosi conto che non c'è posto per tutti, li abbandonano agli angoli delle strade costringendoli a vite di stenti e ai limiti della legalità", ha proseguito Silvia Sardone. Quello di ieri, per il consigliere, non è altro che un "intervento spot", utile per "abbindolare i milanesi sul tema sicurezza. Peccato, però, che tutti sappiano qual è la realtà e che tra qualche settimana vedremo le aree intorno alla Centrale, e non solo, piene di bivacchi e senzatetto su giacigli di fortuna. Questa è l'ennesima figuraccia dell'amministrazione Sala che, come minimo, dovrebbe spiegare alla città la propria condotta".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

"Ci sono i centri sociali": va a vuoto il bando per un ostello alla Fabbrica del vapore. Francesca Galici il 21 Dicembre 2021 su Il Giornale. Nessuna offerta per l'assegnazione degli spazi della Fabbrica del vapore per la realizzazione di un nuovo ostello a Milano. Nel 2019, il Comune di Milano ha aperto un avviso pubblico di consultazione per la realizzazione di un ostello al secondo piano dell'edificio della Fabbrica del vapore. Il complesso è uno dei simboli dell'espansione industriale di Milano a cavallo tra il XIX e il XX secolo e con la sua struttura in stile Liberty è uno degli edifici più eleganti di quel tipo. Venne realizzata nel 1899 per ospitare i macchinari della ditta Carminati & Toselli, che operava nel settore della riparazione e vendita di materiale relativo a ferrovie e tramvie​. Oggi è un polo multifunzionale completamente riqualificato e il Comune voleva che vi sorgesse, appunto, anche un ostello. Tuttavia i piani dell'amministrazione di Milano non sono andati come si auspicava Beppe Sala.

Al 9 dicembre, termine ultimo del bando di Palazzo Marino, nessuna offerta è stata presentata. A dicembre dello scorso anno erano state approvate dalla giunta le linee di indirizzo per la realizzazione di un ostello alla Fabbrica del vapore, al secondo piano della palazzina Liberty e all'inzio del 2021 era stato pubblicato l'avviso pubblico per l'affidamento di 448 metri quadrati suddivisi su due piani. La gestione dell'impresa sarebbe stata affidata al vincitore del bando per un periodo di 9 anni.

Non c'è da stupirsi che nessuno abbia ritenuto conveniente presentarsi per provare ad averne la gestione, come sottolinea anche Silvia Sardone, consigliere comunale della Lega a Palazzo Marino. Infatti, l'esponente leghista fa notare che "quegli spazi sono occupati abusivamente dal Tempio del futuro perduto. Altro non è che un centro sociale abusivo che fa incassi in nero alla faccia dei commercianti regolari vessati dai controlli". Difficilmente un imprenditore vorrà investire capitali "finché la sinistra non abbandonerà la propria ideologia sgomberando l'immobile". Ma fino ad allora, come evidenzia la Sardone, "sarà praticamente impossibile che qualcuno si faccia avanti. Non è così strano, anzi".

La mancata assegnazione dello spazio, che avrebe dato a Milano ulteriori possibilità, è l'ennesima dimostrazione di come "la giunta Sala applichi due pesi e due misure quando di mezzo ci sono i centri sociali: la bilancia pende sempre a loro favore e questa è un'ingiustizia a cui bisogna velocemente porre fine".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

La passione dei 5 Stelle per la onlus che finanzia Hamas. Alberto Giannoni l'11 Dicembre 2021 su Il Giornale. Conto bloccato e segnalazione all'Antiriciclaggio. Sono finite sotto i riflettori le attività della «Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese», controversa «onlus» con sedi a Genova, Milano e Roma. Sulla sua home page, la «Abspp» dà notizia del conto bancario chiuso e ne indica uno postale per donazioni finalizzate all'attività benefica. Per «La Repubblica», che ieri ne ha dato notizia (titolo «Finanzia Hamas. Bloccati i conti a una Onlus genovese») si parla di rapporti di questa e altre sigle con Hamas, sezione palestinese dei Fratelli musulmani, gruppo terroristico per molti Paesi e anche per l'Ue. Il presidente dell'associazione è Mohammad Hannoun, che nel 2017 figurava fra i promotori del famoso sit-in di piazza Cavour a Milano in cui vennero scanditi anche cori jihadisti e antisemiti (fu costretto a scrivere una lettera di scuse indirizzata al prefetto). Come presidente dell'Associazione palestinesi in Italia, l'architetto Hannoun ha coltivato una serie di relazioni di alto livello, con importanti entrature a sinistra. Ha partecipato a «missioni» con politici italiani - in rete è visibile quella nei campi del Libano con l'ex 5 Stelle Alessandro Di Battista - nel settembre scorso ha incontrato alcuni deputati eletti coi 5 Stelle e nel 2019 - lo rese noto il deputato Lucio Malan (oggi Fdi) - incontrò anche il capogruppo grillino in commissione Esteri Gianluca Ferrara, insieme a Riyad Al Bustanji, figura al centro di molte controversie per aver inneggiato in un'intervista al «martirio» religioso. E a un «festival» dell'Api risulta aver partecipato un altro grillino: Manlio Di Stefano, oggi sottosegretario agli Esteri. Alberto Giannoni

Estratto dell'articolo di Massimiliano Coccia per “la Repubblica” il 10 dicembre 2021. Una banca che chiude i conti, per una serie di transazioni sospette. E la segnalazione all'Antiriciclaggio per capire cosa sta accadendo. In Italia si sono accesi i riflettori sui rapporti di alcune associazioni e Hamas, il gruppo terroristico palestinese. In particolare l'attenzione si è concentrata sulla Associazione Benefica di solidarietà con il popolo palestinese - Odv, di cui è presidente Mohammad Hannoun, architetto palestinese trapiantato a Genova, già al centro di numerose inchieste per le attività di raccolta fondi destinate alle famiglie dei kamikaze palestinesi. La sua associazione - con sedi a Genova, Milano e Roma - nonostante la denominazione "onlus", non risulta essere iscritta al registro dell'Agenzia delle entrate. Recentemente ha subito la chiusura del conto corrente bancario da UniCredit, ufficialmente "senza nessuna motivazione". In realtà, l'istituto bancario di Piazza Cordusio, ha individuato una serie di attività sospette che hanno causato la sospensione dei vincoli contrattuali e la segnalazione all'Unione di Informazione Finanziaria, che sta valutando in questi giorni i vari indici di anomalia riscontrati. Secondo indiscrezioni la massiccia movimentazione di contante, l'invio di provviste economiche a soggetti non censiti in Palestina e ad altri inseriti nelle black list delle banche dati europee, sarebbero le ragioni determinanti le misure adottate. L'Abspp Onlus, come è riscontrabile dalle attività postate sui social, svolge una importante attività di raccolta fondi: pacchi alimentari, sostegno per la scolarizzazione restano le attività principali, alle quali si aggiungono l'organizzazione di conferenze con esperti di geopolitica e di preghiere con imam noti. Un'attività per un certo periodo sotterranea - in concomitanza con l'inchiesta della Procura di Genova denominata "Collette del terrore"- che dopo il rinvio a giudizio si concluse con un nulla di fatto, soprattutto per la mancanza di elementi verificabili in territorio palestinese. Il ruolo e il prestigio di Hannoun nel corso degli anni sono cresciuti notevolmente: da qualche tempo è presidente anche dell'Associazione degli "Europei per Al-Quds", un network costituito da decine di associazioni.

Gli affari dei buonisti sui migranti. Gian Micalessin l'11 Dicembre 2021 su Il Giornale. L'ex braccio destro di Veltroni coinvolto nello scandalo al Cara di Mineo. L'ex sindaco eroe di Riace sta scontando 13 anni. La scoperta della rete per lo sfruttamento dei migranti che coinvolge una società agricola amministrata dalla moglie di Michele Di Bari, responsabile del Dipartimento Immigrazione del ministero degli Interni è un caso politicamente abnorme. E ci fa capire di quali coperture godano gli sporchissimi affari improntati ad un umanitarismo spicciolo e ad un'idea di accoglienza assai pelosa. Affari capaci di metter d'accordo politici di sinistra, preti progressisti e spregiudicati uomini d'affari. Un'associazione a delinquere politicamente corretta e consapevole che i «migranti rendono più della droga». Non a caso uno dei precedenti più simile al caso venuto alla luce ieri riguardava Luca Odevaine. Ex componente del «Tavolo di coordinamento nazionale sui migranti» del Viminale ed ex braccio destro di Walter Veltroni al Comune di Roma, Odevaine è stato condannato sia nell'ambito dell'inchiesta Mafia Capitale, sia in quella sugli appalti per la gestione del Cara (Centro accoglienza richiedenti asilo) di Mineo. Prima della chiusura, imposta nel 2019 dal ministro degli Interni Matteo Salvini, il Cara di Mineo era - con i suoi 2500 migranti - il più grande centro d'accoglienza d'Europa. Una fonte di reddito inesauribile non solo per Odevaine, ma per tanti altri esponenti politici. Un altro precedente esemplare è venuto alla luce in quel di Locri grazie alle inchieste che si sono concluse con la condanna a 13 anni dell'ex sindaco Mimmo Lucano. Per i radical chic nostrani e la gauche caviar internazionale, quel sindaco rappresentava un'autentica icona. Le sue gesta ispirarono un film di Wim Wenders e gli garantirono le lodi di Fortune la rivista che nel 2016 lo piazzò al 40mo posto nella classifica dei migliori sindaci del mondo. Eppure dietro tanta fama si nascondeva, secondo i giudici, un'intensa attività criminale spaziata dalla truffa al favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Lucano oltre a falsificare sistematicamente i rendiconti riuscì a distrarre 2,4 milioni di euro per l'acquisto e l'arredo di tre case e frantoi. Senza contare quei «prelievi in contanti» per più di 531mila euro serviti, tra l'altro, a finanziare un viaggio di piacere in Argentina.

A molti preti sostenitori dell'accoglienza indiscriminata non è andata meglio. A Bergamo un'inchiesta della magistratura, chiusasi a metà 2020, ha visto indagati per truffa e altri reati preti e sacerdoti considerati, fino a quel momento, i paladini del buon cuore. A guidare le operazioni c'era Don Claudio Visconti, uno stimato ex-direttore della Caritas di Bergamo che invece dei pani e dei pesci preferiva moltiplicare i rimborsi richiesti alla prefettura per i servizi resi ai «fratelli» migranti. Un'attività assai remunerativa condotta grazie all'apporto di varie organizzazioni capeggiate, tra gli altri, da padre Antonio Zanotti, il fondatore della Cooperativa «Rinnovamento» accusato, nel 2018, di violenza sessuale su un migrante minorenne. Il tutto sotto gli occhi stupiti del sindaco progressista Giorgio Gori che, a Natale 2019, aveva premiato con una medaglia d'oro per la benemerenza e l'impegno a favore degli immigrati il Superiore del Patronato San Vincenzo don Davide Rota finito indagato per sfruttamento del lavoro degli stranieri. «Noi li vediamo - aveva detto Gori consegnando la medaglia a don Davide Rota - come stelle nel cielo della nostra città...come comete che ci invitano a metterci in cammino con fiducia e buona volontà». Comete che, caduto il velo del buonismo, si sono rivelate grigie stelle cadenti.

Gian Micalessin. Sono giornalista di guerra dal 1983, quando fondo – con Almerigo Grilz e Fausto Biloslavo – l’Albatross Press Agency e inizio la mia carriera seguendo i mujaheddin afghani in lotta con l’Armata Rossa sovietica. Da allora ho raccontato più di 40 conflitti dall’Afghanistan all’Iraq, alla Libia e alla Siria passando per le guerre della Ex Jugoslavia, del Sud Est asiatico, dell’Africa edell’America centrale. Oltre agli articoli per “Il Giornale” – per cui lavoro dal 1988 – ho scritto per le più importanti testate nazionali ed internazionali (Panorama, Corriere della Sera,Liberation, Der Spiegel, El Mundo, L’Express, Far Eastern Economic Review). Sono anche documentarista ed autore televisivo. I miei reportage e documentari sono stati trasmessi dai più importanti network nazionali ed internazionali (Cbs, Nbc, Channel 4, France 2, Tf1, Ndr, Tsi, Canale 5, Rai 1, Rai2, Mtv). Ho diretto i video giornalisti di “SeiMilano” la tv che ha lanciato il videogiornalismo in Italia. Ho lavorato come autore e regista alle prime puntate de “La Macchina del Tempo” di Mediaset. Ho lavorato come autore di “Pianeta7”, un programma di reportage esteri de “La 7”. Nel 2011 ho vinto il “Premio Ilaria Alpi” per il miglior documentario con un film prodotto da Mtv sulla rivolta dei giovani di Bengasi in Libia. Nel 2012 ho vinto il premio giornalistico Enzo Baldoni della Provincia di Milano.

Immigrazione, Alessandro Sallusti: "L'indagine per caporalato? E' la sconfitta dei Saviano". Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano l'11 dicembre 2021. L'inchiesta di Foggia sullo sfruttamento dei clandestini, che arriva addirittura a lambire il Viminale - si è dimesso il braccio destro della ministra Lamorgese responsabile della gestione dell'immigrazione - al di là delle responsabilità penali che dovranno essere accertate arriva poche settimane dopo la pesante condanna (13 anni in primo grado) a Mimmo Lucano, il sindaco di Riace tanto amato dalla sinistra che aveva trasformato l'accoglienza in un business illegale. Bisognerebbe che da Saviano in giù, ma anche di lato verso Gad Lerner e amici suoi, si prendesse atto che da una illegalità - gli sbarchi di clandestini - non possono che nascere altre illegalità. Non è questione di essere o no solidali - chi non lo è nel principio? - e neppure amici o avversari di Matteo Salvini, leader della linea dura. La questione è assai più banale: i fenomeni complessi, quale è l'immigrazione, o li governa lo Stato oppure sfuggono di mano e aggiungono danno a danno, ingiustizie a ingiustizie. Oggi il problema è che il tema dell'immigrazione non è nell'agenda del governo Draghi, troppo divisivo per l'attuale maggioranza e forse anche troppo lontano dalle sensibilità prevalenti e dalle priorità del premier. Capiamo, ma prima o poi qualcosa bisognerà dire e soprattutto fare. Non solo decidere chi e come può essere accolto ma anche di conseguenza chi e come dovrà farsi carico di gestire civilmente e legalmente questa massa, grande o piccola che sia, di disperati. Altrimenti il rischio è quello di fermarci, e dividerci come tifoserie da stadio, sulla prima parte del problema come fanno Saviano e soci, cioè se per motivi umanitari le nostre frontiere devono restare aperte (loro sono per il sì) a chiunque voglia varcarle. Dibattito interessante, ma inconcludente. Saviano, come tutti gli intellettuali, infatti non affronta mai la fase due cioè dove sono gli uomini, le risorse e i progetti che permettono e garantiscono un percorso di legalità oltre che di civiltà. Facile così, parole in libertà come quelle dei maestri della libertà, e della bontà, di non vaccinarsi che però non si preoccupano di spiegarci cosa dovrebbe succedere, chi dovrebbe fare e cosa, quando un mattino ti alzi e non respiri più. Ecco, quelli alla Saviano sono dei negazionisti dell'immigrazione e soprattutto del buon senso.

IL COLMO PER IL CAPO DEL DIPARTIMENTO PER L’IMMIGRAZIONE DEL VIMINALE: AVERE LA MOGLIE INDAGATA PER CAPORALATO.

(ANSA il 10 dicembre 2021) - La moglie del capo del Dipartimento per le libertà civili e immigrazione del Viminale, Michele di Bari, è tra le 16 persone indagate in un'inchiesta per caporalato dei Carabinieri e della procura di Foggia che ha portato all'arresto di cinque persone, due delle quali in carcere. In carcere sono finiti due cittadini stranieri, un senegalese e un gambiano, mentre nei confronti degli altri tre arrestati da parte dei carabinieri sono stati disposti i domiciliari. Per gli altri 11 indagati, tra i quali appunto la moglie del prefetto Di Bari, è scattato l'obbligo di firma. L'indagine, che ha interessato attività comprese tra luglio ed ottobre 2020, ha portato anche ad una verifica giudiziaria su oltre dieci aziende agricole riconducibili ad alcuni degli indagati

(ANSA il 10 dicembre 2021) - La moglie del prefetto di Bari impiegava nella sua azienda "manodopera costituita da decine di lavoratori di varie etnie" per la coltivazione dei campi "sottoponendo i predetti lavoratori alle condizioni di sfruttamento" desumibili "anche dalla condizioni di lavoro (retributive, di igiene, di sicurezza, di salubrità del luogo di lavoro) e approfittando del loro stato di bisogno derivante dalle condizioni di vita precarie". Lo scrive il Gip del tribunale di Foggia nell'ordinanza nei confronti degli indagati per l'inchiesta sul caporalato. Rosalba Livrerio Bisceglia, moglie del prefetto Michele di Bari, "è consapevole delle modalità delle condotta di reclutamento e sfruttamento". Lo scrive il gip di Foggia nell'ordinanza che ha portato 16 persone nel registro degli indagati per caporalato nel Foggiano. Tra di esse anche Livrerio Bisceglie. (ANSA).

(ANSA il 10 dicembre 2021) - La moglie dell'ex capo del Dipartimento di immigrazione del Viminale Michele di Bari trattava direttamente con Bakary Saidy, uno dei due caporali finiti in carcere nell'inchiesta di Foggia. E' quanto emerge dall'ordinanza del Gip nella quale si legge che Saidy portava nei campi i braccianti dopo averli reclutati "in seguito alla richiesta di manodopera avanzata da Livrerio Bisceglia, che comunicava telefonicamente il numero di lavoratori necessari sui campi". Lavoratori "assunti tramite documenti forniti dal Saidy" che per questo "riceveva il compenso da Livrerio Bisceglia". "Porta da Nico tutti i documenti. Devi portare prima perché così io devo fare ingaggi... e poi il giorno dopo iniziate a lavorare". E' quanto afferma Rosalba Bisceglie Livrerio rivolgendosi al "caporale" Bakari Saidy in una intercettazione citata dal gip nell'ordinanza di custodia cautelare. "Sbarchi clandestini raddoppiati, 100.000 arrivi negli ultimi due anni, un'Europa su questo tema assente e lontana. E oggi le dimissioni del capo dipartimento dell'Immigrazione. Disastro al Viminale, il ministro riferisca immediatamente in Parlamento". Così riferiscono fonti della Lega in una nota. Non basta che il capo del dipartimento per le Libertà civili e l'Immigrazione del Viminale si dimetta dal proprio incarico. Dopo anni di continue criticità, serve una vera svolta per mettere la parola fine alla scandalosa gestione dei dossier in capo al ministero dell'Interno che ha in Lamorgese la principale responsabile. Dall'immigrazione alla sicurezza, gli errori e la superficialità del ministro evidentemente riguardano anche gli uomini da lei confermati in ruoli chiave per la gestione del dicastero. Lamorgese si dimetta o sia il presidente del Consiglio Draghi a rimuoverla quanto prima". Lo dichiara il capogruppo di Fratelli d'Italia alla Camera, Francesco Lollobrigida.

Dai campi ai cantieri del Nord: il caporalato allarga i confini. Marco Patucchi su La Repubblica l'11 Dicembre 2021. Gli abusi sui lavoratori si estendono nelle aree più ricche del Paese: irregolarità nel 78% delle aziende monitorate con punte nelle regioni centrali e settentrionali. In due anni controlli quintuplicati, 6.594 le vittime accertate. Nel Milanese i “caporali” lavorano in doppiopetto e chiamano gli operai edili con whatsapp. Caporalato: “basta la parola”, parafrasando uno spot pubblicitario di altri tempi, e nell’immaginario degli italiani scattano i fotogrammi dei raccoglitori di pomodori sfruttati nel Sud come gli schiavi dei secoli passati. Così come lo stereotipo dei tentacoli delle mafie. Ma è solo una rappresentazione convenzionale, utile certo a denunciare il fenomeno, non sufficiente però a raccontare l’estensione e la complessità dell’emergenza.

Quel prefetto che vede reati ovunque tranne che in casa sua…La moglie del prefetto di ferro antindrangheta è indagata. Per noi vale la presunzione di non colpevolezza. Ma qualche domanda ce la facciamo...Ilario Ammendolia su Il Dubbio l'11 dicembre 2021. Credo di aver visto per la prima volta il prefetto Michele Di Bari a Roccella Jonica in occasione della presentazione d’un libro del dottor Nicola Gratteri e del prof Antonio Nicaso. Sembrava impegnato a fare gli onori di casa. E non poteva mancare data la sua “fama” di “Antimafioso” a 24 carati e custode della legalità. Negli anni della sua permanenza in Calabria, come prefetto a Reggio, si è mosso come fosse lo sparviero dello Stretto, capace di scorgere da lontano ogni tentativo della ndrangheta di infiltrarsi nei Comuni o nelle imprese. Non a caso ha chiesto ed ottenuto decine di scioglimenti di consigli comunali democraticamente eletti anche a costo di devastare la fragile democrazia calabrese.

Inoltre ha emesso centinaia e centinaia di interdittive contro le imprese. In proporzione ed in assoluto più che in qualsiasi altra parte d’Italia. Un massacro nel debolissimo tessuto economico dell’estremo Sud.

Ma il suo capolavoro è stato e rimarrà la distruzione del “modello Riace” dove le rigorose ispezioni ordinate dal prefetto di ferro hanno messo alla sbarra il sindaco Mimmo Lucano, trattato come il peggiore dei malfattori.

Forse per tale merito il prefetto Di Bari è stato promosso e trasferito al Ministero dell’Interno come responsabile nazionale del dipartimento immigrazione.

Nel momento di andar via da Reggio, con l’occhio rivolto ai posteri, il dottor Di Bari ha dato alle stampe un libro: “Prefetto in terra di ndrangheta”. Più o meno come aveva fatto Conrad pubblicando “Cuore di Tenebra” dopo un viaggio tra i cannibali.

Ora succede che la moglie del prefetto sia coinvolta in un’inchiesta giudiziaria con per una brutta vicenda legata allo sfruttamento degli immigrati.

Noi la consideriamo innocente e tale resterà per noi sino alla conclusione della vicenda. Ed anche oltre. Anzi saremmo disponibili a collocarci al suo fianco qualora fossero lesi i sui diritti con provvedimenti di giustizia sommaria e preventiva ed infatti riteniamo inutilmente afflittiva la misura che le impone l’obbligo di firma.

Se le accuse fossero vere, però, sarebbe ben strano che un prefetto dotato di un tale fiuto poliziesco in grado di vedere reati e ndrangheta ovunque, anche a chilometri di distanza, non sia stato capace di guardare bene tra le pareti di casi.

Il prefetto scelto da Salvini che sollevò il caso Riace. Giuliano Foschini e Fabio Tonaccici su La Repubblica il 10 Dicembre 2021. Michele Di Bari: "Sono un uomo delle istituzioni e mi pare giusto fare un passo indietro per coerenza, anche se sono certo che si tratti solo di un equivoco".

Prefetto, che succede?

«Ma niente…»

Beh, insomma, sua moglie Rosalba Livrerio Bisceglia è indagata a Foggia per sfruttamento di migranti e caporalato. L’azienda è sotto amministrazione giudiziaria.

«E infatti ho appena comunicato alla ministra Lamorgese le mie dimissioni dal Dipartimento per l’Immigrazione. Sono un uomo delle istituzioni e mi pare giusto farlo per coerenza, anche se sono certo che si tratti di un equivoco».

Sa quanti migranti hanno lavorato con l’azienda cerealicola di sua moglie?

«Non lo so, ma pochi, era l’anno scorso, per il raccolto dell’uva… tra l’altro per ognuno c’è un iban pagato al lavoratore, ci sono le distinte dei bonifici.

Caporalato, indagata la moglie del prefetto Michele Di Bari, autore della circolare contro lo sfruttamento lavorativo. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 10 dicembre 2021. Mercoledì primo dicembre aveva inviato a tutti i prefetti d’Italia una circolare in cui richiamava l’attenzione sul «Protocollo d’intesa per la prevenzione e il contrasto dello sfruttamento lavorativo in agricoltura e il caporalato», siglato in estate tra i ministeri dell’Interno, del Lavoro e delle Politiche agricole, per ricordare alle «signorie Loro» che c’erano finanziamenti disponibili su un apposito fondo e che altri se ne potevano programmare per i prossimi sette anni; confermando dunque «il sostegno alle iniziative in tema di lotta al caporalato, per l’erogazione di servizi e azioni utili a una migliore gestione del fenomeno». Firmato: prefetto Michele Di Bari, capo del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione. Ventiquattr’ore prima, il 30 novembre, la giudice di Foggia Margherita Grippo, aveva sottoscritto l’ordinanza in cui afferma che Rosalba Livrerio Bisceglia, moglie di Di Bari, trattava direttamente con il «caporale» gambiano Bakary Saidy, arrestato ieri, ed era «consapevole delle modalità di reclutamento e sfruttamento» da lui praticate. Un’accusa tutta da dimostrare, ma accompagnata dall’obbligo di dimora per l’imprenditrice e sufficiente a mettere in imbarazzo il prefetto. Il quale, avvertito ieri mattina dalla moglie della visita dei carabinieri nella sua casa in Puglia, ha subito informato la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, comunicandole la decisione di presentare le dimissioni. Subito accettate dal ministro. Per una questione di opportunità, indipendente dal marito dell’indagine sulla donna. Nella lettera con cui ha ufficializzato la sua scelta Di Bari si dice certo che la moglie sia estranea ai fatti contestati, avendo sempre «assunto comportamenti improntati al rispetto della legalità», guardando con fiducia a ciò che la magistratura potrà accertare. Tuttavia ritiene doveroso il passo indietro dal suo incarico per motivi di «lealtà e trasparenza». La ministra era stata informata la sera prima dai vertici dell’Arma dell'imminente operazione, ma ha semplicemente atteso la mossa del prefetto. Consapevole che la vicenda avrebbe scatenato un nuovo temporale sul suo ministero. Puntualmente arrivato con le dichiarazioni dei leader di centro-destra (da Salvini a Meloni) e in questo caso pure dalla sinistra di Leu, memore delle ispezioni che la prefettura di Reggio Calabria, all’epoca retta proprio da Di Bari, misero in crisi l’immagine di Mimmo Lucano, il sindaco di Riace poi arrestato e condannato per i suoi metodi di accoglienza dei migranti. Tuttavia stavolta al Viminale pensano di avere un ombrello sufficientemente largo per proteggersi. Perché dell’indagine di Foggia Lamorgese non sapeva nulla prima dell’altra sera; e perché la nomina di Di Bari al vertice del Dipartimento Immigrazione non fu una scelta sua ma del suo predecessore: Matteo Salvini. Che lo propose al Consiglio dei ministri del 30 aprile 2019, prelevandolo proprio da Reggio Calabria, dove evidentemente ne aveva apprezzato il lavoro. Un anno e mezzo dopo, approdata al ministero, Lamorgese lo confermò nell’incarico. Un posto strategico, nella gestione del Viminale, e delicato. Basti pensare ai numeri dei migranti e alla situazione che Di Bari ha dovuto affrontare con la pandemia; è lui, ad esempio, l’ideatore e il «soggetto attuatore» delle navi-quarantena con cui s’è cercato di evitare pericoli sanitari connessi agli arrivi dall’Africa del Nord, di nuovo in aumento. Oltre al contrasto al fenomeno del caporalato, di cui Di Bari si occupa per competenza e come membro della Consulta istituita a ottobre dalla ministra e presieduta dal suo predecessore leghista Roberto Maroni. Il quale ieri ha preferito non commentare la vicenda, limitandosi a dire che «il prefetto avrà controllato bene la posizione dell’azienda della moglie, dal momento che molte imprese in Puglia sono soggette a questo fenomeno». Ma di là del merito dell’inchiesta, resta il problema di immagine e di opportunità è balzato immediatamente agli occhi di tutti. Non solo al Viminale, forse anche in Vaticano, dove Di Bari conta su entrature e ruoli importanti. È consigliere di amministrazione di Casa sollievo della sofferenza, l’ospedale di Pietralcina legato all’Opera di padre Pio e alla Santa Sede. E quando nel 2019 fu messo a capo del Dipartimento, sul profilo facebook dall’ospedale è comparso questo messaggio: «La sua nomina, oltre a riconoscere le sue elevate doti professionali, onora anche tutto il territorio garganico. Congratulazioni!». Un annuncio corredato dalla foto di Di Bari che incontra e stringe le mani a papa Francesco sorridente. Proprio ieri il pontefice è tornato a parlare contro il caporalato e lo sfruttamento dei lavoratori nell’agricoltura: «Quanti braccianti sono, scusatemi la parola, “usati” per la raccolta dei frutti o delle verdure, e poi pagati miserabilmente e cacciati via, senza alcuna protezione sociale? Negare i diritti fondamentali, il diritto a una vita dignitosa, a cure fisiche, psicologiche e spirituali, a un salario giusto significa negare la dignità umana». Nemmeno queste parole hanno un legame diretto con l’indagine in cui è rimasta coinvolta la moglie del prefetto, ma è un’altra sfortunata coincidenza.

Carlo Vulpio per il “Corriere della Sera” l'11 dicembre 2021. I neri che lavorano come schiavi per quattro soldi pagati in nero. Le fotocopie di assegni mai versati ma compilati solo per eludere i controlli. Le buste paga fasulle come i certificati medici per visite mai effettuate. Gli incontri clandestini nelle stazioni ferroviarie e nei distributori di carburante tra i datori di lavoro e i caporali per i pagamenti delle misere paghe in contanti spettanti agli schiavi. La vita stentata nei ghetti dai nomi tristemente noti da trent' anni, come il mussoliniano Borgo Mezzanone, frazione di Manfredonia: un sobborgo africano non tanto per gli africani alloggiati nelle baracche, quanto per le condizioni dei luoghi, che, tra rifiuti e strade sfondate come fossero state bombardate, gli amministratori e i poteri pubblici hanno abbandonato a sé stessi. C'è tutto questo nell'inchiesta «Terra Rossa» della procura di Foggia e dei carabinieri del Nil (Nucleo ispettorato del lavoro) di Manfredonia. Ma non è una novità. Tutto questo, qui, c'è sempre stato. E non è bastata nemmeno la clamorosa rivolta di un altro ghetto, quello di Rignano Garganico - marzo 2017 -, con incendi delle baraccopoli e braccianti immigrati sbandati come quelli di Uomini e topi di John Steinbeck, cento anni fa. I risultati dell'inchiesta, condotta da luglio a ottobre dell'anno scorso, sono alla base dell'ordinanza del gip di Foggia, Margherita Grippo, che vede sedici persone indagate per sfruttamento del lavoro e intermediazione illegale di manodopera e dieci aziende agricole sottoposte a controllo giudiziario, cioè un'amministrazione controllata per un periodo di un anno. Dei sedici indagati, due sono finiti in carcere (i caporali neri Bakary Saidy e Kalifa Bayo), tre agli arresti domiciliari (gli imprenditori bianchi Michele Boccia, Emanuele Tonti e Vincenzo De Rosa) e a undici è stata applicata la misura dell'obbligo di dimora. Cinque milioni di euro il volume di affari calcolato, sulla pelle di braccianti istruiti dai caporali a mentire sulla retribuzione: dovevano dire di percepire 65 euro al giorno per 7 ore di lavoro, invece non ne guadagnavano più di 35 per 10 ore, che diventavano 25 perché 5 euro dovevano essere versati per il trasporto e 5 per la intermediazione. Il clamore suscitato da «Terra Rossa» è tuttavia dovuto non a un sussulto umanitario collettivo, ma al coinvolgimento nell'inchiesta di Rosalba Livrerio Bisceglia, che è moglie di Michele Di Bari, capo dipartimento Immigrazione e libertà civili del ministero dell'Interno, ed è una imprenditrice agricola. La Bisceglia, con le sorelle Antonella e Maria Cristina, conduce l'azienda di famiglia «Sorelle Bisceglia», un nome che nell'agricoltura della Capitanata e del Gargano (uliveti, frutteti, frantoi oleari, l'agriturismo «Giorgio»), e a Mattinata, paese del prefetto Di Bari, è «una istituzione». Le accuse nei confronti della «moglie del prefetto» sono pesanti: sarebbe stata lei a trattare direttamente con i caporali e con il «sorvegliante» dei campi, Matteo Bisceglia, e a occuparsi delle buste paga fasulle (Matteo Bisceglia lo dice al telefono con Saidy: «Guarda che delle buste paga si occupa la signora»). E questo mentre la carriera di suo marito - per otto anni prefetto vicario di Foggia - procedeva spedita fino all'attuale carica e all'assegnazione di un compito delicato: trasformare l'inferno di Borgo Mezzanone, da cui provengono i braccianti sfruttati, compresi quelli dell'azienda «Sorelle Bisceglia», in una cittadella dell'accoglienza. Valore dei lavori: 3,5 milioni di euro, 150 mila dei quali erogati dal dipartimento di Di Bari. Inizio dei lavori: mai cominciati, causa Covid, nonostante la pomposa dicitura «Piano d'azione per l'integrazione e l'inclusione 2021-2027». 

Blitz anti-caporalato dei Carabinieri a Foggia: indagata anche la moglie del direttore Dipartimento Immigrazione del Ministero dell’Interno. Il Corriere del Giorno il 10 Dicembre 2021. Il Viminale ha comunicato che il prefetto Di Bari “ha rassegnato le proprie dimissioni” a seguito dell’inchiesta della procura di Foggia in cui è indagata la donna. La ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ha reso noto di aver accettato la richiesta di dimissioni. L’operazione denominata “Terra Rossa” è stata condotta nella mattinata odierna nel Foggiano dai Carabinieri del Nil e della Compagnia CC di Manfredonia. Tra le 16 persone colpite dall’ordinanza di misura cautelare due sono cittadini stranieri, Bakary Saidy originario del Gambia e Kalifa Bayo originario del Senegal sono finiti in carcere. Vincenzo De Rosa di Troia, Emanuele Tonti di Foggia e Michele Boccia nato a Nola ma residente a San Giuseppe Vesuviano sono state poste ai domiciliari. Per tutti le accuse sono di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Nei confronti di altri 11 indagati è scattato l’obbligo di presentazione per due volte a settimana presso i Carabinieri e obbligo di dimora nel comune di residenze per Giovanni e Christian Santoro, per Sergio Vitto di Conversano e per Alessandro Santoro di Trinitapoli. Residenti a Foggia gli indagati Alfonso e Giuseppe Calabrese, Saverio Scarpiello di 48 anni. Fra gli indagati compaiono Mario Borrelli nato a San Giorgio in Molara, Rosalba Livrerio Bisceglia nata a Manfredonia e residente a Foggia, Matteo Bisceglia nato a Monte Sant’Angelo ma residente a Manfredonia e Vincenzo Ciuffreda di Monte Sant’Angelo e residente a Foggia. 

Avrebbero utilizzato come manodopera decine di lavoratori africani, per coltivare terreni agricoli di dieci aziende della Capitanata, in condizioni di sfruttamento e approfittando del loro stato di bisogno derivante dalle condizioni di vita precarie e dalla circostanza che essi dimoravano presso baracche e ruderi fatiscenti della baraccopoli dell’ “ex pista” di Borgo Mezzanone. Tra tra gli indagati compare anche Rosalba Livriero Bisceglia, 55anni socia amministratrice di una delle aziende coinvolte nell’inchiesta, che è la moglie del prefetto Michele Di Bari, 62 anni, capo del Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione del Ministero dell’Interno, che in passato è stato prefetto a Vibo Valentia, Modena e Reggio Calabria e viceprefetto a Foggia. “La moglie del prefetto di Bari impiegava nella sua azienda manodopera costituita da decine di lavoratori di varie etnie per la coltivazione dei campi sottoponendo i predetti lavoratori alle condizioni di sfruttamento desumibili anche dalla condizioni di lavoro (retributive, di igiene, di sicurezza, di salubrità del luogo di lavoro) e approfittando del loro stato di bisogno derivante dalle condizioni di vita precarie” scrive il Gip del Tribunale di Foggia nell’ordinanza nei confronti degli indagati .

Il Viminale ha comunicato che il prefetto Di Bari “ha rassegnato le proprie dimissioni” a seguito dell’inchiesta della procura di Foggia in cui è indagata la donna. La ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ha reso noto di aver accettato la richiesta di dimissioni. Il prefetto ha così motivato la sua decisione: “In relazione alle notizie di stampa, desidero precisare che sono dispiaciuto moltissimo per mia moglie che ha sempre assunto comportamenti improntati al rispetto della legalità. Mia moglie, insieme a me, nutre completa fiducia nella magistratura ed è certa della sua totale estraneità ai fatti contestati”.

L’indagine che si è svolta nel periodo intercorso tra luglio e ottobre del 2020. Durante le indagini è stata richiesta l’assoggettamento al controllo giudiziario di dieci aziende agricole riconducibili ad alcune delle persone coinvolte nell’operazione di oggi.  Gli inquirenti avrebbero scoperto ed accertato che un cittadino gambiano di 33 anni – già coinvolto in una operazione anti caporalato nei mesi scorsi -, affiancato da un senegalese di 32 anni, anch’egli domiciliato nell’ex pista, svolgeva il ruolo di “anello di congiunzione” tra i rappresentanti delle dieci aziende agricole del territorio ed i braccianti.

Nell’ordinanza del gip emerge inoltre che Rosalba Bisceglia moglie dell’ormai ex capo del Dipartimento di immigrazione del Viminale, trattava direttamente con Bakary Saidy, uno dei due caporali finiti in carcere nell’inchiesta di Foggia. Nell’ordinanza si legge che Saidy portava nei campi i braccianti dopo averli reclutati “in seguito alla richiesta di manodopera avanzata dalla Livrerio Bisceglia, che comunicava telefonicamente il numero di lavoratori necessari sui campi”. Lavoratori che venivano “assunti tramite documenti forniti dal Saidy che per questo «riceveva il compenso da Livrerio Bisceglia”. Rosalba Livrerio Bisceglie in una intercettazione citata dal gip nell’ordinanza di custodia cautelare rivolgendosi al «caporale» Bakari Saidy gli diceva: “Porta da Nico tutti i documenti. Devi portare prima perché così io devo fare ingaggi… e poi il giorno dopo iniziate a lavorare”.

Alla richiesta delle aziende agricole di braccia di lavoro i due extracomunitari reclutavano i braccianti all’interno della baraccopoli, provvedendo al loro trasporto presso i terreni. Gli stessi extracomunitari che sorvegliavano i braccianti durante il lavoro, pretendendo da ognuno di loro 5 euro per il trasporto e altre 5 euro per avergli trovato un lavoro. Nelle indagini è merso che l’extracomunitario del Gambia si occupava anche di impartire le direttive ai braccianti sulle modalità di comportamento sul posto di lavoro in caso di possibili ispezioni da parte dei Carabinieri. I “caporali” extracomunitari, insieme ai titolari e soci delle aziende avevano messo in piedi un apparato, definito dagli inquirenti “quasi perfetto”, che spaziava dall’individuazione della forza lavoro necessaria per la lavorazione dei campi, al reclutamento della stessa, arrivando al sistema di pagamento.

La retribuzione agli operai era notevolmente lontana ed inferiore da quella prevista dal contratto nazionale del lavoro, nonché dalla tabella paga per gli operai agricoli a tempo determinato della provincia di Foggia. Le buste paga verificate, non. sono risultate veritiere, in quanto all’interno delle stesse venivano indicate un numero di giornate lavorative inferiori a quelle realmente prestate dai lavoratori, senza tener conto dei riposi e delle altre giornate di ferie spettanti. I lavoratori, tra l’altro, non erano stati neanche sottoposti alla prevista visita medica. Il gip del tribunale di Foggia ha anche disposto il controllo di dieci aziende agricole, riconducibili a 10 dei soggetti colpiti da misura cautelare. Il volume d’affari delle aziende coinvolte nell’inchiesta secondo gli inquirenti era di circa 5 milioni di euro.

Rosalba Livrerio Bisceglia, scrive il gip di Foggia nell’ordinanza “è consapevole delle modalità delle condotta di reclutamento e sfruttamento”. che aggiunge. “È emerso che la Livrerio Bisceglia ha impiegato per oltre un mese braccianti reclutati dal Saidy al quale ella si è rivolta direttamenteI Il magistrato aggiunge che la donna, “è consapevole delle modalità delle condotta di reclutamento e sfruttamento, nella misura in cui si rivolge ad un soggetto, quale il Saidy, di cui non può non conoscersi il modus operandi”.

La moglie del prefetto Michele di Bari, continua il documento, “dispone del numero di telefono del Saidy e chiama costui personalmente, si preoccupa, dopo i controlli, di compilare le buste paga, chiama Saidy e non i singoli braccianti per dirgli come e perché si vede costretta a pagare con modalità tracciabili e concorda, tramite Bisceglia Matteo (un altro degli indagato, ndr), che l’importo della retribuzione sarà superiore a quella spettante e che Saidy potrà utilizzare la differenza per pagare un sesto operaio che, evidentemente, ha operato in nero“.

In particolare, viene evidenziato che “i dialoghi sulle modalità di pagamento (successivi all’attività di controllo) costituiscono dati univoci del ruolo attivo dei Bisceglia nella condotta illecita di impiego ed utilizzazione della manodopera reclutata dal Saidy, in quanto rivelano una preoccupazione ed una attenzione per la regolarità dell’impiego della manodopera solo successiva ai controlli”. “Ci sentiamo…domani mattina noi andiamo in banca perché l’Ispettore del Lavoro mi ha detto che non posso fare in altro modo….non posso dare soldi in contanti..perché c’è stata anche l’ispezione… quindi.. vabbene…”. riporta una intercettazione tra Rosalba Bisceglie Livrerio e il «caporale» Bakari Saidy in una intercettazione citata dal gip nell’ordinanza di custodia cautelare. Dialogo aggiunge il gip che nasce “dal tentativo di mettersi d’accordo su come pagare un bracciante che non disponeva di Iban”.

Foggia, blitz anti-caporalato: moglie del prefetto indagata "Sapeva dello sfruttamento". Patricia Tagliaferri l'11 Dicembre 2021 su Il Giornale. Rosalba Bisceglia è accusata di aver usato la manodopera. Si dimette il marito, capo del settore Immigrati del Viminale.

Trattati come schiavi, piegati a raccogliere pomodori nei campi anche 13 ore al giorno per pochi spicci e costretti a vivere in condizioni precarie nella baraccopoli di Borgo Mezzanone, a Manfredonia. Vittime dei caporali e di imprenditori senza scrupoli. Tra questi, secondo la Procura di Foggia, anche la moglie del prefetto e capo del Dipartimento per l'immigrazione del ministero dell'Interno, Michele di Bari, che si è subito dimesso. Un blitz scattato lo stesso giorno in cui Papa Francesco si è scagliato contro il caporalato.

Rosalba Bisceglia, indagata con obbligo di firma e di dimora in quanto socia e amministratrice di una delle aziende coinvolte, è accusata di aver utilizzato manodopera procurata dai caporali. Per i pm era «consapevole delle modalità di reclutamento» e delle «condizioni di sfruttamento» a cui venivano sottoposti i braccianti approfittando del «loro stato di bisogno». Con lei sono finiti nei guai i titolari di altre nove imprese, con un volume di affari complessivo di 5 milioni di euro l'anno. Sottoposti a misura cautelare in carcere Kalifa Bayo, senegalese di 32 anni, e Saidy Bakary, gambiano di 33 anni, considerati i mediatori tra le aziende e gli immigrati. Per tre persone il gip ha disposto gli arresti domiciliari, altre 11 sono indagate. Le accuse sono di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.

Le indagini, partite dalla situazione di radicata illegalità nelle campagne del foggiano e condotte da luglio a ottobre 2020, hanno portato alla luce un sistema di reclutamento della manodopera: le aziende cercavano forza lavoro e i due extracomunitari si attivavano per cercare i braccianti nella baraccopoli. Provvedevano anche al loro trasporto presso i terreni e a sorvegliarli durante il lavoro. Compiti per i quali pretendevano da ognuno 5 euro per il passaggio e altri 5 per l'attività di intermediazione. In cambio di un salario da fame, come risulta da un'intercettazione tra un caporale e un lavoratore. La paga? «Trentacinque euro al giorno per 6 ore». «Palesemente difforme - scrive il gip - alle tabelle del contratto collettivo nazionale che prevede una somma netta di euro 50.05 per 6.30 ore di lavoro». Il gambiano si occupava anche di dare specifiche direttive ai braccianti sulle modalità di comportamento in caso di ispezione da parte dei carabinieri. Un apparato «quasi perfetto», per i magistrati, che andava dal reclutamento al sistema di pagamento, con buste paga non veritiere, che indicavano un numero di giornate lavorative inferiori a quelle prestate, senza riposi e ferie.

La Procura ritiene che la moglie del dirigente del Viminale non potesse non conoscere il modus operandi del gambiano al quale si era rivolta per trovare i lavoratori. Lo avrebbe fatto per oltre un mese: comunicava il numero degli extracomunitari che le servivano e li assumeva grazie ai documenti forniti dallo stesso caporale. «Porta i documenti e il giorno dopo lavorate», dice in un'intercettazione. Solo dopo i controlli avrebbe mostrato «preoccupazione e attenzione per la regolarità dell'impiego della manodopera». Il suo legale, Gianluca Ursitti, è certo che sarà tutto spiegato: «I fatti, peraltro circoscritti nel tempo e nella consistenza, saranno al più presto chiariti nelle sedi competenti». Patricia Tagliaferri

Moglie indagata. Si dimette capo immigrazione del Viminale. Francesca Galici il 10 Dicembre 2021 su Il Giornale. 16 indagati dai carabinieri nell'ambito di in un'indagine contro il caporalato a Foggia: tra loro la moglie di un alto funzionario del Viminale. Blitz delle forze dell'ordine a Manfredonia e in altri comuni della provincia di Foggia. La moglie del capo del Dipartimento per le libertà civili e immigrazione del Viminale, Michele di Bari, è tra le persone indagate dai carabinieri nel corso di un'indagine per caporalato. Cinque persone sono state arrestate e due di loro, extracomunitari, sono state tradotte in carcere. Di Bari ha già rassegnato le sue dimissioni dall'incarico al ministero degli Interni.

Le forze dell'ordine hanno eseguito un'ordinanza di custodia cautelare in carcere a carico di 16 persone (due in carcere, tre ai domiciliari e undici tra obblighi di dimora e obblighi di presentazione alla polizia giudiziaria), tra cui anche la moglie di Di Bari. Per tutti le accuse sono di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Nel corso delle indagini, da luglio a ottobre 2020, gli inquirenti avrebbero scoperto un sistema di selezione, reclutamento, utilizzo e pagamento della manodopera messo in piedi dai caporali e proprietari delle aziende. Il ministro Luciana Lamorgese ha accettato le dimissioni dell'alto funzionario, già prefetto a Reggio Calabria.

L'inchiesta va avanti da tempo. Gli inquirenti nel corso dei mesi hanno messo sotto la lente d'ingrandimento le condizioni di sfruttamento cui erano sottoposti numerosi braccianti extracomunitari provenienti dall'Africa. Venivano impiegati nelle campagne della Capitanata per i lavori nei campi ed erano tutti "residenti" nella nota baraccopoli di Borgo Mezzanone. Questo insediamento ospita circa 2000 persone, che vivono in condizioni igieniche e sanitarie disumane.

I braccianti venivano costretti a lavorare nei campi di pomodori dalla mattina alla sera alla misera cifra di 5€ per ogni cassone riempito. Ovviamente, tutti i lavoratori erano impiegati nei campi senza che avessero a disposizione i dispositivi di protezione e le minime tutele previste dalla legge. Venivano costantemente controllati nello svolgimento del lavoro e non risultavano sottoposti alle prescritte visite mediche e venivano trasportati sui campi con mezzi inidonei, "in pessime condizioni d'uso, pericolosi per la circolazione stradale e per la incolumità degli stessi lavoratori".

La bufera si è ora abbattuta sul Viminale. In una nota della Lega si legge: "Sbarchi clandestini raddoppiati, 100.000 arrivi negli ultimi due anni, un'Europa su questo tema assente e lontana. E oggi le dimissioni del capo dipartimento dell'Immigrazione. Disastro al Viminale, il ministro riferisca immediatamente in Parlamento".

Anche dall'opposizione si alza la voce contro i vertici del ministero dell'Interno. "Non basta che il capo del dipartimento per le Libertà civili e l'Immigrazione del Viminale si dimetta dal proprio incarico. Dopo anni di continue criticità, serve una vera svolta per mettere la parola fine alla scandalosa gestione dei dossier in capo al ministero dell'Interno che ha in Lamorgese la principale responsabile", ha tuonato Francesco Lollobrigida, capogruppo di Fratelli d'Italia alla Camera. FdI ora chiede che anche il titolare del Viminale si assuma le sue responsabilità: "Dall'immigrazione alla sicurezza, gli errori e la superficialità del ministro evidentemente riguardano anche gli uomini da lei confermati in ruoli chiave per la gestione del dicastero. Lamorgese si dimetta o sia il presidente del Consiglio Draghi a rimuoverla quanto prima".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Imbarazzo al Viminale per l'addio di Di Bari. E la Lega: "Riferisca subito in Parlamento". Chiara Giannini l'11 Dicembre 2021 su Il Giornale. Il Carroccio: "Il fenomeno si contrasta fermando gli sbarchi, 100mila in due anni". Fdi: "La ministra lasci". Ma lei: "Fu nominato da Salvini". È bufera sul ministro dell'Interno Luciana Lamorgese dopo le dimissioni del capo dipartimento dell'Immigrazione Michele Di Bari, la cui consorte risulta indagata nell'ambito dell'inchiesta di Foggia sul caporalato. La Lega non perde tempo e chiede che la titolare del Viminale «riferisca immediatamente in Parlamento», ricordando gli «sbarchi clandestini raddoppiati, i 100mila arrivi negli ultimi due anni, un'Europa su questo tema assente e lontana». I media si affrettano a ricordare che il prefetto, che comunque risulta estraneo ai fatti, fu nominato da Matteo Salvini quando ricopriva l'incarico di ministro, ma poco importa, perché i fatti risalgono al 2020, ovvero a quando la Lamorgese lo aveva già sostituito. E la stessa, che secondo Openpolis ha nominato dall'inizio del suo mandato la bellezza di 88 prefetti su 105, si è ben guardata dal rimuoverlo dal ruolo che ha ricoperto fino a ieri.

Il sottosegretario all'Interno Nicola Molteni spiega al Giornale: «Non voglio entrare nell'ambito dell'inchiesta, ringrazio i carabinieri e le Forze dell'ordine che hanno partecipato all'operazione, ma tengo a dire che il caporalato si contrasta sì con la legge 199 del 2016 votata anche da noi. Si contrasta con i tavoli appositi, con iniziative specifiche (la Lamorgese ha anche nominato Roberto Maroni a capo della Consulta per l'attuazione del Protocollo d'intesa per la prevenzione e il contrasto dello sfruttamento lavorativo in agricoltura e del caporalato, ndr), ma soprattutto si contrasta con il blocco dell'immigrazione clandestina, perché più migranti irregolari ci sono, più è facile arrivare a situazioni di questo tipo». E ricorda che sotto l'amministrazione Lamorgese, nel 2020 sono arrivati «34mila immigrati, altri 63mila quest'anno, più 5mila afghani». Numeri da record che danno da pensare.

Il Viminale ieri si è limitato a dare comunicazione dell'accettazione delle dimissioni di Di Bari da parte del ministro, che però non parla. I bene informati dicono che all'interno della sede del dicastero la Lamorgese, già turbata dai continui attacchi della Lega, dalle polemiche per l'attacco alla Cgil durante una manifestazione No Pass e dalle critiche per la mala gestione dell'ordine e della sicurezza pubblica durante il rave nel Viterbese, si sia trincerata dietro un preoccupante silenzio. Perché ora teme che la politica torni a chiedere le sue dimissioni.

«Chiediamo che il ministro dell'Interno riferisca immediatamente in Parlamento sul tema immigrazione - ha detto Salvini -, anche perché l'ultima missione europea è stata assolutamente fallimentare. L'Europa quindi non ci ascolta, gli sbarchi raddoppiano, i capi dipartimento si dimettono. Ci venga a raccontare che intenzioni ha». Sulla stessa linea LeU, con il senatore Francesco Laforgia che spiega: «Rispetteremo come sempre lo svolgimento delle indagini e il lavoro dei magistrati, nel frattempo però ci aspettiamo che la ministra dell'Interno venga in Aula a riferire sulla vicenda». La richiesta di dimissioni arriva però da Fratelli d'Italia, con il capogruppo alla Camera Francesco Lollobrigida che chiarisce: «Dall'immigrazione alla sicurezza, gli errori e la superficialità del ministro evidentemente riguardano anche gli uomini da lei confermati in ruoli chiave per la gestione del dicastero. Lamorgese si dimetta o sia il presidente del Consiglio Draghi a rimuoverla quanto prima».

A difenderla resta come sempre il Pd, sempre più vicino alla titolare del dicastero dell'Interno, con Dario Stefàno, presidente della commissione Politiche europee al Senato che spiega: «Tirare in ballo la ministra Lamorgese per un'inchiesta che vede coinvolta la moglie di un dirigente del Viminale è davvero troppo. Questo è il garantismo delle destre italiane?».

Chiara Giannini. Livornese, ma nata a Pisa e di adozione romana, classe 1974. Sono convinta che il giornalismo sia una malattia da cui non si può guarire, ma che si aggrava con il passare del tempo. Ho iniziato a scrivere a cinque anni e ho solcato la soglia della prima redazione ben prima della laurea. Inviata di guerra per passione, convinta che i fatti si possano descrivere solo guardandoli dritti negli occhi. Ho raccontato l’Afghanistan in tutte le sue sfumature e nel 2014 ho rischiato di perdere la vita in un attentato sulla Ring Road, tra Herat e Shindand. Alla fine ci sono tornata 13 volte, perché quando fai parte di una storia non ne esci più. Ho fatto reportage sulle missioni in Iraq, Libano, Kosovo, il confine libico-tunisino ai tempi della Primavera araba e della morte di Gheddafi e sull’addestramento degli astronauti a Star City (Russia). Sono scampata all’agguato di scafisti a Ben Guerdane, di ritorno da Zarzis, tre le poche a documentare la partenza dei barconi. Ho scritto due libri: “Come la sabbia di Herat” e l’intervista al leader della Lega, dal titolo “Io sono Matteo Salvini”, entrambi per Altaforte. Sono convinta che nella vita contino solo due cose: la verità e la libertà. Vivo per raccontare il mondo, ma è sempre bello, poi, tornare a casa e prendere in mano un giornale e rileggere il tuo articolo.

Dalle politiche migratorie alle dimissioni: chi è il funzionario nella bufera. Francesco Curridori il 10 Dicembre 2021 su Il Giornale. Michele Di Bari, capo del Dipartimento per le Libertà Civili e l'Immigrazione, si è dimesso oggi dopo che sua moglie è stata arrestata nell'ambito di un'inchiesta sul caporalato. La notizia di un blitz delle forze dell'ordine contro il caporalato in provincia di Foggia scuote il Viminale. Michele Di Bari, capo del Dipartimento per le Libertà Civili e l'Immigrazione, dipendente del Ministero dell'Interno, si è dimesso dopo che sua moglie è risultata tra la 16 persone arrestate.

Di Bari, classe 1959, nativo di Mattinata, in provincia di Foggia, vanta una lunga carriera come prefetto della Repubblica. Laureato con lode in giurisprudenza, consegue poi il diploma del corso di studio per aspiranti segretari comunali presso la LUISS e frequenta il corso biennale di "Management in sanità" presso la Scuola di Direzione Aziendale dell'Università Bocconi di Milano. In seguito si dedica al corso di perfezionamento su "Cittadinanza europea ed amministrazioni pubbliche", organizzato dalla Scuola Superiore dell'Amministrazione dell'Interno in collaborazione con l'Università degli Studi Roma Tre. Nel 1990 inizia la sua carriera prefettizia e, dopo undici anni, viene promosso viceprefetto. Diventa, poi, capo di Gabinetto e viceprefetto vicario presso la prefettura di Foggia. Nel corso della sua carriera ricopre numerosi incarichi, tra cui quelli di vice Commissario Governativo della nuova Provincia di Barletta-Andria-Trani e di Commissario ad acta per l'esecuzione di provvedimenti giurisdizionali del Tar - Puglia. Svolge il compito di commissario straordinario di numerosi comuni. Nel 2007 viene nominato esperto di sanità e politiche sociali dalla Presidenza del Consiglio, mentre nel 2010, dopo esser diventato prefetto, le funzioni di vice commissario del Governo nella Regione Friuli Venezia Giulia. Dal 2012 è prefetto di Vibo Valentia per un anno, prima di passare a Modena, dove lavora dal 2013 al 2016 e, infine, va a Reggio Calabria. Qui vi rimane fino al 14 maggio 2019 quando viene nominato capo del dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione. Oggi sono arrivate le dimissioni, subito accettate dal titolare del Viminale.

Nel corso di un'intervista rilasciata lo scorso giugno al quotidiano cattolico Interris, Di Bari definiva così il modello d'integrazione italiano: “Quello di costituire uno strumento di responsabilizzazione nei confronti del territorio e della comunità di residenza, che sia il principale anticorpo in grado di prevenire e neutralizzare fenomeni di radicalizzazione". L'integrazione, a suo dire, è un'opportunità: "L’Italia - aveva dichiarato -, storico crocevia di popoli e culture, ne è testimone privilegiato, come dimostrato dalle sue ricchezze artistiche e urbanistiche, realizzate nel corso dei secoli. Nel corso degli ultimi 50 anni il nostro Paese, che ha visto emigrare 60 milioni di Italiani in tutto il mondo, è diventato meta di migranti, intenzionati a migliorare le proprie condizioni di vita.”

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi sono

Da “Controcorrente” il 12 dicembre 2021.

«Io ho un’azienda di ortaggi e cerealicola, non ho bisogno di manodopera straniera. Il giorno prima che si iniziasse ho richiesto i documenti a una persona che conoscevo per tagliare l’uva». «Se questa persona era uno straniero? Sì, mi avevano passato questo numero, questo aveva persone per raccoglierle. Le ho assunte regolarmente». 

Questa sera in prima serata, su Retequattro a “Controcorrente – Prima serata”, andrà in onda l’intervista esclusiva a Rosalba Livrerio Bisceglia, indagata nell'inchiesta per caporalato a Foggia. Imprenditrice agricola, è la moglie del prefetto Michele Di Bari, capo del dipartimento per l’Immigrazione, che si è dimesso dopo quanto accaduto. La donna gestisce un'azienda agricola in provincia di Foggia. 

G: Signora Bisceglia, sono Marco Sales, Controcorrente Mediaset, volevamo soltanto capire come si difendeva dalle accuse di caporalato? Ce lo può dire?

R: «Io ho un’azienda di ortaggi e cerealicola, non ho bisogno di manodopera straniera. Non ho cose che si tagliano con le mani all’infuori di un piccolo vigneto dove si raccoglie l’uva. L’uva 2020, il giorno prima che si iniziasse ho richiesto i documenti a una persona che conoscevo per tagliare l’uva». 

G: Questa persona però era uno straniero, un caporale?

R: «Sì, mi avevano passato questo numero, questo aveva persone per raccoglierle. Le ho assunte regolarmente».

G: Secondo gli inquirenti però lei parlava con questo caporale e non direttamente con i lavoratori dei campi, anche rispetto ai pagamenti. Perché?

R: «Perché sono tanti e quindi quando è così c’è sempre uno che viene e fa un lavoro di sei giorni. Penso che tutto questo verrà fornito nella sede giusta» 

G: È un paradosso, considerato il lavoro di suo marito.

R: «Vi ringrazio…»

G: Lei si trova proprio in una posizione più delicata. Avrebbe dovuto parlare direttamente con i lavoratori.

R: «Sicuramente è stata una superficialità. Adesso però non mi sento di aver fatto una grande...la prego adesso mi lasci chiudere...» 

G: Soltanto una cosa signora, perché una persona straniera? Cioè, non c'erano altri interlocutori? Perché di fatto quello era un caporale e dalle carte lo si legge che quella è una persona che chiedeva cinque euro a viaggio.

R: «La lascio, mi scusi... »

La moglie del prefetto. "È stata una superficialità". Chiara Giannini il 13 Dicembre 2021 su Il Giornale. Caporalato, la donna indagata: "Assunti solo per raccogliere l'uva". Il conflitto d'interessi col marito. Rosalba Livrerio Bisceglia, titolare dell'omonima azienda agricola, la moglie del prefetto Michele Di Bari, ex capo del Dipartimento per l'immigrazione del Viminale, si difende dalle accuse che l'hanno portata a essere indagata insieme ad altre 15 persone nell'inchiesta sul caporalato in provincia di Foggia. Ieri sera la donna ha parlato a «Controcorrente - Prima serata», su Rete 4, i cui giornalisti sono riusciti a intervistarla. «Io - ha spiegato - ho un'azienda di ortaggi e cerealicola, non ho bisogno di manodopera straniera. Non ho cose che si tagliano con le mani all'infuori di un piccolo vigneto dove si raccoglie l'uva. L'uva 2020, il giorno prima che si iniziasse ho richiesto i documenti a una persona che conoscevo per tagliare l'uva».

E ha proseguito: «Mi avevano passato questo numero, questo aveva persone per raccoglierle. Le ho assunte regolarmente».

Secondo gli inquirenti la persona alla quale la Livrerio Bisceglia si era rivolta era il caporale Bakary Saidy, che si occupava di procurare la manodopera tra gli extracomunitari che vivevano nella baraccopoli di Borgo Mezzanone. Secondo l'ordinanza del gip, in effetti, la donna trattava direttamente con Saidy anche per i pagamenti ai braccianti. «Perché - ha spiegato a chi l'ha intervistata - sono tanti e quindi quando è così c'è sempre uno che viene e fa un lavoro di sei giorni. Penso che tutto questo verrà fornito nella sede giusta. Sicuramente è stata una superficialità. Adesso - ha concluso rivolgendosi all'intervistatore - però non mi sento di aver fatto una grande... La prego adesso mi lasci chiudere».

Secondo quanto risulta dalle intercettazioni degli inquirenti, tra i sedici indagati c'era persino chi ammetteva candidamente che gli africani venivano fatti viaggiare nel portabagagli delle auto per evitare i controlli. Molti sapevano che le verifiche potevano avvenire, per cui cercavano di posticipare l'orario di lavoro. Una prassi ormai consolidata, ma che consentiva di far risparmiare agli imprenditori un sacco di soldi, vista la misera paga che veniva data agli extracomunitari, molti dei quali provenienti da accampamenti illegali o alloggi di fortuna, per lo più dal ghetto di Borgo Mezzanone. Queste persone venivano retribuite con poco più di 5 euro all'ora per raccogliere pomodori, frutta e olive.

Dei 16 indagati, 2 sono in carcere, 3 ai domiciliari e 11 hanno un provvedimento di obbligo di dimora e presentazione alla polizia giudiziaria.

L'indagine Terra rossa dei carabinieri ha portato a scoprire come caporali, titolari e/o soci delle aziende avevano messo in piedi un apparato quasi perfetto, che andava dall'individuazione della forza lavoro per la lavorazione dei campi, al reclutamento della stessa, fino al sistema di pagamento.

Adesso si dovrà anche capire il perché il prefetto di Bari abbia mantenuto quel ruolo al Dipartimento immigrazione del Viminale quando la moglie, in chiaro conflitto di interessi, utilizzava extracomunitari immigrati per la raccolta dei prodotti della terra.

Al Sud due clandestini su dieci sfruttati in nero per 5 euro all'ora. Chiara Giannini il 13 Dicembre 2021 su Il Giornale. Degli oltre 60mila migranti arrivati da gennaio solo 2.200 sono stati rimpatriati. Gli altri delinquono, scappano o si arrangiano. Almeno il 20 per cento degli stranieri irregolari lavora al Sud come bracciante al nero. Un dato che emerge da un rapido calcolo ottenuto analizzando i dati dei vari rapporti annuali. In due anni sono approdati in Italia circa 100mila immigrati clandestini: 34mila nel 2020, 63.062 dal 1 gennaio 2021 a oggi, più 5mila afghani trasportati dalle nostre Forze armate durante l'emergenza in quel Paese. Ma quanti di questi lavorano e quanti sono stati rimpatriati? Le risposte sono poco confortanti. Partiamo dal numero di coloro che sono stati rispediti nei Paesi di provenienza. Sono stati 2.231 da inizio anno al 15 novembre scorso, ovvero appena il 49,7 per cento dei migranti trattenuti nei centri di rimpatrio (4.489). Nel 2020 furono il 50,89 per cento. Tra i motivi che ne hanno impedito il rimpatrio ci sono l'arresto, l'allontanamento arbitrario, la mancata identificazione o la mancata convalida del fermo da parte dell'autorità giudiziaria allo scadere del termine.

Secondo i dati del Dipartimento della pubblica sicurezza elaborati dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, ed esposti durante un recente workshop, su «2.231 rimpatri di quest'anno la maggioranza (71,8%) sono stati effettuati verso la Tunisia con 1.602 persone, 259 verso l'Egitto, 142 verso l'Albania, 53 verso la Romania, 30 verso la Georgia».

La maggior parte di chi resta e richiede asilo viene ospitata in uno dei 5mila centri di accoglienza presenti sul territorio nazionale che hanno, secondo quanto riportato sul sito del Viminale, una capienza totale di circa 80mila posti. Queste persone rimangono nei centri, mantenute dallo Stato italiano, per il tempo necessario «per le procedure di accertamento dei relativi requisiti, diversamente, vengono trattenuti in vista dell'espulsione». Espulsione che non avviene quasi mai, viste le ingenti difficoltà. Solo il 10/15 per cento alla fine ottiene la protezione internazionale. Peraltro, di recente il governo Draghi ha aumentato la dotazione finanziaria dei capitoli di spesa necessari a sostenere le politiche di accoglienza per i richiedenti asilo. Fino al 2023 potranno essere spesi sino a «100 milioni di euro per rispondere ai bisogni di chi entra nel Paese e richiede protezione».

Insomma, i clandestini gravano sulle spalle degli italiani. Una volta ottenuta o meno la protezione internazionale, c'è chi si cerca un lavoro. E può accadere come a Foggia, dove centinaia di migranti irregolari vengono sfruttati dai caporali a fronte di un guadagno di non più di 5 euro all'ora per raccogliere frutta o verdura. Un sistema che porta solo degrado, perché laddove non si sia in grado di bloccare l'immigrazione clandestina, si creano inevitabili sacche di criminalità, con gente che bivacca, delinque, si arrangia come può non rispettando le regole. Una situazione vergognosa in quello che dovrebbe essere un Paese civile e che vede costrette le Forze dell'ordine a un super lavoro per bloccare comportamenti illeciti.

Secondo un recente rapporto governativo, la «popolazione straniera residente in Italia al 1° gennaio 2021 ammontava a 5,036 milioni. Rispetto al 2020, è rimasta sostanzialmente stabile (-4 mila; -0,1%)». A questa, però, vanno aggiunti i circa 600mila irregolari non censiti, molti dei quali lavorano al nero come braccianti nei campi (al Sud almeno il 20 per cento), come badanti o colf. Gli occupati stranieri regolari in Italia, invece, sono attualmente «2,3 milioni, circa il 10% del totale».

Chiara Giannini. Livornese, ma nata a Pisa e di adozione romana, classe 1974. Sono convinta che il giornalismo sia una malattia da cui non si può guarire, ma che si aggrava con il passare del tempo. Ho iniziato a scrivere a cinque anni e ho solcato la soglia della prima redazione ben prima della laurea. Inviata di guerra per passione, convinta che i fatti si possano descrivere solo guardandoli dritti negli occhi. Ho raccontato l’Afghanistan in tutte le sue sfumature e nel 2014 ho rischiato di perdere la vita in un attentato sulla Ring Road, tra Herat e Shindand. Alla fine ci sono tornata 13 volte, perché quando fai parte di una storia non ne esci più. Ho fatto reportage sulle missioni in Iraq, Libano, Kosovo, il confine libico-tunisino ai tempi della Primavera araba e della morte di Gheddafi e sull’addestramento degli astronauti a Star City (Russia). Sono scampata all’agguato di scafisti a Ben Guerdane, di ritorno da Zarzis, tre le poche a documentare la partenza dei barconi. Ho scritto due libri: “Come la sabbia di Herat” e l’intervista al leader della Lega, dal titolo “Io sono Matteo Salvini”, entrambi per Altaforte. Sono convinta che nella vita contino solo due cose: la verità e la libertà. Vivo per raccontare il mondo, ma è sempre bello, poi, tornare a casa e prendere in mano un giornale e rileggere il tuo articolo.

Valeria D'autilia per “la Stampa” il 12 dicembre 2021. Una realtà agricola da generazioni, guidata da tre sorelle. Nel cuore del Parco del Gargano, tra uliveti, vigneti e distese di grano. «I campi vengono coltivati rispettando l'ecosistema ambientale, valorizzando le piante autoctone e tutelando la natura del territorio» si legge sul sito dell'azienda agricola Bisceglia. Ma per la procura di Foggia, che ha aperto un'inchiesta per caporalato, è qui che si annidano le pieghe dello sfruttamento. E nel mirino finisce una delle socie: Rosalba Livrerio Bisceglia, 55 anni, moglie del dimissionario capo del Dipartimento Libertà civili ed immigrazione del Viminale Michele Di Bari. Il prefetto, alla notizia del coinvolgimento della donna, ha rassegnato subito le sue dimissioni, accolte dal ministro dell'Interno Lamorgese. Poi si è detto «dispiaciuto moltissimo per mia moglie che ha sempre assunto comportamenti improntati al rispetto della legalità», sottolineandone la «totale estraneità ai fatti contestati». La prossima settimana si attende l'interrogatorio di garanzia. Livrerio Bisceglia è indagata (con obbligo di dimora) insieme ad altre dieci persone, mentre cinque- tra caporali e imprenditori- sono state arrestate. Dieci in tutto le aziende coinvolte, per un volume d'affari annuo di 5 milioni. Ai lavoratori andavano circa 35 euro al giorno: una parte era per il caporale. «Si sente la coscienza a posto» fa sapere il suo avvocato, Gianluca Ursitti, che sta preparando la documentazione per la difesa, mentre ci tiene a specificare che, in questi ettari di terra, la maggior parte del lavoro è meccanizzato e l'impiego di manodopera, di conseguenza, marginale. «Abbiamo tutti i pagamenti tracciati. Per noi questa è condizione già necessaria e sufficiente per escludere la sussistenza del reato». Stando alle accuse, non si rispettavano i contratti: i lavoratori avrebbero ricevuto «la somma di 5,70 euro all'ora e il pagamento avveniva anche conteggiando il numero di cassoni raccolti». E poi niente straordinario retribuito, né servizi igienici idonei o pause (ad eccezione del pranzo). Ma ci sarebbe dell'altro: venivano impiegati senza dispositivi di sicurezza e «spesso non provvedendo alla loro assunzione formale e non controllando che i documenti corrispondessero effettivamente ai braccianti poi presenti sui campi». Proprio qui, erano sotto il controllo serrato del loro sfruttatore, Bakary Saidy. «Porta da Nico tutti i documenti» si legge nelle intercettazioni della Livrerio Bisceglia. «Devi portare prima perché così io devo fare ingaggi...e poi il giorno dopo iniziate a lavorare» dice a Saidy. Per gli inquirenti l'imprenditrice era «consapevole delle modalità delle condotte di reclutamento e sfruttamento». Stando alle carte, le braccia venivano assoldate dal caporale nel ghetto di Borgo Mezzanone, in base alla manodopera richiesta dalla moglie del prefetto. Poi «venivano controllati e gestiti» da Matteo Bisceglia e «assunti tramite documenti forniti dal Saidy che riceveva il compenso da Livrerio Bisceglia». Soldi che il caporale distribuiva tra i migranti, facendosi pagare 5 euro per l'attività di intermediazione. «Noi, senza documenti, siamo andati via» racconta un bracciante, informando il suo superiore dell'ispezione dei carabinieri nell'azienda. Per il gip la conferma che alcuni di loro non erano assunti regolarmente e che erano fuggiti, proprio per eludere i controlli. In un'altra conversazione, è Bakary a dare indicazioni su come muoversi: «Quando andate al lavoro, portate la macchina in un posto lontano, non vicino a voi». Perché «quando il problema viene, nessuno si salva». Era settembre dell'anno scorso.

Migranti, Meloni: «Un altro scandalo sul business dell’accoglienza. E la sinistra buonista tace». Agnese Russo sabato 6 Novembre 2021 su Il Secolo d'Italia. Non un allarme astratto, ma «fatti concreti» che hanno «riscontri giudiziari». Giorgia Meloni torna a denunciare il «business dell’accoglienza», rilanciando la notizia dell’«ennesimo scandalo» emerso da Verona, dove la Guardia di Finanza ha compiuto il sequestro preventivo di 12 milioni di euro nei confronti di una società che del settore sportivo, impegnata nel servizio di assistenza e accoglienza ai richiedenti asilo. «Ennesimo scandalo legato al business dell’accoglienza. Questa volta i riflettori della Guardia di Finanza sono finiti su una società di Verona che sembrerebbe aver intascato illecitamente milioni di euro per l’accoglienza dei migranti», ha scritto Meloni sulla sua pagina Facebook, sottolineando che «quando parliamo del business dell’immigrazione clandestina, parliamo di fatti concreti che hanno, purtroppo, riscontri giudiziari». «Anche per questo – ha aggiunto la leader di FdI, rilanciando la notizia – denunciamo l’ipocrisia buonista della sinistra, spesso complice (vedi il pessimo “modello Riace”) di situazioni opache con illeciti e sperpero di denaro pubblico». «Fermiamo il business sulla pelle dei migranti, fermiamo l’immigrazione clandestina», ha quindi concluso Meloni.In particolare, l’operazione della GdF nei confronti della società di Verona, giunta al termine di una indagine durata due anni, hanno chiarito i contorni di quella che è stata descritta come una ben architettata truffa perpetrata dalla società, affidataria insieme ad altre del servizio di accoglienza e assistenza ai cittadini stranieri richiedenti protezione internazionale nella provincia di Verona negli anni 2016, 2017 e 2018 e, per questo, destinataria di una somma complessiva di 12.242.711 euro in relazione alla gestione di oltre 700 migranti. L’inchiesta della Procura di Verona, condotta sui reati di truffa aggravata nei confronti di un ente pubblico (la Prefettura di Verona), falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico e turbata libertà degli incanti, ha fatto emergere come la società intascasse i soldi, ma non erogasse i servizi richiesti, danneggiando quindi non solo le casse dello Stato, ma anche gli stessi migranti.

Il rapporto della Cild. Il business dei Cpr, 44 milioni in 3 anni a soggetti privati per custodire 400 persone nel degrado e senza diritti. Giulio Cavalli su Il Riformista il 16 Ottobre 2021. Cosa sono i Cpr in Italia? Un “filiera molto remunerativa” senza personale, senza mezzi, senza strutture e senza diritti. È il quadro impietoso che esce dall’ultimo rapporto della Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili (CILD, una rete di organizzazioni della società civile nata nel 2014 che lavora per difendere e promuovere i diritti e le libertà di tutti, unendo attività di advocacy, campagne pubbliche e azione legali) che fin dal titolo lascia trasparire le conclusioni: “Buchi neri – la detenzione senza reato nei Centri di permanenza per i rimpatri”. In Italia attualmente risultano operativi 10 CPR (Milano, Torino, Gradisca d’Isonzo, Roma-Ponte Galeria, Palazzo San Gervasio, Macomer, Brindisi-Restinco, Bari-Palese, Trapani-Milo, Caltanissetta-Pian del Lago) per una capienza di circa 1.100 posti in tutto. Il rapporto evidenzia come nel periodo 2018-2021, siano stati spesi ben 44 milioni di euro per la gestione da parte di soggetti privati di tali 10 strutture, cui vanno sommati i costi relativi alla manutenzione delle stesse e al personale di polizia. «Una media giornaliera – si legge nel rapporto – di spesa pari a 40.150 euro per detenere mediamente meno di 400 persone al giorno che, nel 50% dei casi, verranno private della propria libertà senza alcuna possibilità di essere realmente rimpatriate nel proprio Paese d’origine. La detenzione amministrativa è divenuta, insomma, una “filiera molto remunerativa”, i cui costi sono sostenuti da tutta la società attraverso la leva fiscale. All’interno di questo sistema di trattenimento si registra, da un lato, una continua spinta alla minimizzazione dei costi da parte dello Stato e, dall’altro, la ricerca della massimizzazione del profitto da parte delle imprese e cooperative cui vengono assegnati gli appalti. Nel mezzo vi sono centinaia di persone trattenute in delle strutture che non rispettano, in molti casi, neanche gli standard dettati dal Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura». Negli anni infatti si è registrato un drastico calo di tutti i servizi destinati alla persona e con la riduzione del monte ore (fino al 78% nei centri più grandi) del personale dipendente che ha portato a una cronica mancanza di mediatori culturali (che non coprono tutte le lingue parlate dei trattenuti, come a Torino) e una riduzione del monte ore dei medici (per i CPR più capienti) del 70,8% nel 2018 e del 41,7% nel 2021 mentre per quanto concerne gli psicologi, nel passaggio dal 2017 al 2018/2021 vi è stata una riduzione del monte ore del 55,6%. Poi ci sono i luoghi: mancano locali di pernottamento differenziati per i richiedenti asilo (come espressamente richiesto dal d.lgs. n.142/2015 e dallo stesso Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura), i metri quadri delle singole stanze non sembrano rispettare lo standard dello spazio vitale minimo richiesto dalla Corte Edu, c’è carenza di luce naturale, mancanza di campanelli di allarme, stanze con blatte (come a Palazzo San Gervasio prima dei lavori di ristrutturazione), materassi senza lenzuola, vetri rotti e muffa. Nel rapporto si sottolinea anche come le condizioni igieniche siano pessime e come il cibo non tenga conto delle convinzioni religiose e delle esigenze mediche dei trattenuti. La mancanza di spazi comuni, si legge nel rapporto, «rende tali strutture dei veri e propri “involucri vuoti”, in cui le persone perdono la propria identità per essere ridotte a corpi da trattenere e confinare». In compenso le società che gestiscono i centri (tra cui alcune multinazionali come Gepsa Italia che fa parte di Engie Francia oppure Ors Italia, con sede a Zurigo, che gestisce Centri di accoglienza e di trattenimento dei migranti in 4 Paesi europei: Svizzera, Germania, Austria e Italia e che nel 2015 è stata nominata in un rapporto di Amnesty International per le condizioni inumane di accoglienza dei migranti nel Centro austriaco di Traiskirchen) «sembrano evidenziare come la detenzione amministrativa sia divenuta, anche nel nostro Paese, un settore molto remunerativo e di attrazione per le multinazionali», sempre con gare d’appalto con il criterio di aggiudicazione basato sull’offerta economica più vantaggiosa. CILD ha anche sottolineato come nonostante la pandemia il numero dei transitati sia rimasto costante pure con il blocco dei rimpatri: trattenimenti sostanzialmente illegittimi poiché «la detenzione nei CPR è esclusivamente propedeutica al rimpatrio». L’organizzazione dei servizi sanitari all’interno dei CPR appare, a detta dello stesso Garante nazionale, «particolarmente critica», per mancanza di personale e per la «totale assenza di protocolli di prevenzione dei rischi, nonostante i numerosi episodi di autolesionismo che si verificano nei Centri». L’assistenza medica e psicologica è garantita, a ciascun trattenuto, per pochi minuti alla settimana (15 alla settimana nel Centro di Milano, solo per fare un esempio). A questo si aggiunge l’abuso di psicofarmaci (utilizzati spesso come metodo di disciplina, più che come cura) oltre a una più che deficitaria campagna di prevenzione e di profilassi per Covid. Ovviamente CILD sottolinea anche il fatto che i trattenuti non siano informati dei propri diritti e che non possano difendersi in un sistema giudiziario che non ne rispetta i diritti: la durata delle udienze oscilla tra i 5 e i 10 minuti, le sentenze sono quasi sempre formule di stile. Il numero delle morti nei CPR non è mai stato così elevato come negli ultimi anni: tra giugno 2019 e maggio 2021, sei cittadini stranieri hanno perso la vita mentre scontavano una misura di detenzione amministrativa.

Giulio Cavalli. Milano, 26 giugno 1977 è un attore, drammaturgo, scrittore, regista teatrale e politico italiano.

Processo a Mimmo Lucano, condannato l’ex sindaco di Riace: 13 anni e 2 mesi di carcere. Il tribunale di Locri ha condannato in primo grado l'ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano. I giudici hanno inflitto una pena a 13 anni e 2 mesi di carcere. Il Dubbio il 30 settembre 2021. Il tribunale di Locri ha condannato in primo grado l’ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano. I giudici hanno inflitto una condanna a 13 anni e 2 mesi di carcere. 

In primo grado condannati:

Adeba Abraha Gebremarian a 4 mesi di reclusione (pena sospesa)

Giuseppe detto Luca Ammendolia a 3 anni e 6 mesi di reclusione

Nicola Audino 4 anni di reclusione

Assam Balde un anno di reclusione (pena sospesa)

Fernando Antonio Capone a 9 anni e 10 mesi di reclusione

Oberdan Pietro Curiale a 6 anni di reclusione

Cosimina Ierinò a 8 anni e 10 mesi di reclusione

Ounar Keita a un anno di reclusione (pena sospesa) Mimmo Lucano a 13 anni e 2 mesi di reclusione

Annamaria Maiolo a 6 anni di reclusione

Cosimo Damiano Misuraca a un anno di reclusione (pena sospesa)

Gianfranco Misuraca a 4 anni di reclusione

Salvatore Romeo a 6 anni di reclusione

Maurizio Senese a un anno di reclusione

Maria Taverniti a 6 anni e 8 mesi di reclusione

Lemlen Tesfahun a 4 anni e 10 mesi di reclusione

Filmon Tesfalem a un anno di reclusione

Jerry Cosimo Ilario Tornese a 6 anni di reclusione.

I giudici del tribunale di Locri, inoltre, hanno applicato nei confronti degli imputati condannati la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per la durata di cinque anni.

Assolti

Adeba Abraha Gebremarian (capi 9.1, 9.2, 9.3, 9.4 e 9.5)

Nicola Audino (capo 1)

Fernando Antonio Capone (capi 5B.7, 5B.8, 8, 9.5, 12, 13 e 14)

Pietro Oberdan Curiale (capo 5B.16)

Prences Daniel

Alberto Gervasi

Cosimina Ierinò (capi 5B.7, 5B.8 e 9.5)

Domenico Latella

Mimmo Lucano (capi 5B, 5B.7, 5B.8, 8, 9.5, 14, 19, 21 e 22)

Annamaria Maiolo (capi 3, 5B.12)

Nabil Moumen

Cosimo Damiano Misuraca (capo 5B.7)

Gianfranco Misuraca (1, 9.1, 9.2, 9.3 e 9.5)

Antonio Santo Petrolo

Salvatore Romeo (capi 5B.15, 9.9 e 9.10)

Maria Taverniti (capo 5B.14)

Lemlen Tesfahum (capi 9.1, 9.5 e 21)

Renzo Valilà (capi 1, 9.9, 9.10, 9.11)

Rosario Zurzolo 

Il tribunale di Locri dichiara non doversi procedere per intervenuta prescrizione nei confronti di:

Mimmo Lucano (capo 17)

Fernando Antonio Capone (capo 18)

Domenico Sgrò (capo 18)

Giuseppe Sarò (capi 1, 2, 5B.11 e 9.6).

Disposta la trasmissione degli atti alla procura di Locri per Cosimina Ierinò (capo 2), Rosario Zurzolo (capo 5B.4), Giuseppe Ammendolia detto Luca (capo 5B.5), Lemlen Tesfahun, Adeba Abraha Gebremarian, Mimmo Lucano, Fernando Antonio Capone, Cosimina Ierinò (per tutti capo 5B.10), Jerry Cosimo Ilario Tornese (capo 9.13). Altresì, il tribunale di Locri ha inviato gli atti alla procura regionale presso la Corte dei Conti di Catanzaro per le valutazioni di competenza in ordine all’eventuale danno erariale e ha infine disposto la confisca delle seguenti somme:

702.410 euro per Mimmo Lucano e Fernando Antonio Capone, in solido tra loro

159.340 euro per Annamaria Maiolo

95.550 euro per Salvatore Romeo 140.250 euro per Maria Taverniti 165.305 euro per Oberdan Pietro Curiale

649,78 euro per Mimmo Lucano, Cosimina Ierinò e Fernando Antonio Capone

20.674 euro per Mimmo Lucano, Cosimina Ierinò e Fernando Antonio Capone

1.830 euro per Mimmo Lucano, Cosimina Ierinò e Fernando Antonio Capone

15mila euro per Mimmo Lucano, Cosimina Ierinò e Fernando Antonio Capone, Giuseppe Ammendolia detto Luca, Oumar Keita, Assan Balde e Filmon Tesfalem, in solido tra loro

11.200 euro per Mimmo Lucano, Cosimina Ierinò e Fernando Antonio Capone

5.764 euro per Mimmo Lucano, Cosimina Ierinò, Fernando Antonio Capone e Cosimo Damiano Misuraca

1.280,79 euro per Domenico Lucano, Cosimina Ierinò e Fernando Antonio Capone

2.226,54 euro per Mimmo Lucano, Fernando Antonio Capone, Cosimina Ierinò e Lemlen Tesfahun

2.112.47 euro per Mimmo Lucano, Fernando Antonio Capone, Cosimina Ierinò e Adeba Abraha Gebremarian

88.451,9 euro per Maria Taverniti

Infine, Mimmo Lucano è stato condannato a risarcire la SIAE per la cifra complessiva di 7.686,98 euro, mentre Giuseppe Ammendolia (detto Luca), Fernando Antonio Capone, Oberdan Pietro Curiale, Cosimina Ierinò, Mimmo Lucano, Annamaria Maiolo, Salvatore Romeo, Maria Taverniti e Jerry Cosimo Ilario Tornese sono stati condannati al risarcimento del danno non patrimoniale nei confronti del ministero dell’Interno per 200mila euro. Le motivazioni saranno depositate entro 90 giorni.

La Reazione dei Magistrati.

E ora la condanna di Lucano scatena la rissa tra le toghe. Stefano Zurlo il 3 Ottobre 2021 su Il Giornale. Md sta con l'ex sindaco e non condanna le critiche ai giudici di Locri. Il procuratore: "Bandito da western". Liti fra le toghe. Di più, incomprensioni e frecciate fra magistrati che stanno dalla stessa parte e militano nella sinistra giudiziaria. Il caso Lucano - la condanna pesantissima dell'ex sindaco di Riace - scompone il partito dei giudici e mette in crisi antiche appartenenze. Luigi D'Alessio, il procuratore di Locri, messo in croce da molte prime fila della politica italiana, si difende sulla Stampa: Mimmo Lucano gli ricorda «il bandito di Giù la testa proclamato capo dei rivoluzionari suo malgrado, idealista, ubriacato da un ruolo più grande di lui, inconsapevole della gravità dei suoi comportamenti». Non proprio il ritratto di un gentiluomo. Il punto è che dopo il verdetto si è scatenato il lato sinistro del Palazzo, accusando i magistrati di Locri di aver deragliato, trasformando Lucano in un malvivente dal profilo quasi mafioso. E che il verdetto divida come mai in precedenza lo si capisce anche da altri interventi, a dir poco inusuali. Ecco che il segretario di Magistratura democratica Stefano Musolino contesta la richiesta di intervento dell'Anm a tutela dei magistrati di Locri. Una prassi collaudata, quasi automatica quando ci sono attacchi e critiche scomposte. Ma questa volta Musolino se la prende con i colleghi, schierandosi sia pure indirettamente con chi punta il dito contro il tribunale di Locri: «La richiesta di interventi dell'Anm a tutela della sentenza accresce la percezione pubblica di una magistratura chiusa, autopercepita come casta sacerdotale che tutela i suoi riti e le sue pronunce, non si interroga sugli effetti sociali dei suoi provvedimenti e, perciò, non ne tollera le critiche sollevando l'alibi del tecnicismo». Riflessioni che non si sentono quasi mai: di solito, e pure di più, la corporazione si tutela su tutta la linea quando il potere politico e l'opinione pubblica contestano un provvedimento e alzano la voce. Ma Lucano, un'icona dei progressisti e non solo, rompe gli schemi e D'Alessio non si sottrae, confessando «il personale tormento oltreché l'imbarazzo, di essermi trovato odiato dai miei storici referenti culturali e blandito da quelli che non lo sono mai stati. Ma questa - aggiunge - è la solitudine del magistrato». D'Alessio nel colloquio con la Stampa aggiunge un paio di domande scomode: «Lucano è al di sopra della legge? O chiunque può commettere qualsiasi reato purché a fin di bene?». Può essere che in appello, e non sarebbe la prima volta, la condanna salti o venga ridimensionata, ma è la seconda volta in pochi giorni che un verdetto fa saltare le liturgie del Palazzo e addirittura quelle di una magistratura sempre più spaccata. Era successo a Palermo, dopo l'assoluzione dei generali imputati per la trattativa, si ripete a parti inverse, a Locri, con la pena a 13 anni che si abbatte su Lucano. Md fiuta l'aria nel Paese e si adegua. Magistratura indipendente e Articolo 101 invece sono vicini a D'Alessio. E quindi contro Md che a sua volta «scarica» il Procuratore, nella bufera a un passo dalla pensione. «Rifiutiamo di prestare il fianco a qualunque critica preconcetta - affermano i giudici di Mi - che non sia basata sull'esame dei motivi delle decisioni, che ancora non sono stati resi noti e rifiutiamo ancora di più gli attacchi mirati alla persona dei singoli magistrati, invece che alle ragioni dei loro verdetti. Sono metodi di un certo modo di fare politica che non ci appartengono e dai quali prendiamo con forza le distanze». Infine, Articolo 101: «Esprimiamo piena solidarietà ai colleghi del tribunale di Locri, fatti oggetto di inusitati e ingiustificati attacchi soltanto per aver esercitato le loro funzioni: la semplice lettura del dispositivo della sentenza, da cui risulta che Lucano è stato ritenuto responsabile di oltre 20 gravi reati, dimostra facilmente che nel provvedimento non c'è nulla di abnorme». Di più: «Non ci possono essere santuari inattingibili dal controllo di legalità penale». E le toghe strattonano di qua e di là sentenza. Stefano Zurlo

Magistratura divisa sulla condanna di Mimmo Lucano. C'è chi chiede un intervento dell'Anm ed è solidale con i giudici di Locri e chi, come Stefano Musolino, segretario generale di Md critica queste posizioni. Il Dubbio il 3 ottobre 2021. La sentenza di condanna per Mimmo Lucano divide anche le correnti della magistratura. In una nota Magistratura indipendente in una nota scrive di rifiutare «di prestare il fianco a qualunque critica preconcetta, che non sia basata sull’esame dei motivi delle decisioni, che ancora non sono stati resi noti, e rifiutiamo ancora di più gli attacchi mirati alla persona dei singoli magistrati, invece che alle ragioni dei loro verdetti. Sono metodi propri di un certo modo di fare politica, che non ci appartengono ed ai quali prendiamo distanza con forza». Gli eletti nella lista di Articolo 101 al comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati, Giuliano Castiglia, Stefania Di Rienzo, Ida Moretti e Andrea Reale, chiedono l’intervento dell’An. In una nota scrivono di unirsi «a tutti coloro che hanno già espresso piena solidarietà ai colleghi del Tribunale di Locri, fatti bersaglio di inusitati e ingiustificabili attacchi soltanto per avere esercitato le loro funzioni. La semplice lettura dell’imputazione e del dispositivo della sentenza, da cui emerge che Domenico Lucano è stato ritenuto responsabile di oltre 20 gravi reati, dimostra facilmente che nel provvedimento non c’è nulla di abnorme». Di tutt’altro avviso il segretario generale di Magistratura democratica Stefano Musolino, che nel suo intervento conclusivo al convegno “Un mare di vergogna”, dedicato al tema dell’immigrazione e organizzato da Md con l’Asgi a Reggio Calabria critica queste posizioni. «La richiesta di interventi dell’Anm a tutela» della sentenza emessa dal tribunale di Locri nei confronti di Mimmo Lucano «accresce la percezione pubblica di una magistratura chiusa, auto-percepita come casta sacerdotale che tutela i suoi riti e le sue pronunce, non si interroga sugli inevitabili effetti sociali dei suoi provvedimenti e, perciò, non ne tollera le critica, sollevando l’alibi del tecnicismo». «Dentro la magistratura associata, alcuni gruppi hanno invocato interventi a tutela dei giudici di Locri, investiti dalle critiche per l’entità della pena», ha ricordato Musolino, sottolineando che «non possiamo valutare una sentenza senza prima conoscerne le motivazioni, ma possiamo interrogarci sulle ragioni per cui una sentenza suscita questo clamore. Ed abbiamo un dato oggettivo, da tutti verificabile: l’entità della pena, un elemento della decisione su cui ogni giudice esercita una discrezionalità che è anche figlia di una sensibilità valoriale. Una pena quella inflitta a Lucano, pari a quella comminata, a queste latitudini, per gravi reati di mafia». Secondo il segretario di Md, «dobbiamo prendere atto che, a prescindere dalla volontà dei giudici, per comprendere la quale dobbiamo attendere le motivazioni, la misura della pena è stata intesa nella percezione pubblica diffusa, sia quella che si è espressa in senso favorevole, sia quella che si è espressa in senso contrario agli imputati, come una condanna inflitta non solo a loro, agli imputati, ma all’intero sistema di accoglienza, organizzato a Riace. A questo, dunque, una parte dell’opinione pubblica si è ribellata. Vi è, infatti – ha osservato Musolino – una parte dell’opinione pubblica che riconosce in quel sistema di accoglienza, una modalità innovativa, avanzata, da prendere a modello, anche se singole persone ne hanno abusato ed hanno commesso reati. Il messaggio proveniente da una parte dell’opinione pubblica sembra essere: potete condannare le persone, ma una pena di una tale portata finisce per condannare un modello di accoglienza».

Il pm Musolino: «Comprensibili le critiche alla sentenza Lucano: 13 anni si danno ai mafiosi». Il segretario di Md “difende” quella parte di opinione pubblica che ha protestato contro la decisione del Tribunale di Locri.  Simona Musco su Il Dubbio il 5 ottobre 2021. Da un lato c’è l’Anm, che raccogliendo l’invito di alcune toghe difende i magistrati di Locri, denunciando «un’inaccettabile mancanza di senso istituzionale» nell’attacco «mediatico» nei confronti della procura. Da un lato chi, come Stefano Musolino, pm antimafia a Reggio Calabria e segretario generale di Magistratura Democratica, respinge al mittente i discorsi di chi sostiene che una critica delle sentenze non sia possibile. «La richiesta di interventi dell’Anm a tutela» della sentenza emessa dal tribunale di Locri nei confronti di Mimmo Lucano, ha dichiarato nei giorni scorsi a conclusione di un convegno sul tema “Un mare di vergogna”, «accresce la percezione pubblica di una magistratura chiusa, auto- percepita come casta sacerdotale che tutela i suoi riti e le sue pronunce, non si interroga sugli inevitabili effetti sociali dei suoi provvedimenti e, perciò, non ne tollera le critica, sollevando l’alibi del tecnicismo».

Dottore, come mai si è esposto in questo modo sulla vicenda che riguarda Lucano?

Proprio perché altri gruppi associati sono intervenuti nel dibattito pubblico a tutela, a prescindere, di quella sentenza e hanno invocato interventi del Csm e dell’Anm. Mi è sembrato che queste richieste mostrassero l’incapacità di una parte della magistratura di interrogarsi. Credo che tutti i gruppi associati manifestino la loro sensibilità valoriale ed è tutto perfettamente legittimo. Ma sono preoccupato del fatto che si chieda un intervento degli organismi istituzionali per tacitare le critiche rivolte a quel dispositivo. Proprio perché mi sembra la dimostrazione – e purtroppo non è la prima volta – di come la magistratura non riesca a comprendere le ragioni di questa reazione.

E quali sono le ragioni?

L’entità di una pena che, obiettivamente, è molto molto alta. Si pensi che qualche settimana fa a Reggio si è concluso il processo “Gotha” e un politico giudicato per concorso esterno in associazione mafiosa – condotta tenuta per 20 anni di attività politica – è stato condannato a 13 anni. Mi sono immedesimato in chi legge queste cose e legittimamente esprime delle critiche. Se poi sono fondate o no lo potremo dire quando leggeremo il ragionamento dei giudici e capiremo cosa li ha condotti a graduare la pena in questo modo, però credo sia legittimo che ci siano delle critiche da parte dell’opinione pubblica, perché immagino che abbia percepito che non si volesse condannare soltanto Lucano e gli altri coimputati, ma l’intero sistema.

Qualcuno ha parlato di soccorso da parte delle “toghe rosse” al compagno Lucano. Si riconosce in questa definizione?

Queste sono semplificazioni. Quando non si vuole argomentare qualcosa e discuterne ci si attacca un’etichetta e ci si impedisce di ragionare. Io ho fatto un ragionamento, se mi si dice che è sbagliato con argomenti che in questo momento io non colgo accetto il dibattito. Se la discussione è di questo livello lascia il tempo che trova.

Il procuratore di Locri è intervenuto ribadendo le ragioni della sua indagine. Secondo lei è opportuno?

Conoscendolo, sono sicuro che sia intervenuto spinto da una buona intenzione, ovvero tentare di fare chiarezza di fronte ad una lettura del dispositivo che solo chi ha vissuto il processo conosce bene. Ma in questo suo tratto di generosità probabilmente si è lasciato un po’ andare. Affermazioni come “bandito western”, in un momento in cui è stata anche recepita la norma sulla presunzione d’innocenza, lasciano il tempo che trovano, come pure giustificare la mancata concessione delle attenuanti generiche con l’omesso interrogatorio, quindi punendo un diritto difensivo. Però lo comprendo, perché non è stato facile gestire questa situazione.

Si è fatto un’idea di come si sia arrivati a questa condanna?

Siamo sul campo delle congetture. Nel primo blocco di reati in continuazione il reato principale è stato quello del peculato. Quindi la riqualificazione dell’abuso d’ufficio in truffa aggravata ha avuto un effetto limitato sul calcolo complessivo della pena. Bisogna davvero entrare nel processo per capire se c’erano i margini per poterlo fare, se c’era una prevedibilità, perché l’imputato ha anche diritto ad avere una prevedibilità della riqualificazione giuridica. Però sulle ragioni della decisione non mi sento di dire nulla. Nessuno dice che quella pena è illegale, perché è previsto dalla legge, e nell’emetterla i giudici hanno esercitato una loro legittima discrezionalità, che poi capiremo meglio con le motivazioni, ma alla fine il risultato è una pena elevata che legittimamente può suscitare nell’opinione pubblica delle critiche. Non credo che come magistrati possiamo dire che non lo si possa fare. È una presa di distanza della magistratura che stride col suo ruolo e rischia di far perdere di vista la necessità di essere non solo autoritari, ma anche autorevoli. Che vuol dire fare anche le cose contro l’opinione pubblica, quando significa difendere i diritti fondamentali e quindi non avere timore di andare contro la stessa, ma anche non chiudersi ad ogni forma di critica.

C’è poi una questione di tempistica: la sentenza è stata pronunciata a tre giorni dal voto.

Si poteva fare cinque giorni dopo. Credo che questo faccia parte della sensibilità e dell’equilibrio del giudice. Non conosco le ragioni per cui non era possibile emettere questa sentenza la prossima settimana, quello che posso dire è che in generale questo fa parte di un equilibrato esercizio dei poteri discrezionali nella gestione delle udienze da parte dei giudici. Poi i nostri sono tribunali complicati e quindi l’organizzazione delle tempistiche dipende da tante cose, ma trattandosi di una vicenda così delicata, che rischiava di impattare su un momento essenziale della nostra vita democratica, quello elettorale, ci voleva una particolare attenzione, che va oltre la tutela corporativa. E questo è un problema.

Lei ha avuto a che fare con reati gravi e anche con una gestione dell’accoglienza diversa da quella di Riace. Che differenze ci sono?

Ho fatto processi drammatici in relazione alle modalità di accoglienza dei migranti a San Ferdinando quando ero alla procura di Palmi, con strumentalizzazione della forza lavoro, associazioni finalizzate al caporalato e allo sfruttamento schiavistico dei migranti. Ho visto aggressioni a colpi d’arma da fuoco a migranti che non calavano la testa eli ho visti anche in aula indicare gli autori di gravi atti delittuosi contro di loro, con un coraggio che spesso non ho visto da parte dei cittadini italiani.

Qual è stata la pena più alta in questi casi?

Non glielo so dire perché poi sono stato trasferito a Reggio Calabria e il processo non l’ho seguito. Ma certamente sotto i 13 anni. 

Il pm: “I reati ci sono stati e gravi ma umanamente sono dispiaciuto”. Enrico Ferro su La Repubblica l'1 ottobre 2021. Il pubblico ministero dell’inchiesta su Mimmo Lucano: "Vivo un conflitto interiore, come persona e come magistrato. Sono stato in Africa, so che aiutare i migranti è un dovere. Ma mi ferisce chi giudica senza leggere le carte". «Umanamente, mi dispiace molto. Vivo un conflitto interiore, come persona e come magistrato. Comprendo il peso di una pena del genere: quando ho chiesto 7 anni e 11 mesi, sapevo che c’era il rischio di una condanna più alta». Michele Permunian, 38 anni, di Cavarzere (Venezia), è il pubblico ministero dell’inchiesta su Mimmo Lucano. Dopo la laurea in Giurisprudenza a Padova ha fatto pratica in due studi legali e poi il concorso in Magistratura.

Giuseppe Salvaggiulo per lastampa.it il 2 ottobre 2021. «Sono vittima di un’aggressione mediatica. Amareggiato ma sereno con la coscienza. Non ho agito con intento persecutorio». Luigi D’Alessio, procuratore di Locri a fine carriera, ieri ha rassicurato i suoi sette pm, in gran parte di prima nomina perché la Calabria è la disgraziata ed esaltante trincea dei giudici ragazzini: «Sono il vostro ombrello, la pioggia me la prendo tutta io. Processi così ne capitano un paio in tutta la carriera. Non vi lasciate impressionare, vi servirà per il futuro». Affidando il fascicolo a un collega scettico, si era raccomandato: «Studialo bene, con distacco. Come se fossi un giudice e non un pm». Non si spiega le polemiche «per un processo basato su carte e fatture false difficilmente controvertibili, non su testimoni più o meno credibili». Ma se le lascia scivolare addosso, «perché è come illudersi di convincere i no vax. Anche dopo una sentenza, lo sport nazionale resta rifiutarsi di capire e diffondere una distorta visione della realtà». Tra le «bufale» c’è quella per cui «noi abbiamo processato l’accoglienza. No, solo la modalità di gestione in violazione della legge. Non avremmo dovuto farlo? E perché? Lucano è al di sopra della legge? O chiunque può commettere qualsiasi reato purché a fin di bene?». Perché il procuratore riconosce a Lucano «una mirabile idea di accoglienza», ma gli contesta di averla «riservata a pochi eletti che avevano occupato le case». A dispetto della norma che prevedeva un avvicendamento periodico dei migranti, «lui manteneva sempre gli stessi, sottomessi. Gli altri li mandava nell’inferno delle baraccopoli di Rosarno». Benché incassasse i fondi destinati ai corsi obbligatori di italiano, «non c’era un migrante che lo parlava». E al di là «dei murales e di qualche casa diroccata, gli alloggi destinati ai migranti venivano abitati dai cantanti invitati per i festival». Il che spiega, secondo il procuratore, perché «non ho mai visto tanti migranti manifestare in suo favore. Tutto era organizzato per favorire varie cooperative locali, creare clientele, accumulare ricchezze, beneficiare di indotti elettorali». Di qui la dura condanna per associazione a delinquere, oltre che di Lucano, di altre dieci persone. «Nessuno ne parla, ma si trattava di una corte celeste di accoliti che campava così e di cui lo stesso Lucano era per certi versi anche vittima». Quanto alla «suggestiva» rivendicazione di povertà, il procuratore dice di «non avere problemi a riconoscere a Lucano la patente di non arricchito, anche se nella sede di una cooperativa avevamo trovato una cassaforte nascosta e svuotata, non credo per custodire la merenda». D’altronde «c’erano abbondanti somme distratte. Soprattutto ai migranti, che erano vittime dei reati di Lucano e non certo beneficiari. Questo è il grande equivoco da cui la sinistra non riesce a liberarsi». Lucano è incensurato ma non gli sono state riconosciute le attenuanti. Nemmeno dalla Procura. Per due motivi: il ruolo di promotore dell’associazione criminale e il rifiuto di farsi interrogare, «opponendo un atteggiamento ostruzionistico» salvo rendere dichiarazioni spontanee «per ripetere che a Riace era tutto bello e buono». C’è poi la questione della pena abnorme. «Mi rendo conto che 13 anni sono parecchi e mi auguro che in appello sia ridotta». La Procura ne aveva chiesti quasi 8, unificando tutti i reati nel vincolo della continuazione. Il tribunale li ha divisi in due tronconi: quello associativo e quelli per favorire se stesso e la sua compagna, pure condannata. Poi ha fatto la somma. «La matematica non è un’opinione, le pene non si stabiliscono a peso». In ogni caso sarebbe stato possibile «ragionare verso il basso, come avevamo fatto noi ipotizzando i minimi di pena. Ma è questo il problema? Un sindaco condannato a 8 anni e non 13 per decine di reati va portato in processione sull’altare?». Dunque chi è Mimmo Lucano, secondo il magistrato che lo ha indagato, processato e fatto condannare? A D’Alessio ricorda il protagonista di un celebre western di Sergio Leone, «il bandito di Giù la testa proclamato capo dei rivoluzionari suo malgrado. Idealista, improvvisamente issato su un piedistallo, ubriacato da un ruolo più grande di lui, inconsapevole della gravità dei suoi comportamenti, forse guidato da altre persone. Ha pensato di abbinare un’idea nobile a una sorta di promozione personale e sociale. Non è Messina Denaro, ma ha inteso male il suo ruolo di sindaco, proclamando “io me ne infischio delle leggi” e ostentando una scarsa sensibilità istituzionale tradotta in una serie impressionante di reati. Riace è un Comune dissestato». Non sarà un mafioso, ma 13 anni spesso non si danno neanche ai mafiosi. Obiezione che non scompone il procuratore: «Un antico brocardo recita: summum ius, summa iniuria». Massimo diritto, massima ingiustizia. Eterna questione, tanto più per un magistrato progressista. «Anche a me non pare giusto dare sei anni a un piccolo spacciatore. Ma la legge va applicata. Non ho certezze, coltivo il dubbio, non mi sento un padreterno. Però un conto è rubare una barca per salvare un migrante in mare, un conto è speculare sui soldi destinati ai migranti». Motivo per cui D’Alessio ai tanti politici di sinistra insorti per la sentenza risponde che «la legalità è un valore di sinistra, non il giustificazionismo in nome di una virtù autoattribuita. Chi è progressista come me e Lucano deve pretendere legalità innanzitutto da se stesso. Altrimenti ha una responsabilità anche maggiore, perché ne depaupera un caposaldo». Ai vecchi amici di Magistratura Democratica, a cui è orgogliosamente iscritto da quarant’anni, ha confidato «il personale tormento, oltre che l’imbarazzo, di essermi trovato odiato dai miei storici referenti culturali e blandito da quelli che non lo sono mai stati. Ma questa è la solitudine del magistrato». Ciò non basta a fargli rinnegare l’antica militanza. Anzi. «Non sono uno che si spaventa. Da magistrato democratico, mi sono reso conto di lottare contro un potente, anzi potentissimo suo malgrado». Lucano potente? «Solo Biancaneve o Alice nel paese delle meraviglie non se ne accorgerebbero, con il can can che si è scatenato. Sì, Lucano è una delle persone più potenti che abbia conosciuto». Tra cinque mesi, D’Alessio andrà in pensione. Non si può dire che il processo gli sia valso uno scatto di carriera: negli ultimi anni il Csm ha respinto tutte le sue domande per altri incarichi. «Non ho mai fatto ricorso, perché il Csm è la nostra casa madre anche quando ci dà torto». Ieri, prima di prendere il treno per Salerno, un ultimo consiglio ai suoi pm. «D’ora in poi, tutti i processi vi sembreranno bazzecole in confronto a questo. È il rischio più grande. Ricordatelo anche quando sarò lontano, a guardare tramonti e a pescare. Ora tocca a voi, io ho già combattuto troppo».

Mimmo Lucano, il procuratore Luigi D'Alessio: "Un potentissimo bandito idealista, ve lo dico da magistrato di sinistra". Libero Quotidiano il 02 ottobre 2021. "Non sono uno che si spaventa. Da magistrato democratico, mi sono reso conto di lottare contro un potente, anzi potentissimo suo malgrado". Il "potentissimo" è Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace. Lui invece è Luigi D'Alessio, procuratore di Locri a fine carriera, ha rassicurato i suoi sette pm: "Sono il vostro ombrello, la pioggia me la prendo tutta io. Processi così ne capitano un paio in tutta la carriera. Non vi lasciate impressionare, vi servirà per il futuro". D'Alessio, riporta La Stampa, non si spiega le polemiche per la sentenza sul sindaco, "per un processo basato su carte e fatture false difficilmente controvertibili, non su testimoni più o meno credibili". Ma non si cruccia "perché è come illudersi di convincere i no vax. Anche dopo una sentenza, lo sport nazionale resta rifiutarsi di capire e diffondere una distorta visione della realtà". Intanto non è che "abbiamo processato l'accoglienza. No, solo la modalità di gestione in violazione della legge. Non avremmo dovuto farlo? E perché? Lucano è al di sopra della legge? O chiunque può commettere qualsiasi reato purché a fin di bene?". Perché il procuratore riconosce a Lucano "una mirabile idea di accoglienza", ma gli contesta di averla "riservata a pochi eletti che avevano occupato le case". A dispetto della norma che prevedeva un avvicendamento periodico dei migranti, "lui manteneva sempre gli stessi, sottomessi. Gli altri li mandava nell'inferno delle baraccopoli di Rosarno". E benché incassasse i fondi destinati ai corsi obbligatori di italiano, "non c'era un migrante che lo parlava". Non solo. "Gli alloggi destinati ai migranti venivano abitati dai cantanti invitati per i festival", "tutto era organizzato per favorire varie cooperative locali, creare clientele, accumulare ricchezze, beneficiare di indotti elettorali". Di qui la dura condanna per associazione a delinquere: "Nessuno ne parla, ma si trattava di una corte celeste di accoliti che campava così e di cui lo stesso Lucano era per certi versi anche vittima". Quanto alla "suggestiva" rivendicazione di povertà, il procuratore dice di "non avere problemi a riconoscere a Lucano la patente di non arricchito, anche se nella sede di una cooperativa avevamo trovato una cassaforte nascosta e svuotata, non credo per custodire la merenda. C'erano abbondanti somme distratte. Soprattutto ai migranti, che erano vittime dei reati di Lucano e non certo beneficiari. Questo è il grande equivoco da cui la sinistra non riesce a liberarsi". A Lucano non sono state riconosciute le attenuanti. Per il ruolo di promotore dell'associazione criminale e per il rifiuto di farsi interrogare, "opponendo un atteggiamento ostruzionistico". Ma chi è Mimmo Lucano secondo il magistrato che lo ha indagato, processato e fatto condannare? A D'Alessio ricorda il protagonista di un celebre western di Sergio Leone, "il bandito di Giù la testa proclamato capo dei rivoluzionari suo malgrado. Idealista, improvvisamente issato su un piedistallo, ubriacato da un ruolo più grande di lui, inconsapevole della gravità dei suoi comportamenti, forse guidato da altre persone. Ha pensato di abbinare un'idea nobile a una sorta di promozione personale e sociale".

Lucano, parla il pm dell’inchiesta: la sinistra mette su un piedistallo uno che se ne infischia della legge. Redazione sabato 2 Ottobre 2021 su Il Secolo d'Italia. Il procuratore di Locri, Luigi D’Alessio, che ha imbastito l’impianto accusatorio contro Mimmo Lucano, ora si dice vittima “di un’aggressione mediatica”. E alla Stampa dichiara: di non spiegarsi le polemiche «per un processo basato su carte e fatture false difficilmente controvertibili, non su testimoni più o meno credibili». D’Alessio respinge l’accusa di avere processato l’accoglienza, e contesta a Lucano di averla «riservata a pochi eletti che avevano occupato le case». A dispetto della norma che prevedeva un avvicendamento periodico dei migranti, «lui manteneva sempre gli stessi, sottomessi. Gli altri li mandava nell’inferno delle baraccopoli di Rosarno». Benché incassasse i fondi destinati ai corsi obbligatori di italiano, «non c’era un migrante che lo parlava». E al di là «dei murales e di qualche casa diroccata, gli alloggi destinati ai migranti venivano abitati dai cantanti invitati per i festival». Tutto – prosegue – “era organizzato per favorire varie cooperative locali, creare clientele, accumulare ricchezze, beneficiare di indotti elettorali”. Il procuratore sottolinea che «13 anni sono parecchi e mi auguro che in appello sia ridotta». La Procura ne aveva chiesti quasi 8, unificando tutti i reati nel vincolo della continuazione. Dunque chi è Mimmo Lucano, secondo il magistrato che lo ha indagato, processato e fatto condannare? A D’Alessio ricorda il protagonista di un celebre western di Sergio Leone, «il bandito di Giù la testa proclamato capo dei rivoluzionari suo malgrado. “Idealista, improvvisamente issato su un piedistallo, ubriacato da un ruolo più grande di lui, inconsapevole della gravità dei suoi comportamenti, forse guidato da altre persone. Ha pensato di abbinare un’idea nobile a una sorta di promozione personale e sociale. Non è Messina Denaro, ma ha inteso male il suo ruolo di sindaco, proclamando “io me ne infischio delle leggi” e ostentando una scarsa sensibilità istituzionale tradotta in una serie impressionante di reati. Riace è un Comune dissestato”.

Il procuratore spiega la condanna a Mimmo Lucano, "un bandito idealista da western". HuffPost il 2 ottobre 2021. Si definisce un magistrato “progressista” Luigi D’Alessio, procuratore di Locri, iscritto a Magistratura Democratica, finito nel mirino dopo la sentenza di condanna in primo grado a 13 anni e 2 mesi nei confronti di Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace. “Sono vittima di un’aggressione mediatica. Amareggiato ma sereno con la coscienza. Non ho agito con intento persecutorio” assicura in un colloquio con la Stampa, commentando le polemiche su “un processo basato su carte e fatture false difficilmente controvertibili, non su testimoni più o meno credibili”. D’Alessio si rende conto che “13 anni sono parecchi e mi auguro che in appello sia ridotta”.  Si dice “umanamente dispiaciuto” in un’intervista alla Repubblica il pm Michele Permunian, che per Mimmo Lucano aveva chiesto una condanna a 7 anni. “A Lucano sono contestati 22 reati”. Dall’altra parte della barricata Giuliano Pisapia, legale della difesa, che sempre a Repubblica si dice “incredulo, quasi attonito, ma continuerò a impegnarmi al suo fianco in appello per arrivare a ribaltare l’esito”. Il procuratore di Locri, Luigi D’Alessio: “Lucano, un bandito idealista da western”. “Chiunque può commettere qualsiasi reato purché a fin di bene?” si domanda il magistrato. A Mimmo Lucano riconosce “una mirabile idea di accoglienza”, ma gli contesta di averla “riservata a pochi eletti che avevano occupato le case”. In altre parole, a dispetto della norma che prevedeva un avvicendamento periodico dei migranti, “lui manteneva sempre gli stessi, sottomessi. Gli altri li mandava nell’inferno delle baraccopoli di Rosarno”. Benché incassasse i fondi destinati ai corsi obbligatori di italiano, “non c’era un migrante che lo parlava”. E al di là dei murales e di qualche casa diroccata, “gli alloggi destinati ai migranti venivano abitati dai cantanti invitati per i festival”. E ancora: “Tutto era organizzato per favorire varie cooperative locali, creare clientele, accumulare ricchezze, beneficiare di indotti elettorali”. Di qui la dura condanna per associazione a delinquere, oltre che di Lucano, di altre dieci persone. “Nessuno ne parla, ma si trattava di una corte celeste di accoliti che campava così e di cui lo stesso Lucano era per certi versi anche vittima”. Perché se è vero che Lucano non si è arricchito, tuttavia “c’erano abbondanti somme distratte. Soprattutto ai migranti, che erano vittime dei reati di Lucano e non certo beneficiari. Questo è il grande equivoco da cui la sinistra non riesce a liberarsi”. Ma chi è Mimmo Lucano, secondo il magistrato? A D’Alessio ricorda il protagonista di un celebre western di Sergio Leone, “il bandito di Giù la testa proclamato capo dei rivoluzionari suo malgrado. Idealista, improvvisamente issato su un piedistallo, ubriacato da un ruolo più grande di lui, inconsapevole della gravità dei suoi comportamenti, forse guidato da altre persone. Ha pensato di abbinare un’idea nobile a una sorta di promozione personale e sociale. Non è Messina Denaro, ma ha inteso male il suo ruolo di sindaco, proclamando “io me ne infischio delle leggi” e ostentando una scarsa sensibilità istituzionale tradotta in una serie impressionante di reati. Riace è un Comune dissestato”. il peso di una pena del genere: quando ho chiesto 7 anni e 11 mesi, sapevo che c’era il rischio di una condanna più alta” dice Michele Permunian a Repubblica. ”“A Lucano sono stati contestati più di 22 reati. Il problema non sono i finti matrimoni. Qui ci sono varie forme di peculato, truffa aggravata a danno dell’Unione europea. E poi è stata riconosciuta l’associazione a delinquere con altre 4 persone. È un processo molto tecnico ma l’opinione pubblica non vuole capire. Quei 13 anni vengono percepiti come assurdi e sproporzionati ma non c’è volontà di conoscere le carte”. Permunian dice anche che “avevo fatto anche una “requisitoria-b”, in cui arrivavo a un conteggio finale di 15 anni, ma preferivo fosse il tribunale a pronunciarsi. Prudenzialmente mi sono tenuto basso. La pena ora sembra molto alta ma se si leggono il capo d’imputazione e i reati contestati, si scopre che non lo è” perché - spiega ancora - “se l’impianto accusatorio fosse caduto, la pena sarebbe stata al massimo di 4 o 5 anni. Ma nel caso di Lucano le accuse più gravi hanno retto. Si sono create quindi le condizioni per applicare il profilo della continuazione, l’articolo 81 del codice penale”. Quanto alla responsabilità dell’epilogo, il magistrato dichiara: “All’inizio lo sentivo molto e anche ora non nascondo che mi dispiace. Ma il mio lavoro è anche questo. Devo essere autonomo e indipendente. Fortunatamente ci sono più gradi di giudizio. Se ho sbagliato, emergerà”. La difesa, Giuliano Pisapia: “Sentenza ingiusta, Lucano voleva salvare vite”. “Anch’io ero incredulo, quasi attonito, ma continuerò a impegnarmi al suo fianco in appello per arrivare a ribaltare l’esito”, promette in un’intervista a la Repubblica l’avvocato Giuliano Pisapia, che aveva deciso di lasciare la toga e di cancellarsi dall’albo degli avvocati per “i troppi impegni, a cominciare dal Parlamento europeo” mentre poi “il 4 gennaio 2021 mi è stato chiesto di difendere Mimmo Lucano nel processo iniziato nel 2019”. Pisapia definisce la sentenza “inaspettata e ingiusta per almeno tre motivi processuali. Lucano ha ammesso di aver fatto errori di carattere amministrativo, che però eventualmente riguardano il Tar o la Corte dei conti e non hanno rilevanza penale” quindi “insieme all’avvocato Andrea Dacqua, abbiamo dimostrato che da sindaco non ha preso un euro” tanto che “lo stesso pm ha modificato l’accusa da ‘vantaggio economico personale’ a ‘vantaggio di carattere politico’. Ma, anche in questo caso - precisa l’avvocato Pisapia - abbiamo dimostrato come Lucano, che ha rinunciato a essere candidato nel 2018 alle Politiche e nel 2019 alle Europee, ha seguito solo i suoi valori, gli stessi della Costituzione”. E precisa: “Perchè un fatto sia reato ci vuole anche la consapevolezza di commettere un illecito. Ma le leggi sull’accoglienza sono complesse e mutevoli con diverse interpretazioni”. Pisapia conclude poi l’intervista facendo un parallelismo: “Nel processo di San Patrignano, Vincenzo Muccioli fu dichiarato non punibile in appello e in Cassazione per il reato di sequestro di persona e violenza proprio per lo ’stato di necessita. Ecco, là c’erano violenze, qui la dolcezza di un uomo che agiva per solidarietà” e “Mimmo voleva salvare chi ospitava”.

La Reazione di Mimmo Lucano.

Da huffingtonpost.it il 5 ottobre 2021. Non entrerà nel Consiglio regionale della Calabria Domenico Lucano, l’ex sindaco di Riace famoso per le politiche d’accoglienza dei migranti, condannato nei giorni scorsi a oltre 13 anni di reclusione a conclusione del processo “Xenia”. Lucano era capolista nelle tre circoscrizioni elettorali regionali della lista di sinistra “Un’altra Calabria è possibile” che nel simbolo proponeva il suo volto e sosteneva il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, nella corsa alla presidenza, vinta con ampio margine sugli avversari da Roberto Occhiuto, candidato del centro-destra. La lista di Lucano ha preso oltre 18mila voti, il 2,3% quindi sotto soglia di sbarramento del 4% prevista dalla legge elettorale regionale. Lucano, nella Circoscrizione Nord, ha preso circa 4.400 voti, nella Centro oltre 2.700 voti, nella Sud oltre 2.600 (nella sua Riace 138 voti su 150 della sua lista, che è  stata la più votata nella coalizione di de Magistris, a sua volta seconda a Riace dopo il centrodestra). Il suo nome, alla luce della pesante condanna inflittagli dal Tribunale di Locri per una serie di reati legati alla gestione dei finanziamenti destinati all’integrazione degli immigrati, era stato indicato come “impresentabile” dalla commissione parlamentare antimafia. La commissione non aveva individuato altre situazioni di incandidabilità fra le 21 liste proposte a sostegno dei 4 candidati alla presidenza.

«Mi hanno distrutto la vita ma rifarei tutto». Un giorno con Lucano. Il racconto dei nostri inviati Simona Musco e Rocco Vazzana da Riace: mentre la Calabria decide il nuovo governatore, la città sonnecchia e l’ex sindaco si ritrova da solo in centro. Simona Musco e Rocco Vazzana su Il Dubbio il 5 ottobre 2021. In giro ci sono solo gatti randagi. Riace è un borgo deserto, neanche lontanamente scalfito da questo lunedì elettorale. Al seggio è andato solo un cittadino su tre per decidere il futuro Presidente di Regione. Non c’è traccia nemmeno di quella selva di telecamere che alle precedenti elezioni aveva occupato i marciapiedi e le piazze del centro. I negozi chiusi fanno da sfondo a un modello d’accoglienza ormai sepolto sotto il peso di sentenze abnormi e alla volontà politica di cancellare ogni traccia del passaggio di Mimmo Lucano. Il sindaco che ha messo al centro del mondo un minuscolo paesino della provincia di Reggio Calabria deve essere rimosso dall’immaginario di una comunità insieme al suo villaggio globale, ai suoi laboratori per migranti ormai abbandonati, alla sua idea di giustizia sociale. Sonnecchia Riace, mentre nelle urne si decide il destino di un’intera Regione. Ai riacesi non resta che affidarsi ai santi Cosma e Damiano che campeggiano sui cartelli all’ingresso del borgo da quando il nuovo sindaco, il “simpatizzante” leghista Antonio Trifoli, ha deciso di cancellare il vecchio messaggio di benvenuto a «Riace, paese dell’accoglienza». Ed è in questo clima di rimozione radicale che, passeggiando per le stradine senza più migranti, incontriamo quasi per caso Lucano. È solo, seduto al chiosco di un bar chiuso, con lo sguardo perso, rivolto a un posacenere colmo di mozziconi. Poco prima l’ex sindaco ha schivato tre ragazzi, l’unica forma di vita incontrata in città, per sbaglio: pensava fossero di una troupe televisiva. Invece avevano fatto parecchia strada solo per salutarlo (erano arrivati da Roma e Bologna) e consegnargli un dono: una fotografia incorniciata dell’abbraccio tra Lucano e Aboubakar Soumahoro, il sindacalista dei braccianti fantasma. «Vi chiedo scusa», dice sinceramente dispiaciuto l’ex sindaco, quando si rende conto del malinteso. E nonostante l’umore sotto i tacchi ci fa accomodare accanto a lui e inizia un lungo dialogo che si trasforma nello sfogo di un uomo incapace di comprendere quanto accaduto. «Il potere ha voluto abbattermi», «sono stato un infiltrato all’interno dello Stato borghese», «chi mi ha condannato non sa nulla di Riace e di quello che avevamo realizzato, nessuno si è mai scomodato di venire qui e capire». L’ex sindaco ripercorre la vicenda processuale, mette in luce le incongruenze, punta l’indice contro le ipocrisie e il pilatismo del potere politico che ha prima sfruttato mediaticamente e poi distrutto la sua fama povera di malizia. Non solo la Procura (che non paga della pena «si è messa a rilasciare dichiarazioni dopo la condanna, una cosa inaudita») e il Tribunale. Anche il ministero dell’Interno, all’epoca di Marco Minniti, e la Prefettura. Lucano non parla: erutta. E ogni tanto si ferma per cambiare discorso, per raccontare della preoccupazione dei suoi figli o per leggere un messaggio di solidarietà. Come quello di Adriano Sofri, che esprime vicinanza sincera e commovente all’ex sindaco degli ultimi, con l’ottimismo della ragione di chi è convinto che in Appello il verdetto verrà ribaltato. Dello scrutinio in corso Lucano non sa nulla. Anzi, si disinteressa proprio. «Tanto anche se vengo eletto decado a causa della legge Severino», dice «l’imprensentabile», secondo la ridicola categorizzazione della commissione parlamentare Antimafia che ha inserito il capolista di “Un’altra Calabria è possibile” (a sostegno di Luigi de Magistris) nell’elenco dell’infamia. Leggiamo insieme le prime proiezioni ma lo sguardo torna assente. Le elezioni sono l’ultimo dei suoi pensieri. Pensa alla sua vita distrutta Lucano e si lancia in osservazioni cupe sul futuro figlie dell’inquietudine. «Oppure», aggiunge quando si riprende con un sorriso amaro, «posso dedicarmi alla campagna, ho due pecore, posso ripartire da lì». E mentre già si immagina contadino, cambia di nuovo espressione e tono di voce. Urla quasi. La sua innocenza e la sua voglia di riscatto. Ripercorre i momenti in cui Riace era l’ombelico del mondo: la copertina del Fortune, il documentario di Wim Wenders, le canzoni di Vinicio Capossela, la lettera al «caro fratello sindaco» scritta dal Papa. Ed è proprio a Francesco che si ispira il “curdo”. «Che fanno? Processano pure lui adesso?», si chiede. Perché proprio con la comunità cattolica Lucano ha stretto un legame fortissimo negli anni. Padre Alex Zanotelli e i comboniani restano un punto di riferimento per l’uomo dei migranti, che tra una settimana sarà “ospite d’onore” alla marcia per la pace Perugia-Assisi. «E da quel palco avrò modo di parlare, di dire la mia», dice, col tono di chi, nella solitudine, sa di avere ancora molti estimatori. «Sì, ma che me ne faccio? Mia figlia è preoccupatissima. E se ho deciso di non fare sciocchezze è solo perché sono padre». Lo scrutinio intanto prosegue al seggio numero 1, quello d’appartenenza dell’ex sindaco. Mentre scriviamo ancora non ci sono dati definitivi, né parziali su Riace, solo qualche proiezione che dà la lista di Lucano al 2,1 per cento. Ma di tutto questo all’ex sindaco non importa nulla, non ha mandato in giro nemmeno rappresentanti di lista per avere ragguagli. Lucano vorrebbe solo sparire o tornare a occuparsi degli ultimi. Perché nonostante le sentenze «rifarei ogni cosa».

La sentenza che divide. Secondo Lucano, dietro la condanna ci sono un «magistrato importante» e un «politico di razza» Linkiesta.it l’1 Ottobre 2021. L’ex sindaco di Riace spiega al Corriere: «Già dall’inizio la mia popolarità, mai cercata, li ha infastiditi. Hanno voluto (e vogliono) che si parlasse solo di loro, delle loro attività, dei loro libri, delle loro inchieste». È «ancora presto» per fare i nomi. «Più avanti. Voglio prima leggere le motivazioni della sentenza».  «Dietro la mia condanna ci sono ombre poco chiare». Commenta così sul Corriere l’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano la condanna in primo grado a 13 anni e due mesi di reclusione, con la restituzione di 500mila euro, arrivata ieri da parte della Procura di Locri. Quasi il doppio di quanto aveva chiesto per lui l’accusa. Una decisione «lunare», secondo gli avvocati Giuliano Pisapia e Andrea Dacqua. Lucano dice: «Un magistrato molto importante e un politico di razza hanno dall’inizio cercato di offuscare la mia immagine, il mio impegno verso gli immigrati, i più deboli». È «ancora presto» per fare i nomi, spiega. «Più avanti. Voglio prima leggere le motivazioni della sentenza. Mi aspettavo un’assoluzione piena. Io non mi sono mai lasciato intimidire da nessuno. Per ora hanno vinto loro, ma siamo solo al primo grado. Ci sarà l’appello». Associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, truffa, peculato e abuso d’ufficio sono questi i reati contestati a Lucano. E che, secondo l’accusa, erano alla base del “modello Riace”. L’ex sindaco torna alle origini della questione: «Già dall’inizio la mia popolarità, mai cercata, li ha infastiditi. Hanno voluto (e vogliono) che si parlasse solo di loro, delle loro attività, dei loro libri, delle loro inchieste. Io non ho avuto la notorietà perché me la sono cercata. Il mio impegno, il mio modo di aiutare il prossimo, sono stati gli argomenti che mi hanno reso popolare. A loro dava fastidio che i media, la politica, s’interessassero di quello che io facevo. Invidia pura. Diventata probabilmente anche rabbia quando la rivista Fortune mi ha assegnato quel riconoscimento e, soprattutto, quando la Rai ha voluto realizzare la fiction su Riace con Beppe Fiorello protagonista. Lì è scattato qualcosa che è alla base delle mie sventure giudiziarie». Lucano ricorda che «il giudice delle indagini preliminari aveva bollato questa inchiesta come un “acritico recepimento delle prove”, non “integranti alcuno degli illeciti penali contestati in alcuni capi d’imputazione”. La Cassazione ha rinviato gli atti al Tribunale della Libertà, annullando il mio esilio. Eppure, oggi subisco questa sentenza senza precedenti». La sentenza ha suscitato molto clamore, anche perché arriva a pochi giorni dalle elezioni regionali in Calabria, dove Lucano è candidato come capolista di “Un’altra Calabria è possibile” a sostegno di Luigi De Magistris. «In effetti è stata una condanna senza precedenti», dice il sindaco diventato noto in tutto il mondo per il suo modello d’accoglienza. «Sono arrabbiato e deluso per un verdetto che ritengo ingiusto sotto ogni profilo. Quello che più mi fa rabbia, però, è che è stata attaccata la mia moralità. Io sono un uomo specchiato e onesto, non ho neanche i soldi per pagare i miei avvocati». Anche la politica si è divisa, con Salvini che ha subito cavalcato la condanna. Ma «su Riace la politica si era già divisa nel 2015», dice Lucano. «Gli ideali della destra hanno preso il sopravvento e anche la sinistra non è stata all’altezza di porre un rimedio. Salvini all’epoca s’intestò la battaglia contro gli immigrati e si schierò apertamente contro i diritti umani». Ma nessun rimpianto: «Rifarei tutto. Anche il tentativo di prolungamento dell’asilo politico per la giovane immigrata Becky Moses, trasferita a forza da Riace e morta bruciata nella tendopoli di Rosarno, qualche mese dopo. Uno dei reati che mi hanno contestato è stato proprio questo, aver tentato di trattenere la giovane a Riace». Lucano ha sempre detto che molti dei progetti sull’accoglienza pensati a Riace sono stati copiati da altri con scopo di lucro. «Verissimo», dice. «Abbiamo portato avanti le nostre idee per dare soprattutto lavoro agli immigrati e anche ai riacesi. Era quello il nostro scopo, e per quello abbiamo ricevuto finanziamenti pubblici provenienti dallo Sprar (il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, ndr)». Altra accusa è quella di aver favorito due cooperative, prive di requisiti, nell’assicurarsi il servizio della raccolta dei rifiuti urbani. «Ci siamo inventati l’asinello porta a porta. Quale libertà di procedura avremmo turbato?», si chiede. «L’incarico è stato affidato a cooperative sociali, nessuna altra impresa ha mai voluto partecipare. Anche la Cassazione l’ha scritto». E in vista delle prossime regionali in programma domenica in Calabria, è deciso a mantenere la sua candidatura: «Certamente. Non vedo perché dovrei tirarmi indietro. So benissimo che l’interdizione per cinque anni e la legge Severino non mi consentiranno, se eletto, di far parte del Consiglio regionale. Però voglio conoscere il mio destino. Sapere se ancora la gente ha fiducia in me».

Carlo Macrì per il "Corriere della Sera" l'1 ottobre 2021. «Dietro la mia condanna ci sono ombre poco chiare». 

Si spieghi meglio Lucano.

«Un magistrato molto importante, un politico di razza, hanno dall'inizio cercato di offuscare la mia immagine, il mio impegno verso gli immigrati, i più deboli». 

Faccia i nomi.

«Adesso è ancora presto, più avanti. Voglio prima leggere le motivazioni della sentenza. Mi aspettavo un'assoluzione piena. Io non mi sono mai lasciato intimidire da nessuno. Per ora hanno vinto loro, ma siamo solo al primo grado. Ci sarà l'appello». 

In che modo avrebbero tramato contro di lei?

«Già dall'inizio la mia popolarità, mai cercata, li ha infastiditi. Hanno voluto (e vogliono) che si parlasse solo di loro, delle loro attività, dei loro libri, delle loro inchieste. Io non ho avuto la notorietà perché me la sono cercata. Il mio impegno, il mio modo di aiutare il prossimo, sono stati gli argomenti che mi hanno reso popolare. A loro dava fastidio che i media, la politica, s' interessassero di quello che io facevo. Invidia pura. Diventata probabilmente anche rabbia quando la rivista Fortune mi ha assegnato quel riconoscimento e, soprattutto, quando la Rai ha voluto realizzare la fiction su Riace con Beppe Fiorello protagonista. Lì è scattato qualcosa che è alla base delle mie sventure giudiziarie». 

Sta dicendo che il magistrato «importante» potrebbe aver influito già dall'inizio della sua vicenda imponendo la carcerazione e poi anche l'esilio?

«Dico solo che il giudice delle indagini preliminari aveva bollato questa inchiesta come un "acritico recepimento delle prove", non "integranti alcuno degli illeciti penali contestati in alcuni capi d'imputazione". La Cassazione ha rinviato gli atti al Tribunale della Libertà, annullando il mio esilio. Eppure, oggi subisco questa sentenza senza precedenti».

La sentenza ha suscitato molto clamore.

«In effetti è stata una condanna senza precedenti. Sono arrabbiato e deluso per un verdetto che ritengo ingiusto sotto ogni profilo. Quello che più mi fa rabbia, però, è che è stata attaccata la mia moralità. Io sono un uomo specchiato e onesto, non ho neanche i soldi per pagare i miei avvocati». 

Anche la politica si è divisa.

«Su Riace la politica si era già divisa nel 2015. Gli ideali della destra hanno preso il sopravvento e anche la sinistra non è stata all'altezza di porre un rimedio. Salvini all'epoca s' intestò la battaglia contro gli immigrati e si schierò apertamente contro i diritti umani».

Tra i tanti che sono venuti a testimoniare per lei c'è stato anche l'arcivescovo di Campobasso monsignor Giancarlo Maria Bregantini, il prete operaio che per tanti anni è stato vescovo di Locri.

«Nel corso dell'interrogatorio ha voluto sottolineare che a Riace abbiamo fatto quello che il Papa ha scritto nell'Enciclica». 

C'è qualcosa che non rifarebbe?

«Rifarei tutto. Anche il tentativo di prolungamento dell'asilo politico per la giovane immigrata Becky Moses, trasferita a forza da Riace e morta bruciata nella tendopoli di Rosarno, qualche mese dopo. Uno dei reati che mi hanno contestato è stato proprio questo, aver tentato di trattenere la giovane a Riace». 

Lei ha sempre detto che molti dei progetti sull'accoglienza pensati a Riace sono stati copiati da altri con scopo di lucro.

«Verissimo. Abbiamo portato avanti le nostre idee per dare soprattutto lavoro agli immigrati e anche ai riacesi. Era quello il nostro scopo, e per quello abbiamo ricevuto finanziamenti pubblici provenienti dallo Sprar (il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, ndr )». 

Altra accusa che le è stata fatta è quella di aver favorito due cooperative, prive di requisiti, nell'assicurarsi il servizio della raccolta dei rifiuti urbani.

«Ci siamo inventati l'asinello porta a porta. Quale libertà di procedura avremmo turbato? L'incarico è stato affidato a cooperative sociali, nessuna altra impresa ha mai voluto partecipare. Anche la Cassazione l'ha scritto».

Lei è candidato alle prossime regionali in programma domenica in Calabria. È ancora deciso a mantenere la sua candidatura?

«Certamente. Non vedo perché dovrei tirarmi indietro. So benissimo che l'interdizione per cinque anni e la legge Severino non mi consentiranno, se eletto, di far parte del Consiglio regionale. Però voglio conoscere il mio destino. Sapere se ancora la gente ha fiducia in me».

La Reazione degli amici.

Il caso Mimmo Lucano. Caso Riace, la lezione di Calamandrei: la giustizia è Socrate, non è la cieca legalità. Redazione su Il Riformista il  7 Ottobre 2021. Nel 1956 Danilo Dolci, intellettuale e militante della nonviolenza, viene arrestato e processato per via della lotta che stava conducendo in Sicilia con lo strumento dello sciopero alla rovescia. Lo difende uno dei più grandi giuristi italiani, Piero Calamandrei. Che pronuncia un discorso epico, dal punto di vista giuridico, intellettuale e morale. Ne pubblichiamo qui alcuni brani. (…) Questo non è un processo penale: o almeno non è quello che i profani si immaginano, quando parlano di un processo penale. Nel processo penale il pubblico concentra i suoi sguardi sul banco degli imputati, perché crede di vedere in quell’uomo, anche se innocente, il reo, l’autore del delitto: l’uomo che ha ripudiato la società, che è una minaccia per la convivenza sociale. L’imputato è solo, inconfondibile, diverso agli occhi del pubblico da tutti gli altri uomini, isolato dentro la sua gabbia e, anche quando la gabbia non c’è, isolato dentro la sua colpa. Ma questo non è un processo penale: dov’è il reo, il delinquente, il criminale? Dov’è il delitto, in che consiste il delitto, chi lo ha commesso? Angosciose domande: alle quali forse neanche il P.M., nella sua misurata requisitoria che abbiamo ammirato non tanto per quello che ha detto quanto per quello che ha lasciato intendere senza dirlo, saprebbe in cuor suo dare una tranquillante risposta. (…) In questa aula, da qualunque parte ci volgiamo, nei vari seggi di essa, non ci sono altri che uomini che si trovano qui, perché hanno voluto e vogliono prestare ossequio alla legge: osservarla, servirla. (…) Questo è l’imperativo categorico che ci tiene tutti qui incatenati dallo stesso dovere, appassionati dalla stessa passione: “de legibus”. Il Tribunale che siede è per definizione l’organo che, amministrando giustizia, fa osservare la legge. Il P.M., che siede al lato del collegio giudicante, è il rappresentante della legge. Noi avvocati siamo qui, al nostro posto, per difendere la legge. Dietro a noi, a fianco degli imputati e sulle porte, i commissari e gli agenti di polizia sono gli esecutori della legge. E poi ci sono questi imputati: imputati di che? Mah… di nient’altro che di aver voluto anch’essi servire la legge: di aver voluto soffrire la fame e lavorare gratuitamente allo scopo di ricordare agli immemori il dovere di servire la legge. Ma allora vuol dire che siamo tutti qui per lo stesso scopo: quale è il punto del nostro dissidio, quale è il tema del nostro dibattito? Perché noi avvocati stiamo a questo banco degli imputati dietro a noi e i giudici nei loro seggi più alti? Di che stiamo noi discutendo? (…) Il dissidio è più lontano e più alto. Sarebbe follia pensare che Danilo abbia potuto indirizzare agli agenti che lo arrestarono, fatti della stessa carne di questi che oggi lo accompagnano, l’epiteto di “assassini”. Danilo non parlava e non parla a loro. Gli assassini ci sono, ma sono fuori di qui, sono altrove: si tratta di crudeltà più inveterate, di tirannie secolari, più radicate e più potenti; e più irraggiungibili. (…) Quello che conta è un’altra cosa: conoscere il perché umano e sociale di questo processo, collocarlo nel nostro tempo; vederlo storicamente, in questo periodo di vita sociale e in questo paese. Io ho ammirato, lo ripeto, la misura con cui ha parlato il P.M.; ma su due delle premesse (oltreché, ben s’intende, su tutte le sue conclusioni) non posso essere d’accordo: e cioè quando egli ha detto che questa è “una comunissima vicenda giudiziaria”, e quando ha detto che per deciderla il Tribunale dovrà tener conto della legge ma non delle “correnti di pensiero” che i testimoni hanno portato in quest’aula. Dico, con tutto rispetto, che queste due affermazioni mi sembrano due grossi errori non soltanto sociali, ma anche specificamente giuridici. Non sono d’accordo sulla prima premessa. Questo non è un processo “comunissimo”: è un processo eccezionale, superlativamente straordinario, assurdo. Questo non è neanche un processo: è un apologo. (…) Per renderci conto con distaccata comprensione storica della eccezionalità e assurdità di questo processo, bisogna cercare di immaginare come questa vicenda apparirà, di qui a 50 o a 100 anni, agli occhi di uno studioso di storia giudiziaria al quale possa per avventura venire in mente di ricercare nella polvere degli archivi gli incartamenti di questo processo, per riportare in luce storicamente, liberandolo dalle formule giuridiche, il significato umano e sociale di questa vicenda. Quali apparirebbero agli occhi dello storico gli atti più significativi di questo processo? (…) Dunque lo storico che si metterà a sfogliare questo processo, quando saranno da lungo tempo caduti e dimenticati quegli articoli della legge di pubblica sicurezza e del codice penale di cui stiamo qui a discutere da una settimana (quegli articoli che già assomigliano a quei gusci vuoti che rimangono attaccati ai tronchi degli ulivi quando già ne è volato via l’insetto vivo), scorrerà attentamente gli incartamenti per ricercare le prove di questa “spiccata capacità a delinquere” che l’ordinanza istruttoria con tanta durezza preannuncia. E, senza perdersi in sottili acrobazie di dialettica giuridica, si domanderà umanamente: che cosa avevano fatto di male questi imputati? In che modo avevano offeso il diritto altrui; in che senso avevano offeso la solidarietà sociale e mancato al dovere civico di altruismo? (…) Rimane dunque inteso che digiunare in pubblico è una manifestazione sediziosa; che lavorare gratuitamente per pubblica utilità, per rendere più strada una pubblica strada, è una manifestazione sediziosa. E a questo punto interviene il giudice istruttore a dare il suo giudizio: “spiccata capacità a delinquere”. E poi riprende la parola il P.M.: “otto mesi di reclusione a Danilo Dolci e ai suoi complici”. Bene. Ma come può essere avvenuto questo capovolgimento, non dico del senso giuridico, ma del senso morale e perfino del senso comune? Guardiamo di rendercene conto con serenità. Al centro di questa vicenda giudiziaria c’è, come la scena madre di un dramma, un dialogo tra due personaggi, ognuno dei quali ha assunto senza accorgersene un valore simbolico. È, tradotto in cruda cronaca giudiziaria, il dialogo eterno tra Creonte e Antigone, tra Creonte che difende la cieca legalità e Antigone che obbedisce soltanto alla legge morale della coscienza, alle “leggi non scritte” che preannunciano l’avvenire. Nella traduzione di oggi, Danilo dice: “Per noi la vera legge è la Costituzione democratica”; il commissario Di Giorgi risponde: “Per noi l’unica legge è il testo unico di pubblica sicurezza del tempo fascista”. Anche qui il contrasto è come quello tra Antigone e Creonte: tra la umana giustizia e i regolamenti di polizia; con questo solo di diverso, che qui Danilo non invoca leggi “non scritte” (Perché, per chi non lo sapesse ancora, la nostra Costituzione è già stata scritta da dieci anni). Chi dei due interlocutori ha ragione? Forse, a guardare alla lettera, hanno ragione tutt’e due. Ma a chi spetta, non dico il peso e la responsabilità, ma dico il vanto di decidere, sotto questo contrasto letterale, da che parte è la verità: a chi spetta sciogliere queste antinomie? Siete voi, o Giudici, che avete questa gloria: voi che nella vostra coscienza, come in un alambicco chimico, dovete fare la sintesi di questi opposti. E qui affiora il secondo sul quale io mi trovo in dissidio con le premesse affermate dal P.M:, quando egli ha detto che i giudici non devono tener conto delle “correnti di pensiero”, che i testimoni accorsi da tutta Italia hanno fatto passare in quest’aula. Ma che cosa sono le leggi, illustre rappresentante del P.M. se non esse stesse “correnti di pensiero”? Se non fossero questo, non sarebbero che carta morta: se lo lascio andare, questo libro dei codici che ho in mano, cade sul banco come un peso inerte. E invece le leggi sono vive perché dentro queste formule bisogna far circolare il pensiero del nostro tempo, lasciarvi entrare l’aria che respiriamo, mettervi dentro i nostri propositi, le nostre speranze, il nostro sangue e il nostro pianto. Altrimenti le leggi non restano che formule vuote, pregevoli giochi da legulei; affinché diventino sante, vanno riempite con la nostra volontà. Voi non potete ignorare, signori Giudici, poiché anche voi vivete la vita di tutti i cittadini italiani, il carattere eccezionale e conturbante del nostro tempo: che è un tempo di trasformazione sociale e di grandi promesse, che prima o poi dovranno essere adempiute: felici i giovani che hanno davanti a se il tempo per vederle compiute! Signori Giudici, che cosa vuol dire libertà, che cosa vuol dire democrazia? Vuol dire prima di tutto fiducia del popolo nelle sue leggi: che il popolo senta le leggi dello Stato come le sue leggi, come scaturite dalla sua coscienza, non come imposte dall’alto. Affinché la legalità discenda dai codici nel costume, bisogna che le leggi vengano dal di dentro non dal di fuori: le leggi che il popolo rispetta, perché esso stesso le ha volute così. Ricordate le parole immortali di Socrate nel carcere di Atene? Parla delle leggi come di persone vive, come di persone di conoscenza. “le nostre leggi, sono le nostre leggi che parlano”. Perché le leggi della città possano parlare alle nostre coscienze, bisogna che siano come quelle di Socrate, le “nostre” leggi. ( …) Danilo mi fa venire in mente la storia di fra Michele Minorita. È un’antica cronaca fiorentina, rievoca anche la figura di un monaco, appartenente all’ordine dei “fraticelli della povera vita”, che praticavano la povertà assoluta, che predicavano che nel Vangelo Cristo e gli apostoli non avevano mai riconosciuto la proprietà privata. Il Papa Giovanni XXII condannò questa affermazione come eresia: e fra Michele per averla predicata fu condannato, nel 1389, al rogo. La cronaca racconta la prigionia e il processo e descrive il corteo che accompagnò dalla prigione al supplizio il condannato e le sue soste lungo la strada, come se fossero le stazioni della Via Crucis. Dal carcere del Bargello per arrivare al rogo egli passa, scalzo e vestito di pochi cenci, in mezzo agli armigeri, per le vie di Firenze. Due ali di popolo lo stanno a vedere: e gli lanciano al passaggio frasi di incitamento e di scherno, invocazioni esaltate o beffardi consigli. I più lo consigliano all’abiura: “sciocco, pentiti, pentiti, non voler morire, campa la vita!”. Ed egli risponde, mentre passa, senza voltarsi: “pentitevi voi de’ peccati, pentitevi delle usure, delle false mercanzie”. (Forse tra quel pubblico che lo incitava a pentirsi e a non voler morire c’era anche, pieno di buone intenzioni, il commissario Di Giorgi: “Illusioni, utopie, chi te lo fa fare?”.) A un certo punto, quando ormai è vicino al rogo, poiché ancora uno dei presenti torna a gridargli: “Ma perché ti ostini a voler morire?”, egli risponde: “Io voglio morire per la verità: questa è una verità, ch’io ho albergata in me, della quale non se ne può dare testimonio se non morti”. E con queste parole sale sul rogo; ma proprio mentre stanno per dar fuoco, ecco che arriva un messo dei Priori a fare un ultimo tentativo, per persuaderlo a smentirsi e così salvargli la vita. Ma egli dice di no. E uno degli armigeri, di fronte a questa fermezza, domanda: “ma dunque costui ha il diavolo addosso?”; al che l’altro armigero, nel dar fuoco, risponde (e par di sentire la sua voce strozzato dal pianto): “Forse ci ha Cristo”. (…) Qualche giorno fa, sfogliando un giornale straniero, vi ho letto una notizia dall’Italia che mi ha fatto arrossire. C’era scritto, a proposito di questo processo di Danilo, questo titolo: “In Italia a chi chiede rispetto della Costituzione si nega la libertà provvisoria”. Non è vero, non è vero! Signori Giudici, diteci che non è vero! Permetteteci di dire agli stranieri che non è vero!

Chi è il “magistrato molto importante” che sta perseguitando Lucano? In un'intervista al Corriere della Sera, l'ex sindaco di Riace condannato a 13 anni di carcere indica due persone come i principali responsabili della sua vicenda giudiziaria: un politico "di razza" e un magistrato. Lucano per ora non fa i nomi, ma qualche indizio lo lascia. E noi un'idea ce la siamo fatta. Il Dubbio l'1 ottobre 2021. «Un magistrato molto importante e un politico di razza hanno dall’inizio cercato di offuscare la mia immagine, il mio impegno verso gli immigrati, i più deboli». A chi si riferisce Mimmo Lucano quando, intervistato dal Corriere della Sera, indica due persone come i principali responsabili della sua persecuzione? L’ex sindaco di Riace non vuole fare nomi, non prima delle motivazioni della sentenza su cui pendono «ombre poco chiare». Non resta allora che tentare di costruire un identikit sulla base dei pochi indizi forniti dal “curdo”. Sul «politico di razza» i “sospetti” non possono che ricadere su due ministri dell’Interno: Marco Minniti e Matteo Salvini. È con loro che Lucano ha intavolato un braccio di ferro da anni, ritenendoli responsabili dell’assalto al “modello Riace”. È sotto la direzione del primo, infatti, che il Viminale, tramite la Prefettura, invia gli ispettori al Comune per verificare eventuali irregolarità. Ed è durante il mandato del secondo che il “villaggio globale” costruito dall’ex sindaco finisce quotidianamente impallinato dall’artiglieria pesante della “Bestia”. Del resto Lucano non ha mai fatto mistero della sua opinione sui due ex ministri, soprattutto sull’esponente del Partito democratico, ripetutamente criticato a mezzo stampa. Difficile, dunque, immaginare un profilo terzo analizzando le parole contenute nell’intervista. È sul «magistrato importante» che si addensano però le nubi maggiori. Di chi non fa il nome l’ex sindaco condannato. Per provare quanto meno a trovare una rosa di “sospettati” bisogna continuare a leggere il pezzo fino al punto in cui Lucano fornisce un altro indizio: «Hanno voluto (e vogliono) che si parlasse solo di loro, delle loro attività, dei loro libri, delle loro inchieste», spiega. A questo punto sarebbe legittimo circoscrivere la ricerca tra le toghe dalla penna facile. Escludendo dall’elenco Gianrico Carofiglio, che ha lasciato la magistratura da tempo, non resta che guardare altrove, tra i campioni d’incassi e di prestigio. Rimangono dunque Giancarlo de Cataldo, scrittore, drammaturgo e giudice della Corte d’Assise di Roma, il più famoso degli scrittori proveniente dai tribunali, ma che mai ha incrociato le vicende di Mimmo Lucano nemmeno per sbaglio. E c’è anche Nicola Gratteri, autore di vari bestseller (nonché firma di una prefazione a un libro no vax), tecnicamente lontano, come de Cataldo, da ogni questione giudiziaria legata a Lucano. L’unico collante tra i due resta la geografia: sono entrambi locridei. Un particolare non da poco, a ben guardare. Non è certo se tra i due corra buon sangue, ma il procuratore capo di Catanzaro non può che rientrare di diritto nella lista degli indiziati. Per saperne di più bisognerà aspettare meno di 90 giorni per le motivazioni della sentenza. Solo allora, assicura Lucano, farà i nomi dei suoi “aguzzini”.

Magistrati amici e nemici. Ecco il vero scandalo Lucano. Luca Fazzo il 2 Ottobre 2021 su Il Giornale. Dietro il processo all'"intoccabile" ci sono gli scontri fra toghe di vari gruppi. Ma quasi tutte vicine a Palamara. La disperazione di un uomo che si sente tradito: c'è questo, nel day after di Mimmo Lucano, l'ex sindaco di Riace condannato a tredici anni per l'allegra gestione dell'accoglienza ai migranti. Lucano si sente abbandonato da due poteri da cui, a torto a ragione, si credeva tutelato: la politica e la giustizia. E nel suo sfogo di ieri al Corriere contro le «ombre poco chiare» e «un magistrato molto importante e un politico di razza» che starebbero dietro la sua condanna si coglie tutta l'amarezza di un ex intoccabile. Chi avrebbe mai osato scalfire un simbolo mondiale dell'Italia migliore, un candidato al Nobel per la pace? Invece è accaduto, per mano della magistratura e senza che la politica facesse nulla (proclami di solidarietà a parte) per salvare l'ex sindaco. Su Lucano cade la condanna per reati pesanti come il peculato e la truffa allo Stato, resi ancora più gravi dalla legge «spazzacorrotti». Ma anche tra le toghe intorno al «caso Lucano» ci sono posizioni assai diverse: d'altronde se a contribuire alla incriminazione e alla condanna del sindaco hanno contribuito magistrati di tutte le correnti - sinistra, centro, destra - è anche vero che in aiuto all'indagato eccellente qualche «manina» in toga è intervenuta, con la benedizione del Consiglio superiore della magistratura. Ed anche il fatto che un ex giudice importante come Luigi de Magistris abbia accolto nelle sue file l'ex sindaco qualcosa vuole dire. La «manina» che venne in aiuto a Lucano ha un nome e un cognome: Emilio Sirianni, esponente di Magistratura democratica, che venne intercettato dalla Guardia di finanza mentre dava istruzioni a Lucano su come difendersi, compreso il consiglio di non parlare troppo al telefono. L'allora ministro Bonafede mise Sirianni sotto procedimento disciplinare: il Csm lo salvò con una sentenza secondo cui dare consigli a un indagato rientrava tra i diritti del magistrato. Difficile immaginare il Csm decidere ugualmente se a ricevere consigli fosse stato un indagato di altra risma. Ma con chi ce l'ha, adesso, Lucano? Se il «politico di razza» cui accenna potrebbe essere Marco Minniti, il «magistrato importante» è meno facile da identificare. Anche perché l'inchiesta su Riace ha finito con l'accavallarsi e in parte intrecciarsi col terremoto scaturito all'interno della magistratura dal «caso Palamara», nelle cui chat compaiono alcuni dei magistrati che si sono occupati di Lucano. A partire dal grande accusatore del candidato al Nobel, l'allora procuratore di Locri Luigi D'Alessio. D'Alessio è considerato anche lui una «toga rossa», fa parte di Magistratura democratica. Però parte ugualmente a testa bassa contro il sindaco-icona della sinistra. Ma il posto di procuratore a Locri a D'Alessio va stretto, punta a Potenza: a sponsorizzarlo con Palamara è però una toga di centro, il futuro capo delle carceri Francesco Basentini. Niente da fare. Altro nome importante nella vicenda di Riace è quello di Tommasina Cotroneo, presidente del tribunale di Reggio Calabria. È la Cotroneo, nel maggio 2019, a respingere il ricorso di Lucano contro il divieto di dimora a Riace: è uno snodo cruciale della vicenda, perché è la prima volta in cui le tesi della Procura vengono confermate, la Cotroneo dice che Lucano «si muove ed agisce nel Comune di Riace con disinvoltura e abilità sorprendenti, raggiungendo scopi che persegue in spregio assoluto della legge». E anche la Cotroneo finirà sotto procedimento disciplinare per avere chiesto sponda a Palamara («aiutami, stratega!») contro colleghi con cui era in lizza.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Mimmo Lucano, "un politico di razza dietro alla mia condanna"? Smascherato, il sospetto: chi accusa. Libero Quotidiano il 02 ottobre 2021. Mimmo Lucano, l'ex sindaco di Riace condannato a tredici anni per la gestione dell'accoglienza agli immigrati ora si sente abbandonato dai due poteri che lo avevano tutelato: politica e giustizia. Riporta il Giornale che se a contribuire alla incriminazione e alla condanna del sindaco sono stati magistrati di tutte le correnti Lucano è stato aiutato da "qualche manina eccellente", da qualche "toga" con la benedizione del Consiglio superiore della magistratura. Del resto pure un ex giudice come Luigi De Magistris, si osserva, ha accolto Lucano nelle sue fila, e questo qualcosa vorrà dire. Ma la "manina" che venne in aiuto a Lucano ha un nome e un cognome: "Emilio Sirianni, esponente di Magistratura democratica, che venne intercettato dalla Guardia di finanza mentre dava istruzioni a Lucano su come difendersi, compreso il consiglio di non parlare troppo al telefono". Alfonso Bonafede che allora era ministro della Giustizia, "mise Sirianni sotto procedimento disciplinare: il Csm lo salvò con una sentenza secondo cui dare consigli a un indagato rientrava tra i diritti del magistrato. Difficile immaginare il Csm decidere ugualmente se a ricevere consigli fosse stato un indagato di altra risma". La domanda ora è: con chi ce l'ha, adesso, Lucano? "Se il politico di razza cui accenna potrebbe essere Marco Minniti, il magistrato importante è meno facile da identificare."  

Il caso dell'ex sindaco di Riace. Basta giudici ragionieri, il diritto non è un calcolo aritmetico. Marco Campora su Il Riformista il 5 Ottobre 2021. La condanna in primo grado di Mimmo Lucano a una pena di oltre 13 anni di reclusione ha lasciato praticamente tutti sbigottiti, finanche la Procura che aveva chiesto una condanna molto più bassa. Si è optato per una pena severissima (possiamo definirla feroce?) secondo un andazzo che, da un punto di vista empirico, stiamo registrando sempre più frequentemente, visto che è ormai frequente che i Tribunali comminino pene più alte di quelle richieste dall’accusa, e pone seri interrogativi sulla mutazione della figura del giudicante, divenuto spesso più “realista del re” (le Procure). Non conosciamo nel dettaglio il processo, ragion per cui non entreremo nel merito della vicenda. Vi sono, tuttavia, delle considerazioni che possono essere espresse anche prima di leggere le ragioni di una simile severissima condanna, pur consapevoli, però, che il caso di Mimmo Lucano non si presta a svolgere una funzione paradigmatica. È un caso eccezionale, straordinario nelle premesse e nelle conclusioni. Autorevoli intellettuali hanno sottolineato che questa condanna è figlia degli aumenti costanti e spesso ingiustificati di pena che hanno caratterizzato tutti i reati negli ultimi decenni e, in particolare, i reati contro la pubblica amministrazione. C’è sicuramente del vero in questa affermazione ma, allo stesso modo, va sottolineato che, anche alla luce della legislazione attualmente vigente, la pena poteva essere molto molto più bassa, anche inferiore ai quattro anni di reclusione. Nel caso Lucano il Tribunale sembrerebbe aver ritenuto che si fosse in presenza di fatti di peculato gravissimi. E qui i conti sembrano non tornare. È stato, infatti, escluso dalla stessa pubblica accusa un arricchimento personale, tanto che l’evanescente movente veniva individuato in ragioni di accrescimento del consenso elettorale. Così come non è in discussione lo straordinario impegno e generosità che il sindaco Lucano ha profuso per assicurare l’accoglienza a chi scappava dalla fame e della guerra, tanto che Riace è divenuto un simbolo mondiale di umanità e di accoglienza. E anche un simbolo di buona e nuova amministrazione. E allora se – come è probabile – le eventuali irregolarità amministrative riscontrate dai giudici sono state il frutto di un “eccesso di generosità”, della volontà di aiutare chiunque ne avesse bisogno anche a costo di violare la legge (questo era nei fatti l’assunto accusatorio), la pena inflitta dai giudici rappresenta una straordinaria ingiustizia. Sappiamo che diritto e giustizia purtroppo non sempre coincidono. Ma quando lo iato si fa così profondo e così lacerante, quando la cesura diviene sempre più frequente, quando il diritto perde ogni capacità di comprendere la vita reale (come Luigi Manconi ha osservato pochi giorni fa su la Stampa), il diritto penale rischia di perdere ogni legittimazione e reale utilità. Diviene mero strumento autoritario al servizio esclusivo dell’apparato statale. E qui entra in gioco la figura del giudicante che non può essere un mero asettico valutatore delle prove o, peggio, un autistico “ragioniere della pena”.  Per questo basterebbe l’algoritmo di cui giustamente tutti noi temiamo l’ingresso nelle aule di giustizia. Il giudicante ha il dovere primario di valutare il reale disvalore di una condotta, non può limitarsi a compiere calcoli aritmetici. E se ritiene che una condotta, pur in ipotesi costituente reato, ha una carica di disvalore bassissima o addirittura – come nel caso di Lucano – è tesa a tutelare interessi di rango costituzionale, ha l’ineludibile dovere di fare tutto quanto nelle sue possibilità per adeguare la pena alle caratteristiche del caso sottoposto alla sua cognizione. Il nostro codice penale – pur su questo versante ancora molto carente atteso anche l’humus autoritario di cui lo stesso è figlio – avrebbe infatti consentito di temperare in modo significativo la pena inflitta e forse addirittura di ritenere non punibile la condotta previo il riconoscimento di scriminanti senz’altro applicabili al caso di specie. Come don Milani, come Marco Cappato, come Danilo Dolci e tanti altri, Mimmo Lucano ha messo in gioco il suo corpo per la tutela degli ultimi e dei diseredati. E questa generosità, intelligenza e cultura non saranno mai intaccate da qualsiasi alchimia giudiziaria. Marco Campora

Francesca Galici per ilgiornale.it il 6 ottobre 2021. In queste ore gli artisti e gli intellettuali di una certa parte politica ben precisa sono in agitazione. Hanno fatto partire una raccolta firme e fondi per Mimmo Lucano che "non ha i soldi per mangiare", come scritto su Twitter dall'attivista Saverio Giangregorio nel rilanciare l'iniziativa, che ha trovato casa a la Repubblica nella rubrica "Posta e risposta" curata da Francesco Merlo. La lettera è firmata da nomi altisonanti, appartenenti alla presunta intellighenzia rossa, che vogliono fare concretamente qualcosa per aiutare il loro amico in difficoltà. "Caro Merlo, come tanti siamo rimasti sorpresi e addolorati per la condanna subita dall’ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano: 13 anni e 2 mesi di detenzione e una sanzione pecuniaria, per lui e per gli altri 22 imputati, di oltre 750mila euro", si legge nella missiva. "Sorpresi e addolorati", scrivono quelli che "le sentenze si rispettano" ma solo quando colpiscono gli altri. Le motivazioni ancora non sono state rese note, quindi occorrerà attendere qualche settimana prima di sapere perché i giudici sono arrivati a quella condanna, ma il dispositivo di sentenza ha già dato indicazioni precise. Tuttavia, quelli buoni che hanno firmato la lettera a Merlo, credono ci sia stata un'ingiustizia. Nella loro missiva nata con lo scopo di lanciare la campagna solidale scrivono: "In attesa del processo di Appello che, ci auguriamo, saprà restituire equilibrio e misura all'esercizio della giustizia nei confronti del 'modello Riace'". Quindi, i vari Michela Murgia, Sandro Veronesi, Monica Guerritore, Luigi Ferrajoli, Gad Lerner, Domenico Procacci, Luciana Littizzetto, Vinicio Capossela, Kasia Smutniak, Carlo Degli Esposti, Paolo Virzì, Alessandro Gassmann, Ferzan Ozpetek, Guido Maria Brera, Pierfrancesco Favino e Giovanni Veronesi, solo per citarne alcuni, considerano la sentenza squilibrata? Scrive Filippo Facci su Libero: "Le condanne contro Lucano non c'entrano con un modello di immigrazione o con un tentativo di ripopolare un territorio depresso, ciò che aveva attirato l'attenzione su di lui ed era il punto focale da cui non si sono più mossi i citati firmaioli; non c'entrano con una pur discutibile integrazione di migranti secondo un 'modello' di cui in ogni caso non dovrebbero essere i sindaci a doversi occupare. Le condanne contro Lucano c'entrano con gli interessi patrimoniali illeciti e ingiustificati di cui si legge nel dispositivo". Ma i firmatari, quelli che vogliono in qualche modo sempre dimostrare di essere "quelli buoni" hanno già deciso che, il tribunale ha sbagliato. E lo scrivono tra le righe: "Pensiamo che, quali che siano le imperizie amministrative di Lucano, un abuso di umanità non meriti una simile pena". Pena che, va sottolineato, è il frutto di una somma.

Sabina Guzzanti? "Tra le sentenze più luride di sempre": insulti ai magistrati sul caso-Lucano. Libero Quotidiano l'1 ottobre 2021. Mimmo Lucano è stato condannato a 13 anni di carcere a causa della somma di diversi capi d'accusa inerenti l'immigrazione. Il "modello Riace" ha rivelato a processo le sue numerose zone d'ombra, che sono state la causa della condanna. Mimmo Lucano è accusato di associazione a delinquere responsabile di abuso d’ufficio, truffa, concussione, peculato, turbativa d’asta, falsità ideologica e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. "L'ex sindaco di Riace avrebbe utilizzato alcuni espedienti per aggirare le leggi e favorire l'ingresso dei migranti per realizzare un modello d'accoglienza che da tante parti è stato ritenuto encomiabile", scrive il Giornale. Sabina Guzzanti, senza mezze misure, attacca le toghe con un tweet: "Solidarietà a Mimmo Lucano. I cittadini hanno tutto il diritto di commentare le sentenze, questa è fra le più luride di cui abbia memoria". "Chi conosce l'ordito dei social network degli ultimi anni non si stupisce del fatto che quanto detto da Sabina Guzzanti abbia ricevuto ampio consenso", scrive ancora il Giornale. "Ma c'è chi inizia a insinuare qualche domanda: come mai la giustizia è buona quando condanna gli avversari ed è cattiva solo quando condanna gli amici?", continua il quotidiano. Molti gli esponenti della sinistra che hanno fatto quadrato attorno a Mimmo Lucano. Molti i commenti che si trovano in rete per capire quale sia il pensiero di una certa parte politica in queste ore. "Sì, magari ha fatto qualcosa ma l'ha fatto a fin di bene ed è un santo", è l'opinione di una certa parte di italiani. Si attacca la giustizia ed i magistrati quando sotto accusa finiscono gli esponenti della sinistra, mentre quando capita a quelli del centrodestra (vedi caso Morisi) si condanna immediatamente il politico.

Vittorio Sgarbi su Mimmo Lucano: "La più eclatante ingiustizia nella storia della magistratura". Libero Quotidiano il 02 ottobre 2021. "La condanna a 13 anni di Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, è la più eclatante ingiustizia di questa magistratura. Condannare lui è come condannare Robin Hood": questo il commento di Vittorio Sgarbi alla sentenza del Tribunale di Locri. Sgarbi è stato uno dei pochi a destra, e prima della sinistra, a sostenere l’innocenza di Lucano, conferendogli anche la cittadinanza onoraria di Sutri, di cui è sindaco. "Lucano non ha favorito l’immigrazione clandestina. Le condanne si riferiscono a reati contro la pubblica amministrazione, la pubblica fede e il patrimonio: associazione per delinquere finalizzata a 'commettere un numero indeterminato di delitti', falso in atto pubblico e in certificato, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, abuso d’ufficio e peculato. È probabile che in senso letterale queste imputazioni possano trovare una corrispondenza. Però se una persona compie un’azione considerata reato ma con una finalità positiva allora perché deve essere punita?", spiega in una intervista al Riformista. "Ho conosciuto bene Mimmo Lucano: può darsi che abbia commesso delle scorrettezze non però dolose. Mi auguro che nel processo d’appello emerga questo. Ho la sensazione che si tratti di reati non ascrivibili ad un suo vantaggio personale ma commessi per aiutare la gente", spiega il critico d'arte. "Dal processo a Giulio Andreotti a quello di (non) Mafia Capitale, fino a quello sulla Trattativa. La magistratura può aver agito allo stesso modo anche per Lucano, facendo inchieste con finalità ideologiche, politiche, di carrierismo. Il problema è che Lucano è di sinistra, mentre quelli che fino ad ora sono stati condannati sono di destra. Quindi allora possiamo dedurre che la magistratura non è comunista in generale ma nel caso di Lucano si innamora dei propri teoremi", conclude Sgarbi. 

Non si processano le scelte politiche. Mimmo Lucano nuova vittima dei teoremi dei pm. Gianni Alemanno su Il Riformista il 2 Ottobre 2021. Caro Direttore, lo so che mi attirerò le critiche di molti amici della mia parte politica, ma non posso tacere di fronte alla condanna abnorme a 13 anni e 2 mesi che è stata inflitta a Mimmo Lucano. Ovviamente leggerò le motivazioni di questa sentenza e solo allora potrò trarre un giudizio più meditato. Ed è inutile dire che non ho nulla da spartire politicamente con Lucano e il suo immigrazionismo estremo, tantomeno con la sua santificazione fatta da sinistra. Io sono un sovranista che considera l’immigrazione incontrollata un male della globalizzazione, un pericolo per tutti i popoli, sia quelli da cui partono i flussi migratori che quelli che li subiscono. Però credo che questi temi appartengano al dibattito politico e debbano essere sottoposti unicamente al giudizio democratico del nostro popolo attraverso delle libere elezioni. È lo stesso ragionamento che abbiamo fatto quando sotto processo è stato messo Salvini per la sua – secondo me sacrosanta – azione di contrasto degli sbarchi. Infatti la condanna di Lucano come le accuse a Salvini possono nascere solo da teoremi costruiti da magistrati che non capiscono la complessità della politica, le difficoltà di amministrare, la tensione che si crea quando si cerca di trasformare un’idea politica (giusta o sbagliata che sia) in un’azione di governo. Tutto questo può e deve essere criticato nella lotta politica, ma non può essere criminalizzato con superficialità nelle aule giudiziarie. Io ne so qualcosa con le mie vicende giudiziarie, anche se a me non è certo stata offerta la solidarietà che oggi viene data a Lucano. Questo paragone mi porta a fare un altro ragionamento. Purtroppo si continua a reagire solo quando viene colpito uno della propria parte politica, mentre invece ci si compiace quando tocca a un avversario. Oggi la sinistra scopre per Lucano un garantismo che non ha mai avuto quando l’accusato era Salvini e che non ha neppure oggi quando si parla dei comportamenti privati di Luca Morisi. Ma lo stesso Salvini, proprio mentre giustamente difende il suo ex-collaboratore dal linciaggio mediatico lanciato a pochi giorni dalle elezioni, non riesce a fare a meno di applaudire alla condanna di Lucano. Per non parlare di quello che sta accadendo all’europarlamentare di Fdi, Carlo Fidanza, costretto ad auto-sospendersi per filmati chiaramente manipolati da un “giornalista sotto copertura”. È evidente che se si continua con il garantismo a senso unico, non si riuscirà mai a risolvere i mali strutturali della giustizia, né a correggere il suo rapporto perverso tra inchieste, comunicazione mediatica e lotta politica. Tutta la politica, di destra e di sinistra, dovrebbe comprendere che il garantismo a senso unico è solo l’anticamera della propria autodistruzione. Perché la democrazia è imperfetta e approssimativa, mentre la tecnocrazia è molto esperta nell’utilizzare le armi perverse del formalismo giuridico e dei pregiudizi morali. Gianni Alemanno 

Parla il prefetto. Intervista a Mario Morcone: “13 anni a Mimmo Lucano, sentenza sconvolgente”. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 2 Ottobre 2021. Quella emessa, in primo grado di giudizio, dal Tribunale di Locri nei riguardi di Mimmo Lucano, è una “sentenza sconvolgente”. Un giudizio forte, tanto più significativo perché a pronunciarlo è una persona che della legalità, a partire dalla pubblica amministrazione, e della sicurezza ha fatto ragion di vita: il prefetto Mario Morcone. Capo di Gabinetto del Ministero dell’Interno, dal febbraio 2017 al giugno 2018; Commissario straordinario di Roma dal febbraio 2008 all’aprile dello stesso anno. E ancora: direttore del Consiglio italiano per i rifugiati, già capo gabinetto del ministro dell’Interno Marco Minniti. Morcone si occupa di immigrazione dal 2007 quando fu nominato capo del Dipartimento libertà civili e immigrazione dall’allora ministro dell’Interno Giuliano Amato, poi confermato dal successore Roberto Maroni. Insomma, un’assoluta autorità in materia. Dall’ottobre 2020, il prefetto Morcone è Assessore alla Sicurezza della Regione Campania.

Prefetto Morcone, il Tribunale di Locri ha condannato, in primo grado di giudizio, l’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano a una pena di 13 anni e due mesi di reclusione. Che dire?

Lungi da me il voler giudicare quello che ancora non conosco. Bisognerà leggere le motivazioni. Detto tutto questo, la sentenza è sconvolgente. È sconvolgente perché quello che noi sappiamo, almeno quello che a me risulta in particolare, è che il nostro amico Mimmo Lucano può aver commesso, anzi certamente lo ha fatto, una serie di irregolarità amministrative. Ma sanzionare con 13 anni e passa di reclusione irregolarità amministrative mi sembra francamente una esagerazione. Scopriremo dalla lettura del dispositivo quali sono state le ragioni che hanno indotto i giudici ad arrivare a una condanna così grave, che addirittura raddoppia la richiesta del Pubblico ministero che pure aveva condotto accuratissime indagini.

La giustizia, come è politically correct dire, farà il suo corso. Resta il fatto che Lucano si è fatto carico di una solidarietà forte, inclusiva, assumendosi oneri e responsabilità che altri, a vari livelli, hanno scaricato.

Io dividerei in due momenti anche temporalmente diversi. Il periodo che va dal 2007 al 2010, nel quale effettivamente era stato avviato questo modello, il “modello Riace”, che noi abbiamo sostenuto, sponsorizzato, e che ha consentito la presenza di numeri alti a Riace. Numeri grandi, se si vuole sproporzionati rispetto alla popolazione residente. L’idea era quella di avviare una forma di ripopolamento di Comuni e di territori, e tutti, per dire l’Ufficio del Ministero dell’Interno, abbiamo sostenuto il modello Riace. Un modello che ancora riproponiamo anche nelle aree interne della Campania. Noi stiamo mettendo in piedi, come Regione, su finanziamento europeo, un progetto COM.IN.4. che ha esattamente lo scopo di lavorare e investire per il ripopolamento delle zone interne. La presenza di famiglie di migranti, e quindi di bambini che vanno a scuola, riporta alla vita anche territori dove magari sono rimasti solo pensionati. Su questo siamo tutti d’accordo con Mimmo Lucano. Poi c’è un periodo successivo, che si riferisce agli anni 2016-2017 e lì, secondo me, lo dico davvero con amicizia verso Mimmo Lucano, il sindaco si è fatto prendere un po’ la mano, spinto anche da tutti quelli che inneggiavano a Lucano e in qualche modo, come dire, lo hanno ideologicamente usato. Parliamoci chiaro: Mimmo è una brava persona, rappresentante di un piccolo comune, Riace, che a un certo punto si è sentito improvvisamente sulle stelle, perché la rivista Fortune lo aveva collocato tra i 50 uomini più influenti del mondo, perché il Papa l’ha ricevuto, e lì lui ha forzato questo suo ruolo e la sua attività di accoglienza, probabilmente superando i confini delle regole amministrative che comunque reggono tutti i temi dell’accoglienza. Ma da questo ad arrivare a 13 anni di reclusione c’è una bella differenza, che fa pensare a cose molto diverse, e molto più gravi rispetto a dare un resoconto non corretto dei soldi ricevuti dal Ministero dell’Interno o dai Fondi europei. Cose che io sinceramente non riesco né a immaginare né ad attribuire a Mimmo Lucano.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Vittorio Feltri contro Luciana Lamorgese: "Perché la passa sempre liscia?". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 02 ottobre 2021. Tredici anni e due mesi di galera si possono rifilare a un marito che abbia ucciso la moglie spendacciona. Invece questa pena abnorme è stata inflitta a Mimmo Lucano, il sindaco di Riace che agevolava un po' troppo disinvoltamente gli immigrati. Egli combinava matrimoni e ricorreva a varie diavolerie per consentire ai profughi di rimanere in Italia senza troppi problemi. Io non so se quest' uomo furbo o troppo generoso abbia peccato ed eventualmente lucrato svolgendo la sua attività di soccorritore degli stranieri. Non è questo il punto. Noi di Libero siamo contrari da sempre all'invasione degli africani e generi affini nel nostro Paese. Nonostante ciò, non riusciamo a digerire il fatto che Lucano sia stato condannato quale bandito sanguinario a oltre dieci anni di galera per aver aiutato gli sfigati del Continente nero a stabilirsi in Italia, sia pure illegalmente. Naturalmente gli andava proibito di seguitare a ospitare in Calabria certa povera gente, ma sbatterlo in prigione per un periodo tanto lungo mi sembra una vigliaccata. Ci riserviamo di leggere attentamente le motivazioni di una sentenza tanto severa, ma ad occhio nudo già ora ci sembra di ravvisare una crudeltà degna di miglior causa. La nostra impressione è che i giudici abbiano esagerato nel punire Lucano, il quale può darsi che abbia sbagliato nell'essere di manica larga ospitando nella nostra patria un numero esorbitante di disperati, ma non era comunque il caso di trattarlo come un criminale. Vero che siamo al primo grado di giudizio e che ce ne vogliono tre prima che scatti per l'ex sindaco di Riace la condanna definitiva, ma se il primo processo è tanto grave c'è poco da stare allegri. Intanto segnaliamo che Salvini aspetta a Palermo l'esito di un procedimento giudiziario in quanto accusato di aver impedito lo sbarco di una quantità smisurata di poveracci, ma a questo punto sorge spontaneo un interrogativo: se bastoniamo coloro che impediscono ai clandestini di venire nel nostro Paese, perché poi bastoniamo anche coloro che li vogliono accogliere? Delle due, l'una: o sbagliano i primi o sbagliano i secondi. Tra l'altro, se è opportuno castigare Lucano in quando apriva le porte agli extracomunitari, perché castigare Salvini che le chiudeva? Infine mi spieghino: per quale ragione la ministra Lamorgese che favorisce l'ingresso di chiunque nella nostra patria la passi sempre liscia? Difficile che qualcuno risponda ai nostri quesiti facili facili. 

Ma Mimmo Lucano è innocente (e Salvini non ha imparato nulla). Nessun magistrato ci convincerà mai che Mimmo Lucano sia un trafficante di essere umani, né che si sia arricchito compiendo abusi. Davide Varì su Il Dubbio l'1 ottobre 2021. Mimmo Lucano, il sindaco calabrese noto in mezzo mondo per aver trasformato il suo borgo abbandonato nel paese dell’accoglienza, ieri è stato condannato a 13 anni di galera. «Neanche a un mafioso», è stato il laconico commento dell’imputato. È un numero che fa tremare le vene e i polsi, soprattutto perché i giudici hanno aumentato di 6 anni la pena richiesta dai pm. Non sappiamo ancora il motivo di tanta durezza, e la frase d’ordinanza dietro la quale possiamo rifugiarci è sempre la stessa: “aspettiamo le motivazioni della sentenza”. Ma una cosa possiamo dirla: nessun magistrato ci convincerà mai che Mimmo Lucano sia un trafficante di essere umani, né che si sia arricchito compiendo abusi. La verità è che a questo punto della vicenda, Lucano assume il profilo di un disobbediente civile che paga un prezzo altissimo per aver sostenuto chi chiedeva aiuto: bambini, donne e uomini che fuggivano da guerre, carestie, torture. E nel momento stesso in cui Lucano stendeva la sua mano verso di loro, quella stessa mano è stata fermata dai ferri del nostro Stato. Come si sia potuto verificare una tale deformazione dei fatti, una tale distorsione della realtà è un mistero. Certo, noi continuiamo a ripeterci come un mantra che le sentenze vanno rispettate ma ciò non toglie che ognuno di noi, nel proprio intimo, è convinto che quella condanna sia una ingiustizia. E per un momento abbiamo sperato che anche da Matteo Salvini, avversario storico di Lucano, arrivasse l’onore delle armi e la preoccupazione per una giustizia che punisce scelte politiche. Speranze immediatamente disattese: pochi minuti dopo la sentenza di condanna, e con una “Bestia” tornata a pieno regime, sulla bacheca di Salvini sono apparse dichiarazioni di giubilo e soddisfazione. Un vero peccato che il leader leghista, colpito al cuore con un’indagine discutibilissima sul suo braccio destro, Luca Morisi, non abbia colto l’occasione per stabilire un principio valido per tutti, anche per gli avversari. Ma noi non cadremo nel tranello: continueremo a difendere Morisi, “la Bestia”, dalla valanga mediatico giudiziaria che lo ha travolto e, nello stesso tempo, a proclamare l’innocenza di Mimmo Lucano fino a sentenza definitiva. E anche oltre.

Lucano, tutto ciò che non torna in una sentenza abnorme. Il modello Riace non viene messo in discussione. Ovvero, non c’è stato un “traffico” di esseri umani, dato che l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina è naufragata. Simona Musco su Il Dubbio l'1 ottobre 2021. Da qualunque punto di vista la si guardi, la decisione che ha riguardato l’ex sindaco di Riace Domenico Lucano appare «abnorme» e «sproporzionata». Lo dicono tutti: giuristi, magistrati – magari sottovoce – avvocati e anche politici, perfino quelli che in qualche modo hanno ignorato Riace quando Lucano chiedeva loro aiuto. Anche perché – ed è del tutto lecito, ma qualche domanda la fa sorgere -, la Corte che ha giudicato Lucano ha deciso di riqualificare l’accusa di abuso d’ufficio contestata dalla procura (che prevede una pena da uno a quattro anni) in truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, che prevede una pena tra i 2 e i 7 anni di reclusione.

L’accusa di associazione a delinquere

Per tutto il dibattimento, il presidente Fulvio Accurso ha insistito affinché l’ufficio di procura provvedesse a modificare i capi d’imputazione. In parte ciò è avvenuto, ma semplicemente isolando le singole condotte per individuare l’eventuale maltolto e calcolare il tempo di prescrizione. Ma in camera di consiglio, la Corte ha cambiato le carte in tavola, optando per la truffa, anche nella forma tentata. Caduta la concussione, il reato più grave contestato all’ex sindaco e che dunque ha fatto da base per il calcolo della condanna è quello di peculato, punito con il carcere da 4 a 10 anni. A ciò si aggiunge l’accusa di associazione a delinquere, messa in piedi «allo scopo di commettere un numero indeterminato di delitti (contro la pubblica amministrazione, la fede pubblica e il patrimonio)», così orientando l’esercizio della funzione pubblica «verso il soddisfacimento degli indebiti ed illeciti interessi patrimoniali delle associazioni e cooperative». Insomma, Lucano, che di quell’associazione ne sarebbe stato a capo, avrebbe favorito le associazioni, senza intascare, come è emerso dal processo, nemmeno un euro. In aula è stato lo stesso teste principale dell’accusa, il colonnello Nicola Sportelli, ad evidenziare come il progetto sia nato con fini nobili e come lo stesso Lucano non si sia arricchito, indicando come parte dell’associazione quattro persone, Lucano compreso.

I giudici non hanno applicato le attenuanti generiche

Ma i giudici hanno riconosciuto il reato associativo per ben sette imputati su 27. Tutti “soldati” senza i quali il ruolo di capo di Lucano, che appunto non avrebbe ottenuto alcunché a livello economico, non avrebbe avuto senso. Quale sarebbe stata, dunque, la sua utilità? Un tornaconto politico. Che stando alla sua storia è uno solo: essere sindaco di Riace, un paesino di poco più di 2mila abitanti, ripopolato grazie ai migranti. Mai, infatti, ha tentato la strada del Parlamento, rifiutando anche una poltrona in quello europeo e scansando così la possibilità di poter godere dell’immunità. Nonostante si tratti di un incensurato, i giudici non hanno ritenuto di applicare le attenuanti generiche all’ex sindaco, come accade quando un imputato non fornisce alcun apporto contributivo nel corso del processo. Eppure in aula Lucano ha ammesso di aver consegnato le carte d’identità gratuitamente ad alcuni richiedenti asilo, tra le quali quella concessa ad una mamma nigeriana che ne aveva necessità per ottenere la tessera sanitaria e curare il figlio piccolissimo. Ma cosa emerge, in attesa delle motivazioni, dalla sentenza? Il modello Riace non viene messo in discussione. Ovvero, non c’è stato un “traffico” di esseri umani, dato che l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina è naufragata alla prova dei fatti. Anzi, sosteneva lo stesso Sportelli: «Dal punto di vista della gestione umana sicuramente i beneficiari erano tenuti bene, sicuramente non era assicurato tutto quello che era previsto nel progetto, sicuramente abbiamo visto che dal punto di vista del personale non c’era un personale qualificato, sicuramente abbiamo visto che il personale era minore rispetto a quello che…, però i beneficiari erano tenuti bene».

Le pronunce del Tar e del Consiglio di Stato sul “modello riace”

Sui progetti si erano espressi anche Tar e Consiglio di Stato: «L’Amministrazione statale prima di adottare qualunque misura demolitoria deve attivarsi per far correggere i comportamenti non conformi operando in modo da riportare a regime le eventuali anomalie», scriveva Palazzo Spada, sottolineando come «il potere sanzionatorio/demolitorio è esercitabile solo se l’ente locale che si assume sia incorso in criticità sia stato avvisato, essendogli state chiaramente esposte le carenze e le irregolarità da sanare, gli sia stato assegnato un congruo termine per sanarle, e ciò nonostante, non vi abbia provveduto». Lo Stato, però, non avrebbe fatto questo passo con Lucano. Avrebbe, cioè, potuto aiutarlo e sistemare le storture. Ma così non è stato. Anzi: per i giudici del Tar è «palesemente irragionevole e contraddittorio ritenere che, ad appena un mese dal decreto con il quale era stato rifinanziato il “sistema Riace”», il Viminale abbia diffidato l’ente ed avviato il procedimento per revocare i fondi. Come se un procedimento già chiuso fosse stato riaperto e modificato nel suo contenuto.

La gestione dei fondi

Il problema principale, secondo la Guardia di Finanza, è rappresentato dalla gestione dei fondi. Anche perché con quei fondi, oltre all’accoglienza, era stato fatto di tutto, compresi una fattoria didattica e un frantoio. E su questo Lucano pubblicamente più volte aveva ammesso un dato pruriginoso per i professionisti (veri) dell’accoglienza: con 35 euro a ospite si poteva fare molto di più che limitarsi a dare una casa e del cibo. Ovvero creare un sistema di integrazione reale, sfruttando i fondi per garantire a quante più persone possibile non solo di sopravvivere, ma di vivere in un contesto che li comprendesse davvero. E sul punto anche il gip Domenico Di Croce era stato lapidario: nonostante le opacità nella gestione del denaro, «il diffuso malcostume emerso nel corso delle indagini non si è tradotto in alcuna delle ipotesi delittuose delineate dagli inquirenti». Le cui conclusioni sarebbero state, in gran parte, «o indimostrabili, perché allo stato poggianti su elementi inutilizzabili (…) o presuntive e congetturali o sfornite di precisi riscontri estrinseci». Poco conta, verrebbe da dire. Non foss’altro che proprio le accuse che maggiormente, secondo il gip, sembravano solide – e che sono servite per mandarlo ai domiciliari prima e fuori da Riace poi – sono state sconfessate dal processo. Che lo ha assolto dal reato di favoreggiamento, come già detto, nonché da quello di concussione, mentre risulta prescritta la turbata libertà degli incanti. Punti sui quali anche i giudici del Riesame e della Cassazione erano stati feroci: «Inconsistenza del quadro indiziario», ipotesi fondate su «elementi congetturali o presuntivi», inattendibilità dei testi, calcoli «errati» e insussistenza del pericolo di reiterazione del reato, aveva sentenziato il secondo Tdl rimettendolo in libertà. Sempre per il Riesame, risultava congetturale la tesi secondo cui i prelievi di denaro sarebbero stati destinati a soddisfare interessi diversi dall’accoglienza e in merito all’associazione a delinquere veniva evidenziata la «inconsistenza del quadro indiziario relativo alle contestazioni dei reati fine» che «si riverbera negativamente sulla possibilità di configurare il delitto», in quanto «il programma perseguito dagli indagati non si è tradotto in condotte penalmente rilevanti». In merito alla raccolta differenziata, invece, secondo il Palazzaccio non apparivano sufficienti, e in ogni caso, non emergevano «con la necessaria chiarezza e coerenza argomentativa» indizi contro l’ex sindaco di Riace in relazione all’accusa di aver «turbato» le procedure di gara per l’assegnazione, nel suo Comune, del servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti urbani, che veniva effettuato con la modalità dell’asinello porta a porta». Per l’accusa mancava un requisito fondamentale: l’iscrizione delle cooperative che se ne occupavano all’albo regionale delle cooperative sociali. Ma quell’albo, semplicemente, non esisteva.

La condanna all'ex sindaco di Riace. Mimmo Lucano travolto dai giudici come tanti, troppi altri. Gioacchino Criaco su Il Riformista l'1 Ottobre 2021. Forse, come qualcuno gli suggeriva, Mimmo Lucano non avrebbe dovuto difendersi dalle accuse, almeno da alcune. Avrebbe dovuto rivendicare la propria storia di disobbedienza civile, ribadire che di fronte alla minaccia di disumanità rispetto alla disperazione dei fratelli che arrivavano da oltre il mare lui non conosceva altra risposta che l’umanità, altro rimedio che la filoxenia che nutre da sempre la gente della Locride. Che di fronte alla sofferenza si debba correre il rischio di violare le regole, di pagarne le conseguenze. Forse, come chi gli voleva bene suggeriva, Mimmo Lucano non avrebbe dovuto personalizzare l’idea dell’accoglienza legandola in modo indissolubile a sé stesso e esponendola al pericolo di cadere con lui. Ci fosse riuscito sarebbe stato un gigante. Sulle malversazioni, sulla associazione a delinquere, sulla concussione: lì avrebbe dovuto urlare con tutto il fiato che aveva in gola la propria innocenza. Lui ha contribuito a creare, insieme a molti, molti altri che sono svaniti dietro la sua figura, un modello di accoglienza straordinario, trasformando il paese dell’abbandono nel posto della rinascita, della speranza. A tutto un mondo politico che falliva in vari modi nell’affrontare l’immigrazione ha contrapposto una soluzione facile, umana, risolutiva. Accogliere, integrare, allargare le braccia, a costo di deformare le regole, di applicare le leggi del cuore. L’esempio di Riace è andato in conflitto con i fallimenti e con gli egoismi italiani, europei, è entrato in collisione con gli scarsi rimedi ministeriali. Sono cominciati gli attriti col ministero dell’interno, già nati con Minniti e poi proseguiti con Salvini. Dal rappresentare un risolutore, a cui venivano scaricate le emergenze, per le prefetture, è passato a essere una sorta di autocrate. La rivista americana Fortune l’ha inserito fra le quaranta persone più potenti al mondo. Mimmo il curdo è diventato famoso, troppo in vista. Un concorrente che è apparso pericoloso a qualcuno. Si è trasformato in un’icona da abbattere. Una relazione prefettizia ha innescato un’indagine giudiziaria obbligatoria. E tutti o quasi sono convinti che Lucano abbia forzato le regole. Ma tutti o quasi passerebbero i palmi delle mani sopra la brace. Che sia un ladro, un concusso, il capo di un’associazione a delinquere, non ci crede nessuno. Ma il tribunale di Locri ha scaricato 80 anni di condanna a un gruppo che sognava un mondo diverso, 13 anni e 2 mesi tutti per Mìmì. Lo ha fatto a quattro giorni dalle elezioni in cui Domenico Lucano era il candidato di punta della formazione di de Magistris, che si propone di innovare la politica calabrese, ed è evidente che la condanna avrà effetto sul voto. E senza bisogno di pensare ai complotti, l’azione giudiziaria nei confronti di Lucano, nei fatti, ha posto fine al sogno di Riace, nei fatti ne determinerà il risultato politico. Travolgerà il destino umano di Mimmo Lucano, come è stato travolto quello di tanti, tanti uomini, che a queste latitudini si svegliano spesso col suono stridulo delle sirene e dopo, per anni, smarriscono la speranza, a volte la dignità, dentro le aule dei tribunali. Il percorso dell’ex sindaco di Riace, lungo i corridoi grigi, durerà ancora a lungo. Quando la giustizia chiuderà il proprio ciclo forse non sarà più possibile salvare una storia, un sogno, un uomo. La condanna a Mimmo Lucano colpisce lui, ma per la terra che sta intorno colpisce pure l’Istituzione che l’ha decisa. Perché tutti, o quasi, giurano sull’innocenza dell’imputato. Tutti sono rimasti scossi dall’entità della pena. E in Calabria si sa che il principio costituzionale dell’innocenza è un samaritano troppo lento per arrivare in soccorso, in tempo.

Gioacchino Criaco. E' uno scrittore italiano, autore di Anime nere libro da cui è stato tratto l'omonimo film.

Le reazioni alla sentenza. La politica condanna la sentenza contro Mimmo Lucano: “L’Italia è un paese ingiusto”. Angela Stella su Il Riformista l'1 Ottobre 2021. Un fiume di reazioni trasversali alla condanna a 13 anni di carcere per Mimmo Lucano. Il paradigma lo traccia il costituzionalista dem Stefano Ceccanti: «Le sentenze si devono commentare, con rispetto sì, come si deve in una democrazia fondata sulla separazione dei poteri, ma si possono e devono commentare, come gli atti di qualsiasi potere, perché nessun potere è a priori infallibile». Ed infatti per tutta la sinistra si tratta di una decisione abnorme, inaccettabile, incomprensibile. “Vicinanza e solidarietà”: così moderatamente su Twitter il segretario del Pd, Enrico Letta. Sempre dal Pd, più animatamente, così ha commentato Goffredo Bettini: «Non so quale siano le motivazioni giuridiche della sentenza su Domenico Lucano. Ma la sostanza è chiara: l’Italia si conferma un Paese ingiusto. Chi difende i deboli, i disperati, le persone che soffrono, è massacrato. Chi sta ai piani alti della società, in uno modo o nell’altro, se la cava sempre. Ribaltare tutto questo significa essere di sinistra». Per il deputato di Italia Viva Gennaro Migliore «la abnorme condanna di Mimmo Lucano è tanto grande quanto inattesa. Resto convinto della buona fede e dell’operato positivo di Lucano e confido che i successivi gradi di giudizio possano dargli ragione». Di sentenza ingiusta parlano i senatori di Leu-Ecosolidali Loredana De Petris, Vasco Errani e Sandro Ruotolo: «Mimmo non ha rubato un centesimo, non si è arricchito sulle spalle dei migranti. È una sentenza ingiusta. Siamo convinti della sua innocenza. Ci sarà l’appello e sarà assolto perché ha portato umanità a Riace e nel mondo». Sconcertato anche il segretario nazionale di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni: «Una condanna così non l’abbiamo vista nemmeno per i peggiori criminali in Italia. Mimmo non ha rubato un centesimo, non si è arricchito, non ha fatto del male, non ha sfruttato. Sono fatti. Fatti che emergono dal processo». Pure Matteo Orfini, parlamentare dem, ritiene esagerata la decisione: «Per carità, leggeremo le motivazioni della sentenza e cercheremo di capire. Ma 13 anni a Mimmo Lucano a me paiono decisamente una cosa abnorme». «Spropositata e sproporzionata» per Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, la sentenza che «si aggiunge a una serie di azioni giudiziarie ostili nei confronti del mondo che accoglie e soccorre». Ugualmente Emergency: «In attesa di leggere le motivazioni della sentenza, vogliamo esprimere la nostra vicinanza a Mimmo Lucano per il verdetto che lo colpisce così duramente. Abbiamo conosciuto l’esperimento di Riace e facciamo fatica a pensare che potesse essere altro che un modello di accoglienza che ha parlato al mondo di un’integrazione possibile e concreta». Molto duro Filippo Miraglia, responsabile Immigrazione dell’Arci: «Aspettiamo di leggere le motivazioni, tuttavia consideriamo la sentenza vergognosa, l’ennesimo attacco al mondo della solidarietà e a chi promuove diritti contro il razzismo dilagante. Un aiuto alle destre xenofobe a pochi giorni dalle elezioni». “Solidarietà” a Lucano è arrivata anche da Pietro Bartolo e Laura Boldrini. Per Luca Casarini, capo missione di Mediterranea Saving Humans, «la sentenza contro Mimmo Lucano è una delle pagine più nere della storia della Repubblica. Il libro ormai è grande, pieno di queste pagine scritte da sinceri “democratici” contro “criminali” che pretendevano un mondo meno orribile». Di condanna abnorme parla anche il presidente di +Europa, l’onorevole Riccardo Magi: «Vanno lette le motivazioni ovviamente ma è una condanna abnorme e che sembra frutto di un clima in cui l’accoglienza e l’inclusione dei cittadini stranieri è ossessivamente oggetto di strumentalizzazione politica. Sarebbe ora di dire che è la Bossi-Fini che è criminale e criminogena». Non si è lasciato attendere il messaggio di Luigi de Magistris candidato Presidente della Regione Calabria, che oggi sarà con Mimmo Lucano a Riace per chiudere campagna elettorale: «Gli ultimi passi verso la vittoria, verso la liberazione della Calabria, li compiremo proprio da Riace per abbracciare e sostenere ancor di più il nostro Mimmo Lucano, un uomo che è l’antitesi del crimine». Invece dalla Lega il garantista a correnti alternate Matteo Salvini ha tuonato: «Guadagnava illecitamente sulla gestione degli immigrati, 13 anni di condanna al sindaco di sinistra (e candidato di sinistra alle Regionali in Calabria) Mimmo Lucano, paladino dei radical chic. Giornalisti e politici di sinistra indignati ne abbiamo? No, sono tutti impegnati a fare i guardoni in casa altrui…». Poco dopo i ministri della Lega Erika Stefani, Massimo Garavaglia e Giancarlo Giorgetti: «Per coerenza e rispetto delle istituzioni ci aspettiamo un passo indietro da parte di Mimmo Lucano dopo la durissima condanna. Non vorremmo che trasparenza e correttezza valessero solo per alcuni ma non per tutti». Angela Stella 

"Giustizia a orologeria". Condanna Mimmo Lucano, Anzaldi chiama Cartabia: “Tempistica discutibile, sentenza-spot per il candidato Palamara”. Riccardo Annibali su Il Riformista l'1 Ottobre 2021. Una condanna che ha fatto più rumore delle buone azioni. Mimmo Lucano l’ex sindaco di Riace elogiato in tutto il mondo per il suo modello di accoglienza ha preso 13 anni e 2 mesi in primo grado di giudizio. Un modello, secondo i giudici che hanno quasi raddoppiato la richiesta dell’accusa, costellato di reati. Tanti sono accorsi in difesa di Lucano come Enrico Letta che si è detto “esterrefatto per la pesantezza della pena”. Gad Lerner che su Twitter postando una foto che lo ritrae insieme all’ex sindaco, scrive: “I giudici di Locri hanno condannato un uomo giusto. È stata commessa un’ingiustizia, un terribile capovolgimento della realtà. Mimmo Lucano, come Gino Strada, ha scosso con il suo esempio le nostre cattive coscienze”. Oggi sul ‘Il Fatto‘, in un pezzo a sua firma Lerner scrive: “La condanna di Mimmo Lucano a 13 anni e 2 mesi di reclusione non è solo accanimento feroce contro un uomo giusto, che mai ha tratto lucro alcuno dal modello di accoglienza sperimentato a Riace, è altresì un’offesa recata allo spirito della nostra costituzione come argomentò Piero Calamandrei dopo la condanna ben più lieve, subita nel 1956 da Danilo Dolci colpevole di invasione di terre siciliane incolte”. Ospite della trasmissione radiofonica ‘Ora Daria’ condotta da Daria Bignardi, Lerner racconta così l’accostamento alla figura dell’attivista Danilo Dolci, conosciuto anche come il ‘Ghandi italiano’, a quella di Mimmo Lucano: “Quella condanna a Danilo Dolci fu molto più lieve accompagnata dalle dichiarazioni delle attenuanti per le alte finalità civili e morali. Per Mimmo Lucano c’è stato invece solo un accanimento contro il suo progetto meraviglioso e ammirato in tutto il mondo, come se fosse un’associazione a delinquere. Questa condanna mi fa paura perché è un attacco generalizzato, una criminalizzazione di chiunque lavori nella solidarietà in questo Paese. In Italia per fare della solidarietà devi necessariamente violare delle regole ottuse, a volte la disobbedienza civile è necessaria nella forma non violenta. Non è tutto bianco o nero. Resta la paura che si vuole diffondere il messaggio che se si fa salvataggio in mare o salvataggio dei migranti si rischia in questo paese incarognito”. Gianrico Carofiglio, ospite a Otto e Mezzo, avanza dubbi su una giustizia ad orologeria e si spinge ad affermare che “forse avrebbero potuto aspettare un mesetto” poiché siamo a ridosso del voto per le amministrative. Così come Michele Anzaldi che retwitta l’intervista di Daria Bignardi su Radio Capital a Gad Lerner chiedendo l’intervento della ministra competente.

Onorevole Anzaldi, sul caso Lucano lei si chiede perché la ministra Marta Cartabia non si sia ancora fatta sentire. Che cosa dovrebbe fare la titolare della Giustizia?

“La sentenza su Mimmo Lucano sta facendo discutere tutti da 24 ore, non soltanto il mondo della politica ma anche opinionisti, commentatori, esperti di giustizia. Possibile che la ministra competente non valuti opportuno di farci conoscere la sua opinione, oppure far sapere se intende in qualche modo intervenire secondo le sue prerogative? Anche perché ad alimentare dubbi non è soltanto la durezza della condanna, ma anche a tempistica”.

In che senso la tempistica secondo lei alimenta perplessità?

“Comminare una condanna del genere a poche ore dalle elezioni sembra il migliore spot per Luca Palamara, candidato a Roma alle suppletive nel collegio di Primavalle. Sembra l’ennesima conferma che le parole dette in questi mesi da Palamara in tv e nei suoi libri a proposito di come funzioni la giustizia italiana siano decisamente fondate. Per questo credo che la ministra dovrebbe valutare seriamente di intervenire. Altrimenti la sfiducia dei cittadini nei confronti della giustizia aumenterà ancora di più”. Riccardo Annibali

(ANSA il 30 settembre 2021) - "Credo che qui si dia un messaggio terribile, pesantissimo, un messaggio che io credo alla fine farà crescere la sfiducia nei confronti della magistratura, sono molto colpito. Quello che è successo è incredibile: il raddoppio rispetto a quanto chiesto dal pm, non so quante volte capita. Io sono esterrefatto per quanto accaduto, esprimo solidarietà e vicinanza". Lo dice, ospite di Porta a Porta in onda questa sera, il segretario del Pd Enrico Letta in merito alla sentenza nei confronti di Mimmo Lucano.

 "Io esprimo solidarietà e vicinanza a Mimmo Lucano; siamo esterrefatti dalla pesantezza della pena. Questa vicenda ha tante cose che vanno ancora capite, quindi esprimo vicinanza a Mimmo Lucano". lo ha detto il segretario del pd Enrico Letta a margine di un comizio nel quartiere romano di Primavalle.

 "Altro che dare la caccia agli omosessuali nella Lega, la sinistra in Calabria candida condannati a 13 anni di carcere!". Lo dice il leader della Lega Matteo Salvini commentando la condanna a Mimmo Lucano.

Da ilfoglio.it il 30 settembre 2021. Si va dalla reazione scontata di Matteo Salvini, che ha commentato la notizia con tono grave, alla solidarietà espressa dal Pd e dai partiti alla sua sinistra. La condanna a 13 anni e due mesi comminata a Mimmo Lucano non ha lasciato silente il mondo della politica italiana. Che si è ovviamente diviso sulla sentenza emessa quest'oggi dal Tribunale di Locri. A maggior ragione perché il clima è quello pre elettorale, visto che domenica e lunedì si vota anche in Calabria per le elezioni regionali. "La sinistra va a caccia di omosessuali e candida condannati a 13 anni", ha detto Salvini apprendendo la notizia durante uno dei suoi comizi odierni nel Lazio. E quindi legando la vicenda al caso Morisi che continua a tenere banco nel dibattito pubblico nazionale. Il segretario della Lega ha anche aggiunto: "Io non gioisco per le sventure altrui. Ma siccome ci sono le tv che sbirciano e cercano il leghista omosessuale, allora dico che certi giornalisti dovrebbero vergognarsi, a me non interessa che ci siano omosessuali, transessuali, a me interessa che ci siano persone per bene". In realtà, al di là delle reazioni dei profili social della Lega, la presa di posizione più forte è arrivata dai ministri leghisti Giancarlo Giorgetti, Massimo Garavaglia ed Erika Stefani, che hanno chiesto a Lucano un passo indietro dalle elezioni in Calabria (l'ex sindaco di Riace è candidato con una lista che sostiene Luigi De Magistris). Mentre sul fronte locale Nino Spirlì ha detto che "la Calabria non sentirà la mancanza del condannato Lucano e non ne patirà l'assenza dalla gestione della cosa pubblica". Non si è fatta attendere la reazione del centrosinistra. "Vicinanza e solidarietà", è il Tweet sobrio con cui ha manifestato la sua posizione il segretario del Pd Enrico Letta. Mentre per il deputato Matteo Orfini "13 anni di condanna sono una cosa abnorme". Ancora nulla dal fronte Cinque stelle. Non pervenuta alcuna agenzia da parte del capo politico Giuseppe Conte né dei maggiorenti del partito. L'ex ministro Gaetano Manfredi, che a Napoli è il candidato comune di Pd e M5s, ha detto invece che "le sentenze si rispettano, ma quella di Mimmo Lucano a Riace è un'esperienza positiva".

Alessia Candito per repubblica.it il 30 settembre 2021. Condanna durissima: tredici anni e due mesi di carcere, molto più di quanto chiesto dalla procura di Locri. Questa è la pena decisa dal tribunale di Locri, presieduto dal giudice Fulvio Accurso per Mimmo Lucano, l'ex sindaco di Riace divenuto simbolo di un modello di integrazione e accoglienza possibile, nel 2018 travolto dall'inchiesta della procura di Locri che ha ipotizzato l'esistenza di un sistema criminale dietro quello che nel mondo era conosciuto come "paese dell'accoglienza". Un’impostazione evidentemente condivisa dal tribunale e anzi ritenuta anche molto più grave di quanto ipotizzato dalla procura. Per Lucano il procuratore capo Luigi D'Alessio e il pm Michele Permunian avevano chiesto una condanna a 7 anni e 11 mesi. Per i magistrati il modello Riace altro non era che una sorta di "Spectre" dell'accoglienza che ha lucrato sui migranti piuttosto che aiutarli. Per i pm sono diventati reato persino gli asinelli che venivano condotti a mano per i vicoli stretti di Riace per fare la differenziata. Il guadagno? Tutto politico, si è specificato quando anni di verifiche e indagini non sono riusciti a far saltare fuori un euro intascato indebitamente. Un'impostazione che non ha convinto il giudice per le indagini preliminari, che pur autorizzando i domiciliari per l'allora sindaco ha demolito buona parte delle ipotesi accusatorie più gravi, bollandole come "inconsistenti" o viziate da errori marchiani, persino di calcolo. E ha lasciato parecchio perplessi anche il Tribunale delle libertà - che ha sì scarcerato Lucano, costringendolo però ad un lungo esilio da Riace - e la Cassazione, che ha bollato come "contraddittorie" e "illogicamente formulate" le argomentazioni a sostegno dell'ipotizzata irregolarità nell'appalto per la differenziata, in realtà del tutto regolare. Certo, tanto il Riesame come la Suprema Corte sono stati chiamati ad esprimersi sulla congruità delle misure cautelari - i domiciliari prima, il divieto di dimora poi - con le accuse mosse e la possibilità che si tornino a commettere i medesimi reati. Ma, almeno in teoria, sono parole che pesano.  Non per la procura di Locri, che con buona pace di testimoni-chiave che in aula hanno ritrattato, di diverse pronunce sfavorevoli e di un dibattimento lungo e complesso, ha riproposto tal quale l'impianto accusatorio. Anche per questo forse, i legali di Lucano - gli avvocati Andrea Daqua e Giuliano Pisapia - non hanno esitato a parlare di "accanimento terapeutico" della pubblica accusa, chiedendo per l'ex sindaco di Riace un'assoluzione piena, rotonda. Lucano deve essere assolto - hanno sostenuto - perché estraneo alle accuse contestate, "ontologicamente incapace" di agire per guadagno anche solo politico, come dimostrano le numerose proposte di candidatura rifiutate. Al contrario, hanno sostenuto gli avvocati, ha agito da fedele "rappresentante dello Stato e interprete della Costituzione quando lo Stato era assente" e incapace di dare assistenza e riparo ai profughi che a centinaia sbarcavano sulle coste calabresi durante l'emergenza Mediterraneo. Se da sindaco "è andato oltre" le sue facoltà - ha detto durante la sua arringa l'avvocato Pisapia - non è stato certo "per il potere, ma perché ci credeva ed era giusto, perché lo chiede la nostra Costituzione". Qualsiasi cosa abbia fatto è stata "in perfetta buonafede e senza scopi di lucro o di altri guadagni personali". "Mi sento sereno perché sono sicuro che prevarrà" la verità, aveva detto Lucano nel giugno 2019, al varcare da imputato la soglia del tribunale di Locri. E sereno si è detto anche quasi due anni e un centinaio di udienze dopo, al termine dell'intervento dei suoi legali. Adesso però la palla passa ai giudici, che finiranno loro malgrado per intervenire su un'altra partita che l'ex sindaco di Riace sta giocando. Da capolista di "Un'altra Calabria è possibile" è candidato alle regionali del 3 e 4 ottobre prossimi a sostegno dell'ex pm ed ex sindaco di Napoli, Luigi De Magistris. Ma in caso di condanna, la legge Severino renderebbe superfluo anche il responso delle urne. 

La solidarietà è reato, 13 anni a Lucano. Lui: «Neanche a un mafioso». L’ex sindaco di Riace condannato per la gestione dell’accoglienza a 13 anni e 2 mesi di carcere: «È tutto finito, sono morto dentro». Simona Musco su Il Dubbio l’1 ottobre 2021. Tredici anni e due mesi. «Nemmeno un mafioso viene condannato a tanto», commenta Domenico Lucano all’uscita del Tribunale di Locri, che lo ha giudicato colpevole per tutti i reati contestati dalla procura. Tranne che per la concussione, il reato più infamante tra quelli contestati, e il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, accuse dalle quali è stato assolto perché il fatto non sussiste, mentre si è estinta per prescrizione l’accusa di turbata libertà degli incanti. Accuse, le ultime due, che avevano fatto finire l’ex sindaco di Riace ai domiciliari il 2 ottobre 2018, ponendo una pietra tombale sulla storia del borgo dell’accoglienza famoso e studiato in tutto il mondo. Per il resto, il collegio presieduto da Fulvio Accurso non gli ha risparmiato nulla: il tribunale lo ha riconosciuto colpevole di associazione a delinquere – finalizzata a commettere «un numero indeterminato di delitti (contro la pubblica amministrazione, la fede pubblica e il patrimonio)» -, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, abuso d’ufficio, falsità materiale, peculato e falsità ideologica. E lo ha fatto andando perfino oltre le richieste avanzate dal pm Michele Permunian, che per il “curdo” aveva invocato 7 anni e 11 mesi, definendolo il «dominus assoluto» dell’accoglienza, consapevole «di trasgredire le regole» per «interessi di natura politica». Si chiude così il processo al simbolo per eccellenza dell’accoglienza, quello alla quale tutti, da destra a sinistra, hanno fatto la guerra, a partire da Marco Minniti per finire a Matteo Salvini. Vincendola, da quel che si comprende da una sentenza che ha condannato 18 imputati su 27, giudicati colpevoli di aver accolto i migranti. Ciò nonostante il gip avesse fortemente criticato le accuse, parlando di «vaghezza e genericità» e sottolineando come qualsiasi riferimento a «collusioni ed altri mezzi fraudolenti che avrebbero condotto alla perpetrazione dell’illecito si risolve in formula vuota, ossia priva di un reale contenuto di tipicità». Marchiane inesattezze, così aveva detto il giudice, secondo cui «gran parte delle conclusioni cui giungono gli inquirenti appaiono o indimostrabili, perché allo stato poggianti su elementi inutilizzabili (…) o presuntive e congetturali o sfornite di precisi riscontri estrinseci». Per Lucano i giudici hanno stabilito anche il pagamento di quasi un milione di euro, una cifra enorme per un uomo praticamente indigente. «Non ho tutti questi soldi – ha dichiarato in piazza Fortugno dopo la lettura del dispositivo -. Mia moglie fa le pulizie in casa di altri. Non ho proprietà, non ho nulla. Non capisco. Ho visto un elenco di cifre enormi, a me mancano i soldi per vivere, come posso estinguere questa cosa? È inaudito». Una situazione di povertà più volte emersa nel corso del processo – nemmeno un euro è stato infatti trovato sui conti dell’ex sindaco che dopo l’arresto non ha più avuto un lavoro -, ed evidenziata dai suoi avvocati durante le arringhe conclusive: «Mimmo Lucano vive di stenti, la sua condizione è incompatibile con la commissione di qualsiasi reato», avevano affermato Giuliano Pisapia e Andrea Daqua, che lo hanno difeso gratis. Nulla da fare: per il tribunale la truffa è provata, quei soldi da qualche parte saranno. Poco importa che Lucano non abbia un centesimo in tasca. «Ho speso la mia vita rincorrendo degli ideali, contro le mafie. Ho fatto il sindaco dalla parte degli ultimi, dei rifugiati – ha commentato l’ex primo cittadino -. Mi sono immaginato di contribuire al riscatto della mia terra, per l’immagine negativa che ha sempre avuto. Un’esperienza fantastica, ma oggi devo prendere atto che davvero finisce tutto», ha spiegato, aggiungendo di aspettarsi un’assoluzione «con formula ampia». La condanna è arrivata a tre giorni dalle elezioni regionali, che lo vedono impegnato nelle liste a sostegno di Luigi de Magistris. Ma ora l’avventura politica per lui è finita: la legge Severino gli impedisce di poter essere eletto, anche se venisse votato in massa. Lucano, prima di lasciare Locri, non ha negato di considerare il suo sogno ormai finitio. «Oggi è l’epilogo per me. È un momento difficile – ha evidenziato -, ma la dignità non mi fa dimenticare la riconoscenza che devo avere per tutti quelli che si sono occupati della mia vicenda. Non voglio disturbare più nessuno, mi ritiro da tutto. Non mi importa più, voglio solo evitare dispiaceri ai miei familiari e ai miei amici, se devo morire, non c’è problema. Io sono morto dentro oggi. Non c’è pietà, non c’è giustizia». Per l’ex sindaco si è trattato di un ribaltamento della realtà: «Quando sono tornato dalle misure cautelari, perché mi avevano sospeso da sindaco e cacciato da Riace, i rifugiati mi aspettavano. Adesso Riace è finita». Per i magistrati di Locri, invece, ai migranti sarebbero andate solo le briciole, nonostante le manifestazioni d’affetto e le lacrime di chi a Riace, grazie a Lucano, aveva trovato una casa scappando da morte e devastazione. «Valutate voi con la vostra intelligenza se si tratta di un’ingiustizia», ha concluso. Per Pisapia e Daqua si tratta di «una sentenza lunare e una condanna esorbitante che contrastano totalmente con le evidenze processuali. Oltre tredici anni di carcere, per un uomo come Mimmo Lucano che vive in povertà e che non ha avuto alcun vantaggio patrimoniale e non patrimoniale dalla sua azione di sindaco di Riace e, come è emerso nel corso del processo si è sempre impegnato per la sua comunità e per l’accoglienza e l’integrazione di bambini, donne e uomini che sono arrivati nel nostro Paese per scappare dalle guerre, dalle torture e dalla fame – hanno spiegato -. È difficile comprendere come il Tribunale di Locri non abbia preso nella giusta considerazione quanto emerso nel corso del dibattimento, durato oltre due anni, che aveva evidenziato una realtà dei fatti ben diversa da quella prospettata dalla pubblica accusa. Per ora purtroppo possiamo solo sottolineare che non solo la condanna, ma anche l’entità della pena inflitta a Mimmo Lucano sono totalmente incomprensibili e ingiustificate e aspettare le motivazioni della sentenza per poter immediatamente ricorrere in appello nella convinzione che i successivi gradi di giudizio modificheranno una decisione che ci lascia attoniti». Soddisfatto, invece, il procuratore di Locri, Luigi D’Alessio: «Le sentenze si commentano da sole. In questo caso è stato riconosciuto il nostro impianto accusatorio, la sentenza quindi ci sembra equilibrata». Nonostante quei 5 anni e tre mesi in più.

Tredici anni a Mimmo Lucano, i conti regolati sulla pelle dei migranti. Enrico Bellavia su L’Espresso il 30 settembre 2021. La sentenza “esemplare” nei confronti dell’ex sindaco di Riace: una sfilza di reati senza alcun arricchimento. Ma tanto basta a liquidare un modello di accoglienza. Tredici anni. Nell’Italia degli impuniti a Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, in corsa come candidato al fianco di Luigi De Magistris per la Regione Calabria, riservano una pena che supera la media delle condanne effettivamente inflitte per l’omicidio volontario. Per via giudiziaria si chiude davanti al tribunale di Reggio Calabria, solo il primo round di una battaglia giocata perlopiù sul terreno politico ma che ha visto l’ex amministratore arrestato e allontanato da Riace per una sfilza di contestazioni che vanno dall’associazione per delinquere all’inevitabile abuso d’ufficio. Neppure il pubblico ministero, che pure aveva chiesto 7 anni, ha potuto adombrare il sospetto che dei presunti soldi spariti, quantificati in 5 milioni di euro, Lucano abbia intascato un euro. E la sua vita, scandagliata e rivoltata come un calzino è lì a dimostrarlo. Le intercettazioni, portate a sostegno di un’accusa enorme, dimostrerebbero, ha sostenuto il pm, che quel suo darsi da fare per accogliere e integrare migranti, per farli lavorare nelle cooperative, per mettere in piedi quel modello Riace che sono venuti a studiare dall’estero ha avuto una contropartita immateriale. Ovvero il consenso. Niente soldi ma solo l’approvazione della sua gente che lo ha eletto per tre volte. Nel paese che non riesce a provare il reato di scambio politico mafioso, avendone fatto un archetipo giudiziario cervellotico, al limite dell’impossibile, Lucano paga forse qualche svista e quale che ingenuità, leggerezze amministrative di chi non ha troppa dimestichezza con le tortuose vie del diritto e non certo imbrogli da grande concussore. Se è successo davvero, è stato solo per tenere in vita il sistema che ne ha fatto un perfetto antagonista dei tronfi sceriffi anti-immigrati alla Matteo Salvini. Che non a caso si è lanciato sullo sgomento di Lucano, credendo di rifarsi dei sinistri contraccolpi del caso Morisi: «Paladino dei radical chic», «Condannato e candidato dalla sinistra». La “Bestia”, del resto, è solo ferita, capace com’è di trascinarsi dietro in un regolamento di conti postumo sul tema dei migranti altri esponenti del centrodestra. Maurizio Gasparri tuona contro la Rai, rea di aver dedicato a Lucano e Riace un docufilm «senza attendere la sentenza». Ovvero esattamente quello che sembra essere lo sport più praticato dai commentatori con titolo parlamentare che impazzano nei talk show. Come sempre, le motivazioni diranno come si sia arrivati quasi al raddoppio delle pretese dell’accusa e in che modo i giudici abbiano ritenute fondate le contestazioni servite a demolire quel che ha rappresentato Riace, mentre il Paese scivolava dall’accoglienza ai porti chiusi. Dalle missioni umanitarie ai barconi lasciati affondare. Dalle mani tese alle gabbie per i «clandestini».

E un sindaco filoleghista prendeva il posto di Lucano incaricandosi di cancellare la memoria. In una Calabria che fino a una manciata di anni fa non processava per mafia neppure la ‘ndrangheta, resta l’idea che una sentenza spropositata nella misurazione del presunto danno sia l’ennesimo mattone di un muro contrabbandato per confine.

Mimmo Lucano condannato a tredici anni e due mesi. Assassini e tentati stragisti prendono meno. Telesio Malaspina su L’Espresso il 30 settembre 2021. La sentenza del tribunale di Locri sull’ex sindaco di Riace stupisce per la severità. Luca Traini, che provò a uccidere sei persone a Macerata, ne prese dodici. «Una condanna che appare immotivata e sproporzionata». È il commento di Amnesty International alla sentenza del tribunale di Locri che condanna Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, a tredici anni e due mesi. L’associazione umanitaria, abituata a fare luce sulle vergogne dei sistemi giudiziari dei paesi di tutto il mondo, non usa mezzi termini. E in effetti la severità della pena inflitta a Lucano lascia in molti senza parole. Il procuratore capo Luigi D'Alessio e il pm Michele Permunian avevano chiesto infatti una condanna a 7 anni e 11 mesi per reati tra cui favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, associazione per delinquere, abuso d'ufficio, truffa, concussione, peculato, turbativa d'asta e falsità ideologica. Il giudice non solo ha adottato l’impianto accusatorio della Procura, ma ha alzato la pena fino quasi ai massimi possibili. Si arriva così, in attesa di leggere le motivazioni della sentenza, a una situazione paradossale. Mimmo Lucano, che da primo cittadino di Riace è stato al centro di un’importante esperienza di rilancio del suo comune grazie all’accoglienza di molti migranti, si ritrova ora con condanne che in Italia non si vedono neanche per crimini come la tentata strage, l’omicidio volontario e lo stupro. Tanto per restare nel campo dei casi di cronaca che hanno avuto ampia eco politica basta citare il caso di Luca Traini. L’uomo che a Macerata nel 2018 andò in giro a sparare contro sei persone di colore cercando di ucciderle si è visto comminare una pena di dodici anni (confermata in Cassazione). Solo quattro anni ai domiciliari, con la possibilità di uscire per otto ore al giorno, per l’omicida di Fermo: Amedeo Mancini ha patteggiato la pena per aver ammazzato a pugni un giovane nigeriano di 36 anni, Emmanuel Chidi Namdi. Gli aggressori del ragazzo senegalese Khalifa Dieng, insultato per il colore della sua pelle ( "Vattene via sporco negro, siete tutti figli di p..., ve ne dovete andare dal nostro Paese") e preso a calci e a pugni, sono stati condannati  a 2 anni e 4 mesi. Quattro invece le condanne, con l'aggravante dell'odio etnico, per l'incendio in un campo nomadi alla periferia di Torino scatenato nel dicembre del 2011 nel corso di una manifestazione spontanea di protesta di un gruppo di cittadini: due condanne a quattro anni, una a tre anni e una a due anni di reclusione. Al di là di ogni retorica, sono i dati che parlano e la condanna di Mimmo Lucano sembra quasi un vademecum: salvare i migranti, proteggere le persone dalle aggressioni è più rischioso che attentare alla loro sicurezza. Evidentemente non tutte le vite valgono allo stesso modo.

Sul caso Lucano giustizia è fatta? Solamente quella delle carte. L’entità della pena inflitta a Lucano appare del tutto spropositata: la giustizia delle carte e quella della sostanza non dovrebbero essere così lontane. Rocco Velenti su Il Quotidiano del Sud l’1 ottobre 2021. Giustizia è fatta sul caso Lucano? Giustizia è fatta sulle ombre che la Procura ha trovato nelle carte della gestione dei progetti di accoglienza dei migranti in quel di Riace, il borgo calabrese che fino a qualche anno fa era sulle pagine dei giornali di tutto il mondo come il paese dell’accoglienza? E che con il suo sindaco di allora, Domenico Lucano, era diventato un simbolo e un esempio?

TUTTO DIPENDE

Dipende da cosa si intenda per giustizia. Per quella delle carte e delle aule di tribunale giustizia è fatta, almeno con una sentenza di primo grado che ha condannato Lucano a 13 anni e due mesi di reclusione. Ben al di là dei 7 anni e 11 mesi chiesti dalla pubblica accusa.

Le cronache della giornata, a parte una “svista” di non poco conto sul reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (un solo capo d’imputazione per un singolo caso per il quale Lucano è stato assolto «perché il fatto non sussiste» e non condannato), riferiscono dei reati costati a Lucano i 13 anni e passa di reclusione: associazione per delinquere, truffa aggravata, episodi di abuso d’ufficio e falso.

Tutti riconducibili ad attività (spesso non rendicontate a puntino) di accoglienza per le quali alcune associazioni locali hanno percepito rimborsi dallo Stato in maniera non regolare (perché, per esempio, secondo l’accusa, molti immigrati non avevano più diritto a permanere nei progetti). E questa è la giustizia delle carte. L’altra no, non è stata fatta, perché l’entità della pena dovrebbe fare venire la pelle d’oca non solo al popolo della sinistra che sostiene da anni Lucano, che peraltro non risulta abbia patrimoni nascosti in paradisi fiscali (anzi, testimonianze autorevoli parlano di una persona spesso in difficoltà economica persino per spostarsi). La sensazione alla notizia di quei 13 anni e due mesi di reclusione inflitti dal Tribunale di Locri è assimilabile, probabilmente, a quella che si avrebbe di fronte alla condanna a cinque anni per il furto di un cespo di banane. Insomma, non è solo l’amarezza delle sue parole dopo la lettura del dispositivo (“neanche a un mafioso…”). È la palese incongruenza, nella sostanza della vita persino di un Paese offuscato da ventate di giustizialismo, tra quello di cui era accusato e la quantità di anni di carcere.

STRUMENTALIZZAZIONI

Certo, ci sarà l’appello, la Cassazione… ma l’amarezza dovrebbe essere collettiva, almeno in chi crede ancora che la giustizia delle carte e quella della sostanza non dovrebbero essere così lontane. E tutto al netto, naturalmente, di strumentalizzazioni un tanto al chilo che fanno comodo, per esempio in Calabria, a due giorni dal voto per le regionali, nelle quali lo stesso Lucano è impegnato con una lista a sostegno del candidato governatore Luigi de Magistris. Nonostante nel borgo di Riace, costa jonica reggina, una volta che Lucano è stato travolto dall’inchiesta, abbiano cambiato persino i cartelli stradali (da “paese dell’accoglienza” in “paese dei santi Cosma e Damiano”, ma Papa Francesco probabilmente non lo ha saputo), l’esperienza creata da “Mimmo il curdo” è ormai nelle pagine di storia. Quella della giustizia della gente non è stata scritta. P. s. Gli importi delle presunte erogazioni pubbliche non dovute per le quali vi è stata la condanna non superano complessivamente i 300mila euro. Alla prossima condanna, qua e là per l’Italia, per una truffa da un paio di milioni di euro, se dovesse essere inflitto il carcere a vita a qualche allegro intermediario di gruppi di potere, per favore, non storciamo il naso. Anche se sarebbe solo, anche quella, giustizia delle carte.

Ecco la colpa grave. Antonio Maria Mira su Avvenire l’1 ottobre 2021. Una giornata pesante per l’accoglienza. Nella notte il terribile incendio che distrugge il ghetto di Campobello di Mazara e spegne la vita del giovane bracciante Omar. Storia di cattiva e drammatica accoglienza. Anzi, di colpevole incapacità di accogliere. In tarda mattinata, la durissima, inaspettata proprio per la durezza, condanna di Mimmo Lucano, già sindaco di Riace, con lui simbolo e piccola capitale di bella accoglienza. Il Tribunale di Locri lo ha considerato colpevole di svariati reati legati proprio a quella esperienza ritenuta da tanti positiva. Sono due facce della stessa medaglia, quella di un Paese che salva gli immigrati, li accoglie, ma poi li dimentica, lasciandoli in mano a sfruttatori e caporali. Sono i ghetti, le baraccopoli, il lavoro nero, i tanti, troppi lavoratori (perché tali sono) bruciati nelle loro baracche in Sicilia come in Calabria, in Puglia come in Basilicata. Una situazione nella quale chi prova a fare diversamente, ad accogliere veramente (e non sono pochi...), diventa subito un eroe, un caso da esibire, un leader. Questo era diventato Mimmo Lucano, propugnatore, assieme ad altri bravi sindaci calabresi (non andrebbero mai dimenticati) di progetti di integrazione e anche di rinascita dei propri paesi spopolati e abbandonati. Belle storie, molte silenziose, quella di Mimmo... decisamente rumorosa. Forse troppo, e non solo per sua responsabilità. Tanta ne hanno certa politica e certa stampa. E quando uno si sente, o viene fatto sentire, un 'eroe', corre il rischio di sentirsi al di sopra delle leggi, se ritiene che quelle leggi gli impediscano di fare del bene, di difendere i diritti. Lucano, romantico rivoluzionario, il bene da sindaco lo pensava e lo faceva. Lo stesso difensore, Giuliano Pisapia, lo ha in parte ammesso. Piegare le leggi per aiutare gli accolti. Ma siamo in una democrazia, in uno Stato di diritto, e le leggi vanno applicate, magari criticandole e provando democraticamente a cambiarle. Altri sindaci, quelli del sistema Sprar, hanno fatto e fanno una bella ed efficace accoglienza senza uscire dal seminato delle leggi. E non sono certo meno motivati del collega di Riace. Lucano, caratteraccio testardo, non ha accettato i consigli di chi, anche nelle istituzioni, lo voleva aiutare. E altri, anche nelle istituzioni, hanno preferito attaccarlo invece di aiutarlo. Ed è stato corto circuito. Per la procura di Locri le forzature di Lucano erano reati, anche gravi. Già le ispezioni della prefettura di Reggio Calabria avevano accertato gravi irregolarità amministrative. Ora il Tribunale è andato molto oltre con una sentenza decisamente pesante e inaspettata. Con pene che alcune volte non colpiscono neanche i mafiosi. E Lucano mafioso non è. Né si è arricchito con l’accoglienza. Lucano non è un corrotto. Le sentenze si possono discutere e anche criticare, ma in questo caso sarà fondamentale leggere le motivazioni quando saranno depositate dal Tribunale. Per ora ci permettiamo di dire che 13 anni e due mesi ci sembrano un accanimento, ferme restando le nostre critiche, ben documentate, al modo un po’ troppo “legibus solutus” del già generosissimo sindaco di Riace. Ma diciamo anche che non possiamo accettare le sentenze solo se ci fanno comodo o se confermano le nostre tesi. Le reazioni alla sentenza d’appello sulla cosiddetta “trattativa Stato-mafia” sono un esempio negativo. E anche qui le responsabilità sono di certa politica e certa stampa. Parlare di complotti, immaginare chissà cosa dietro la condanna di ieri, non è un buon esempio di democrazia e non fa un buon servizio neanche a Lucano che avrà tutto il tempo per convincere altri giudici della sua innocenza, cioè del suo retto sentire e agire. Piuttosto, come scrivemmo in occasione del suo arresto tre anni fa, «sarebbe molto ingiusto che a pagare fossero le tante Riace d’Italia, quelle che danno del Paese un’immagine diversa dalla violenza verbale e non solo, dall’intolleranza, dalle fake news sugli immigrati». Chi tenta ora di speculare sulla condanna di Lucano per bassi fini elettorali, non solo sbaglia ma favorisce, sicuramente, chi sfrutta gli immigrati. Perché senza buona accoglienza resterebbero solo i ghetti e i morti bruciati, come il giovane di Campobello. E questo sì sarebbe veramente e gravemente colpevole. 

Lucano come Bija? La follia di un’Italia che tratta i sindaci come trafficanti e i trafficanti come statisti. Francesco Cundari su Linkiesta.it l’1 Ottobre 2021. In nome della lotta all’immigrazione clandestina la politica di accoglienza è messa fuori legge a Riace, mentre lo Stato, in nome dello stesso principio, continua a finanziare generosamente gli schiavisti libici. È davvero uno strano paese quello in cui i sindaci sono trattati come trafficanti e i trafficanti sono trattati come statisti: in nome della lotta all’immigrazione clandestina la politica di accoglienza è messa fuori legge a Riace, mentre lo Stato italiano, in nome dello stesso principio, continua a finanziare generosamente trafficanti e torturatori libici. Abdul Rhaman Milan, meglio noto come «Bija», capo della cosiddetta guardia costiera, qualche anno fa è stato gentilmente invitato al ministero della Giustizia e al Viminale, mentre il sindaco Mimmo Lucano è stato condannato ieri a tredici anni e due mesi, come fosse il capo di chissà quale organizzazione criminale. Leggeremo le motivazioni della sentenza, come si dice in questi casi, ma quello che abbiamo sentito fin qui non può non lasciare sconcertati. Si può credere che Lucano sia un pasticcione, che abbia peccato di leggerezza, che abbia fatto casini tali da giustificare pesanti ammende o magari persino una condanna per abuso d’ufficio (che del resto, in Italia, non si nega a nessuno), ma davvero non si può credere che meriti una pena più pesante di quella inflitta a Massimo Carminati, il Nero della banda della Magliana, per Mafia Capitale. Quella che colpisce Lucano è una sentenza che sembra scritta da Luca Morisi, in cui è difficile non vedere l’intreccio perverso dei due peggiori filoni del populismo italiano: la criminalizzazione della politica e la criminalizzazione dell’immigrazione, dell’esclusione e della diversità. Due filoni che alla lunga finiscono sempre per ricongiungersi, come la recente storia della politica italiana ha ripetutamente insegnato (sfortunatamente la storia della politica italiana trova raramente buoni scolari). La tragedia, troppo a lungo oscurata dall’impropria polarizzazione che Silvio Berlusconi ha consapevolmente alimentato per tanti anni, non è che la magistratura faccia politica. La tragedia è che fa antipolitica, perché troppi magistrati sono imbevuti di una cultura e di un’idea della propria funzione che stanno alla giustizia e allo stato di diritto come le teorie no vax stanno alla scienza e alla sanità pubblica (come dimostrano, in tema di vaccini, le fatiche editoriali di alcuni noti magistrati e dei loro ancor più noti prefatori). Il cospirazionismo giudiziario è ormai una cultura condivisa da pubblici ministeri, giudici, giornalisti, attori, registi: siamo tutti costantemente immersi in una sorta di interminabile docu-fiction che passa indifferentemente dagli articoli di giornale alle sentenze, dalle serie tv ai telegiornali. La dice lunga sulla gravità della situazione anche il fatto che tra i primi a solidarizzare con Lucano ci sia quel Luigi de Magistris che proprio con questo genere di inchieste si è fatto un nome, costruendosi una brillante carriera politica sulla solida base dei suoi insuccessi giudiziari, e che oggi, dopo aver fatto il sindaco di Napoli, corre per la presidenza della Regione Calabria (Lucano è candidato nelle sue liste). Così, ancora una volta, nell’incalzante cambio di scena tra caso Morisi e caso Lucano, destra e sinistra si scambiano i ruoli. Ma il copione è sempre lo stesso: la tenzone tra garantisti e giustizialisti. Una recita tanto meno credibile nel momento in cui tutti i partiti continuano a candidare ciascuno i pubblici ministeri che hanno indagato sugli altri, alimentando sui mezzi di comunicazione quella gogna eterna che pure, prima o dopo, dovranno provare sulla propria pelle, e dalla quale non riusciranno a riscattarli tutte le bufale dei loro spregiudicati social media manager.

In nome del populismo italiano. Il caso di Mimmo Lucano e i problemi cronici della nostra magistratura. Cataldo Intrieri il 2 Ottobre 2021 su L'Inkiesta.it. L’ex sindaco di Riace non è stato considerato un povero pasticcione, un po’ megalomane, ma il capo di un’associazione a delinquere che speculava sugli immigrati. Il rischio è quello di coltivare la possibile e pericolosa illusione di alcuni magistrati di riacquistare credibilità con sentenze esemplari e inseguendo mostri. Sostiene Piercamillo Davigo che il giudizio politico su di una sentenza di condanna non ha bisogno di attendere i tempi lunghi della giustizia e il processo di ultimo grado in Cassazione: le conseguenze si possono trarre subito. Ho sempre pensato che Davigo avesse una parte di ragione e ho pensato a lui quando ho saputo della bastonata di decenni di reclusione comminata dal Tribunale di Locri a Mimmo Lucano e ai suoi collaboratori, in quanto artefici del modello Riace di accoglienza agli immigrati. La conseguenza politica più immediata è certamente la ricaduta della decisione sulla campagna elettorale di Lucano candidato nella Lista De Magistris alle regionali calabresi: l’eventuale elezione sarebbe sospesa, sia pur provvisoriamente, in virtù della Legge Severino la cui costituzionalità è stata ribadita solo pochi mesi fa dalla Corte Costituzionale. Ma non è di giustizia a orologeria e altre stucchevolezze che qui si vuol parlare, quanto del significato più evidente in chiave politica: la demolizione in un ottica criminologica di un modello di assistenza sussidiaria allo Stato organizzato dai privati. Una famosa intercettazione di uno degli imputati di Mafia Capitale («Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? La  droga rende meno») aveva già contribuito a mutare la percezione e il clima intorno al fenomeno: non sappiamo se i giudici di Locri si sono ricordati di questa frase ma sicuramente la chiave di interpretazione del modello Riace è quella in essa evocata. Leggeremo tra tre mesi, salvo proroghe, il complesso ragionamento probatorio del tribunale calabrese, intanto già la lettura del semplice dispositivo dimostra chiaramente l’interpretazione dei fatti e autorizza una prima analisi che peraltro già tenta Marco Travaglio ovviamente e coerentemente in chiave giustizialista, pasticciando, come spesso gli capita tra le norme di diritto e i suoi pregiudizi colpevolisti. L’accusa mossa tenacemente dalla procura di Locri ha sin dall’inizio avuto vita difficile e trovato gelida accoglienza da diversi giudici esterni chiamati a intervenire a vario titolo nella vicenda, prima di trovare una più che entusiastica condivisione da parte del Tribunale locale. Il primo, a dire il vero, era stato il giudice delle indagini preliminari di Locri che di fronte alla richiesta di misure cautelari addirittura carcerarie nei confronti di Lucano e dei collaboratori aveva criticato l’impostazione dell’accusa con termini estremamente duri e anzi inquietanti per ciò che concerne l’obiettività degli stessi pubblici ministeri che già allora avevano delineato il sistema Riace come un’organizzazione criminale di truffatori seriali. Ad esempio, ed è il particolare più eclatante, il Giudice per le indagini preliminari (Gip) ha rimproverato ai pubblici ministeri di aver contestato come oggetto di una truffa ai danni dello Stato tutte le somme percepite senza considerare e detrarre le spese legittimamente sostenute per i servizi regolarmente resi: un errore grossolano che costituisce la violazione di una giurisprudenza consolidata della Cassazione. La seconda contestazione mossa dal Gip è quella di aver basato le accuse sulle dichiarazioni di un teste interessato e per di più coinvolto, ascoltato senza avere la doverosa assistenza legale e dunque inutilizzabili. Il giudice di Locri aveva lasciato in vita due sole accuse ai fini di applicare gli arresti domiciliari piuttosto residuali che poi la Cassazione sul ricorso dei PM che insistevano addirittura per il carcere  aveva ridotto a una sola di abuso d’ufficio (favoreggiamento di immigrazione clandestina da cui Lucano è stato assolto). Con l’occasione anche i supremi giudici avevano criticato la vaghezza della impostazione accusatoria che ad esempio evidenziava come programma criminale la celebrazione  seriale di finti matrimoni tra immigrati come strumento per consentire l’ingresso leghista. Sia detto senza offesa, una tesi che certamente avrebbero condiviso Matteo Salvini, Giorgia Meloni e complottisti nazistoidi vari (forse anche Travaglio, eternamente innamorato delle procure) ma che poi si è persa per strada senza arrivare al processo. E infatti il leader della Lega, quando era ministro dell’interno, partendo dall’indagine penale ne aveva profittato per ordinare lo smantellamento delle strutture facenti capo alle cooperative di Lucano, ma il suo tentativo è stato vanificato da due successive sentenze del Tar e del Consiglio di Stato che avevano invece sottolineato come  nonostante il caos amministrativo che – riconoscono i giudici – «emerge con chiarezza dagli atti di causa», Riace stava svolgendo un ruolo positivo  con  «riconosciuti e innegabili meriti che hanno un ruolo decisivo nel ritenere superate (e non penalizzanti) le criticità». Orbene, ben può essere che il desolante per non dire desertico panorama accusatorio sia rifiorito nel processo, nonostante Travaglio, Davigo &Co. siano convinti della sua sostanziale inutilità dopo le indagini dei PM, invece non sufficienti nel caso di specie, ma a dire il vero le risultanze ultime non confortano se è vero che l’accusa ha addirittura modificato le ipotesi di reato poco prima della discussione finale. È questo  un segnale di evidente difficoltà a indicare fatti e accuse precise così come dovrebbe essere buona regola in uno Stato di diritto dove l’imputato dovrebbe saper nel minor tempo possibile di cosa lo si accusa e invece spesso deve inseguire i continui cambi di direzione dell’accusa. Come è avvenuto a Lucano cui il Tribunale in camera di consiglio ha addirittura cambiato un capo d’imputazione (capo 2) nonostante i pubblici ministeri avessero già modificato l’accusa, trasformando il reato di abuso di ufficio in truffa per erogazione di pubblico denaro, il che potrebbe costituire una violazione del diritto di difesa e motivo di nullità della sentenza. Ma se la vedranno gli avvocati. Qui invece sia consentito una chiosa a Travaglio che nella foga di difendere la sentenza si avventura nel pericoloso sentiero del diritto penale: per arrivare a tredici anni i giudici comminano il massimo della pena come risulta evidente dal fatto che la richiesta dei PM era stata di gran lunga inferiore. Non c’entra nulla il numero dei reati, il calcolo in casi del genere e secondo l’art. 81 del codice penale si fa partendo dal reato più grave «aumentato sino al triplo», «aumentato sino» e non “del” triplo,  ovviamente per i casi più gravi. Il reato con pena più alta è il peculato che prevede una pena minima di cinque anni. Se il Tribunale, come vuol far credere Travaglio, si è limitato al minimo della pena va detto che ha pressochè toccato il calcolo massimo di condanna, perdipiù negando anche le attenuanti generiche che a un incensurato difficilmente si sono mai negate. Ciò vuol dire che Lucano non è stato considerato un povero pasticcione un po’ megalomane, ma il capo di un’associazione a delinquere che speculava sugli immigrati. Per dire Massimo Carminati in Mafia Capitale ha avuto la stessa condanna. Sta alla sua coscienza e a quella di chi per anni ha difeso questo sistema dire se questa lettura «che uccide l’anima di Mimmo Lucano» può essere vera. Ma non raccontiamoci storie. È una vicenda politica che spacca la sinistra sia politica che della magistratura: mentre Magistratura Democratica tramite lo storico esponente Livio Pepino critica la sentenza, tacciono le altre componenti evidentemente preoccupate di non dividersi e di non indebolire la corporazione. Il rischio, tuttavia, è quello di coltivare la possibile e pericolosa illusione di alcuni settori della magistratura di riacquistare credibilità con sentenze esemplari inseguendo mostri. Parla invece la sinistra per bocca del segretario del Partito democratico che abbraccia Lucano: fa bene, ma avrebbe dovuto abbracciare anche il generale Mario Mori e i fedeli servitori dello Stato assolti qualche giorno fa a Palermo. Non si può essere garantisti a intermittenza. La sinistra con ambizioni di governo farebbe bene a riflettere che il problema della magistratura italiana è serio, molto serio.

Il Mondo di mezzo.

Dagonews l'1 ottobre 2021. Un giornale, due prospettive. La condanna a 13 anni e 2 mesi in primo grado all'ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano, mette in conflitto e in soffritto le due anime del "Fatto quotidiano": Marco Travaglio e Peter Gomez. Il primo, a differenza di molti "sinistrati", non indugia nel pietismo verso Lucano. Pur mitigando il curaro tipico della sua penna (clemenza non concessa ai condannati di altra area politica), Travaglio fa capire che l'ex sindaco ha toppato, e senza scuse: "A parte qualche spesa privata con soldi pubblici, non si può dire che Lucano sia un corrotto o che agisse per interessi propri, anche se quel sistema di soldi allegri a pioggia drogava certamente i suoi consensi. È possibile che agisse con le migliori intenzioni. Ma questo incommensurabile pasticcione era pur sempre un sindaco, cioè un pubblico ufficiale tenuto a rispettare e a far rispettare le regole". Poche chiacchiere: Lucano avrebbe dovuto adempiere al mandato di primo cittadino con diligenza e responsabilità, soprattutto nella gestione dei soldi pubblici. "L'impressione - continua Travaglio - è che la nobile missione del "modello Riace" gli abbia dato alla testa, convincendolo di essere al di sopra, anzi al di fuori della legge. Che si può sempre contestare e persino, per obiezione di coscienza, violare. Ma senza la fascia tricolore a tracolla. E affrontando poi le conseguenze delle proprie azioni". Molto più clemente è il giudizio di Peter Gomez che, per difendere Mimmo Lucano, attacca l'apparente incongruenza del Codice penale: "Marco Siclari, un senatore calabrese di Forza Italia imputato di voto di scambio politico mafioso, in primo grado, era stato condannato a poco più di cinque anni; Marcello Dell'Utri ne ha avuti sette per concorso esterno in Cosa Nostra; Callisto Tanzi, l'ex patron di Parmalat responsabile di aver mandato in fumo i risparmi di decine di migliaia di persone, 11; mentre grazie al rito abbreviato, Luca Traini, che nel 2018 tentò a Macerata per motivi razzisti una strage di migranti, se l'è cavata con 12 anni. Possibile che sparare a caso contro chiunque abbia la pelle di un colore diverso (sei tentati omicidi) sia più grave che infrangere la legge per aiutarli?". A Gomez evidentemente l'applicazione della legge tout court appare iniqua (avrebbe fatto lo stesso nobile discorso per un avversario?) ma invoca un più alto e (molto opinabile) senso di "giustizia": "Il nostro Codice penale risale agli anni 30 e su di esso si sono affastellate norme, articoli e pandette. Bisogna trovare il modo di dare un senso all'entità delle pene comminate in casi diversi, bisogna trovare un'uniformità reale. Se la giustizia non viene più percepita come tale da coloro nel nome dei quali viene amministrata, cosa resta di essa? Per questo più che di giudici e delle loro eventuali manchevolezze oggi bisognerebbe parlare delle leggi". Bene, bravo, bis! Gomez chiede una maggiore ponderazione, una più dettagliata "casistica" (morale o umorale?) per mettersi alle spalle il crudele automatismo del codice. Non si faccia di tutta l'erba un fascio, insomma. Si distingua, si ponderi, si valuti. E se un reato lo commette un buono, un giusto, un pio…la legge si interpreti. Applicarla sarebbe troppo prosaico. Gad Lerner va oltre: sventola il "diritto-dovere" alla disobbedienza civile nonviolenta "allorquando il sistema - e l'ottusità delle sue normative - impediscono l'attuarsi di un'azione finalizzata al bene pubblico". La condanna di Mimmo Lucano, incalza Lerner, "è un'offesa recata allo spirito della nostra Costituzione. La criminalizzazione della solidarietà rappresentata da questa condanna spropositata (più alta di molte inflitte a esponenti della 'ndrangheta) è una ferita non rimarginabile inflitta a tutti coloro che praticano la solidarietà sociale". La domanda sorge spontanea. Perché al "Fatto" s'accorgono dell'ottusità delle norme, dei bizantinismi del Codice, delle storture di automatismi tanto legittimi quanto ingiusti solo ora che Mimmo Lucano è stato condannato? Prima di ieri, la Giustizia era giusta? Ah, non saperlo…

La Reazione dei Nemici.

Da liberoquotidiano.it l'8 ottobre 2021. Lilli Gruber ospita Mimmo Lucano. In collegamento con La7 c'è infatti l'ex sindaco di Riace condannato a 13 anni e 2 mesi in primo grado. Le accuse vengono elencate direttamente dalla conduttrice di Otto e Mezzo che lo presenta così: "Le accuse, tra le altre - spiega-, associazione a delinquere, peculato, frode e abuso d'ufficio. I reati che le vengono contestati sono molto gravi". "I reati che mi sono stati contestati sono molto gravi ma la realtà non è così. Non ho preso soldi per me. Mi sembra tutto così assurdo", premette subito Lucano. L'ex primo cittadino ammette di aver sviluppato l'interesse per l'accoglienza in modo del tutto casuale e che solo dopo Riace è diventato un modello: "Ho risposto a un impulso, un istinto, ho collaborato con un vescovo. Io in quel periodo ero molto impegnato". Immediata la replica della Gruber: "Scusi, ma lei in quel momento era sindaco di Riace". Ma Lucano la ferma: "No attenzione, non lo ero". E ancora la Gruber: "Però le vengono contestati reati gravi anche perché lei aveva per le mani soldi pubblici, ma lei ha preso soldi per sé?", "Basta guardare gli atti dove c'è scritto che non ho preso soldi per me". Finita qui? Niente affatto. La conduttrice rincara la dose sottolineando che ci sono molti "pubblici amministratori che fanno accoglienza senza violare le leggi e lei invece ha dovuto fare fatture false, dichiarazioni false, appalti senza gara pubblica, perché?". A quel punto a prendere la parola è Lucano: "Non è questa la realtà, c'è una descrizione sbagliata che stravolge la realtà". Un'uscita che non accontenta la Gruber: "Questo è quello che dice la sentenza", "Ma se lei fa così io non posso dire nulla, io già ho un livello di contenenza abbastanza forte, ma così...".

Fabio Amendolara per "La Verità" il 12 ottobre 2021. Mentre Mimmo Lucano mostrava il petto alla Marcia della pace Perugia-Assisi, dalla requisitoria che il pubblico ministero della Procura di Locri Michele Permunian ha fatto in udienza chiedendo la condanna a 7 anni e 11 mesi per l'ex reuccio di Riace (i giudici poi l'hanno condannato a 13 anni e 2 mesi) saltano fuori alcuni particolari inediti del processo. L'incipit del magistrato è questo: il progetto Riace «è nato sano [...] e qui non si stigmatizza l'accoglienza bensì il mercimonio che viene fatto in nome dell'accoglienza». Con queste parole il magistrato ha fatto a pezzi tutti coloro i quali si sono smanacciati per difendere quello che qualcuno ancora definisce il Modello Riace. «Mi sono chiesto qual è il tema chiave, l'elemento che accomuna tutti o quasi i capi d'imputazione», ha spiegato il pm, «e la risposta che mi sono dato è che il problema centrale è il potere che corrompe chi ce l'ha». E Lucano, secondo il magistrato, «è innegabilmente il primo protagonista di questa vicenda». «Lo Sprar», spiega la toga, «ha come compito quello di emancipare il migrante, insegnandogli la lingua italiana, offrendogli l'educazione civica, dargli assistenza psicologica e la possibilità di entrare nel mondo del lavoro». Non come i tanto sbandierati laboratori di Lucano. «Erano lo specchietto per le allodole», spiega il pm, «funzionavano per le personalità, per gli ospiti, per i turisti, ma come si può leggere nelle intercettazioni venivano aperti e chiusi ad hoc». Il magistrato ricorda una delle intercettazioni, captata nel giorno della visita di un ministro greco: «Fatti vedere che apri il laboratorio per la cioccolata e portati anche la bambina con te». Ma questa non è l'unica telefonata imbarazzante. C'è una telefonata di Fernando Capone, legale rappresentante di Città futura (condannato a 9 anni e 10 mesi), che il pm legge in aula: «Avanzano questi soldi, tu non preoccuparti, vai a comprare una cameretta per te e per i ragazzi». E quando l'interlocutore chiede «ma si può fare?», Capone risponde: «No che non si può fare, ma che cazzo te ne frega, l'importante è che tu non debba restituire i soldi. Noi lo facciamo sempre». E il pm riassume in poche parole quello che ha scoperto del Sistema Riace: «Dobbiamo restituire a un certo punto perché non abbiamo speso? Allora fatture false, prestazioni, compriamo qualcosa per noi. Questo è il metodo». E Lucano, secondo il pm, lo fa «per un tornaconto politico elettorale. La prova? Nelle intercettazioni. Lucano conta i voti: "Dalla famiglia Tornese ci vengono 70-80 voti [...] la Taverniti si fotte i soldi, ma non posso allontanarla perché mi porta 20 voti [...]. A me è la politica che mi tiene"». Ma probabilmente c'era pure qualche tornaconto economico. Il pm fa riferimento al falso contratto di Capone. «L'idea è quella di pagare Capone quale presidente dell'associazione e di dargli 10.000 euro». Capone dice: «Ma me li date veramente?». Lucano: «Sì, sì, te li diamo e poi ce li restituisci». Poi l'ex sindaco si avvicina a Capone e a bassa voce dice: «4.000 te li tieni tu e l'altra metà ce la ridai a noi». E per far crescere il tesoretto scroccato al ministero, il trucco era mantenere i migranti il più a lungo possibile. Come? Taroccando la banca dati delle presenze. La testimone Annalisa Maisto ha detto in udienza: «Noi sapevamo chi entrava ma l'irregolare tenuta della banca dati rendeva impossibile stabilire con certezza l'esatta permanenza». Sulla distrazione dei fondi, perfino il figlio di Mimmo, Roberto, lo ammonisce in una intercettazione che il pm ricorda in aula: «Ma attento papà, guarda che quei fondi ti sono stati dati per gestire i migranti... sono fondi della Comunità europea». E sono stati usati perfino per pagare le feste. In particolare i concerti estivi del 2015 e del 2017. Lucano si impegnò a portare a Riace una serie di personalità e si relazionò con tale Maurizio Senese, che è un organizzatore di concerti. Si parla di una cifra di oltre 60.000 euro, di cui solo 20.000 sono stati pagati con un contributo regionale. Ecco la ricostruzione del pm: «Il comune di Riace non ha fondi per sostenere le spese dei concerti estivi, né ci sono fondi regionali, salvo quei 20.000 euro. Quindi, chi ha pagato questo residuo di 47.000 euro? Il comune no, don Giovanni Coniglio (parroco di Riace, ndr) no, la Regione no. Li ha pagati Lucano? Come? Con i fondi dello Sprar, con i fondi pubblici». E dalle intercettazioni «emerge», spiega il pm, «che Lucano teme che gli venga contestata una concussione per questo fatto, ovvero che è andato a fare la questua tra le varie associazioni, chiedendo di contribuire, perché d'altra parte sono feste dell'accoglienza, perché rientrano nel Festival dell'accoglienza, allora voi associazioni che campate con i fondi destinati all'accoglienza dovete contribuire. Chi con 3.000 euro, chi 5.000. Ecco come si crea la provvista con cui poi Lucano paga Senese». E Senese ha pagato gli artisti. Dai contratti, infatti, emerge che gli artisti bisognava pagarli in anticipo, con il bonifico che doveva arrivare il giorno prima o, almeno, due ore prima del concerto, altrimenti non si esibiscono. «Roberto Vecchioni si è esibito», ricorda il pm, «i Marvanza si sono esibiti e tutta quella serie di artisti...». Tutti pagati con i fondi dello Sprar. In nome dell'accoglienza. 

Il caso dell'ex sindaco di Riace. No al garantismo a dondolo, Mimmo Lucano non è un santino ideologico. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 7 Ottobre 2021. Come accade quasi sempre nei processi penali, ci sono due Mimmo Lucano imputati -di reati molto gravi- davanti al Tribunale di Locri. C’è, raccontato dalla difesa, il protagonista quasi leggendario di una amministrazione comunale divenuta esempio mondiale di inclusività; e c’è, descritto dall’Accusa, un pubblico amministratore che consapevolmente viola le leggi che avrebbe il compito di far rispettare, per lucrare consenso politico per sé ed utilità anche economiche per una ristretta cerchia di persone da lui selezionata. Secondo i magistrati inquirenti ed il collegio giudicante, i fatti accertati in giudizio ci consegnano -al di là di ogni ragionevole dubbio- il secondo Mimmo Lucano. Vi è disaccordo solo sull’entità della pena, la cui insensata sproporzione appare difficilmente confutabile. Secondo la difesa, in verità parca di dettagli tecnici nella sua comunicazione pubblica (a differenza del Procuratore di Locri, che si è impegnato in puntigliose e fin troppo generose dichiarazioni pubbliche), non può rispondere di peculati, truffe ai danni dello Stato e malversazioni varie un uomo che, anche secondo l’Accusa, non solo non si è arricchito di un solo euro, ma ha vissuto e vive quasi a livello di indigenza. Secondo l’Accusa, le motivazioni politiche o etiche della condotta amministrativa del sindaco Lucano e l’assenza di illeciti arricchimenti personali non possono legittimare la sistematica e consapevole violazione della legge, soprattutto quando si amministra denaro pubblico, ed anzi tale condotta è a tal punto grave da meritare, secondo il Tribunale, pena massima e nemmeno le attenuanti generiche. Mai come in un caso così radicalmente controverso, occorre necessariamente attendere la lettura delle motivazioni. Capiremo se sono controversi i fatti nella loro materialità, o se si debba discutere di cause giustificative di condotte comunque violative della legge. Fa una bella differenza, insomma, capire se si addebitano ingiustamente a Lucano fatti da costui mai commessi, o se invece, pacifici essendo i fatti, si discute se condotte obbiettivamente e dolosamente violative della legge meritino di essere giustificate da superiori motivazioni etiche e di solidarietà sociale, e perciò non punite. Nel primo caso, ci troveremmo di fronte ad un atto di pura persecuzione giudiziaria e politica; diversamente, la questione è di tutt’altro valore e significato, e si fa complessa. Ecco perché, pur dovendo confessare una mia personale empatia e solidarietà emotiva nei confronti del sindaco di Riace, faccio una enorme fatica a comprendere se e in quali termini questo ineludibile dilemma sia stato risolto dal vasto e assertivo fronte “innocentista”. Anzi, nel fiume di parole di censura e di indignazione suscitate dalla eclatante sentenza di condanna, non mi pare di aver mai visto ipotizzare falsi addebiti o prove travisate. Si tratta di una presa di posizione che pretende di consolidarsi a monte di quel dilemma. Il valore etico e morale della condotta di Lucano è tale da non poter divenire oggetto di un burocratico giudizio di conformità alla legge. Ma se le cose stanno così -e temo che stiano così- ecco emergere la vera natura e la vera matrice ideologica di questo pur legittimo fronte innocentista, che non ha nulla a che fare con il tema delle garanzie difensive, della presunzione di colpevolezza, del diritto al giusto ed equo processo. C’è un mondo valoriale nel perseguimento del quale si è unilateralmente persuasi che non sia lecito opporre il vincolo del rispetto della legalità. Una postulazione schiettamente ideologica, condivisibile o meno ma certamente estranea alle tematiche del diritto e del processo. E questo spiega con chiarezza la ragione per la quale le persone che la hanno così vibratamente espressa sono le stesse -fatta salva qualche eccezione- che non hanno detto una parola, per esempio, dopo la recente sentenza di assoluzione nel processo sulla Trattativa Stato-Mafia. Il segretario del Pd Enrico Letta, per fare solo un esempio tra i più eclatanti, si è detto esterrefatto per la condanna di Lucano, e solidale con lui, ma non ha detto una sola parola di solidarietà nei confronti del Generale Mori, vittima -insieme ai Mannino, ai Di Donno ed a tanti altri- di decenni del più insensato accanimento giudiziario e mediatico andato in scena nelle aule di giustizia del nostro Paese. È del tutto evidente il valore che assume, in un mondo così avvelenato da egoismi, discriminazioni sociali e razziali, violenza ed indisponibilità verso ciò che è diverso da noi, una eresia come quella di Riace; così come, per le stesse ragioni, appare odiosa l’avversione viscerale verso di essa. Ma pretendere che la giustizia penale faccia propri quei valori, rinunziando in nome di essi a giudicare fatti e conformità alla legge delle condotte, equivale a negare il valore universale del diritto e della legge. La giurisdizione è giudizio sui fatti e sulla rispondenza delle condotte alle norme incriminatrici, nel rispetto rigoroso delle regole del processo; non è, non può mai essere, lo stilare elenchi dei buoni e dei cattivi, dove, inesorabilmente, i buoni siamo sempre noi, ed i cattivi sempre gli altri da noi.

Gian Domenico Caiazza.  Presidente Unione CamerePenali Italiane

Il dibattito sull'ex sindaco di Riace. Caso Lucano, la disobbedienza civile è un’altra cosa. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 10 Ottobre 2021. Ho avuto già modo di esprimere la mia opinione -e non intendo ritornarci- non tanto sulla vicenda processuale a carico di Mimmo Lucano, che conosco poco come d’altronde il 99% dei commentatori, quanto su una certa nebulosità e contraddittorietà delle appassionate argomentazioni del fronte innocentista. Ho espresso la mia sincera empatia per l’imputato, il mio giudizio sulla insensata entità della pena inflitta, il bisogno ineludibile -per tutti noi- di leggere le motivazioni di questa spropositata condanna per poterne finalmente parlare con cognizione di causa. Ma poiché nel dibattito infuocato su questa complessa vicenda ho sentito ripetutamente evocare -anche in polemica con quella mia presa di posizione- il tema della disobbedienza civile come chiave di lettura di quel processo, mi sembra opportuno cogliere l’occasione per qualche chiarimento. Non ho lezioni da impartire, non avendo praticato personalmente la disobbedienza civile se non a 18 anni, da obiettore di coscienza al servizio militare (stiamo parlando del 1974), rifiutando insieme a molti altri militanti radicali la Commissione esaminatrice allora imposta dalla legge (che fu poi, infatti, cambiata), e così esponendoci tutti ad un processo per diserzione. Ma ho difeso per una vita, in decine e decine di processi penali, Marco Pannella, Emma Bonino, Gianfranco Spadaccia, Rita Bernardini, Roberto Cicciomessere, e tanti altri militanti radicali, arrestati e spesso condannati a causa dei propri atti di disobbedienza civile, che hanno cambiato il volto ed anche la storia di questo Paese. Da ultimo Marco Cappato nella sua battaglia sulla eutanasia legale, che sta ora felicemente portando a compimento. Credo dunque di poter dire qualcosa, senza iattanza e con molta umiltà, cogliendo questa importante occasione. La disobbedienza civile non è una giustificazione postuma di una condotta violativa della legge. Non funziona così. Il disobbediente prende di mira una legge che giudica ingiusta, e si determina a violarla platealmente, adottando modalità che ne rendano immediata la percezione da parte della Pubblica autorità, o addirittura, se del caso, anticipando pubblicamente l’intenzione di violarla, nonché modalità luogo e circostanze della progettata violazione. Il disobbediente vuole il processo, si assume con pienezza la responsabilità della propria condotta. Sa che praticare aborti quando la legge lo vieta, distribuire singole dosi di hashish, rifiutare il servizio militare obbligatorio, aiutare chi implora il suicidio assistito per liberarsi da sofferenze indicibili, comporta un processo e -se la legge non cambia- una condanna. È ciò che egli vuole, in modo che appaia evidente alla pubblica opinione, al Parlamento, alle istituzioni, l’ingiustizia di quella legge presa di mira, e si possa dare l’innesco alla sua modificazione o abrogazione. Il disobbediente pone il dilemma di Antigone e Creonte, la distonia tra Legge e Giustizia, prima di violare la legge, non pretende di farsene scudo dopo; lo fa consegnandosi nelle mani della Giustizia, per sfidarla a condannare o altrimenti -per dirne una- a sindacare la costituzionalità della norma incriminatrice, non per pretendere l’assoluzione in nome della nobiltà della propria condotta violativa del precetto normativo. Sia chiaro: la nobiltà delle ragioni della propria condotta ha certamente, deve avere certamente, in un giudizio giusto ed equo, il suo enorme peso. Il nostro sistema lo prevede come attenuante sia generale (attenuanti generiche) che speciale (attenuante dei motivi di alto valore morale e sociale); in specifici casi vale ad escludere la punibilità (adempimento di un dovere, esercizio di un diritto, stato di necessità proprio o altrui). A Mimmo Lucano sono state negate sia le esimenti che le attenuanti, e dovranno pur spiegarci con precisione perché: ma cosa c’entra la disobbedienza civile? La strepitosa arringa di Piero Calamandrei in difesa di Danilo Dolci, che Il Riformista ha avuto il grande merito di rilanciare in questi giorni, è infatti l’arringa in difesa di un disobbediente. Dolci organizzò uno “sciopero alla rovescia” e in nome del diritto al lavoro negato, portò i braccianti siciliani a lavorare terre abbandonate nella Trazzera vecchia a Partinico, venendo arrestato, processato e condannato per occupazione di suolo pubblico e resistenza a pubblico ufficiale. Ecco, leggeremo con enorme attenzione le motivazioni di questa sentenza del Tribunale di Locri, per capire le ragioni per le quali le condotte dell’allora Sindaco di Riace siano state ritenute immeritevoli, nientedimeno, perfino delle semplici attenuanti generiche, e solo allora potremo formarci un conclusivo giudizio sulla vicenda, sulla condotta di Lucano e le sue ragioni, e sulla evidente intenzione di esemplarità che il Tribunale ha inteso dare al proprio giudizio di condanna.

Ma la disobbedienza civile invochiamola con cognizione di causa, nel rispetto di una grande storia civile e politica di quanti hanno cambiato leggi e migliorato la vita di tutti noi mettendo in gioco la propria libertà, la propria incensuratezza, la qualità stessa della propria vita, mai pretendendo null’altro che cambiare le leggi ingiuste contro le quali hanno inteso lottare.

Gian Domenico Caiazza Presidente Unione CamerePenali Italiane

A SINISTRA DIVENTANO CIECHI QUANDO GLI AMICI FINISCONO NEI GUAI. Da lastampa.it l'1 ottobre 2021. «Mimmo Lucano ha sempre agito seguendo il principio dell'accoglienza, ha sempre e solo salvato vite. Mimmo, so che sei innocente. Ogni anno in Italia vengono condannate centinaia di persone innocenti poi assolte. So che sarà così anche per te. Non mollare mai. Io ci sarò sempre». Lo scrive su Twitter Roberto Saviano a proposito della sentenza del Tribunale di Locri che ha condannato l'ex sindaco di Riace Mimmo Lucano a 13 anni e 2 mesi di carcere, raddoppiando la richiesta dei pubblici ministeri. Sui social sono diversi i messaggi di sostegno nei confronti dell’ex sindaco. «Solidarietà a Mimmo Lucano, i cittadini hanno tutto il diritto di commentare le sentenze, questa è fra le più luride di cui abbia memoria", scrive Sabina Guzzanti. Insieme a lei a incoraggiare Lucano è Fabio Fazio: «"Tieni duro. Per quanto a volte sia difficile da credere, alla fine i buoni vincono». «13 anni di condanna a Mimmo Lucano per fraternità. Fiducia nella magistratura? No», twitta lo scrittore Erri De Luca. In sostegno di Lucano anche le dichiarazioni di don Carmelo La Magra, il parroco che dopo cinque anni trascorsi nell'isola più a sud d'Italia ha salutato nelle scorse settimane la 'sua' Lampedusa. «Stupisce che in un'Italia in cui tante volte la giustizia si fa desiderare per casi gravissimi, arrivino, invece, puntuali le sentenze per fatti che non dovrebbero essere condannati. Ovviamente sono per il rispetto delle sentenze e della magistratura, ma penso che il futuro e la verità daranno giustizia a Mimmo Lucano. Io sono assolutamente dalla sua parte».

Lucano condannato: come è stata calcolata la pena. Claudio Del Frate su Il Corriere della Sera l'1 ottobre 2021. Caduta l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione, i 13 anni e 2 mesi sono frutto di una somma aritmetica tra una serie di reati contro la pubblica amministrazione e non di un «medesimo disegno criminoso». La condanna inflitta a Locri dai giudici di primo grado viene considerata abnorme dai difensori di Mimmo Lucano rappresenta quasi il doppio rispetto a quanto aveva chiesto il pubblico ministero: da 7 anni e 11 mesi si è passati infatti a 13 anni e 2 mesi. Ma come si è arrivati a un calcolo di questo tipo per sanzionare i reati attribuiti all’ex sindaco di Riace? Come si dice in questi casi è necessario attendere le motivazioni della sentenza ma già in base al dispositivo letto in aula qualche spiegazione è possibile. Prima di tutto un fatto è già stato messo nero su bianco: Mimmo Lucano non è stato condannato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. L’accusa è stata infatti accantonata dal pubblico ministero e la sentenza ha fatto propria questa tesi. All’ex sindaco vengono invece contestati una serie di violazioni contro la pubblica amministrazione (peculato, truffa, falso e abuso d’ufficio) corrispondenti a diversi fatti specifici. La prima chiave per capire la condanna a 13 anni è di natura tecnica. Tutti i reati che sarebbero stati commessi da Lucano non sono stati ritenuti legati da un «medesimo disegno criminoso» (come ritenevano i pm) ma disgiunti tra loro. La prospettazione dell’accusa avrebbe comportato un «taglio» della pena complessiva, il tribunale fa invece una sorta di somma aritmetica tra le singole accuse. E questo spiega il «salto» tra richieste dei pm e conclusioni maturate nella sentenza. Il dispositivo distingue due capitoli di accusa. Il primo - più corposo - raggruppa tutte le accuse legate alla gestione dei fondi pubblici giunti al comune di Riace per la gestione delle politiche migratorie. Peculato e truffa, a cui si aggiunge l’associazione a delinquere perché commessi in collaborazione con gli altri imputati. Si tratta della gestione di servizi affidate a cooperative di migranti e della loro rendicontazione. Questo ha fatto scattare, in base alle conclusioni del tribunale, una prima condanna a 10 anni e 4 mesi. A Lucano non sono state concesse nemmeno le attenuanti generiche. Il secondo «filone» riguarda invece l’abuso d’ufficio e il falso in atto pubblico, consistente nell’aver emesso una carta d’identità a una cittadina nigeriana che in realtà non era residente nel comune di Riace. Qui la pena è stata quantificata in 2 anni e 10 mesi. Che sommata alla precedente fa appunto 13 anni e 2 mesi.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 2 ottobre 2021. Non hanno letto una riga. Hanno sparato tweet senza sbirciare mezza notizia o il dispositivo della sentenza, che secondo Sabina Guzzanti «è fra le più luride di cui abbia memoria», anche se non è ancora uscita. Il disegnatore Vauro si dichiara «reo confesso, se quella un'associazione criminale». Lo scrittore Erri De Luca ha scritto che l'hanno condannato «per fraternità». Hanno solidarizzato anche Fabio Fazio (ex giornalista) e pure Enrico Letta. Cioè: mezza riga e via, come se a essere condannato fosse stato il «modello Riace» (ripopolamento di un comune usando i migranti) e non un politico che in altri casi avrebbero chiamato ladro. L'ex sindaco Domenico Lucano è stato condannato per reati contro il patrimonio pubblico, beccava paccate di milioni da Europa e Viminale e ha fatto rendiconti e fatture false per amici e fini suoi, usava contante senza giustificazione (tipo un viaggio in Argentina) e ha comprato tre case e un frantoio di nascosto. Ha usato i soldi dell'accoglienza per fare clientelismo e ha affidato appalti a gente senza requisiti e neppure iscritta all'albo, sapendo di violare la legge (e lo diceva) per tornaconti elettorali, combinando matrimoni tra paesani e immigrate già espulse tre volte. Ha piazzato immigrati in case senza collaudo e abitabilità, e attestava falsamente che gli impianti erano a norma. Ho scritto falsità? Provino a informarsi. 

Alessandro D’Amato per open.online l'1 ottobre 2021. Perché Mimmo Lucano è stato condannato a 13 anni e 2 mesi di carcere per il Sistema Riace? E perché il giudice ha raddoppiato la pena rispetto alle richieste del pubblico ministero? Mentre il caso dell’ex sindaco diventa politico e in attesa di leggere le motivazioni della sentenza è utile cercare di capire in base a quali ragionamenti il tribunale di Locri ha emesso la sentenza di 13 anni e due mesi di reclusione. Ovvero quasi il doppio rispetto alla richiesta della pubblica accusa, che aveva invocato per Lucano la condanna a 7 anni e 11 mesi. E l’ex sindaco dovrà restituire 500 mila euro riguardo i finanziamenti ricevuti dall’Unione europea e dal governo. Proprio in relazione a quel “modello Riace” per l’accoglienza ai migranti che aveva reso il borgo della Locride famoso in tutto il mondo.

Domenico Lucano: la condanna

La sentenza arriva a pochi giorni dal voto per le elezioni regionali. Lucano è capolista con “Un’altra Calabria è possibile” nelle tre circoscrizioni della regione a sostegno del candidato alla presidenza Luigi de Magistris. E, come spiega oggi Il Fatto Quotidiano, il dispositivo certifica che Lucano non ha favorito l’immigrazione clandestina. L’accusa di aver organizzato “matrimoni di comodo tra cittadini riacesi e donne straniere al fine di favorire illecitamente la permanenza di queste ultime nel territorio italiano” è stata ritirata dai pm. La condanna è arrivata per i reati contro la pubblica amministrazione, la pubblica fede e il patrimonio. Ovvero associazione per delinquere finalizzata a “commettere un numero indeterminato di delitti”, falso in atto pubblico e in certificato, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, abuso d’ufficio e peculato. E qui c’è la prima tecnicalità da spiegare. I pubblici ministeri consideravano questi reati come “esecutivi di un medesimo disegno criminoso”, e in questi casi per calcolare la pena si prende la pena base (ovvero quella inflitta per il reato più grave) e la si aumenta fino al triplo. Il reato più grave tra quelli elencati è il peculato, che prevede una pena dai 4 ai 10 anni. I giudici hanno separato due “disegni criminosi”, raddoppiando le pene base e aumentando di conseguenza l’entità della condanna. Il reato di peculato riguarda 800mila euro e per questo ha prodotto 10 anni e 4 mesi di carcere. A questi vanno aggiunti altri 2 anni e 10 mesi per il secondo gruppo di reati, che comprende tre diverse condotte di abuso d’ufficio e il falso in certificato. Per aver rilasciato una carta d’identità a una cittadina nigeriana che non era residente a Riace. In più c’è un altro fattore. Ovvero la riqualificazione – fatta d’ufficio dai giudici – di uno degli abusi d’ufficio in truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche. Infine, c’è da segnalare che né a Lucano né agli altri 26 imputati sono state concesse le attenuanti generiche. 

Il dispositivo della sentenza

Anche Franco Bechis sul Tempo oggi spiega che il dispositivo della sentenza della corte guidata dal giudice Fulvio Accurso nella sua decisione ha del tutto stravolto i capi di accusa dei pm. Ha assolto Lucano dalla concussione e dal favoreggiamento di immigrazione clandestina rispettivamente per non avere commesso il fatto e perché i fatti non risultano. Poi ha identificato il reato più grave nel peculato (pena minima 4 anni), compiuto per 16 diversi fatti. In continuazione del reato in associazione per delinquere con altri (quindi la pena era aumentabile fino al triplo)- E per questo condannato Lucano a 10 anni e 4 mesi. Poi ha rideterminato il reato di abuso di ufficio in quello di “truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche”. E per farla breve da questo arrivano altri 2 anni e 10 mesi. E pure Marco Travaglio sul Fatto oggi spiega che al netto dei fatti contestati a lui e agli altri 26 imputati Lucano rispondeva di 16 capi d’imputazione. Il tribunale lo ha assolto per cinque, condannato per dieci e prescritto per uno. Travaglio segnala l’accusa di falso ideologico in atto pubblico per 56 determine necessarie per il rimborso delle spese da parte degli Sprar. Lucano «attestava falsamente di aver effettuato controlli su rendiconti di spese». Per quanto riguarda il peculato l’accusa è di aver distratto 2,4 milioni di euro per l’acquisto e l’arredo di tre case e un frantoio non rendicontati. Nel fascicolo dell’accusa ci sono anche «prelievi in contanti» per più di 531mila euro usati anche per un viaggio in Argentina.

Fondi sottratti, viaggi all’estero, concerti fantasma: ecco tutti i reati di Lucano che la sinistra “nasconde”. Lucio Meo venerdì 1 Ottobre 2021 su Il Secolo d'Italia. La condanna inflitta all’ex sindaco di Riace (Rc) Mimmo Lucano a 13 anni e 2 mesi, a fronte dei 7 anni e 11 mesi chiesti dalla procura di Locri, deriva dal riconoscimento della sua colpevolezza per 10 capi d’accusa (per 5 il Tribunale lo ha assolto e per uno è scattata la prescrizione). Tanti i reati. Nell’ambito del processo “Xenia”, innanzitutto, Lucano non è stato condannato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (i pm avevano ritirato l’accusa relativa ai matrimoni di comodo per favorire la permanenza illecita di donne straniere in Italia), e soprattutto l’ex sindaco è stato assolto dall’accusa più grave, concussione, per non aver commesso il fatto.

Tutti i reati di Mimmo Lucano

Mimmo Lucano è stato invece condannato per associazione a delinquere, truffa aggravata allo Stato, falso ideologico in atto pubblico e soprattutto peculato. Per quanto attiene all’associazione a delinquere, Lucano, secondo quanto si evince dal dispositivo della sentenza del Tribunale di Locri, ha commesso una serie di delitti contro la Pubblica amministrazione, il patrimonio e la fede pubblica al fine di soddisfare illeciti interessi patrimoniali delle cooperative e delle varie associazioni che lo stesso Lucano o persone a lui vicino controllavano e che svolgevano la funzione di gestori dei vari progetti per immigrati.

Numeri falsi sugli immigrati

Nello specifico, la colpevolezza di Lucano per quanto riguarda questo capo d’accusa lascia emergere rendicontazioni indebite sul numero degli immigrati presenti nelle strutture, sugli alimenti che sulla carta erano destinati ai migranti ma in realtà venivano utilizzati per fini privati, fatture false, prelievo di denaro dai conti correnti senza pezze giustificative e anche destinazione indebita dei fondi ottenuti per scopi diversi rispetto all’accoglienza.

L’altro capo d’accusa che pesa sulla condanna è la truffa aggravata allo Stato allo scopo di ottenere il versamento indebito di 2,3 milioni di euro nelle case delle medesime associazioni (originariamente, in questo caso, si contestava a Lucano l’abuso d’ufficio, ma i giudici hanno riqualificato il reato aggravando la posizione dell’ex sindaco). Sempre in tema di truffa allo Stato, c’è poi il riconoscimento della colpevolezza per quanto riguarda 281mila euro per fatture false, costi non verificati, acquisti vari in realtà mai avvenuti (materiale di cancelleria, mobili, ecc).

Fondi sottratti allo Stato sull’accoglienza

Lucano, quindi, è accusato anche di falso ideologico in atto pubblico. In questo caso si tratta di 56 determine redatte per ottenere il rimborso per la gestione del Cas e dello Sprar. A contribuire, poi, alla condanna a 13 anni e 2 mesi c’è anche l’accusa, riconosciuta dai giudici, di peculato per 16 fatti contestati. Secondo quanto stabilito dal Tribunale, dunque, Lucano si sarebbe appropriato sistematicamente di fondi ottenuti dallo Stato, 2,4 milioni di euro, che sono stati distratti rispetto alla finalità reale, quella dell’accoglienza dei rifugiati, e indirizzati alla ristrutturazione e l’arredo di alcune case e un frantoio senza che ci fosse una rendicontazione.

Il viaggio in Argentina e i concerti “fantasma”

A ciò va aggiunto il prelievo di circa 500mila euro utilizzati da Lucano sia per un viaggio in Argentina che per alcuni concerti a Riace che poi avrebbe dichiarato non essersi svolti per non pagare la Siae. Lucano, inoltre, oltre ad essere stato condannato per aver rilasciato alla compagna un falso certificato che attestava il suo stato civile nubile e non di coniugata, ha incassato la condanna anche per aver affidato il servizio di raccolta e trasporto rifiuti a due cooperative che mancavano dei requisiti di legge.

Ma i 13 anni e 2 mesi di reclusione sono stati inflitti anche perché, mentre i pm ritenevano che i reati contestati a Lucano fossero esecutivi di un medesimo disegno criminoso, il Tribunale di Locri ha stabilito che i disegni criminosi fossero in realtà due.

Nessuna attenuante generica

Nel primo caso, il codice prevede che si aumenti del triplo la pena base, vale a dire quella infitta per il reato più grave, in questo caso il peculato (che prevede una pena dai 4 ai 10 anni); ma la scelta dei giudici di “separare” i disegni criminosi ha comportato il raddoppio delle pene base, giungendo a una condanna di 10 anni e 4 mesi, a cui si aggiungono 2 anni e 10 mesi per alcuni abusi d’ufficio e un falso per aver rilasciato un certificato a una straniera che non aveva diritto in quanto non residente a Riace.

Va infine evidenziato che a Lucano e ai coimputati non sono state riconosciute le attenuanti generiche nei reati commessi.

Sentenza Lucano, avviso ai compagni sconsolati che gridano al complotto: citofonare a Travaglio. Valerio Falerni l'1 ottobre 2021 su Il Secolo d'Italia. Su Mimmo Lucano (nelle foto mentre guida una manifestazione anti-Salvini) citofonare a Marco Travaglio. O, in alternativa, leggerne l’editoriale – Amaro Lucano – che ha passato ai raggi X il dispositivo della sentenza con cui i magistrati di Locri hanno comminato 13 anni e 2 mesi di reclusione all’ex-sindaco di Riace. Lo consigliamo soprattutto ai piangenti e gementi che da ore stanno trasformando la sinistra in una valle di lacrime per la sorte toccata al simbolo dell’accoglienza dei migranti. «È come Gino Strada», ha azzardato ad esempio Gad Lerner proprio sul Fatto Quotidiano. Sarà. Ma per il direttore di quello stesso giornale, cioè Travaglio, l’accostamento risulta alquanto abusivo. I fatti dicono altro. Almeno per come li ha messi in fila il Tribunale, diligentemente riferiti dall’editoriale.

Imprecazioni “a prescindere”

A leggerlo, più che un apostolo della disobbedienza civile capace con propria feconda trasgressione di far esplodere le contraddizioni del sistema, Lucano vi appare (nella migliore delle ipotesi) come un sindaco-pasticcione che mischia sacro e profano, pubblico e privato, nobili finalità e rendiconti truccati. Lo leggano gli iper-legalitari di sinistra, quelli che le-sentenze-si-accettano-e-non-si-commentano, e ora schierati a testuggine a protezione del condannato. Certo, la vicenda è complessa e Lucano resta innocente fino a sentenza irrevocabile di condanna. Tutti sappiamo, del resto, che da tempo la nostra giustizia si è specializzata in sorprendenti ribaltoni, a plastica conferma che i tribunali, specie quelli di primo grado, sono tutt’altro che impermeabili al clamore mediatico suscitato dalle inchieste giudiziarie. Vale anche per per l’ex-sindaco di Riace. Analoga prudenza, tuttavia, dovrebbe ispirare e consigliare anche i suoi sconsolati compagni. Invece imprecano contro la pena giudicata eccessiva, addirittura superiore alla richiesta dell’accusa.

Amaro Lucano per la sinistra

Complotto? Macché. «Quei 13 anni e 2 mesi – argomenta Travaglio – sono il cumulo delle pene per i singoli reati, quasi tutti molto gravi (…)». E fa precedere da un eloquente «sgombriamo subito il campo dalle falsità» l’analisi, capo per capo, delle singole imputazioni. Ma è sulla chiusa dell’editoriale che farebbero bene a riflettere i tanti che, più che giurare sull’innocenza di Lucano, ne pretenderebbero l’impunità. «L’impressione – conclude infatti Travaglio – è che la nobile missione del “modello Riace” gli abbia dato alla testa, convincendolo di essere al di sopra, anzi al di fuori della legge. Che si può sempre contestare e persino, per obiezione di coscienza, violare. Ma senza la fascia tricolore a tracolla. E affrontando poi le conseguenze delle proprie azioni». Perfetto. Già, che cos’altro si potrebbe chiedere di più dopo questo Amaro Lucano?

“Evviva, Lucano è stato condannato”. Il garantismo di Salvini è già passato…La Bestia torna in produzione e si scaglia contro Mimmo Lucano, appena condannato a 13 anni e 2 mesi di carcere dal tribunale di Locri. su Il Dubbio il 30 settembre 2021. E’ durata circa 48 ore, non di più. Parliamo della svolta garantista di Salvini nata dopo aver appreso delle indagini a carico della Bestia, Luca Morisi, ed esaurita appena aver saputo della condanna a 13 anni per Mimmo Lucano, l’ex sindaco di Riace accusato di favorire l’immigrazione clandestina. Insomma, l’indignazione per la gogna subita da Morisi, che pure aveva strappato anche il nostro apprezzamento, è durata giusto il tempo di tornare a scagliare la Bestia contro i nemici storici: e Lucano è di certo uno di questi.

«Salvini difende Morisi, ma attacca Lucano: il garantismo è altra cosa». Parla Elio Vito, deputato di Forza Italia: «Riusciremo a compiere un passo in avanti soltanto nel momento in cui comprenderemo che si è innocenti fino al terzo grado di giudizio».  Giacomo Puletti su Il Dubbio l’1 ottobre 2021. Elio Vito, deputato di Forza Italia, sulla sentenza ai danni di Mimmo Lucano spiega che «riusciremo a compiere un passo in avanti soltanto nel momento in cui comprenderemo che la condanna di primo grado non significa colpevolezza e che si è innocenti fino al terzo grado di giudizio». E sull’atteggiamento di Salvini è categorico: «Il leader della Lega ha giustamente difeso Morisi chiedendo solidarietà, ma poi ha attaccato Lucano, appena condannato. Non funziona così».

Onorevole Vito, che idea si è fatto della sentenza che ha condannato in primo grado l’ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano, a 13 anni e due mesi di reclusione?

Non ho elementi per giudicare e rispetto le decisioni della magistratura. Quello che mi sorprende tuttavia è la reazione da parte della politica. Riusciremo a compiere un passo in avanti soltanto nel momento in cui comprenderemo che la condanna di primo grado non significa colpevolezza e che si è innocenti fino al terzo grado di giudizio. La magistratura fa sempre il suo dovere ma finché i cittadini e la politica utilizzeranno le indagini e le sentenze di primo grado, cioè provvisorie, come una condanna definitiva, non vivremo in un paese civile.

Lei dice che non ha elementi per giudicare ma molti suoi colleghi, prima di tutto a sinistra, hanno criticato la sentenza, che ha quasi raddoppiato la condanna rispetto alla richiesta di sette anni e 11 mesi del pm. Come giudica la vicenda?

Lucano è innocente fino al terzo grado di giudizio. Così come Morisi, che addirittura è soltanto indagato. Quello che non funziona è il modo in cui la politica reagisce a certi avvenimenti. Il garantismo, insomma, non può valere solo per se stessi. Salvini giustamente ha difeso Morisi chiedendo solidarietà, ma poi ha attaccato Lucano, appena condannato. Non funziona così.

Lucano è stato anche condannato alla restituzione di 700mila euro tra fondi europei e governativi. Cosa ne pensa?

Se la sentenza parla di utilizzo dei fondi pubblici è inevitabile che ci sia anche questa ricaduta dal punto di vista economico. Il risarcimento è immediatamente esecutivo e quindi la norma viene applicata, c’è poco da fare. Poi si può discutere invece di come gli amministratori siano costretti a utilizzare i fondi pubblici, impossibilitati a fare altrimenti, ma ci vorrebbe un’altra intervista. Poco fa ha citato Salvini.

Pensa che in un centrodestra a trazione sovranista, con Fratelli d’Italia che dice di «denunciare da sempre la speculazione attorno alla falsa accoglienza», Forza Italia debba ergersi a difesa di Lucano?

Assolutamente sì, appena finiamo questa intervista scriverò un tweet in questa direzione. Anche perché se non si difende l’innocenza fino a prova contraria di Lucano poi si perde credibilità quando si decide di difendere Morisi.

A proposito di Morisi, qual è il suo punto di vista sui fatti?

C’è un problema tutto politico. Ho rilevato una grande ipocrisia del centrodestra su temi come la tossicodipendenza e l’omosessualità, che sono questioni personali anche quando riguardano soggetti pubblici. C’è un atteggiamento per il quale ancora oggi una persona omosessuale in un partito di destra rischia di essere discriminata. La cosa migliore nel caso di Morisi sarebbe stata garantirgli il lavoro, che invece Morisi ha lasciato. Non esiste che debba sospendersi dal lavoro, a meno che non sia stata una scelta davvero personale ma non credo. Sulla questione omosessualità ha fatto discutere l’intervista del senatore Pillon al Foglio, in cui l’esponente leghista dice di essersi accorto di «certe tendenze».

Cosa può fare il centrodestra per cambiare al proprio interno su questi temi?

Sul piano della omosessualità è evidente che nei partiti di destra c’è una certa tendenza a nascondersi, ma perché? Non è una malattia, non è un vizio, non è un reato. Ecco perché dico che il ddl Zan serve. Sostenendolo, faremmo tutti un passo avanti sul piano dei diritti e della libertà.

E sulla questione del droghe?

Io sono antiproibizionista: è vero che il consumo personale è stato depenalizzato ma finché le droghe leggere non saranno legalizzate non avremo città più sicure e non risolveremo il problema dello spaccio. Il referendum sulla cannabis non la legalizza ma ne depenalizza la coltivazione a uso domestico. Non parliamo di cocaina o eroina ma della cannabis che anche l’Oms ha ritenuto di dover togliere dalle sostanze pericolose. Bisogna avere un atteggiamento più pragmatico e meno ideologico. E dovrebbero averlo tutti i partiti, da destra a sinistra.

Tornando a Lucano, molti hanno fatto un paragone tra questa sentenza e altre, decisamente minori per fatti ben più gravi. Crede sia normale arrivare a fare certi parallelismi?

I paragoni tra questa sentenza e altre sono ridicoli, perché nessuno ha gli strumenti per giudicare, se non i giudici. Lucano è innocente fino a sentenza definitiva, come detto, ma questo fatto che i partiti e i giornali di riferimento mandano reciprocamente alla gogna l’indagato o il condannato in primo grado di turno non può andare avanti. È inutile poi fare i referendum sulla giustizia, se non si conoscono le basi del garantismo. Interessante in questo caso è anche la vicenda dell’ex ambasciatore Giffoni.

Che ora tutti vorrebbero di nuovo alla Farnesina.

Tutta la politica si è schierata al suo fianco, ma chi ha fatto le leggi che prevedono l’allontanamento per le persone sotto indagine? Lo stesso Parlamento. Dalla Severino in poi abbiamo scritto leggi ipersanzionatorie allo scopo di colpire la corruzione e altri reati e lo si è fatto giustamente, ma poi ci si scandalizza quando vengono applicate. È un atteggiamento ipocrita. O diciamo che la pubblica amministrazione fino a sentenza definitiva non sospende nessuno, oppure si deve avere il coraggio di difendere le leggi che sono state fatte. La responsabilità, in questo caso, è tutta della politica.

Salvini attacca: a caccia di gay e poi candidano i condannati. Pier Francesco Borgia l’1 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il leader si scaglia contro il doppiopesismo degli avversari sul caso Morisi: "Conigli". Mezzo partito in pressing per i congressi, ma lui nicchia: si faranno appena possibile. Chissà quante volte in questi giorni il Capitano avrà ripensato a quell'adagio che recita più o meno «Dio mi guardi dagli amici che a guardarmi dai nemici ci penso da me». Un adagio che si adatta perfettamente, come un abito di alta sartoria, alla condizione salviniana. È sempre più difficile, infatti, per il leader della Lega, smarcarsi dalle pressanti richieste di esponenti di spicco del Carroccio che reclamano un congresso. L'idea, sponsorizzata da molti, e invocata soprattutto dai leghisti dell'«area Zaia», non piace, però, al segretario. Un congresso prima dell'elezione del Quirinale? Manca il tempo per organizzarlo. Oltretutto, fanno notare i più maliziosi tra gli osservatori di cose politiche, sarebbe necessario avallare e «benedire» l'uso del green pass per organizzare la grande assise dei delegati del Carroccio. E non può essere proprio Salvini ad avallare l'uso di uno strumento che per mesi è andato contestando in tutti i modi. C'è anche la questione legata alle dimissioni di Claudio Durigon per le polemiche suscitate dalle sue dichiarazioni sul «parco Mussolini» di Latina. Polemiche che hanno infastidito l'ala governativa della Lega, quella che per intenderci si riconosce soprattutto per la sua difesa delle partite Iva e delle piccole e medie imprese del Nord. Quella autonomista che ripudiava, ai tempi di Umberto Bossi, ascendenze di destra o di sinistra. Adesso il «caso Morisi» e quell'effetto boomerang provocato dalla accesa campagna mediatica che la macchina propagandistica di Salvini (che proprio Luca Morisi guidava) ha innescato per attaccare i fautori del Ddl Zan e quanti sono favorevoli a una legalizzazione delle droghe leggere, si ritorcono contro il leader. E il verdetto delle Amministrative potrebbe essere la resa dei conti in casa Lega. Con i salviniani (Borghi, Siri, Bagnai) sempre più insofferenti della «libertà» di pensiero di Giorgetti mentre i leghisti della prima ora mal sopportano le derive sovraniste. Per non parlare della nuova spina nel fianco arrivata con l'annuncio di Flavio Tosi di un suo ritorno in campo per le Comunali veronesi del prossimo anno. «Meglio che agli amici ci pensi Iddio». Più semplice attaccare, come continua a fare Salvini, la sinistra per il doppiopesismo usato nei confronti di Morisi: «Tutto questo è fatto per attaccare politicamente me, sono dei conigli, prendetevela con me». E la miglior difesa resta l'attacco. «Oggi è uscita la notizia della condanna a 13 anni di qualcuno, un sindaco del Pd, che ha grattato sull'immigrazione clandestina, ma io non gioisco per le sventure altrui - afferma lo stesso Salvini durante un comizio elettorale a Mentana, riferendosi alla condanna in primo grado dell'ex sindaco di Riace Mimmo Lucano -. Ma siccome ci sono le tv che sbirciano e cercano il leghista omosessuale, allora dico che certi giornalisti dovrebbero vergognarsi, a me non interessa che ci siano omosessuali, transessuali, a me interessa che ci siano persone per bene». E poche ore prima aveva preso più direttamente di mira la sinistra su Twitter: «Altro che dare la caccia agli omosessuali nella Lega, la sinistra in Calabria candida condannati a 13 anni di carcere!» Confortato però dal bagno di folla nel piccolo comune alle porte di Roma e poi nel quartiere di Tor Bella Monaca, Salvini torna il leone capace di ruggire con forza anche contro i suoi stessi sodali. Non teme per la sua leadership, fa sapere. E i congressi, appena possibile, si faranno. Almeno quelli provinciali. E riguardo la smentita di Giorgetti del suo endorsement a Carlo Calenda, il leader risponde con un'alzata di spalle: «Se qualcuno fraintende la colpa è tua che ti sei spiegato male». Pier Francesco Borgia

Delusi gli irriducibili dell'accoglienza. E l'ex sindaco Lucano invoca la giustizia divina. Fausto Biloslavo il 15 Maggio 2021 su Il Giornale. I legali delle parti civili: un vulnus. Open Arms: il nostro caso è molto diverso. L'Ong spagnola, i circoli ricreativi di sinistra, i legali pro migranti, le semi scomparse Sardine e un ex sindaco targato rosicano per il «non luogo a procedere» di Catania a favore di Matteo Salvini quando era ministro dell'Interno. E tifano per il processo che lo attende a Palermo con il sogno di vedere il leader della Lega dietro le sbarre. Pd e grillini hanno il buon gusto di tacere a parte casi isolati come la democratica Lia Quartapelle: «La conclusione della vicenda giudiziaria sulla Gregoretti non oscuri il fatto politico. Salvini è stato il primo ministro della Repubblica a bloccare l'attracco in un porto italiano di una nave della Guardia costiera. Il sonno della ragione genera mostri». Anche il circo dei talebani dell'accoglienza non molla e invoca la «giusta» punizione. Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, estremista pro migranti, invoca addirittura il giudizio divino. «Anche se oggi Salvini l'ha scampata, un giorno dovrà rispondere a qualcuno che sta più in alto di noi - dichiara Lucano in toni apocalittici - perché di fatto ci sono stati essere umani (i migranti bordo di nave Gregoretti, nda) condannati da una politica razzista che li ha segregati mettendo a rischio la loro vita». I pretoriani di sinistra dell'Arci non hanno dubbi. «Il non luogo a procedere per Salvini sul caso Gregoretti è una scelta incomprensibile e a nostro parere sbagliata» sentenzia Filippo Miraglia, responsabile Immigrazione delle Associazioni ricreative e culturali italiane. «Speriamo che la magistratura di Palermo faccia emergere una realtà diversa e non la mistificazione di un rappresentante dello Stato che usa i suoi poteri per ragioni di interesse di partito», ribadisce il talebano delle manette. L'Arci è in prima linea nell'appoggiare le Ong del mare come Mediterranea fondata da Casarini e soci oggi indagati dalla procura di Ragusa per favoreggiamento aggravato dell'immigrazione clandestina. Proprio l'Arci è uno dei soci fondatori di Banca Etica, che ha prestato quasi mezzo milione di euro per comprare Mare Jonio. Anche i legali delle parti civili vanno giù duri sulla decisione di Catania. La sentenza «è un vulnus per la giustizia di questo Paese. La decisione contrasta con quella di Palermo. La magistratura da una parte rinvia a giudizio e dall'altra proscioglie. E Salvini ne farà oggetto della sua propaganda». La dichiarazione è dell'avvocato Corrado Giuliano legale dell'associazione Accoglie Rete dedita ai minori non accompagnati, che si è ovviamente costituita parte civile. Ieri è uscito dal torpore anche uno dei fondatori delle Sardine, Mattia Sartori, chiamato in causa dai leghisti perché i suoi auspicavano fin dall'inizio la condanna di Salvini. E l'Ong spagnola Open arms affila i coltelli. Sull'archiviazione di Catania la portavoce, Veronica Alfonsi, sminuisce sostenendo che «come sentenza era abbastanza annunciata». Poi riferendosi al processo di Palermo, che riguarda la nave dei talebani dell'accoglienza spagnoli, sostiene che «la nostra vicenda ha degli aspetti che sono molto diversi rispetto a quelli della Gregoretti. Ci sono dei passaggi importanti dal punto di vista legale: il pronunciamento del Tar del Lazio con cui veniva sospesa l'interdizione di entrata in acque territoriali, quello del Tribunale dei minori che disponeva lo sbarco, fino alla decisione del procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio di far scendere le persone». Peccato che il giudice delle indagini preliminare di Catania abbia tenuto conto anche del caso Open arms per archiviare il processo a Salvini.

Felice Manti per "il Giornale" il 10 giugno 2021. «Beati i perseguitati dalla giustizia perché di essi è il regno dei cieli». Sarà contento Mimmo Lucano di essersi guadagnato il paradiso, almeno secondo il Vangelo di Matteo (5, 10) per colpa del processo che lo vede alla sbarra per favoreggiamento dell' immigrazione clandestina quando era sindaco di Riace, in Calabria. Al processo il pm Michele Permunian ha chiesto la sua condanna a 7 anni e 11 mesi (4 anni e 4 mesi per la compagna Lemlem Tesfahun) anche per associazione a delinquere, abuso d' ufficio, truffa, concussione, peculato, turbativa d' asta e falsità ideologica per presunti illeciti nella gestione del sistema di accoglienza dei migranti nel centro della Locride. Tutte macchinazioni, dice lo stesso Lucano ai microfoni di KlausCondicio su Youtube, trasmissione condotta dal massmediologo Klaus Davi, che si paragona a una vittima della giustizia: «È una condizione che non vorrei augurare a nessuno, neanche alla peggiore persona». Nemmeno a Silvio Berlusconi, che Lucano - candidato in ticket con Luigi de Magistris a governatore della Calabria - ingaggia nel suo stesso «girone», quello dei perseguitati dalle toghe: «C' è sempre una dimensione umana che bisogna rispettare. Non è giusta la persecuzione, non è mai una giustificazione. Vale anche per Berlusconi come per qualsiasi altro essere umano». Per un Silvio Berlusconi «riabilitato» da sinistra - sulla falsariga di Michele Santoro - e un Matteo Salvini tutto sommato «risparmiato» («I lager di San Ferdinando e la rivolta dei neri non comincia con Matteo Salvini, con il quale non condivido nulla. Devo obiettivamente riconoscere che loro - i leghisti, ndr - non c' entrano nulla») c' è un uomo di sinistra su cui Lucano addensa luci inquietanti. «Le mie disgrazie coincidono con l' avvento di Marco Minniti al ministero dell' Interno - sibila Lucano - la mia percezione da imputato principale a Locri è che c' è stata una sorta di intelligence che stabilisce che sono pericoloso», aggiunge, lanciando una bizzarra ipotesi su fantomatici «apparati del sistema di questa area progressista» nel quale l' ex ministro dell' Interno, calabrese come Lucano, avrebbe «un ruolo centrale». «Una volta mi hanno invitato per parlare in maniera diretta a Reggio Calabria ma Minniti non è venuto», ricorda. Un' altra volta l' allora prefetto Luigi De Sena (poi diventato parlamentare Pd) gli avrebbe detto «attenzione che il vento sta cambiando, e proprio quelli che sono i tuoi amici potrebbero esserne la causa, perché stai facendo delle cose che involontariamente ribaltano i rapporti con i capi clan libici». Insomma, l' esperimento di Riace avrebbe dato fastidio a chi dall' immigrazione clandestina ci lucra. «E non escludo che nel 2018 la 'ndrangheta abbia chiesto alla Rai lo stop alla messa in onda della fiction dedicata a Riace», quella interpretata da Beppe Fiorello. Insomma, è la solita storia: servizi segreti, affari sporchi, 'ndrangheta e malagiustizia. In una parola, la Calabria.

Mimmo Lucano condannato a 13 anni di carcere. Svelato il "business dell'accoglienza dei migranti" dell'ex sindaco Pd di Riace. ". Libero Quotidiano il 30 settembre 2021. Durissima condanna per Mimmo Lucano, l'ex sindaco Pd di Riace. IL tribunale di Locri aumenta la pena richiesta dalla Procura e infligge 13 anni e 2 mesi di carcere all'eroe della "accoglienza dei migranti". La corte presieduta dal giudice Fulvio Accurso ha così confermato e anzi aggravato le teorie dell'accusa, secondo cui il sindaco aveva messo in piedi un sistema criminale dietro il modello passato alla cronaca come "il paese dell'accoglienza" e dell'integrazione. Diversi i reati commessi: abuso d’ufficio, truffa, falsità ideologica, turbativa d’asta, peculato e malversazione a danno dello Stato. Uno scandalo iniziato nel 2018: Lucano finì in carcere perché accusato di essere il promotore di una associazione a delinquere responsabile di "un numero indeterminato di delitti (contro la pubblica amministrazione, la fede pubblica e il patrimonio), orientando di fatto l'esercizio della funzione pubblica del Viminale e della prefettura di Reggio Calabria. Siamo nella galassia degli Sprar, Cas e Msna, la complessa macchina dell'accoglienza chiamata a rispondere all'emergenza sbarchi e alla integrazione dei migranti costretti a restare a lungo sul suolo italiano. Lucano si offriva per l'affidamento dei servizi da espletare nell'ambito del Comune di Riace. Mosso, scrive l'accusa nelle carte, da "interessi di natura politica". Sfruttava cioè l'arrivo dei migranti per far lavorare i cittadini di Riace nel ricco e fiorente business dell'accoglienza ricevendo, "quale contraccambio, un sostegno politico elettorale". Il classico escamotage del voto di scambio, ben radicato in molte realtà italiane, ma qua ammantato dalla propaganda della solidarietà verso gli ultimi. Sul conto di Lucano, hanno pesato anche "numerose conversazioni" intercettate. Per lui il pm Michele Permunian aveva chiesto una condanna a 7 anni e 11 mesi di carcere. Per il giudice, ne ha meritati quasi il doppio. 

Affonda il modello finto buonista osannato dalla sinistra. Andrea Indini il 30 Settembre 2021 su Il Giornale. La fiction Rai, le lodi all'estero e la santificazione da parte della sinistra buonista: oggi, con la condanna di Lucano, crolla tutto il modello Riace. Ma gli ultrà dell'immigrazione non si danno pace. Ci fu un tempo in cui tutti i buonisti, gli ultrà dell'accoglienza e i pasdaran dell'immigrazione facevano la fila per farsi fotografare insieme a Mimmo Lucano. Era il tempo in cui il suo sistema, il famigerato "modello Riace", era sulla bocca di tutti, in Italia e all'estero, tanto da farlo far finire l'ex sindaco nella lista delle 50 persone più influenti al mondo stilata dalla rivista statunitense Fortune. Ci fu un tempo in cui persino papa Francesco si scomodava a scrivergli per esprimere "ammirazione e gratitudine per il suo operato intelligente e coraggioso a favore dei nostri fratelli e sorelle rifugiati". Allora nessuno osava criticarlo. Chi lo faceva veniva immancabilmente bollato come xenofobo. In quei tempi, venivano addirittura girati documentari e fiction sulla sua vita. Persino il regista Wim Wenders, già palma d'oro a Cannes nel 1984 con Paris, Texas, aveva imbracciato la telecamera per raccontare le gesta di Lucano. Poi, però, sono venuti l'inchiesta della procura di Locri e, il 2 ottobre del 2018, l'arresto. Oggi, con la condanna in primo grado, una pietra tombale dovrebbe mettere a tacere anni di sproloqui progressisti a favore del "modello Riace". Purtroppo, però, difficilmente si leveranno mea culpa da chi ha contribuito a creare il falso mito di Lucano.

Era lui ad ammetterlo: "Io sono un fuorilegge... proprio per disattendere queste leggi balorde vado contro la legge...". Lucano non nascondeva la propria allergia nei confronti di quelle leggi che regolano i flussi migratori nel nostro Paese. Ai suoi diceva: "La legge presenta tantissime lacune e tante interpretazioni... uno può cercare quelle più restrittive se la sua indole... e può cercare quelle più elastiche. Se non sei d’accordo con quella legge - continuava - c’è un livello di interpretazione". Questa mattina gli è arrivata addosso come un treno la sentenza in primo grado che lo condanna a 13 anni e due mesi di carcere. Certo, ora potrà ricorrere in Appello e la giustizia farà il proprio corso ma le parole dei giudici smontano definitivamente il sistema che per anni è stato osannato e portato in palmo di mano da tutta la sinistra. "A Riace comandava Lucano - ha spiegato durante la requisitoria il pm Michele Permunian - era lui il dominus assoluto, la vera finalità dei progetti di accoglienza a Riace era creare determinati sistemi clientelari". Secondo l'accusa, che ha fatto leva sulle intercettazioni accumulate durante le indagini, l'ex sindaco si muoveva solo "per un tornaconto politico-elettorale". Altro che accoglienza. "Contava voti e persone - ha spiegato il pubblico ministero di Locri - chi non garantiva sostegno veniva allontanato".

Davanti a una sentenza di tale portata la sinistra si riscopre garantista. "A me tredici anni sembrano una cosa abnorme", scrive su Twitter il deputato Pd Matteo Orfini. Sono tutti increduli. Il re di Riace è nudo, ma i talebani dell'accoglienza non sanno darsi pace. L'impianto del (finto) buonismo progressista si sgretola e, sebbene adesso tutte le lodi tessute in onore di Lucano risuonino stonate, nessuno di loro avrà coraggio di ammettere il proprio errore. Per esempio: il sindaco Dario Nardella si riprenderà indietro il premio "Una vita per la pace" che gli conferì nel 2018? E ancora: chi pagherà per la fiction girata in Rai? "Ora - tuona Maurizio Gasparri - si dovrebbero cacciare da viale Mazzini tutti quelli che l'hanno realizzata prima ancora di conoscere l'epilogo delle vicende giudiziarie". Quando era finito in carcere, la sinistra gli si era stretta attorno, certa che un giudice avrebbe decretato l'innocenza di Lucano. Nemmeno le sardine avevano avuto la pazienza di aspettare la sentenza e avevano marciato su Riace intonando lo slogan "Accogliamoli tutti!". Uno slogan che da sempre piace a tutta quanta la sinistra che del terzomondismo ha fatto la propria Bandiera. Da Laura Boldrini a Nicola Zingaretti, passando per Luigi De Magistris e Susanna Camusso, l'hashtag #iostoconmimmo era diventato col tempo la clava con cui combattere Salvini che chiedeva rigore contro l'immigrazione clandestina. Roberto Saviano aveva addirittura scritto che l'Italia si stava trasformando in uno "Stato autoritario", mentre il sindaco di Milano Beppe Sala aveva detto che nella sua posizione avrebbe fatto la stessa cosa. Se fosse intellettualmente onesta, oggi la sinistra ammetterebbe che a Riace qualcosa è andato storto e che è stato prematuro e soprattutto sbagliato santificare Lucano. Non accadrà. Farlo significherebbe ammettere che Salvini & Co. avevano ragione.

Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile. Dal 2008 al sito web del Giornale, ne sono il responsabile dal 2014. Con ilGiornale.it ho 

Il "modello Lucano" sull'immigrazione è un reato grave. Ma sorprende tutti la pena di 13 anni. Luca Fazzo l’1 Ottobre 2021 su Il Giornale. Associazione a delinquere, peculato, truffa allo Stato, falso in atto pubblico, truffa per erogazioni pubbliche. Mimmo Lucano è colpevole di quasi tutte le accuse. Associazione a delinquere, peculato, truffa allo Stato, falso in atto pubblico, truffa per erogazioni pubbliche. Mimmo Lucano, che quando era sindaco di Riace trasformò il paese dei Bronzi in un simbolo internazionale di accoglienza ai migranti, è colpevole di quasi tutte le accuse che gli erano state mosse dalla Procura di Locri, e che avevano spaccato l'Italia. Bastano cinque minuti al giudice Fulvio Accurso per leggere il dispositivo che conferma in pieno l'inchiesta contro Lucano, ed infligge all'ex sindaco una condanna di una pesantezza imprevedibile, andando ben aldilà dei sette anni chiesti dalla pubblica accusa. A Lucano vengono inflitti tredici anni e due mesi di carcere. Settantuno anni di carcere piovono su altri diciassette imputati. «Oggi per me finisce tutto; forse nemmeno a un mafioso...», dice Lucano, provato e quasi attonito. Il tribunale ha impiegato tre giorni di camera di consiglio per districarsi nell'imponente materiale d'accusa raccolto dalla Guardia di finanza scavando sul lato oscuro del «sistema Riace». Alcuni episodi di malversazioni sono stati limati, altri scompaiono del tutto. Dalla concussione, il reato più grave contestato dalla Procura per un episodio ai danni di un negoziante, Lucano viene assolto. Ma il risultato finale è comunque una condanna impressionante, soprattutto se si tiene conto che neanche nella ricostruzione dell'accusa a Lucano venivano contestati arricchimenti personali. Qualche vantaggio, a dire il vero, traspariva: le carte truccate per fare avere la carta di identità alla sua donna Tesfahum Lemlem (condannata anche lei a quattro anni), e soprattutto l'utilizzo a fini elettorali del consenso delle Ong cui appaltava l'accoglienza: nelle intercettazioni Lucano le sceglie accuratamente in base al numero di preferenze che sono in grado di garantirgli. Di fatto, ad uscire condannato è anche, nella sua essenza, il «sistema Riace»: un sistema di accoglienza in cui l'afflato umanitario viaggiava su una lunga serie di violazioni del codice penale, talmente ripetute da rendere impensabile che fossero commesse solo per leggerezza. In sostanza, Lucano usava i soldi pubblici come se fossero suoi, senza rispetto per norme e procedure, e finendo con arricchire solo le Ong del suo cerchio magico, quelle guidate dal suo alter ego Tonino Capone. Sullo sfondo, scrissero i giudici del tribunale del Riesame, «un Lucano afflitto da una sorta di delirio di onnipotenza e da una volontà pervicace ed inarrestabile di mantenere quel sistema Riace rilucente all'esterno, ma davvero opaco e inverminato da mille illegalità al suo interno». Nulla, nel processo durato oltre due anni, è riuscito a convincere i giudici che il «delirio di onnipotenza» di Lucano fosse privo di enormi risvolti penali, né che i delitti commessi fossero giustificabili in nome dei fini umanitari perseguiti dal sindaco. Il tribunale non concede all'imputato neanche le attenuanti generiche, e anzi ordina a suo carico la confisca di oltre un milione di euro per risarcire i fondi europei distribuiti fuori da ogni norma. Perché, come scrissero i giudici del Riesame, «Lucano - scrive il tribunale - non può gestire la Cosa pubblica né gestire denaro pubblico mai ed in alcun modo. Egli è totalmente incapace di farlo e, quel che ancor più rileva, in nome di principi umanitari ed in nome di diritti costituzionalmente garantiti viola la legge con naturalezza e spregiudicatezza allarmanti».

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Lucano subito "assolto" da vip e compagni. E adesso scoprono la giustizia malata. Redazione l’1 Ottobre 2021 su Il Giornale. Le sentenze si accettano e non si commentano, sì ma dipende quali e su chi. Nel caso di Mimmo Lucano, emblema della sinistra immigrazionista, non può esistere colpa, l'ex sindaco è innocente a prescindere. Le sentenze si accettano e non si commentano, sì ma dipende quali e su chi. Nel caso di Mimmo Lucano, emblema della sinistra immigrazionista, non può esistere colpa, l'ex sindaco è innocente a prescindere. Di più, la sua condanna diventa la prova che «c'è una questione morale nella magistratura ed è un'emergenza», come scrive sui social la portavoce delle Sardine, Jasmine Cristallo. Una frase che, solo a pronunciarla per altri imputati, sarebbe considerata una bestemmia anticostituzionale, uno slogan berlusconiano per infangare i magistrati e promuovere l'impunità. E invece no, se il condannato è Lucano, l'eroe dell'accoglienza (con metodi che il Tribunale di Locri ha reputato illeciti), considerare una sentenza «umiliante per la democrazia di questo Paese», come dice il segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, non è più irrispettoso verso i giudici ma anzi è sintomo di coscienza civile. A sinistra si riscopre non solo il garantismo (dimenticato nei riguardi di Morisi, uno sporco leghista), ma addirittura si apre la questione della magistratura politicizzata, dopo vent'anni di indignazione per chi osava anche solo parlarne. Per il critico d'arte Tomaso Montanari (ultrasinistra tendenza grillina) la sentenza è «una terribile eclissi della Costituzione». Per l'ex no global Luca Casarini, ora attivo nel ramo Ong, si tratta invece di una «pagina nera della Repubblica», e i magistrati di Locri «sono solo i servi di coloro che banchettano con le nostre vite». Anche per la Cgil la sentenza è «assurda». Il segretario Pd Enrico Letta è «esterrefatto» per la sentenza «incredibile», che dà «un messaggio terribile e pesantissimo che farà crescere la sfiducia nei confronti della magistratura». Una serie di parlamentari del Pd, tra cui Laura Boldrini e Pietro Bartolo, il medico dell'accoglienza a Lampedusa, sottoscrivono un appello di solidarietà per Lucano, vittima di una - scrivono - «condanna abnorme che ci pare incredibile». La Rete Antirazzista organizza oggi un presidio a Napoli per protestare contro quella che è chiaramente «una sentenza politica», mentre davanti al Tribunale di Milano è comparso un gruppo di manifestanti con striscione «Restiamo umani» e foto di Lucano su sfondo arcobaleno. Indignato con la magistratura è il prete rosso, padre Alex Zanotelli: «È stata stracciata la democrazia, si è fatta fessa la giustizia, una sentenza che grida vendetta al cospetto di Dio», minaccia il don. Il vignettista militante Vauro si costituisce: «Se Mimmo è un criminale sono orgoglioso di essere suo complice». Per Rifondazione Comunista si tratta di una «vergognosa sentenza, una vendetta di sistema che si fonda su un teorema assurdo». A sinistra improvvisamente i magistrati, da paladini della democrazia, sono diventati dei pericolosi eversori. Guai a toccare Mimmo Lucano, già ampiamente celebrato dai salotti tv di Fabio Fazio e Roberto Saviano («Mimmo, so che sei innocente»), dai sindaci chic come Giuseppe Sala («È un esempio»), immortalato addirittura da una fiction Rai, mentre il suo metodo è stato subito elevato a «modello Riace». Le sentenze in questo caso non contano, «Lucano è un uomo giusto», sentenzia un ex pm che vedeva colpevoli ovunque, Luigi de Magistris. Gad Lerner si improvvisa Cassazione: «I giudici di Locri hanno condannato un uomo giusto. È stata commessa un'ingiustizia, un terribile capovolgimento della realtà». Le ong sono schierate. Per Mediterranea Saving Humans è «una sentenza che fa orrore, una condanna politica», per Amnesty la condanna è «del tutto spropositata». Inutile ricorrere in Appello, Lucano è già stato assolto dal tribunale dei Giusti. 

La rete che coprì l'ex sindaco. E oggi insultano la destra. Felice Manti il 2 Ottobre 2021 su Il Giornale. Gli amici derubricano a "leggerezze" i reati. L'ex grillino Morra lo difende ma per l'Antimafia è "impresentabile". Parafrasando Giovanni Giolitti, per gli amici le sentenze si interpretano. E di amici Mimmo Lucano ne ha tanti, che hanno ammantato di buonismo comportamenti criminali, ingiustamente derubricati a «irregolarità», «leggerezze» ed «errori». È altrettanto fuorviante dire che è stato condannato per aver favorito l'immigrazione clandestina grazie ai matrimoni effettivamente combinati per aiutare donne straniere a restare in Italia, perché l'accusa è stata ritirata dai pm. Le carte dicono altro. Ci sono dei soldi pubblici finiti a delle coop che non ne avevano titolo. Non «trasgressione di regolamenti e pastoie» ma truffa aggravata allo Stato per 500mila euro, il falso ideologico in atto pubblico, il peculato e l'associazione a delinquere, la cui alchimia ha portato ai 13 anni e due mesi di condanna. Un verdetto reso plastico dalle indagini di Viminale e Guardia di Finanza nell'inchiesta Xenia, nome che evoca il cibo che consacra l'accoglienza del forestiero. Per molti il sistema Riace resta lodevole sotto il profilo umanitario finché non è saltato in aria. Non per i pm ma quando l'afflusso incontrollato di immigrati ha ingolosito gli appetiti del territorio, come peraltro ha ammesso ieri lo stesso Lucano in uno sfogo: «Mi chiedevano numeri altissimi per un piccolo borgo ai quali dicevo sì per la mia missione... Ma allora dovevano mettere insieme a me anche il Viminale e la Prefettura di Reggio Calabria perché San Lucano gli risolveva i problemi degli sbarchi». Di semplici «irregolarità amministrative» ciancia il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra nella sua patetica difesa su Facebook, visto che poi l'organismo che lui stesso presiede ne ha bollato come «impresentabile» la candidatura alle Regionali con l'ex pm Luigi de Magistris, accettata dai domiciliari con il pugno chiuso. Dal verdetto emerge un quadro che stride con l'immagine tratteggiata da Fiorella Mannoia del «moderno Don Chisciotte che ha continuato a battagliare contro i mulini a vento, senza tornaconto». Anzi, la condanna a Lucano diventa pretesto per accusare l'ex ministro Matteo Salvini di aver assediato Riace «con i suoi fetidi strali», come scrive Mario Capanna. Non fa onore neanche ai suoi giornalisti amici (molti dei quali ascoltati tra il 2016 e il 2017 nella rete delle intercettazioni a strascico ordinate dalla Procura e rivelate dal Domani lo scorso aprile) accostare questi spicci «ai 100 milioni rubati da Formigoni, che di anni ne ha presi solo 7», come ha fatto «l'inorridita» Milena Gabanelli. Perché una giornalista d'inchiesta non usa confondere le mele con le pere, vezzo più da pontefice dei social che da firma del Corriere. Appare altrettanto appannato persino il commento di Adriano Sofri che definisce «suicida» la sentenza letta dal presidente della Corte (e del Tribunale) Fulvio Accurso - e dire che di sentenze suicide Sofri ne conosce almeno una, perché lo ha temporaneamente salvato - solo perché dalle facce dei giudici «non traspariva un'amarezza, un disappunto». Avanti un altro nemico. Fino al verdetto Accurso era un eroe coraggioso che ha rifatto a sue spese il tribunale con «un restauro a costo zero per lo Stato» grazie a una colletta tra magistrati e lo sforzo gratuito di quattro giovani detenuti a fine pena. Da giovedì per i fan di Lucano è autore di una «fra le più luride sentenze di cui abbia memoria», come scrive su Twitter Sabina Guzzanti, una decisione «deliberatamente assurda per garantirsi l'annullamento nei gradi successivi». Accurso non è più una toga libera e senza condizionamenti di corrente, ma un magistrato spregiudicato che ha piegato la legge, dicono le solite malelingue, in nome di un indicibile e strampalato do ut des. E i trafficanti di uomini se la ridono. Felice Manti

Progressisti soltanto con i vizi dei loro amici. Paolo Guzzanti l’1 Ottobre 2021 su Il Giornale. Allora, vogliamo giocare sul caso Morisi da gente seria? Vogliamo cercare di vedere chi ha ragione e chi ha torto, o almeno coerenza? Allora, vogliamo giocare sul caso Morisi da gente seria? Vogliamo cercare di vedere chi ha ragione e chi ha torto, o almeno coerenza? Citiamo, per cominciare, due casi del recente passato in cui un uomo di sinistra si fosse trovato in una situazione grave e imbarazzante, quanto possono esserlo le questioni di droga e di sesso. Ricordate il presidente della Regione Lazio, Marrazzo, costretto a dimettersi per le sue storie con dei transessuali? O il portavoce di Prodi, l'onorevole Silvio Sircana che fu colto da fotografi indiscreti in una situazione sessualmente imbarazzante? Qual è la lezione? La lezione è che ogni volta, la sinistra ha fatto quadrato con la persona beccata in una situazione imbarazzante, proteggendola e al tempo stesso accusando la destra di sciacallaggio indegno. Torniamo al maghetto della comunicazione salviniana, Luca Morisi, su tutte le prime pagine perché pende su di lui un'accusa per uso di stupefacenti. Tutti trovano stupefacente che Morisi si ritrovi sulle prime pagine alla vigilia delle elezioni, per un fatto accaduto ad agosto. La stessa magistratura dice che si tratta di una sciocchezza, ma come un solo avvoltoio tutta la sinistra è saltata sulla ghiotta occasione cantando in coro: «Ben gli sta al signor Bestia e a Matteo Salvini, così imparano che chi di spada ferisce, di droga perisce». Segue un pistolotto in cui si ricorda quanta crudeltà, aggressività, brutalità, abbia caratterizzato le campagne comunicative della destra, in particolare quella leghista. E qui, se permettete, educatamente, ci incavoliamo. Ma come? Sono appena finite le celebrazioni per la fine della Guerra dei trent'anni senza esclusione di colpi, di falsi e armi improprie delle sinistre sempre illiberali? Tutti abbiamo visto venire a galla l'operato di quella magistratura per cui l'Europa ci tratta come un Paese del terzo mondo. E col caso Morisi, ci risiamo: una notizia penale investe un partito e indirettamente un leader, ma ridosso delle elezioni. Qualcuno dev'essere stato. Ma diversamente da quanto accadde con le disavventure di Marrazzo e Sircana che furono benevole e comprensive, con Morisi invece si infuriano gridando allo scandalo e che comunque ben gli sta. Ma ve lo ricordate il primo governo di Silvio Berlusconi quando il Corriere della Sera pubblicò l'avviso di garanzia mentre il premier presiedeva un summit mondiale? Cosa fecero le sinistre tutte se non inzupparci pane, biscotti, zeppole e grissini? Ne seguì il ribaltone che cambiò i connotati della democrazia, con un presidente della Repubblica che non concesse elezioni anticipate e insediò un tecnico che preparò la strada al successivo governo Prodi con la sinistra politica giudiziaria e giornalistica entusiasticamente schierata. Da allora tutte le carte giudiziarie, orde di cronisti giudiziari ammanicati, più una televisione ferocissima e totalmente di parte diffondevano la sensazione che tutto quello che provenisse sia dall'area liberale di Forza Italia che dalla Lega, dovesse essere considerato spazzatura, maleodoranze di una coalizione a delinquere. Da allora, circa trent'anni fa è stato spurgato da sinistra tutto quel veleno che poi ha alimentato il populismo dei forconi, di quelli che volevano scoperchiare il Parlamento come una scatola di tonno. L'ex segretario del Pd Matteo Renzi, lo ha ricordato in Senato: le sinistre hanno sfruttato colpevolmente qualsiasi frattaglia giudiziaria e Romano Prodi si è pentito della propria ostilità e così hanno fatto alcuni comici. Siamo garantisti e perfino innocentisti, tanto che per ora non vediamo evidenti prove nel caso Morisi, su cui non sta a noi decidere, ma neanche alla platea che si è avventata sul caso. Non siamo scandalizzati dall'opportunismo e neanche dai colpi bassi della politica in tempi di elezioni. Siamo soltanto sbalorditi dalla faccia tosta di chi usa due pesi e due misure. E poi: non erano tutte le sinistre a favore della liberalizzazione della droga? Come si fa a sostenere che Morisi sia uno sporco drogato (si parla di due grammi di cocaina) e contemporaneamente battersi per la droga libera? Eravamo abbastanza ottimisti per un certo svelenamento che sembrava preludere alla fine della guerra mentale. Ma ecco che col caso Morisi, arriva la regressione. O, se preferite, «piatto ricco, mi ci ficco», titolo di un vecchio film con Alberto Sordi. Che senso ha? Perché non provare a cambiar pelle, stile, e comportarsi, persino nella brutalità della politica, da persone coerenti e che non dimenticano che cosa hanno fatto, e onorino la coerenza con quello stile europeo che stava loro tanto a cuore? È finito il tempo del Ku Klux Klan. È tempo di metterci in giacca e cravatta. Paolo Guzzanti

"È un esempio": così Sala esaltava Mimmo Lucano. Francesca Galici il 30 Settembre 2021 su Il Giornale. Nessuna dichiarazione sulla condanna di Lucano da parte del sindaco di Milano uscente, impegnato in campagna elettorale negli eventi ambientalisti. La condanna a 13 anni di Mimmo Lucano è un terremoto che scuote la politica a pochi giorni dal voto. Il centrosinistra ha deciso di fare quadrato attorno all'ex sindaco di Riace, difendendone l'operato ed ergendolo a martire della giustizia italiana. Tanti gli esponenti di sinistra che a seguito della condanna hanno detto la loro su Mimmo Lucano, esponenti più o meno di spicco che si sono sentiti in dovere di dare una parola di conforto all'ex sindaco di Locri. All'appello, però, manca Beppe Sala, che in passato ha sempre difeso a spada tratta il suo omologo calabrese. A sottolineare questo dettaglio è stato il deputato della Lega Igor Iezzi: "Che dice Sala di Mimmo Lucano condannato a 13 anni e 2 mesi per il business dei migranti? Qualche tempo fa dichiarò che, al suo posto, avrebbe fatto la stessa cosa con tanto di standing ovation. Ora silenzio assoluto. Milano non merita un sindaco del genere". Anche il deputato milanese della Lega, Luca Toccalini, ha messo in evidenza l'assenza di Beppe Sala al fianco di Mimmo Lucano in queste ore così complesse: "Che dice Sala del suo amico Lucano? Lui che qualche anno fa voleva tanto seguire il suo esempio, ora dovrà spiegare perché è stato il primo tifoso di quel sistema di finta accoglienza che noi abbiamo sempre denunciato e si è rivelato per quello che è, ovvero un business. Milano merita di più". Fabrizio Cecchetti, vice capogruppo della Lega alla Camera dei Deputati e coordinatore della Lega Lombarda per Salvini Premier, ha rincarato la dose: "E adesso cosa dice Giuseppe Sala del suo 'modello' Mimmo Lucano? Non dice nulla? Gli rinfreschiamo la memoria: nell'ottobre 2018 l'ex sindaco di Riace, già sospeso in quanto indagato per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, venne invitato a Palazzo Marino con tutti gli onori del caso e incensato da Beppe Sala, che pubblicamente disse: 'Per me resti un collega e le mie parole di solidarietà sono queste: nella tua posizione avrei fatto lo stesso' parlando di un modello Riace anche per Milano". Cecchetti conclude strigliando anche una certa categoria di giornalisti: "Ora serve coerenza: dopo aver crocifisso e lapidato chi non ha commesso reati ma deve rispondere solo di vicende personali adesso verrà utilizzata la stessa clava mediatica anche per un condannato a 13 anni di carcere e per chi lo inneggiava a modello da imitare? Oppure vale sempre il due pesi e due misure?". Beppe Sala in queste ore è troppo impegnato con lo Youth4Climate e PreCop26 per rilasciare dichiarazioni su Mimmo Lucano. I due eventi internazionali sul cambiamento climatico in corso a Milano vedono tra i protagonisti principali del board anche Greta Thunberg, che sarà sul palco domani insieme al sindaco uscente per l'ultimo impegno prima del voto. Il silenzio sulla vicenda, per Sala, è di rigore.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Quella guerra per bande nel Pd tra l'ala di Minniti e i pro migranti. Gian Micalessin l’1 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'ex ministro fu il primo a denunciare le irregolarità a Locri. Per i radical chic nostrani e la «gauche caviar» internazionale Mimmo Lucano era un'autentica icona. Non a caso le sue gesta di sindaco amico dei migranti ispirarono un film di Wim Wenders e gli garantirono le lodi di Fortune la rivista pronta nel 2016 a piazzarlo al 40mo posto nella classifica dei migliori sindaci del mondo. Peccato che dietro tanta fama si nascondesse, stando ai giudici, un'intensa attività criminale spaziata negli anni dalle truffe al favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Dietro la condanna a 13 anni dell'ex sindaco di Locri emergono, però anche le lacerazioni del mondo dem. Un mondo dove gli ultimi «samurai» ancora fedeli al concetto di Stato e legalità del vecchio Pci, si sono visti sovrastare dalla spregiudicatezza buonista di chi ha usato l'ideale dell'accoglienza per garantire ai tanti Lucano, e alle cooperative loro associate, i finanziamenti di Stato e Unione Europea. In questa guerra per bande un altro calabrese come Lucano, ovvero l'ex ministro degli Interni Marco Minniti, orgoglioso esponente dell'antica anima statalista e legalista del Pci, è stato, non a caso, il primo a denunciare le irregolarità del caso Locri aprendo la strada alle indagini della magistratura. «Le mie disgrazie coincidono con l'avvento di Marco Minniti al ministero dell'Interno» - ha spesso ripetuto l'ex sindaco ipotizzando l'esistenza di fantomatici «apparati del sistema di area progressista» legati all'allora ministro dell'Interno. Aldilà di quelle farneticazioni è ben vero che fu proprio Minniti nell'estate del 2017 a sollecitare l'indagine sulle «spese per il circuito di seconda accoglienza» su cui si innescò l'azione della magistratura. La mossa fu solo una delle tante messe a segno nell'ambito dello scontro sull'immigrazione che lacerò il Pd durante il governo Gentiloni. Uno scontro innescato dal tentativo Minniti di controllare le attività delle Ong, sospettate di collusione con i trafficanti di uomini, e di favorire la nascita di una Guardia Costiera libica in grado di prevenire le partenze dei migranti o riportarli a terra. Proprio quelle iniziative portarono Minniti allo scontro diretto con l'allora ministro dei trasporti Graziano del Rio e con quello della Giustizia Andrea Orlando costringendo il presidente Mattarella ad un intervento diretto per scongiurare, nell'agosto 2017, la caduta del governo Gentiloni. Ma quello fu solo l'inizio della guerra che nonostante la lungimiranza dell'allora Ministro dell'Interno - evidenziata oggi sia dalla condanna di Lucano sia dalle mosse dell'attuale governo per contenere l'attività delle Ong - portò all'emarginazione di Minniti (uscito oggi dal Pd) e di tutta l'ala legalista e raziocinante del gruppo dem. Triste deriva di un partito che all'eredità del vecchio Pci ha preferito l'alleanza con i Cinque Stelle dimostrandosi più incline al populismo di sinistra che non alla difesa dell'interesse nazionale e dei poteri dello Stato.

Gian Micalessin. Sono giornalista di guerra dal 1983, quando fondo – con Almerigo Grilz e Fausto Biloslavo – l’Albatross Press Agency e inizio la mia carriera seguendo i mujaheddin afghani in lotta con l’Armata Rossa sovietica. Da allora ho raccontato più di 40 conflitti dall’Afghanistan all’Iraq, alla Libia e alla Siria passando per le guerre della Ex Jugoslavia, del Sud Est asiatico, dell’Africa edell’America centrale. Oltre agli articoli per “Il Giornale” – per cui lavoro dal 1988 – ho scritto per le più importanti testate nazionali ed internazionali (Panorama, Co 

La Lega attacca il Tg1: "Ha bucato Lucano...". Francesca Galici il 30 Settembre 2021 su Il Giornale. Nessuno spazio nel sommario di testa per la condanna di Mimmo Lucano nel principale telegiornale della tv di Stato. La Lega denuncia favoritismi. L'ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano, è stato condannato a 13 anni dal tribunale di Locri. La notizia è rimbalzata su tutti gli organi di stampa principali, diventando anche uno degli argomenti maggiormente discussi sui social ma, nonostante la sentenza sia stata emessa nella tarda mattinata, non ha trovato spazio nei titoli nel principale telegiornale della Rai. Questa è la denuncia della Lega dopo che il Tg1, andato in onda dalle 13.30 alle 14.00 circa, non he ha dato notizia. Mimmo Lucano è stato ritenuto colpevole di associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, truffa, peculato e abuso d’ufficio. Per questo motivo gli sono stati inflitti 13 anni e 2 mesi di carcere, quasi il doppio rispetto ai 7 anni e 11 mesi richiesti dall'accusa. Un risultato raggiunto dal collegio al termine di una camera di consiglio durata 72 ore. Trattandosi del principale fatto di cronaca della giornata, sarebbe stato lecito aspettarsi che venisse trattato anche dal telegiornale di Rai1, uno dei programmi più visti dell'intera giornata in Italia. Invece, come hanno sottolineato alcuni senatori della Lega, il Tg1 ha "bucato" la notizia nel sommario di apertura. "Riteniamo increscioso come il Tg1 si dimentichi, nei titoli, della condanna di Lucano. Sempre pronti a sbirciare sul caso Morisi, ora Carboni e i suoi improvvisamente 'bucano' la notizia del giorno, salvo poi provare a rimediare con un servizio che lascia spazio ad una sola campana, quella del condannato", scrivono in una nota i senatori della Lega Giorgio Maria Bergesio, Simona Pergreffi e Umberto Fusco, componenti della commissione vigilanza Rai. I senatori poi concludono: "Strano come quando c'è da attaccare la Lega si è sempre pronti, mentre se c'è qualcosa che riguarda gli amici degli amici ci si distrae colpevolmente. Porteremo il caso in commissione con le dovute modalità, confidando inoltre che l'avvento di Fuortes possa presto porre rimedio ai danni arrecati dal precedente amministratore delegato, capace di premiare alle direzioni dei tg personaggi evidentemente non all'altezza". Una denuncia simile è arrivata da Massimiliano Capitanio, deputato Lega e capogruppo in vigilanza Rai: "È sconcertante e preoccupante il fatto che il Tg1 delle 13.30 abbia censurato dai titoli di apertura la vicenda dell'ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano, condannato a 13 anni per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. La scelta del direttore Carboni è in linea con una Rete allo sbando, senza ascolti e prigioniera dell'ideologia più lontana dai valori del giornalismo e dell'informazione plurale". Il capogruppo, quindi, ha aggiunto: "Nell'Italia del ministro Lamorgese, dove nel 2021 sono sbarcati oltre 46.000 irregolari, nascondere all'opinione pubblica gli aspetti più gravi del traffico di persone è un atteggiamento molto simile alla connivenza che non possiamo non condannare con la massima fermezza".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Otto e Mezzo, Carofiglio senza vergogna sul caso Mimmo Lucano: "I giudici potevano aspettare". Libero Quotidiano l’01 ottobre 2021. Il modello-Riace? Condannato a 13 anni e 2 mesi di carcere in primo grado. La condanna, ovviamente, è quella - pesantissima - piovuta sull'ex sindaco, Mimmo Lucano, a lungo portato in palmo di mano dalla sinistra. E la vicenda plana dritta dritta nello studio di Otto e Mezzo, il programma condotto da Lilli Gruber su La7. E tra gli ospiti chiamati a commentare quanto accaduto, ecco Gianrico Carofiglio, lo scrittore rosso e firma di Repubblica. Il quale, incredibile ma vero, punta il dito contro i magistrati per il tempismo sospetto con il quale è uscita la sentenza. "Oggi è una giornata bizzarra, perché non c'entra moltissimo la criminalizzazione dell'aiuto e della solidarietà ovviamente - premette Carofiglio -. Questo non significa che la sentenza non si possa criticare, questo non significa che la sentenza non lasci stupefatti. Anche perché se avessi dovuto decidere io quando uscire con questa sentenza magari non lo avrei fatto due giorni prima delle elezioni regionali. Questo è un aspetto discutibile, non ci vuole nulla a fare un rinvio a tra un mese per decidere al di fuori del calore della battaglia politica", spiega lo scrittore.  E ancora: "Ciò detto, io credo che Lucano avesse le migliori intenzioni in ogni ambito. Io sono stato e per molti aspetti rimango un ammiratore di quel modello ma le migliori intenzioni non forniscono un'esenzione dal rispetto delle norme penali", conclude Carofiglio. E insomma, lo stupore è parecchio. In primis perché si sente parlare di tempismo giudiziario sospetto da sinistra, insomma la scoperta dell'acqua calda: da Carofiglio, però, non si sono sentiti commenti sul tempismo sospetto con cui è trapelata la vicenda di Luca Morisi. E, ancor più clamoroso, la richiesta di rinviare magari per un mese la sentenza, in modo da non intralciare il voto. O meglio, in modo da non intralciare la sinistra. Davvero stupefacente...

Striscia la Notizia inchioda la Rai: la fiction su Mimmo Lucano? Ecco che fine ha fatto: quanti milioni sono stati buttati. Libero Quotidiano il 07 ottobre 2021. Costata 1,6 milioni di euro e con Beppe Fiorello protagonista, che fine farà Tutto il mondo è paese? Si tratta della fiction coprodotta dalla Rai nel 2017 e mai trasmessa, è incentrata sulla storia dell’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano, che recentemente è stato condannato in primo grado a 13 anni e 2 mesi di carcere per associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, truffa, peculato e abuso d’ufficio. E della vicenda, se ne occupa Striscia la Notizia, con uno scottante servizio che verrà trasmesso nella puntata in onda su Canale 5 oggi, giovedì 7 ottobre. Federico Mollicone, membro della Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, intervistato da Pinuccio a “Rai Scoglio 24” (la rubrica del tg satirico tutta dedicata agli sprechi a Viale Mazzini), dichiara: "Ci sembrava assurdo che nel 2017 si facesse una fiction con i soldi pubblici - 1,6 milioni di euro dati dalla Rai - su un esponente politico in carica e sotto processo per reati molto gravi. Qualcuno deve rispondere. Chiediamo che la Rai apra un’indagine interna per capire l’esatta filiera gerarchica che stanziò questi soldi", si chiede Mollicone. Alla notizia della sentenza per Lucano, Beppe Fiorello è restato al suo fianco: "Mimmo è stato punito perché scomodo, ha detto al mondo che la Calabria può essere libera e questa cosa non ha fatto comodo", mentre il consigliere di amministrazione Rai, Riccardo Laganà, da sempre favorevole alla messa in onda della fiction ha sottolineato il danno economico aziendale per un prodotto realizzato e mai andato in onda, connesso al pericolo di "timore reverenziale verso i partiti".

Dopo la condanna di Lucano, la fiction con Fiorello scatena la Vigilanza Rai: chi paga per quei soldi buttati? Giovanni Pasero giovedì 30 Settembre 2021 su Il Secolo d’Italia. La fiction Rai con Beppe Fiorello che aveva fatto diventare “santo subito” Mimmo Lucano diventa materia per i commissari della Vigilanza Rai, alla luce della pesante condanna dell’ex sindaco di Riace. «La dura condanna del sindaco di Riace Mimmo Lucano, seppure in primo grado e quindi ancora non definitiva, apre comunque un tema nella gestione del Servizio Pubblico Radiotelevisivo». Lo dichiara Daniela Santanchè, capogruppo di Fdi in Commissione Vigilanza. «La Rai – prosegue la senatrice di FdI – infatti nel 2017 ha prodotto una fiction dai toni esegetici sulle gesta di Lucano. Risulta essere costata oltre 1,6 milioni di euro e realizzata dalla società Picomedia. La messa in onda del prodotto è stata più volte rinviata proprio in ragione delle vicende giudiziarie emerse a carico di Lucano. Tutto ciò nonostante le forti pressioni interne ed esterne all’azienda. A partire da quelle del sindacato dei giornalisti Rai Usigrai». «Oggi, alla luce delle nuove evidenze emerse dalla sentenza del Tribunale di Locri – prosegue – la trasmissione della fiction sembra definitivamente destinata a un irreparabile naufragio, quindi – conclude Daniela Santanchè – è doveroso chiedersi. Chi pagherà per i tanti soldi pubblici buttati dalla Rai per produrla? E chi risarcirà all’azienda il danno reputazionale subìto da scelte editoriali frettolose e ideologiche che nulla hanno a che fare con una gestione corretta e pluralista del Servizio Pubblico Radiotelevisivo?». Identica la posizione di Maurizio Gasparri. «Ovviamente vale per Lucano quello che vale per qualsiasi cittadino e quindi soltanto un giudizio definitivo stabilirà se colpevole o innocente», premette il senatore di Forza Italia. «Nel leggere della sua condanna a 13 anni però – prosegue Gasparri – ritengo che si dovrebbero cacciare tutti quelli che in Rai hanno realizzato una fiction su di lui prima ancora di conoscere l’epilogo delle vicende giudiziarie. È una vergogna che la Rai abbia sprecato dei soldi per fare una fiction intempestiva. Meglio farle su Churchill, su Garibaldi o su personaggi la cui vicenda storica è comunque conclusa. Quando ci sarà l’audizione in Vigilanza chiederò conto e ragione agli attuali vertici della Rai di quelle spese fatte da altri dirigenti in altre fasi. E questo per sapere chi c’è ancora in Rai e a che ora sarà cacciato per quella scelta dissennata e vergognosa».

Paolo Bracalini per “il Giornale” il 3 ottobre 2021. «Realizzeremo una fiction che racconta la storia di Mimmo Lucano, sindaco di Riace. Stiamo lavorando alla scrittura». È il maggio 2017 quando il direttore di Rai Fiction, Elisabetta Andreatta (oggi a Netflix) annuncia la nuova idea della Rai, raccontare sotto forma di miniserie tv la storia di Mimmo Lucano, all'epoca già celebratissimo a sinistra quale «precursore dell'accoglienza e dell'inclusione», come scrisse Laura Boldrini, festeggiando l'inserimento di Lucano tra i 50 big mondiali di Fortune. Al governo c'era il Pd, premier Gentiloni, a presiedere la Camera appunto Laura Boldrini, a guidare la Rai ancora per pochissimo, Alessandro Campo Dall'Orto, nominato sempre dal Pd (ma quello di Renzi). È in quel contesto che Rai Fiction decide di investire sull'idea venuta una notte a Beppe Fiorello (nel tondo sul set con Lucano) e coprodurre la fiction «Tutto il mondo è paese». Mai andata in onda, perché di lì a poco sarebbero cominciati i guai giudiziari del sindaco dell'accoglienza, un processo finito l'altro giorno con la condanna per associazione a delinquere, falso in atto pubblico e in certificato, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, abuso d'ufficio e peculato. La Rai aveva congelato la serie già quando Lucano era solo indagato, ora dopo la condanna la serie resterà nei cassetti di Viale Mazzini ancora più a lungo. «La Rai non la manderà in onda finchè non ci sarà una sentenza definitiva» di assoluzione, fanno sapere informalmente dalla tv di Stato, che ha già dovuto respingere nei mesi scorsi le illazioni dell'ex sindaco Pd sulle motivazioni della mancata messa in onda della fiction su di lui. «Non escludo che la 'ndrangheta l'abbia bloccata» ha detto Lucano intervistato da Klaus Davi. Un'accusa gravissima che la Rai ha dovuto respingere «con sdegno e fermezza» in una nota ufficiale. Lucano è convinto di essere vittima di ombre poco chiare, un «magistrato molto importante» e «un politico di razza», che gli avrebbero giurato vendetta per la troppa fama, «soprattutto quando la Rai ha voluto realizzare la fiction su Riace con Beppe Fiorello protagonista. Lì è scattato qualcosa che è alla base delle mie sventure giudiziarie» dice Lucano. Ma quanto è costata la fiction alla Rai? Daniela Santanchè (Fdi) cita una cifra, 1,6 milioni di euro. Gasparri annuncia che chiederà conto ai vertici Rai nella prossima audizione della Vigilanza. Da Viale Mazzini non confermano né smentiscono le cifre, ma ritengono si possa trattare della cifra complessiva per la produzione, non tutta a spese Rai. Magra consolazione.

Mimmo Lucano, Alessandro Sallusti contro Gad Lerner e Saviano: "Complici ideologici dell'associazione a delinquere". Libero Quotidiano il 19 dicembre 2021. «Hanno sfregiato la reputazione di un uomo giusto per insinuare che chi accoglie i migranti lo fa solo per convenienza. È un'offesa a tutta l'Italia della solidarietà. Io penso che se siamo qui tutti quanti, non è per solidarietà a Mimmo Lucano, ma in solidarietà a noi stessi, perché ci siamo sentiti offesi e feriti nel profondo da una sentenza che suona a condanna di ogni speranza di un'Italia civile». Così, lo scorso 7 novembre, Gad Lerner pontificava dal palco di Riace, dove si era radunata la crème della sinistra per solidarizzare con l'ex sindaco Mimmo Lucano, condannato a tredici anni per associazione a delinquere, truffa, concussione, falsità ideologica e favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Il famoso "modello Lucano" dell'accoglienza, sponsorizzato senza se e senza ma anche da Roberto Saviano, era stato smascherato: una truffa. Tredici anni di condanna sono tanti anche secondo noi, vedremo cosa succederà in appello, ma le carte che oggi pubblichiamo (tratte dalle motivazioni della sentenza depositata ieri) lasciano poco spazio a interpretazioni di parte. Continuare a difendere quel sistema, a questo punto, configura una complicità, ovviamente sul piano ideologico e culturale, con quella associazione a delinquere ben documentata dai magistrati. Vorrei che Gad Lerner e le decine di intellettuali di sinistra che hanno firmato un appello e avviato una raccolta fondi a suo favore leggessero bene queste carte e ci dicessero in onestà se ancora Lucano può essere definito «uomo giusto» e «speranza di un'Italia civile». Di questa cultura ossessionata dal rigore umanitario di Salvini (con lui ministro degli Interni il numero di immigrati morti in mare era sensibilmente calato) e ostile a qualsiasi forma di controllo alle frontiere, Lucano non era stato artefice ma vittima. Un pupo preso a caso da pupari furbi e spregiudicati - la compagnia stabile della sinistra- nonostante le evidenze, pensano di poter continuare la recita cambiando il copione: Lucano non è più un eroe senza macchia ma un martire di una giustizia ingiusta e di parte, i magistrati evocati fino a ieri come la salvezza del paese - soprattutto se nel mirino ci sono Berlusconi e Salvini - possono diventare nemici da abbattere. Se esistesse davvero una giustizia, Mimmo Lucano andrebbe graziato per manifesta incapacità di intendere e loro condannati, quantomeno all'oblio. 

Le motivazioni della condanna. Perché Mimmo Lucano è stato condannato, la sete di carriera di giudici contro un innocente. Edoardo Corasaniti su Il Riformista il 19 Dicembre 2021. Un politico appassionato, certo, e anche “geniale e illuminato”. Eppure, non basta per i giudici del Tribunale di Locri che hanno condannato a 13 anni e 2 mesi (e 500mila euro da restituire all’Unione europea e al Governo) Domenico Lucano, ex sindaco di Riace, per il sistema di accoglienza dei migranti messo in piedi nel piccolo comune calabrese. Perché, spiegano i magistrati, quel dipinto di “Mimì” appartiene al passato e ai primi passi di un progetto che ha fatto il giro del mondo anche con merito. Nelle motivazioni del processo “Xenia” che a fine settembre ha portato a 17 condanne e 8 assoluzioni, il collegio non va per il sottile e bolla Lucano ed i suoi come «sempre più asserviti ai loro appetiti di natura personale, spesso declinati in chiave politica, e soddisfatti strumentalizzando a loro vantaggio il sistema dell’accoglienza dei migranti che, da obiettivo primario e apprezzabile di quelle sovvenzioni, è diventato un comodo paravento dietro cui occultare le vistose sottrazioni di denaro pubblico che essi attuavano, per fini esclusivamente individuali». E guai a nominare la persecuzione politica, trama caldeggiata dalla difesa (gli avvocati Giuliano Pisapia insieme a Andrea Daqua) e dai suoi sostenitori: «Non c’è traccia di fantomatici “reati di umanità” che sono stati in più occasioni evocati da più parti, in quanto le vorticose sottrazioni che sono state compiute non servivano affatto a migliorare il sistema di accoglienza e la qualità dell’integrazione dei migranti, ma solo a trarre profitto, nelle diverse forme e che non hanno alcuna connotazione altruistica, né alcunché di edificante». Sono oltre 900 le pagine di cui i tre magistrati hanno bisogno per spiegare il “sistema Riace” confluito nel processo tratto da un’indagine che ha scavato su presunte irregolarità nella gestione dei progetti di accoglienza dei migranti nel Comune riacese, ma anche su rifiuti, rilascio di carte di identità e altro. A Lucano sono costate le accuse di associazione per delinquere, abuso d’ufficio, truffa, concussione, peculato, turbativa d’asta, falsità ideologica e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. È arrestato il 2 ottobre 2018 e messo agli arresti domiciliari, sospeso il giorno dopo dalla carica di sindaco: dopo la misura viene trasformata in divieto di dimora dal Riesame, per poi essere annullata dalla Cassazione. E se la Procura di Locri voleva la condanna per l’ex sindaco a 7 anni e 11 mesi, quando il giudice Fulvio Accurso legge la sentenza lascia tutti a bocca aperta per il quantum: 13 anni e 2 mesi, quasi il doppio rispetto a quanto richiesto dai pm. Nella sentenza I giudici ripetono più volte i principi avrebbero governato le stanze della politica di Riace, e in particolare l’agenda di Lucano: la sete di denaro, il profitto, la prosecuzione della sua carriera. Tanto da «trasformare la sua autentica passione in un manifesto di pura facciata, dietro cui si celava il demone ossessivo da cui egli era divorato, costituito dalla ricerca costante di una sempre maggiore visibilità, da attuare ad ogni costo, tanto da non essere più riconosciuto neppure dalle persone che gli stavano accanto come la sua compagna». Un profilo umano, sociale e psicologico che i giudici di Locri tratteggiano ripetutamente nelle motivazioni. Ripercorrendo il percorso processuale, il collegio “bacchetta” anche la scelta di non sottoporsi all’esame dibattimentale «impedendo al Collegio di poter ottenere dalla sua viva voce i numerosi chiarimenti che sarebbe stato opportuno ricevere su numerosissime questioni». Al di là dei racconti di segno umano e personale che hanno mosso Lucano nei primi anni della sua carriera politica nel 1998 e che i giudici riconoscono, serviva qualcosa in più: «Non ha spiegato nulla della falsificazione dei rendiconti di cui egli stesso, assieme ad altri, si è reso indiscusso protagonista, grazie alle quali ha distratto denaro pubblico, in misura assai rilevante, per acquistare per fini di privato interesse, anche a lui riferibili, tre case destinate al turismo dell’accoglienza ed un frantoio, per rimodernare altri immobili con ricche finiture, sempre da destinare ai predetti fini turistici estivi (che servivano ad esaltare la sua immagine di politico». Queste le contestazioni, i fatti, i reati per cui il Tribunale di Locri ha condannato Mimmo Lucano. In questo caso vengono in soccorso i numeri: su 21 capi di imputazione, per 9 è stato assolto. E tra il non riconoscimento delle attenuanti generiche, l’inquadramento dei casi con il vincolo di continuazione perché figli dello stesso presunto progetto criminoso e la somma tra i due filoni di reati (peculato, associazione per delinquere e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche da una parte e il falso in certificato e l’abuso di ufficio dall’altra) il calcolo totale è fatto. Da questi numeri e dalle 900 pagine di motivazioni Lucano, la sua difesa e gli altri imputati dovranno ripartire per impugnare la sentenza in Appello. L’ex sindaco ha commentato le parole dei giudici: «Sicuro che dimostrerò la mia innocenza, sono stato condannato in base a cose non vere». Intanto si è attivata la solidarietà ad intermittenza di chi è vibrante e repentino nel demonizzare la durezza dell’azione penale quando si scaglia nei confronti dei “buoni” (gli amici), dimenticando sempre chi invece è l’avversario politico e per questo deve marcire in galera. Garantismo a pendolo, direbbe il presidente dell’Unione delle camere penali Gian Domenico Caiazza.

ESCLUSIVO | Lucano era già stato “assolto” dal procuratore Gratteri. L'8 ottobre del 2018 (sei giorni dopo dell’arresto di Lucano) Nicola Gratteri aveva chiesto l’archiviazione delle indagini sull'accoglienza migranti a Riace. Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 22 dicembre 2021. A Riace non è stato commesso alcun reato e gli imputati sono innocenti. Per quanto incredibile possa sembrare a dirlo è il dottor Nicola Gratteri o meglio la procura della Repubblica di Catanzaro da Lui diretta che ha indagato per alcuni anni sul sistema dell’accoglienza a Riace (e non solo).

Rispetto alle indagini condotte dalla procura di Locri e che hanno portato all’arresto di Mimmo Lucano, cambiano solo gli anni di riferimento delle indagini condotte dalle due procure. Infatti la procura di Catanzaro ha concluso le indagini sull’accoglienza a Riace nel 2108 quando, quasi obbedendo ad preciso gioco di squadra, la “palla” è passata alla procura di Locri e successivamente ai giudici dello stesso Tribunale che hanno emesso la discussa e discutibile sentenza. Quasi identici i reati ipotizzati e si tratta in entrambi i casi di reati gravissimi che vanno dalla truffa aggravata all’abuso di potere, al concorso.

Riace, Gratteri chiese l’archiviazione

La differenza è nelle conclusioni ed infatti giorno 8 ottobre del 2018, (sei giorni dopo dell’arresto di Mimmo Lucano), la procura di Catanzaro ha chiesto l’archiviazione delle indagini con questa motivazione «… i contestati profili di reato ancorché gravi sotto il profilo delle irregolarità amministrative, non assurgono a rilevanza penale quantomeno sotto il profilo soggettivo degli illeciti contestati, avendo gli indagati agito in situazione di particolare disordine amministrativo per gestire una situazione urgente ed emergenziale , senza per questo manifestare finalità propriamente (sic) truffaldine…». L’accoglienza, quantomeno negli ultimi quindici anni è stata sempre emergenza. Gli sbarchi sono per se stessi una seria emergenza perché nessuno può programmare i flussi dei migranti “clandestini” che, appunto perché tali, raggiungono le nostra coste ad ondate ed ovviamente senza preavviso.

Tra il 2011 ed il 2013, in seguito alla guerra di Libia ed alle “Primavere arabe” fu varato il decreto “Nord Africa” ed ai Comuni inclusi nella rete Sprar furono aggiunti le strutture turistiche disponibili che, improvvisandosi centri di accoglienza, hanno percepito la stessa retta pur non facendosi carico degli stessi servizi (Scuola, interpreti, assistenza sanitaria, psicologica, legale ecc.).

Come in ogni attività umana, c’è stato chi ha accolto con grande generosità e disinteresse e qualcuno che ha colto l’occasione per trarne profitto. Riace accolse e tanto… ma senza cambiar sostanzialmente nulla rispetto agli anni precedenti e meno ancora nulla cambierà negli anni successivi. Stesso sindaco, stesse cooperative, stesso modello di gestione, stesso sistema di conferire la gestione dei progetti.

Ora qualcuno mi dovrebbe spiegare com’è stato possibile che “dopo complesse indagini”, durati anni, la polizia giudiziaria, la procura di Catanzaro ed il GIP dello stesso tribunale non abbiano riscontrato nulla illegale a Riace se non disordine amministrativo dettato dall’urgenza, mentre, dopo poco tempo, gli inquirenti di Locri hanno ravvisato reati gravissimi che portano a condanne severe di gran lunga più rigorose emesse nei confronti di assassini, estortori, violenti e delinquenti abituali. C’è qualcosa che non torna. So bene che la “Giustizia” non è un’espressione algebrica e che ogni magistrato esaminando i fatti ne trae le conclusioni secondo un suo “libero convincimento. E tuttavia una stampa libera ha il dovere di domandarsi come, esaminando fatti sostanzialmente identici, si possa arrivare a soluzioni radicalmente opposte. 

Lucano, le motivazioni della condanna: «Reati commessi per garantirsi tranquillità economica».  Claudio Del Frate su Il Corriere della Sera il 17 Dicembre 2021. Reati commessi per accrescere il prestigio personale e politico ma anche «per arricchimento personale»: sono durissimi gli argomenti con i quali il tribunale di Locri ha motivato la condanna in primo grado a 13 anni e 2 mesi contro l’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano. Il provvedimento è stato depositato oggi. E anche la povertà ostentata dal primo cittadino sarebbe «mera apparenza», come ha scritto il giudice Fulvio Accurso, estensore delle motivazioni. In contrasto con il «modello Riace» divenuto famoso in tutto il mondo, dalla sentenza emerge un ritratto di segno totalmente opposto dell’uomo divenuto simbolo dell’accoglienza e dell’integrazione dei migranti. «Lucano... ha strumentalizzato il sistema dell’accoglienza a beneficio della sua immagine politica» scrive il giudice Accurso nel motivare la condanna. Un’organizzazione «tutt’altro che rudimentale, che rispettava regole precise a cui tutti si assoggettavano, permeata dal ruolo centrale, trainante e carismatico di Lucano il quale consentiva ai partecipi da lui prescelti di entrare nel cerchio rassicurante della sua protezione associativa, per poter conseguire illeciti profitti, attraverso i sofisticati meccanismi, collaudati negli anni e che ciascuno eseguiva fornendogli in cambio sostegno elettorale». Gli investimenti che Mimmo Lucano avrebbe fatto con i soldi del progetto di accoglienza per i migranti («l’acquisto di un frantoio e di numerosi beni immobili da destinare ad alberghi per l’accoglienza turistica»), «costituivano - ecco un passo del provvedimento - ad un tempo, una forma sicura di suo arricchimento personale, su cui egli sapeva di poter contare a fine carriera, per garantirsi una tranquillità economica che riteneva gli spettasse, sentendosi ormai stanco per quanto già realizzato in quello specifico settore, per come dallo stesso rivelato nel corso delle ambientali che sono state esaminate». E l’immagine del sindaco «samaritano», inventore di un metodo virtuoso che coniugava accoglienza e rilancio economico di un borgo abbandonato? Il giudice concede una sorta di onore delle armi definendo «encomiabile» il tentativo di integrazione dei nuovi arrivati. Ma Lucano «... resosi conto che gli importi elargiti dallo Stato erano più che sufficienti, piuttosto che restituire ciò che veniva versato, aveva pensato di reinvestire in forma privata gran parte di quelle risorse, con progetti di rivalutazione del territorio, che, oltre a costituire un trampolino di lancio per la sua visibilità politica, si sono tradotti nella realizzazione di plurimi investimenti». Mimmo Lucano ha reagito con stupore alle pesanti motivazioni alla sua condanna: «Non mi aspettavo complimenti ma neanche che il Tribunale mi condannasse sulla base di cose non vere» ha detto l’ex sindaco. «Le risultanze del processo - ha aggiunto - dimostrano altro. È tutto molto strano. Dal processo non si evince per nulla l’interesse economico. Perché devo subire quest’aggressione mediatica basata su accuse infondate? Si infanga ancora una volta la mia immagine ma io non voglio che la gente abbia dubbi su di me. Aspetto di consultarmi con i miei avvocati per l’appello. Sono sicuro che dimostrerò la mia innocenza».

Lucano, le motivazioni “etico-sociologiche” della condanna con allegato l’attacco ai difensori. Il tribunale di Locri sembra soprattutto difendersi dalle critiche di aver fatto un processo politico all’ex sindaco. E non mancano le accuse alle difese che avrebbero guardato il processo «da lontano». Simona Musco su Il Dubbio il 17 dicembre 2021. Un «falso innocente». Il tribunale di Locri non risparmia nulla a Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, condannato a 13 anni e due mesi nell’ambito del processo Xenia. Una sentenza di quasi mille pagine con la quale il collegio presieduto da Fulvio Accurso sembra soprattutto difendersi dalle accuse di aver fatto un processo politico, condannando la narrazione esterna su Riace e sull’operato di Lucano, richiamata a più riprese per giustificare una condanna durissima, sulla base di un principio che si esplicita tra le prime pagine: Lucano e i suoi “sodali” avrebbero agito in nome di una «logica predatoria delle risorse pubbliche» che sarebbero servite a soddisfare «appetiti di natura personale, spesso declinati in chiave politica» – nonostante abbia rifiutato qualunque occasione per “salire” di grado – «e soddisfatti strumentalizzando a loro vantaggio il sistema dell’accoglienza dei migranti», diventato «un comodo paravento dietro cui occultare le vistose sottrazioni di denaro pubblico che essi attuavano, per fini esclusivamente individuali». Lucano sarebbe stato sì un politico illuminato, capace di creare, ispirandosi agli ideali utopici della Città del Sole di Tommaso Campanella, un sistema all’inizio apprezzabile. Ma poi tutto ciò sarebbe sparito. E «nulla importa che sia stato trovato senza un euro in tasca, come orgogliosamente egli stesso si è vantato di sostenere a più riprese», scrivono i giudici, «perché ove ci si fermasse a valutare questa condizione di mera apparenza, si rischierebbe di premiare la sua furbizia, travestita da falsa innocenza». Insomma: utilizzando i fondi dell’accoglienza per ristrutturare il frantoio e creare l’albergo diffuso, che hanno dato lavoro a migranti e riacesi, Lucano avrebbe creato una sorta di “fondo pensionistico” per gli anni a venire. Sfruttando il suo ruolo di «dominus indiscusso del sodalizio», un’organizzazione «tutt’altro che rudimentale», che avrebbe strumentalizzato «il sistema dell’accoglienza a beneficio della sua immagine politica». I suoi sodali, in cambio, lo avrebbero sostenuto politicamente, portando in dote il loro pacchetto di voti, risultati comunque inutili a eleggerlo persino consigliere comunale alle ultime elezioni comunali. Ma c’è di più: nel motivare la propria decisione, il tribunale punta spesso il dito contro le difese, che avrebbero guardato il processo «da lontano», cercando «a più riprese di sorvolare sulla pregnante ed inequivoca conducenza dei documenti e delle intercettazioni» nel tentativo «di accreditare una lettura delle prove che fosse del tutto “esterna” al procedimento, facendo leva su una sorta di persecuzione politica che avrebbe ricevuto l’ex sindaco Lucano». Delle «lenti deformanti» che invece non sarebbero state usate della procura, nei confronti della quale il tribunale, a pagina 98, si lancia in difesa, sottolineando «l’indipendenza della sua azione». E ciò perché non sarebbero state le relazioni della Prefettura, affermano i giudici, a far partire l’inchiesta, come più volte si è sostenuto: tutto è nato dalla querela – poi rivelatasi infondata – di un commerciante, che lo accusava di concussione. I giudici a questo punto citano proprio le sentenze della giustizia amministrativa, che aveva censurato la chiusura dei progetti voluta dal Viminale, pur evidenziando le criticità del sistema. Un annullamento motivato solo da motivi di ordine procedurale, scrivono i giudici, evidenziando un giudizio «tutt’altro che benevolo sull’operato del Comune di Riace». Ma sono quelle stesse sentenze ad evidenziare un aspetto che, invece, il tribunale di Locri non riconosce nel recente passato di Lucano: «Che il “modello Riace” fosse assolutamente encomiabile negli intenti ed anche negli esiti del processo di integrazione – si legge nella decisione del Tar, poi confermata dal Consiglio di Stato – è circostanza che traspare anche dai più critici tra i monitoraggi compiuti dall’amministrazione resistente». Per i giudici, invece, ai migranti sarebbero stati destinati gli scarti di quel modello, servito ad arricchire gli imputati. Colpa di Lucano (e di tutti gli altri imputati) è stata anche quella di essersi sottratto all’esame durante il processo, impedendo al collegio di porgli domande. Nessuna attenuante, dunque, non essendoci «traccia dei particolari motivi di valore morale o sociale per i quali avrebbe agito». Quello che è emerso dal processo, secondo i giudici, è «un quadro per nulla rassicurante e a tinte fosche»: pur certificando l’integrazione «virtuosa e solidale che nei primi anni veniva senz’altro praticata su quel territorio», si sarebbe arrivati alla nascita di una banda dedita a ruberie, tramite «meccanismi illeciti e perversi, fondati sulla cupidigia e sull’avidità», un vero e proprio «“arrembaggio” ai cospicui finanziamenti che arrivavano in quel paesino». Insomma, «non vi è alcuna traccia dei fantomatici “reati di umanità” che sono stati in più occasione evocati da più parti, in quanto le vorticose sottrazioni che sono state compiute non servivano affatto a migliorare il sistema di accoglienza e la qualità dell’integrazione dei migranti, ma solo a trarre profitto».

Le motivazioni su Mimmo Lucano: 900 pagine di diritto penale d’autore. Il caso Mimmo Lucano: chi scrive così tanto coltiva la speranza che nessuno se le legga tutte e che la mole schiacciante svolga una funzione dissuasiva. Cataldo Intrieri su Il Dubbio il 22 dicembre 2021. Marco Travaglio, spulciando tra le varie agenzie, inneggia alla condanna di Mimmo Lucano. Come prova a lui bastano i feroci giudizi del tribunale di Locri formulati secondo i migliori canoni del “diritto penale d’autore”, quello che erge un imputato al ruolo di nemico sociale, per intenderci.

Ora, 900 pagine sono tante ed un po’ come per le impugnazioni fiume degli avvocati chi scrive così tanto in fondo coltiva la speranza che nessuno se le legga tutte e che la mole schiacciante svolga una funzione dissuasiva. Profittando di qualche giorno di forzato riposo ho cominciato a leggere le prime 200 e vi dico la verità bastano ed avanzano.

C’è una perla rara che dà la misura del tutto tra le pgg. 140- 146. Il punto cruciale è che il processo Lucano, guarda che novità, è nella parte principale basato su intercettazioni “a strascico”, cioè captate durante indagini per reati diversi. Il tribunale è consapevole che applicando i principi delle SU Cavallo dovrebbe dichiararle inutilizzabili ed assolvere. Non sia mai: con una triplice acrobazia sistema tutto.

Prima di tutto si contestano reati con limiti di pena più alti così da rientrare nella previsione di utilizzazione delle intercettazioni ex art. 266 cpp, badate bene DOPO che le intercettazioni sono state effettuate, riversare in atti e trascritte (nuove contestazioni del 21 marzo 2021 in limine alla chiusura dell’istruttoria dibattimentale). Poi, giusto per non farsi mancare niente, il tribunale disapplica le Sezioni Unite per applicare i principi contenuti in una dotta questione di legittimità costituzionale avanzata dal procuratore generale della Cassazione contro le SU, ma sfortunatamente disattesa dalla 5 sezione della Cassazione che l’ha giudicata infondata (ma sono dettagli).

Infine (e qui bisogna dire chapeau) applica retroattivamente la riforma dell’indimenticato Fofò dj sul 270 cpp che ha ritenuto di estendere la connessione utile alle intercettazioni a tutti i reati ex art. 266 cpp, al fine dichiarato di annullare gli effetti di una sentenza della “massima espressione nomofilattica” (qui trovate le pagine).

Il ragionamento, che per usare le espressioni adoprate dal collegio per le Sezioni Unite Cavallo è “dirompente, spiazzante ed innovativo” è ben sintetizzato a pg. 146 del tomo che qui riportiamo nella sua integralità con cui superano in bella agilità il principio di legalità processuale e del “tempus regit actum”: «seppure è innegabile che il suddetto art. 270 c. p. p. si sarebbe potuto applicare solo ai procedimenti iscritti dopo la data sopra indicata, è altrettanto vero che l’assoluto tempismo con cui il legislatore ha inteso effettuare quel tipo di modifica, scegliendo ad un tempo di non correggere l’art. 271 c. p. p., con inserimento di nuove ipotesi di inutilizzabilità, è espressione non solo di un chiaro segnale di assoluta discontinuità interpretativa da imprimere per il futuro rispetto alla decisione delle Sezioni Unite (ripristinando di fatto l’interpretazione maggioritaria pregressa), ma è anche indice di convalida e condivisione di quel tipo di lettura che veniva compiuta nel passato, avendo esso fornito le corrette chiavi interpretative da impiegare per valutare quel tipo di fenomeno, tanto da rendere perfettamente corrette le argomentazioni della Procura Generale della Cassazione, che questo Tribunale intende sposare in pieno, perché conformi ad un adeguato bilanciamento dei principi costituzionali del diritto alla segretezza e libertà della comunicazioni con quelli di ragionevolezza e conservazione dei mezzi di prova».

In fin dei conti, scrive il Tribunale, non conta forse la volontà del legislatore? Dunque i giudici di Locri tra Fofò dj e le Sezioni Unite scelgono il primo e visto che ci sono innovano pure i principi che da qualche secolo regolano la successione delle leggi, per non dire la teoria sulle fonti del diritto come delineata dalla Consulta e dalle convenzioni europee. Ed in un tema così delicato quale quello della tutela di uno dei diritti fondamentali della persona fissano addirittura l’effetto retroattivo non solo di una norma processuale, ma anche più sfavorevole per l’imputato.

Tutto ciò per sgominare la pericolosa banda di Mimmo Lucano, beninteso senza ombra di pregiudizio ma in nome della legge. Vi dico la verità, non leggerò le ulteriori 700 pagine perché mi rifiuto di pensare che la sentenza non venga annullata nei successivi gradi di giudizio. Ma i bravi e solerti colleghi che ci hanno invitato ad aspettare le motivazioni prima di criticare, ecco loro se le potranno compulsare tutte quante e farci sapere. Non vediamo l’ora.

E già che ci sono, non dico arrossire ma almeno un po’ di imbarazzo lo potranno provare perché già il dispositivo parlava. Il garantismo non è un espediente da invocare solo per i propri clienti ma per tutti, anche per i derelitti di Riace e per Mimmo Lucano ed i suoi straccioni.

Massimo Malpica per “il Giornale” il 18 dicembre 2021. «Si infanga ancora la mia immagine, in appello dimostrerò la mia innocenza», ringhia l'ex sindaco di Riace Mimmo Lucano dopo il deposito delle motivazioni della sentenza che lo ha visto, a settembre, condannato a 13 anni e due mesi (quasi il doppio rispetto ai 7 anni richiesti dalla procura) per associazione per delinquere, peculato, truffa aggravata, falso e abuso d'ufficio. Ma più che infangarlo, le motivazioni firmate dal presidente del tribunale di Locri Fulvio Accurso ne ribaltano l'immagine, definendolo un «furbo» travestito da «falso innocente». E trasformando il «modello Riace» dell'accoglienza da «encomiabile progetto inclusivo dei migranti» a «trampolino di lancio per la sua visibilità politica» e «forma sicura di suo arricchimento personale, su cui egli sapeva di poter contare a fine carriera». Più che fango, un colpo di cannone all'immagine del sindaco-eroe di Riace, a cui il regista Wim Wenders ha dedicato un cortometraggio e la Rai una fiction - mai andata in onda - sulla quale ironizza Maurizio Gasparri commentando la parabola di un «caso emblematico dell'ipocrisia della sinistra italiana». Nelle motivazioni, Accurso smonta la difesa principe dell'ex primo cittadino, rimarcando come «nulla importa che l'ex sindaco di Riace sia stato trovato senza un euro in tasca», perché, appunto, «ove ci si fermasse a valutare questa condizione di mera apparenza», mette nero su bianco il magistrato, «si rischierebbe di premiare la sua furbizia, travestita da falsa innocenza». A guidarlo, per il giudice, non è stata la «salvaguardia» dei migranti, ma «ragioni di puro profitto», «meccanismi illeciti e perversi, fondati sulla cupidigia e sull'avidità». L'ex sindaco è indicato come «dominus indiscusso» del «sodalizio», una organizzazione «tutt' altro che rudimentale», e accusato di aver «strumentalizzato il sistema dell'accoglienza a beneficio della sua immagine politica». Era lui, per il giudice, a dettare le regole dell'organizzazione «a cui tutti si assoggettavano», era lui al centro del sistema. Era lui, insiste Accurso, a consentire «ai partecipi da lui prescelti di entrare nel cerchio rassicurante della sua protezione associativa, per poter conseguire illeciti profitti, attraverso i sofisticati meccanismi, collaudati negli anni e che ciascuno eseguiva fornendogli in cambio sostegno elettorale». Ed era sempre lui a esercitare il suo potere politico nel «sistema» da lui stesso creato in una «forma padronale ed esclusiva, tanto da indurre tutti al silenzio». Il giudice snocciola anche gli investimenti che l'ex sindaco avrebbe fatto grazie ai soldi in più incassati peri progetti di accoglienza per i migranti, citando «l'acquisto di un frantoio» e di numerosi «immobili da destinare ad alberghi», e ribadendo che fossero appunto destinati a garantirgli, una volta terminata la carriera politica, «una tranquillità economica che riteneva gli spettasse, sentendosi ormai stanco per quanto già realizzato in quello specifico settore, per come dallo stesso rivelato nel corso delle ambientali che sono state esaminate».

I tripli salti mortali dei giudici di Locri e il diritto penale d’autore. Il processo Lucano è basato su intercettazioni “a strascico”, cioè captate durante indagini per reati diversi. Il tribunale è consapevole che applicando i principi delle SU Cavallo dovrebbe dichiararle inutilizzabili ed assolvere. Non sia mai: con una triplice acrobazia sistema tutto. Cataldo Intrieri su Il Dubbio il 18 dicembre 2021. Marco Travaglio spulciando tra le varie agenzie inneggia alla condanna di Mimmo Lucano. Come prova a lui bastano i feroci giudizi del tribunale di Locri formulati secondo i migliori canoni del “diritto penale d’autore”, quello che erge un imputato al ruolo di nemico sociale, per intenderci. Ora 900 pagine sono tante ed un po’ come per le impugnazioni fiume degli avvocati, chi scrive così tanto in fondo coltiva la speranza che nessuno se le legga tutte e che la mole schiacciante svolga una funzione dissuasiva. Profittando di qualche giorno di forzato riposo ho cominciato a leggere le prime 200 e vi dico la verità bastano ed avanzano. C’è una perla rara che dà la misura del tutto tra le pgg. 140-146. Il punto cruciale è che il processo Lucano, guarda che novità, è nella parte principale basato su intercettazioni “a strascico”, cioè captate durante indagini per reati diversi. Il tribunale è consapevole che applicando i principi delle SU Cavallo dovrebbe dichiararle inutilizzabili ed assolvere. Non sia mai: con una triplice acrobazia sistema tutto. Prima di tutto si contestano reati con limiti di pena più alti così da rientrare nella previsione di utilizzazione delle intercettazioni ex art. 266 cpp, badate bene DOPO che le intercettazioni sono state effettuate, riversare in atti e trascritte (nuove contestazioni del 21 marzo 2021 in limine alla chiusura dell’istruttoria dibattimentale). Poi giusto per non farsi mancare niente, il tribunale disapplica le Sezioni Unite per applicare i principi contenuti in una dotta questione di legittimità costituzionale avanzata dal procuratore generale della Cassazione contro le SU ma sfortunatamente disattesa dalla 5 sezione della Cassazione che l’ha giudicata infondata (ma sono dettagli). Infine (e qui bisogna dire chapeau) applica retroattivamente la riforma dell’indimenticato Fofò dj sul 270 cpp che ha ritenuto di estendere la connessione utile alle intercettazioni a tutti i reati ex art. 266 cpp, al fine dichiarato di annullare gli effetti di una sentenza della “massima espressione nomofilattica” (qui trovate le pagine). In fin dei conti, scrive il Tribunale, non conta forse la volontà del legislatore? Magari ne saranno felici gli illustri amici che si lamentano del giudice legislatore e si illudono che un guardasigilli come Fofò sia un incidente della storia. Vi dico la verità, non leggerò le ulteriori 700 pagine perché mi rifiuto di pensare che la sentenza non venga annullata nei successivi gradi di giudizio. Ma i bravi e solerti colleghi che ci hanno invitato ad aspettare le motivazioni prima di criticare, ecco loro se le potranno compulsare tutte quante e farci sapere. Non vediamo l’ora.

Dai migranti alla truffa alla Siae: Lucano, l'eroe smascherato. Michel Dessì il 18 Dicembre 2021 su Il Giornale. Dalle carte dei giudici emerge il vero "modello Riace": altro che aiutare gli ultimi, così l'ex sindaco ha strumentalizzato il sistema dell'accoglienza vanto della sinistra. “Lucano ha strumentalizzato il sistema dell’accoglienza a beneficio della sua immagine politica”. A scriverlo nero su bianco, senza tanti giri di parole, è Fulvio Accurso, presidente del Tribunale di Locri che, in 904 pagine, spiega le motivazioni della dura condanna a tredici anni e due mesi inflitta a Mimmo Lucano. Basterebbe questo per mettere la parola fine sul “modello Riace”. 904 pagine che svelano il vero volto dell’uomo dei migranti. Un volto per nulla buono a dire dei giudici. L’ex sindaco era lo Zar di Riace, faceva il bello e cattivo tempo. Era lui a comandare, a decidere chi doveva lavorare e chi no. Il Comune non era affatto il Palazzo dei cittadini, ma cosa sua e dei suoi sodali. Amici, collaboratori che lui sceglieva personalmente: “Trainante e carismatico, Lucano consentiva ai partecipi da lui prescelti di entrare nel cerchio rassicurante della sua protezione associativa, per poter conseguire illeciti profitti, attraverso i sofisticati meccanismi, collaudati negli anni e che ciascuno eseguiva fornendogli in cambio sostegno elettorale”. Un lupo travestito d’agnello. Calcolatore, avido. Furbo e stratega.

I soldi dei migranti spesi per ospitare gli amici

Tra tutte le spese ingiustificate (l’elenco è infinito) c’è una che salta all’occhio dei giudici: l’acquisto di 60 lenzuola. Grazie ai soldi destinati all’accoglienza avrebbe ospitato (illecitamente) degli amici “provenienti dal nord”. È con quei soldi, soldi pubblici destinati ai migranti, che Lucano e i suoi avrebbero comprato lenzuola nuove. E se ne avanzano? Beh, ci sono sempre i migranti. “Se restano le lenzuola ormai le mettiamo per i rifugiati, ormai che dobbiamo fare?”, dice Lucano ai suoi collaboratori intenti a preparare le abitazioni per gli ospiti. Una frase che ha colpito in particolare i giudici che scrivono: “Il Collegio ha prestato molta attenzione alla frase da ultimo indicata, non già perché attraverso essa si denotasse il disinteresse di Lucano per i migranti, ma perché in modo involontario egli ha tradito il suo preminente pensiero di quel momento, che era quello di fare bella figura con gli ospiti che venivano dal Nord Italia, offrendo loro ospitalità gratuita con i soldi dei migranti, i quali in quel frangente apparivano come l'ultimo dei suoi pensieri, perché solo ove fosse rimasto qualcosa da non destinare ai suoi amici, lo si poteva dare anche ai rifugiati. Si tratta di una frase importante, in tutto il suo desolante fragore, perché, più di altre, sintetizza in modo potente quel demone di avidità politica e di visibilità che aveva stravolto l'ex Sindaco di Riace, proiettandolo in modo quasi ossessivo verso la necessità di ottenere un giudizio compiacente che egli si aspettava dagli altri, quasi dimenticandosi di quel potente vento che, solo pochi anni prima, aveva animato i suoi ideali e lo aveva portato prioritariamente a soccorrere e ad aiutare gli ultimi, per come dallo stesso affermato in aula, in sede di spontanee dichiarazioni”.

Commenti duri che lasciano poco spazio alla difesa d’ufficio. A Riace era ormai uso comune “predare le risorse pubbliche provenienti dai progetti Sprar, Cas e Msna, sempre più asserviti ai loro appetiti di natura personale, spesso declinati in chiave politica, e soddisfatti strumentalizzando a loro vantaggio il sistema dell’accoglienza dei migranti che, da obiettivo primario e apprezzabile di quelle sovvenzioni, è diventato un comodo paravento dietro cui occultare le vistose sottrazioni di denaro pubblico che essi attuavano, per fini esclusivamente individuali”.

Il business dei migranti

I migranti col passare degli anni a Riace non erano più persone, ma risorse. Sì, per riempire le proprie tasche. Profitto, solo profitto. Secondo i giudici, a quello avrebbero puntato gli amministratori locali dal 2014 al 2017: “Non c’è traccia di fantomatici 'reati di umanità' che sono stati in più occasioni evocati da più parti, in quanto le vorticose sottrazioni che sono state compiute non servivano affatto a migliorare il sistema di accoglienza e la qualità dell’integrazione dei migranti, ma solo a trarre profitto, nelle diverse forme e che non hanno alcuna connotazione altruistica, né alcunché di edificante”. 2.414.041,66 milioni di euro sarebbero stati distratti per fini privati come l’acquisto di case e di un frantoio.

Lo scaltro Lucano

Mimmo Lucano voleva dimostrare di essere povero? Era tutta una strategia? Per i giudici sì, lo era. In un’intercettazione ambientale del 2017 l’allora sindaco di Riace svela il proprio essere: “Lucano rappresentava inoltre la sua amarezza per la condizione in cui si trovavano e ad un certo punto, abbassando la voce, gli confidava che era ormai stanco di combattere, che aveva deciso di chiudere tutti i progetti e di girare per il mondo, e che una volta finita la sua attività di Sindaco, ove non fosse stato più possibile essere rieletto con un quarto mandato, avrebbe comunque svolto un lavoro prestigioso per la comunità internazionale. Ad ogni modo gli sarebbe sempre rimasto il guadagno che aveva conseguito - che quantificava egli stesso in circa 800.000 euro - nei quali inglobava l'acquisto di case ed il frantoio: 'Secondo me rimangono tra i 700 e 800 mila euro'. Si vantava, tra l'altro, di essere stato scaltro nell'attuare quella sotterranea accumulazione di beni, che aveva avuto l'accortezza di non intestarsi, oltre al fatto che viveva in una casa modesta e che sul suo conto corrente c'erano non più di 800 euro, di tal ché non avrebbe destato alcun sospetto, salvo il rischio di intercettazioni che, però, escludeva. Si sentiva, insomma, di aver attuato una simulazione perfetta, con la quale si era sforzato di apparire all’esterno come un uomo retto ed onesto, laddove, invece, aveva fattivamente lucrato soldi pubblici dallo Stato, strumentalizzando il sistema di accoglienza, tanto da realizzare sostanziosi profitti che, per come si coglie dalle sue stesse parole, pronunciate a voce bassa, non erano per nulla destinati ai migranti, ma solo a garantirgli un futuro tranquillo, dopo 20 anni di sacrifici”

La truffa alla Siae

Un truffatore seriale? A dire dalle carte Mimmo Lucano avrebbe perfino raggirato la Siae, la Società Italiana degli Autori ed Editori, quando “in qualità di pubblico ufficiale, Sindaco del Comune di Riace, nello svolgimento delle sue funzioni, ha rilasciato una falsa certificazione alla SIAE; in particolare, in data 05.02.2016 con nota n. 628, al fine di non pagare i diritti per i concerti estivi regolarmente svoltisi nel 2015 a Riace, attestava, falsamente, che tali manifestazioni non si erano svolte.”

La legge è legge e va rispettata anche nel regno di Lucano. Anche da Mimmo Lucano, l’eroe smascherato della sinistra.

Michel Dessì. Sono nato nella Piana di Gioia Tauro nel 1990, tra ulivi e aranci, discariche e rifiuti tossici. Zagara e merda di Calabria. ‘ndrangheta compresa. Tra i sentieri dei latitanti e quelli di Cristo (ho scelto i secondi). Odio la violenza e il malaffare. Odio i soprusi e gli egoismi. Nel giugno 2014 ho fondato SUD, la ttivvù con l’accento meridionale. Poi, come tanti, sono stato costretto a lasciare la mia Terra per cercare fortuna fuori. Che ho trovato. Faccio l’inviato a Mediaset e curo il mio blog su IlGiornale.it “Il Rinoceronte”: simbolo forte e cazzuto della mia natura di difensore dei diritti dei cittadini. Peraltro, il mio rinoceronte di cartone riciclato mi somiglia un po’: entrambi combattiamo con la bilancia. Per ora sto vincendo io. 

Uski Audino per "La Stampa" il 30 luglio 2021. L'accusa è di quelle pesanti: in Italia c'è «il serio pericolo di un trattamento inumano e degradante» per i migranti. È questa la motivazione in base alla quale il tribunale amministrativo superiore del Nordreno Vestfalia ha deciso di non rimandare in Italia due richiedenti asilo, un maliano e un somalo, e di accogliere il loro ricorso. I due avevano visto respinta la loro richiesta di rimanere in Germania nelle istanze di primo livello. Il tribunale di Muenster invece ha dato loro ragione. Nel caso di un rientro in Italia, sostengono i giudici, queste persone «per un lungo periodo di tempo non avrebbero né un alloggio né un lavoro» e in più «non avrebbero accesso alle relative cure», si dice nel riassunto della sentenza del tribunale superiore di Muenster. La motivazione non è generica ma circostanziata. Si fa riferimento alla perdita del diritto all'alloggio per i migranti in Italia dopo un certo periodo di tempo. «Non hanno più diritto all'alloggio in Italia», scrive il tribunale, e la spiegazione è che «il cosiddetto decreto-Salvini del 2018, che limitava i diritti dei richiedenti asilo e dei beneficiari di protezione in Italia, è stato riformato nel dicembre 2020 - ricorda il tribunale - tuttavia, le norme che regolano la perdita del diritto all'alloggio in un centro di accoglienza continuano ad essere applicate, nonostante la riforma». Trovare un posto dove dormire non è facile per chi non ha disponibilità economiche su cui contare e «i rifugi per i senzatetto o i ricoveri d'emergenza non sono disponibili in numero sufficiente», fanno presente i giudici di Muenster. A questa ragione si sommano le condizioni non semplici del mercato del lavoro in Italia per tutti, anche per gli italiani, che rendono particolarmente difficile trovare un'occupazione se si è giovani e soprattutto se non si parla bene la lingua, sostengono ancora le toghe tedesche. Alla luce di tutto questo il tribunale di seconda istanza ha rigettato la richiesta delle autorità tedesche - in un caso del Bamf (Ufficio federale per la migrazione) e nell'altro di un tribunale di primo livello - di rimandare indietro i due migranti, secondo il dettato del regolamento di Dublino, che prevede la presa in carico del procedimento d'asilo da parte del paese di primo approdo. Non è la prima volta che accade in Germania del resto. Già lo scorso gennaio lo stesso tribunale per un motivo analogo aveva rifiutato il trasferimento in Grecia richiesto dalle autorità tedesche dell'Ufficio federale per la migrazione. Al netto di tutte le considerazioni, la sentenza di ieri di Muenster è un pesante atto d'accusa al sistema italiano di gestione della migrazione. Se ora la polemica si dovesse concentrare solo sull'uso degli aggettivi «inumano» e «degradante" sarebbe un'occasione persa per colmare lacune la cui notorietà ha ormai varcato i confini nazionali. 

Gaia Cesare per “il Giornale” il 23 luglio 2021. Regno Unito e Unione Europea litigano sul protocollo post-Brexit per l'Irlanda del Nord e intanto Londra firma un accordo con uno dei Paesi leader d'Europa per frenare il boom di migranti che continuano a voler raggiungere la Gran Bretagna. L'intesa con la Francia è stata siglata martedì dai ministri dell'Interno dei rispettivi Paesi, la britannica Priti Patel e il francese Gérald Darmanin, e prevede l'impegno di Londra a sborsare 62 milioni e trecentomila euro a Parigi per rafforzare i controlli di polizia sulle coste francesi, che si aggiungono ai 175 milioni di euro già affidati alla Francia per contrastare il flusso di migranti negli ultimi dieci anni. Circa settecento migranti hanno raggiunto le coste inglesi negli ultimi due giorni e in piena estate il numero complessivo di arrivi clandestini ha già sfiorato gli 8500, superando il totale dello scorso anno. Raddoppiare il numero di agenti francesi in grado di arginare i migranti prima che si imbarchino per il Regno Unito è l'obiettivo delle autorità britanniche, che da Parigi solo quest' anno hanno ottenuto lo stop di 5mila clandestini. D'altra parte è stata approvata in seconda lettura ed è ormai a un passo dall'entrata in vigore la controversa legge di riforma della cittadinanza e del diritto d'asilo nel Regno Unito post-Brexit, definita «xenofoba» e «crudele» dall'opposizione laburista e dalle associazioni per i diritti umani. Il Nationality and Borders Bill prevede pene dai sei mesi ai quattro anni di carcere per chi cerca di entrare nel Paese illegalmente. In un discorso in cui ha scaricato il peso dei migranti sui Paesi di frontiera, la ministra Patel è stata chiara: «Le persone dovrebbero chiedere asilo nel primo Paese sicuro che raggiungono». Nel suo discorso alla Camera dei Comuni lunedì, la «lady di ferro» del governo di Boris Johnson è stata persino più incisiva: «Il popolo britannico ne ha abbastanza delle frontiere aperte e della migrazione incontrollata, di un sistema di asilo fallito che costa al contribuente oltre un miliardo di sterline l'anno, dei gommoni che arrivano illegalmente sulle nostre coste, diretti da bande criminali organizzate (...), dei migranti economici che fingono di essere veri rifugiati, degli adulti che si fingono bambini per chiedere asilo». Patel ha ricordato i numeri dell'accoglienza inglese: dal 2015 oltre 25mila rifugiati, «più di qualsiasi altro Paese europeo». Ma adesso Londra promette: «Romperemo il business dei trafficanti». GaCe.

 Gherardo Colombo, "presidente dei migranti". Ong, la seconda vita dell'ex pm di Mani Pulite. Libero Quotidiano il 20 luglio 2021. Da Tangentopoli agli sbarchi di immigrati. È la nuova avventura di Gherardo Colombo, ex pm di Mani Pulite accanto ad Antonio Di Pietro e Piercamillo Davigo, presidente onorario della Ong Resq People Saving People. Sul sito dell'organizzazione dedita al salvataggio di migranti nel Mediterraneo arriva l'annuncio euforico: "La nave c'è!". Tutto pronto, dunque: garantita l'operatività del primo mezzo di salvataggio della Ong, una imbarcazione di 39 metri già utilizzata dalla onlus tedesca Sea-Eye. Il costo della nave ammonta a 400mila euro, raccolti grazie all'impegno e alla generosità di oltre 3mila donatori. La ResQ People batte bandiera tedesca: l'equipaggio attende solo il via alla prima missione. "Nel Mediterraneo continuano a morire gli esseri umani, le leggi e i diritti - spiegano i responsabili sul proprio sito -. Ci siamo uniti per dare un segno concreto e contrastare la cultura dell’indifferenza, mettendo in mare un’altra nave che sostenga donne, uomini e bambini, costretti a spostarsi da situazioni drammatiche o volenterosi di inseguire il proprio sogno, come di diritto. Il nostro obiettivo è quello di aggiungere, con il contributo di chi non è indifferente, una nave alla flotta umanitaria, oggi del tutto insufficiente". Per Colombo, sempre molto attivo nel sociale ma mai sceso in campo apertamente a livello politico (anche se la sua propensione a temi "di sinistra", nella Procura di Milano, era ben nota), una impegnativa avventura da pensionato di lusso, sperando che le attività della Ong nelle acque tra Italia e Libia non gli creino qualche problema legale con i suoi ex colleghi. Di sicuro, però, per il momento sono acque meno agitate di quelle in cui è costretto a navigare l'amico Davigo, indagato a Brescia per la scottante vicenda della divulgazione dei verbali segreti di Amara. 

1.500 immigrati col reddito 5s: la maxi-truffa. Federico Garau il 16 Luglio 2021 su Il Giornale. Gli uomini della Guardia di finanza sono risaliti a ben 1.532 domande illecite presentate da cittadini stranieri residenti per la maggior parte nei carruggi del centro storico. Maxi operazione delle Fiamme gialle che, grazie alla collaborazione dell'Inps, sono riusciti a risalire a ben 1.532 illecite domande di reddito di cittadinanza presentate da cittidini stranieri. La scoperta è stata effettutata dagli uomini del Nucleo Operativo Metropolitano del I Gruppo di Genova, impegnati in un'operazione di controllo finalizzato a tutalare la spesa pubblica.

I risultati dell'operazione. Le indagini hanno portato alla scoperta di un consistente numero di cosiddetti furbetti del rettito, quasi tutti extracomunitari, che avevano inoltrato la richiesta per ricevere il sussidio grillino durante lo scorso 2020. Nelle domande, però, non erano presenti quelli che restano i requisiti necessari per ricevere l'assegno, ossia la residenza ed il soggiorno sul territorio nazionale per dieci anni, di cui gli ultimi due continuativi. I dati a disposizione della Guardia di finanza sono stati incrociati con quelli della Questura locale, ed il risultato è stato proprio quello di incastrare gli stranieri, la maggior parte dei quali residenti nei carruggi del centro storico. Secondo quanto riferito dalle autorità, gli extracomunitari si erano rivolti ad un Caf della zona, fornendo tuttavia informazioni false. La lunga lista di illeciti percettori del reddito è stata dunque tempestivamente inoltrata e segnalata agli uffici dell'Inps, che ha subito provveduto ad interrompere l'erogazione dell'assegno ed a revocare il sussidio. Tanto il denaro sottratto allo Stato ed alle persone che ne avevano effettivamente bisogno: stando alle ultime informazioni, si parla di ben 3.458.736,04 euro. Oltre a ciò, la Guardia di finanza ha scoperto che con gli assegni intascati molti degli stranieri non provvedevano ad acquistare cibo o beni di prima necessità. L'importo accreditato sulla carta emessa dalle Poste veniva monetizzato con la complicità di alcuni commercianti del centro storico genovese.

Le lacune del reddito grillino. Non si tratta, purtroppo, del primo caso di appropriazione indebita del reddito di cittadinanza da parte di extracomunitari. Di rencente la Guardia di finanza di Catanzaro ha denunciato ben 469 cittadini stranieri che, fornendo informazioni false, erano riusciti ad intascare il sussidio.

Si fa pertanto impellente la necessità di apportare delle modifiche alla misura varata dai 5 Stelle, intensificando anche i controlli. Mentre il leader di Italia Viva Matteo Renzi pensa a porre la parola fine al reddito di cittadinanza, mediante referendum abrogativo, al governo si lavora per cambiarlo. Lo stesso ministro del Lavoro Andrea Orlando ha parlato della sua intenzione di effettuare alcune correzioni.

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dove mi occu…

C'è pure il "reddito di immigrazione".  Antonella Aldrighetti il 16 Luglio 2021 su Il Giornale. Il Viminale stanzia 44 milioni: ogni arrivo ci costerà 26mila euro per sei mesi. Negli ultimi giorni sono sbarcati in Sicilia, tra Augusta e Porto Empedocle, oltre 600 migranti e malgrado ci possano essere rischi evidenti di contagio e nuovi focolai virali le operazioni di ripartizione degli stranieri negativi al tampone anticovid sono iniziate. Nessun impedimento per l'accoglienza, anzi. Già nella prima settimana di luglio, considerando l'incremento degli sbarchi autonomi e i movimenti delle Ong, il Viminale ha dato prova di non perdersi d'animo provvedendo velocemente a concedere ai comuni un sostanziale incremento di posti. E si è prodigato a mettere in campo contratti di audit per i colloqui da tenere con i richiedenti asilo e impegni di spesa per i nuovi servizi di supporto. Per l'attivazione di questi programmi, messi a punto in quest'ultima settimana, sono stati spesi in totale 44 milioni di euro. Somma la cui cifra più sconcertante è di 22,5 milioni per aumentare di 857 posti i servizi di accoglienza integrata Sai. Vale a dire che conti alla mano l'impegno finanziario per ogni immigrato accolto è di poco più di 26 mila euro (26.288 per l'esattezza) per circa 6 mesi di progetti. Tanto varrebbe trovare a costui un lavoro e retribuirlo per quel che produce, sostenendolo con uno stipendio: una sorta di reddito di immigrazione. Qesti soldi vengono impegnati anche per quegli immigrati che dopo il colloquio - e i dati annoverati negli anni lo danno per certo - diventeranno clandestini perché senza requisiti per ottenere il permesso di soggiorno. Non bisogna dimenticare infatti che a questa entità appartengono circa il 60 per cento dei proponenti domanda di asilo e protezione internazionale. Invece i programmi in questione hanno un unico scopo: «Il rafforzamento della capacità di accoglienza, inclusione sociale e accompagnamento». Chi arriva viene ripartito di diritto, dopo il periodo di quarantena e la successiva disposizione nei centri Cas, nel sistema Sai, quello dell'accoglienza e integrazione. Che siano richiedenti asilo o titolari di protezione temporanea. Il Sai è costituito dalla rete degli enti locali che incassano le risorse direttamente dal Viminale. A oggi saranno 51 i comuni cui andranno dai 350 mila ai 750 mila euro ciascuno, ubicati per lo più nelle regioni del Sud: Basilicata, Campania, Calabria, Sicilia ma anche Emilia Romagna. Ecco cosa prevedono i progetti: tirocini formativi con la possibilità di riconoscimento di una indennità per la frequenza ai partecipanti, supporto all'inserimento lavorativo, riconoscimento di titoli di studio e qualifiche acquisite nei paesi di origine, assistenza legale e orientamento amministrativo e promozione dell'accesso ai servizi per l'impiego. Altrettanto la pubblica amministrazione del comune, con i fondi intascati, potrà provvedere anche a «supporto alle attività formative ed eventualmente lavorative, ticket restaurant, tutoring, spese di viaggio, conseguimento di eventuali patentini e abilitazioni specifiche». Benefit di cui nessuno studente italiano impegnato in corsi di formazione ha mai certamente usufruito, ma non è certo finita qui: se un immigrato desidera prendere la patente di guida, ecco pronto il benefit per scuola, esame e documento. Ma oltre ai 22,5 milioni il pamphlet comprende anche un altro milione e 300 mila euro dedicati agli audit per la richiesta di soggiorno, ulteriori 9 milioni e 998 mila euro per fronteggiare situazioni emergenziali e ancora altri 10 milioni tondi da elargire ai progetti già in itinere dei migranti in seconda accoglienza ovvero riguardanti percorsi di inclusione. Antonella Aldrighetti

Msf compie 50 anni: «Ci chiamavano i medici cowboy e ci criticavano. Solo perché crediamo nelle cure per tutti». Nel 1971 nasceva la prima organizzazione sanitaria umanitaria, Medici Senza Frontiere. Oggi conta un centinaio di missioni in settantacinque Paesi tra guerre e genocidi. Come racconta una mostra fotografica a Cortona. Francesca Mannocchi su L'Espresso il 13 luglio 2021. Ricevendo il Nobel per la Pace a nome di Medici Senza Frontiere (Msf), nel 1999 a Oslo, James Orbinski, presidente del Consiglio internazionale di Msf, disse: non siamo sicuri che le parole possano cambiare vite ma sappiamo con certezza che il silenzio uccide. Le prime parole del suo discorso erano indirizzate al popolo della Cecenia e al popolo di Grozny che da più di tre mesi stavano subendo i bombardamenti indiscriminati dell’esercito russo. Malati, vecchi, infermi cui era negata la possibilità di fuga. C’era insieme, nelle parole di Orbinski, la gratitudine per il riconoscimento ricevuto e il profondo disagio nel «sapere che la dignità degli esclusi viene ancora aggredita quotidianamente». Disse - parlando della ragione che diede impulso a Medici Senza Frontiere - che l’azione umanitaria è e deve essere più che semplice generosità, più che semplice carità, dovrebbe piuttosto costruire spazi di normalità in ciò che è anomalo: «La nostra è un’etica del rifiuto», furono le parole di Orbinski prima di scandire i crimini contro l’umanità di cui fino ad allora Medici Senza Frontiere era stata testimone: il 1991 in Bosnia-Erzegovina. Il genocidio del 1994 in Ruanda. I massacri del 1997 nello Zaire. Gli attacchi del 1999 ai civili in Cecenia, «questi non possono essere mascherati da termini come emergenza umanitaria complessa, o crisi della sicurezza interna o altri eufemismi, come se si trattasse di un evento casuale, politicamente indeterminato». Non lo erano, quelle crisi e quei morti, politicamente indeterminati. E non lo sono ancora - a più di vent’anni di distanza dal discorso di Oslo - le guerre in corso, quelle dimenticate, quelle rimosse, quelle prive di testimoni. Portare aiuto a chi ha bisogno e portare indietro notizie, testimonianze appunto, sono state le basi di Msf dalla sua nascita. Era la fine degli anni Sessanta, la guerra in Biafra tra i secessionisti del sud-est della Nigeria e le truppe governative stava decimando la popolazione. Chi non era ucciso dalle armi era ucciso dalla fame. Nel 1968, il maggio parigino aveva mobilitato studenti, sindacati e associazioni, scesi in piazza in segno di rivolta. Tra loro un gruppo di medici neolaureati che rispose a un appello della Croce Rossa Internazionale e partì diretto in Africa. «Volevamo andare dove le persone soffrivano. Oggi può sembrare banale, all’epoca era rivoluzionario», ha detto uno dei fondatori, Bernard Kouchner. Kouchner, che oggi ha 80 anni, fu uno dei giovani medici che partirono diretti in Nigeria. «Non eravamo preparati a tale orrore», disse, e aggiunse: «I bambini stavano morendo in massa perché l’esercito stava bloccando tutte le forniture. Era chiaro per noi che esporsi contro questa situazione fosse parte del dovere di essere medici». Allora, negli equilibri dell’azione umanitaria, i medici non avevano il ruolo e la centralità che hanno oggi, erano altre le funzioni prioritarie: gli obiettivi economici e sociali e la modernizzazione e le relazioni tra Stati. La malattia necessitava cure, certo, ma non era un problema in sé, era piuttosto una questione da subappaltare a missionari e volontari. I giovani medici francesi, però, volevano cambiare gli aiuti umanitari: equipaggiarli meglio, renderli meno burocratici, aiutare più medici a partire e rendere l’azione umanitaria più reattiva sul piano internazionale. Non volevano, cioè, sostenere i pazienti solo dal punto di vista medico ma anche consegnare, riferire, raccontare in Occidente cosa avevano visto. Non solo aiutare ma anche testimoniare. O meglio: aiutare anche attraverso la testimonianza. Le storie del Biafra andavano raccontate, i volti e i corpi del Biafra andavano mostrati, nonostante la politica del silenzio delle altre organizzazioni. L’idea di base che animava la dozzina di medici che diede vita a Msf, era: mostreremo al mondo cosa sta accadendo, scuoteremo la coscienza di chi osserva e ascolta, cercheremo di migliorare le cose per chi, in assenza di testimoni, rischia di essere dimenticato. Fu così che quei giovani medici, nel 1971, fondarono Msf, Medici senza Frontiere. Al momento della fondazione l’organizzazione contava trecento volontari tra medici, infermieri e altro personale, compresi i 13 medici fondatori e giornalisti. Oggi – a cinquant’anni di distanza – Msf ha circa un centinaio di missioni in 75 Paesi, opera negli scenari più complessi del mondo e ha contribuito a cambiare il volto e la filosofia dell’azione umanitaria. Rony Brauman, che ha guidato Msf dal 1982 al 1994, ha sottolineato in una intervista che sebbene oggi possa sembrare strano, prima della nascita di Medici Senza Frontiere non esistevano organizzazioni mediche umanitarie: «Negli anni Ottanta venivamo criticati, ci chiamavano i medici cowboy, siamo stati accusati di creare aspettative irrealizzabili con le nostre medicine, la verità è che pensavamo che le persone nel Terzo Mondo avessero il diritto di godere dei benefici delle cure mediche». Oggi quella battaglia di scetticismo è in parte vinta, l’azione di Msf ha influenzato il mondo umanitario e ha accompagnato una capillare attività sul campo a coraggiose denunce. Lo ha fatto negli anni Ottanta denunciando il programma di reinsediamento della popolazione da parte del governo etiope, quando le autorità locali approfittavano dei campi per registrare i rifugiati e costringerli a trasferirsi a sud e spopolare le aree ribelli, rendendo gli aiuti, di fatto, uno strumento nelle mani del regime. Msf denunciò l’azione criminale di cui non voleva rendersi complice, con due conseguenze: venne cacciata dal Paese, ma, denunciando, aveva creato un precedente. È la forma che Msf ha dato e continua a dare alla parola neutralità. Oggi, cinquant’anni dopo la fondazione, per Claudia Lodesani, presidente di Msf Italia, la parola neutralità ha due significati complementari: «Neutralità in quanto medico è non chiedere mai quanti anni hai? O da dove vieni? O qual è la tua storia? A un paziente che entra nelle nostre strutture, neutralità verso i pazienti significa prendere in carico chi soffre e ha bisogno di cure. Poi c’è la neutralità come testimonianza che è cosa diversa. Noi siamo apartitici ma siamo politici, perché non c’è niente di più politico che mostrare quello che vediamo». Lo dice, Lodesani, avendo vissuto e curato Ebola, lo dice osservando il Mediterraneo centrale e lo dice anche portando sulle spalle il peso di uno spazio umanitario che si è profondamente ristretto «rispetto a prima quando dovevamo raccontare cosa avevamo visto, oggi, dobbiamo quasi giustificarci di quello che facciamo. L’azione umanitaria è stata ed è criminalizzata, e l’effetto è naturalmente il pericolo di una distanza da parte della società civile. Non siamo più raccontati come portatori di aiuti necessari, ma come qualcuno che prova a infrangere la legge». Eppure, o proprio per questo, oggi più che cinquant’anni fa ha ancora senso raccontare. «Raccontare senza esitazione», dice Lodesani, raccontare a un Occidente sempre più chiuso e sempre meno incline a considerare una visione globale degli eventi e dei destini. Raccontare senza esitazione e interrogarsi su come cambiare le parole per dire il dolore degli altri in un mondo sempre più assuefatto. Nel 1999 James Orbinski a Oslo disse ancora che è la lingua a essere determinante, è la lingua a inquadrare il problema e definire le risposte, i diritti e quindi le responsabilità: «Nessuno chiama uno stupro un’emergenza ginecologica complessa. Uno stupro è uno stupro, proprio come un genocidio è un genocidio. Ed entrambi sono un crimine. Per Msf questo è l’atto umanitario: cercare di alleviare la sofferenza, cercare di ripristinare l’autonomia, testimoniare la verità dell’ingiustizia e insistere sulla responsabilità politica». È per rinnovare il mandato di partenza – vedere e far vedere - che oggi Msf celebra i suoi 50 anni con una mostra fotografica, dal 15 luglio a Cortona: “Guardare oltre – Msf e Magnum, 50 anni sul campo tra azione e testimonianza”. La retrospettiva ripercorre cinque decenni di collaborazioni in cui Msf e Magnum sono stati testimoni diretti e amplificatori per l’opinione pubblica internazionale di crisi lontane dai riflettori dei media, dai conflitti in Afghanistan e Libano degli anni Settanta e Ottanta al genocidio in Ruanda, dal massacro di Srebrenica al terremoto ad Haiti fino alle attuali rotte migratorie in Messico, Grecia e nel mar Mediterraneo. Cinque decenni in cui Msf ha osservato dalla soglia e dalla soglia ha raccolto le storie del dolore degli altri. Luigi Ghirri nelle sue “Lezioni di fotografia” faceva coincidere la soglia con l’inquadratura della macchina fotografica, soglia che non è un bordo, non è semplicemente un confine, ma un punto nello spazio e nel tempo che coincide con la trasparenza tra il mondo di chi guarda e il mondo osservato, che viene liberato, esce allo scoperto. Ghirri descrive la fotografia come un’operazione di cancellazione del mondo esterno, ricordando che quello che è importante in un’inquadratura, non sia solo quello che vediamo, ma anche l’operazione di cancellazione del mondo che l’osservatore ha scelto di lasciare fuori. La soglia non è, dunque, il confine manuale dell’inquadratura, è il punto in cui si osserva e dunque racconta, e coincide con la comprensione del mondo. È il punto in cui chi guarda viene descritto da ciò che guarda. Anche Msf, in questi 50 anni è stata sulla soglia.

Nelle immagini di questi cinquant’anni c’è la fame di donne uomini e bambini, epidemie, catastrofi naturali, pestilenze. E, a guardarle bene, fuori dall’inquadratura, oltre la soglia, c’è l’assenza, il fallimento della politica, le vite ritratte non sono sciagure casuali ma eventi politicamente determinati. E in questa disfunzione giace il valore di un’organizzazione che insieme all’aiuto non ha mai esitato nel rivendicare il valore della testimonianza. «Nessun medico può fermare un genocidio», disse ancora Orbinski a Oslo. «Nessun umanitario può fermare la pulizia etnica, così come nessun umanitario può fare la guerra né può fare la pace. L’atto umanitario è il più apolitico di tutti gli atti, ma se si prendono sul serio le sue azioni e la sua moralità, ha le implicazioni politiche più profonde».

Chi sono e dove si trovano i trafficanti più pericolosi. Mauro Indelicato, Sofia Dinolfo su Inside Over il 7 luglio 2021. I flussi migratori sono alimentati dalle attività criminali di chi lucra sulla necessità e sulla disperazione di molti. Dal Mediterraneo alle Americhe, ecco quali sono i gruppi più pericolosi che guadagnano sui viaggi della speranza.

I viaggi della speranza che si originano in Libia. Sabratha e Gasr Garabulli a molti non dicono nulla. In realtà questi sono i nomi di due delle più importanti città libiche coinvolte nel traffico dei migranti verso l’Italia. Poste rispettivamente a ovest ed est di Tripoli, le economie di questi territori sembrano fondarsi proprio sullo sfruttamento del fenomeno migratorio. Proprio per questo motivo si assiste da anni ad una spietata concorrenza tra i trafficanti, fatta di faide fra le diverse fazioni che nel dopo Gheddafi si sono spartite il controllo delle rispettive zone. Complice il caso imperante in Libia dal 2011, in migliaia vivono grazie all’indotto prodotto dal macabro mercato di esseri umani. I migranti, prima di arrivare in queste città costiere, trascorrono diverso tempo di detenzione più a sud. Qatrun, Awbari, Sebha e Murzuq sono soltanto alcune delle località in cui per mesi molti di loro vengono detenuti dai loro aguzzini. Veri e propri strozzini che usano anche torture e abusi per estorcere quanti più soldi possibili alle vittime. Soltanto in un secondo momento i migranti, in gran parte di origine subsahariana, vengono condotti lungo la costa per essere imbarcati verso l’Italia. A Sabratha come a Gasr Garabulli e in altri centri della Tripolitania, sono diversi i centri di detenzione per i migranti. In molti casi però le autorità locali e quelle dell’Onu riescono ad avere pieno accesso alle strutture.

I trafficanti che operano in Libia. Nelle città costiere protagoniste delle partenze verso l’Italia, a monopolizzare il mercato sono le famiglie capaci di prendere le redini del controllo del territorio dopo la fine di Gheddafi. A Sabratha ad esempio il mercato dell’immigrazione è in mano al clan Al Dabbashi. Si tratta di un cognome ricorrente anche in alcune indagini condotte nel 2017 dalla procura di Trapani. Il capo di questo gruppo, Ahmed Al Dabbashi soprannominato “Lo zio”, nell’aprile 2020 è stato rivisto a Sabratha dopo il ritorno in città delle milizie ricollegabili all’allora governo di Fayez Al Sarraj. Da qui, assieme ai fedelissimi, gestisce le partenze di centinaia di barconi. Poco più ad est c’è la città di Zawiya, feudo di un’altra brigata importante, quella denominata “Al Nasr”. Un gruppo che controlla anche alcuni centri di detenzione di migranti. Zawiya è anche la città di Abdou Rahman, meglio noto come Bija. Si tratta di uno dei trafficanti più temuti, ma al tempo stesso in passato ha vestito anche la divisa della Guardia Costiera libica. Anzi nel maggio 2017 era nella delegazione invitata al Cara di Mineo per discutere di immigrazione. Oggi risulta a piede libero dopo alcuni mesi di detenzione. In Libia però il mercato degli esseri umani non coinvolge soltanto i criminali delle città costiere. Nel Fezzan tribù legate ai Tebu o ai Tuareg garantiscono l’accesso delle carovane dal Niger o dal deserto algerino, in cambio ovviamente di importanti profitti. Anche loro fanno parte di quelle reti che aiutano i trafficanti a spedire i gommoni in mare.

Le partenze dal Sahel. Quando si parla di sbarchi di cittadini che provengono dal Sahel o dal Corno d’Africa, il primo pensiero va al Niger. Il Paese si trova in una zona strategica per il traffico di migranti per due principali caratteristiche: confina con la Libia e aderisce alla Cedeao. Questo fa sì che in migliaia risalgono senza particolari problemi dall’Africa occidentale e, una volta giunti ad Agadez, si servono dei carovanieri e dei “passeur” per provare ad accedere in territorio libico. Ha quindi qui sede la vera genesi del flusso migratorio verso il Mediterraneo e l’Europa. Dall’altra parte del continente invece, uno snodo cruciale è rappresentato dal Sudan. In questo Paese convergono i migranti risalenti soprattutto da Eritrea, Etiopia e Somalia. Due assi che da anni costituiscono la linfa della tratta di esseri umani.

Le reti di trafficanti tra Niger e Sudan. Nelle due direttrici principali da cui i migranti risalgono dal Sahel verso la Libia, sono diversi i gruppi criminali impegnati. Nel solo Niger le autorità locali hanno fatto sapere di aver smantellato dal 2018 ad oggi qualcosa come 59 reti di trafficanti. Si tratta di gruppi ramificati tra la capitale Niamey ed Agadez in grado di portare verso il territorio libico migliaia di persone. In Niger l’aiuto all’immigrazione verso la Libia è diventato illegale con la legge 036 del 2015. La polizia del Paese africano è intervenuta duramente soprattutto dopo il 2017, con l’aiuto delle forze speciali spagnole. Risale al 2018 l’arresto di Ajja Al-Jouma, soprannominato Oga Bouzou, “boss Tuareg” in lingua Hausa. Sarebbe lui la vera mente dei trafficanti nigerini. Altre operazioni di polizia sono state compiute nel 2019 e hanno portato all’arresto di Abdallah Malohiya e Alhagie Gambo, altre due figure criminali di spicco. L’intervento delle forze nigerine ha parzialmente chiuso la rotta verso la Libia. Una fonte dell’Ong Cisv contattata da InsideOver ha confermato questa impressione: “Molti migranti rimangono per anni ad Agadez – ha fatto sapere – segno che da qui sempre più di rado si va oltre”. Sarebbe invece ben attiva la rotta dal Sudan. L’intelligence italiana sostiene da anni l’esistenza nella capitale Khartoum di un vero e proprio hub migratorio per chi risale dal Corno d’Africa. Tra i trafficanti più ricercati spicca la figura di Medhanie Yehdego Mered. Nel 2016 sembrava essere arrivata una svolta per la sua cattura, ma il soggetto arrestato a Khartoum e trasferito in Italia per il processo in realtà non era lui. Si è trattato in quel caso di un clamoroso scambio di persona.

Il caso Nigeria. Un capitolo a parte merita la Nigeria. Dal più popoloso Paese africano i migranti si incanalano verso il Sahel e arrivano in Libia tramite il Niger. Ma le dinamiche rispetto ai vicini sono diverse. Qui a comandare sul traffico dei migranti sono le temibili confraternite. È questo il nome dei clan della mafia nigeriana, nata proprio dalle confraternite universitarie di alcune delle più importanti città del Paese. I clan già dagli anni 2000 hanno messo le mani sulla tratta di esseri umani. Vengono avviate verso l’Europa migliaia di ragazze destinate poi alla prostituzione e migliaia di ragazzi sono incanalati invece verso il mercato della droga. Le confraternite sono radicate tanto in patria quanto all’estero: dalla Nigeria i boss fanno partire i migranti, poi i loro “soldati” li seguono nel Sahara e altri affiliati li prendono in consegna in Libia. Una volta in Italia, i clan ramificati soprattutto tra la Sicilia e la costa domiziana smistano i migranti tra il mercato della prostituzione e quello della droga. Spesso infondendo terrore usando anche i riti voodoo, i trafficanti nigeriani controllano le loro vittime giunte nel nostro Paese. Tra le confraternite più attive in tal senso si segnalano i Viking, i Black Axe, i Machete e gli Eyie.

La situazione nelle Americhe. Anche nel continente americano sono presenti flussi migratori di una certa portata. Tra le mete da raggiungere, quella degli Stati Uniti rappresenta la massima ambizione. Qui si arriva solo dopo aver attraversato il Messico dove confluiscono i migranti provenienti dall’America latina. Dal continente sudamericano si parte soprattutto dal Venezuela, Paese da anni in grave difficoltà economica. Snodo fondamentale per i flussi migratori è rappresentato dall’Ecuador. Qui convergono sia gli immigrati sudamericani che quelli giunti dall’Africa per via aerea. Si risalgono poi i territori di Panama, Nicaragua, El Salvador, Guatemala e Honduras. Il contesto è tra i più pericolosi. Si vive per giorni o anche per mesi tra le giungle del centro America e tra gli impervi territori del nord del Messico.

L’attività dei Coyotes in nord America. La gestione del mercato di esseri umani tra Messico e Usa è in mano a dei gruppi organizzati in grado di sfruttare le falle della sicurezza al confine tra i due Paesi. Diversamente da quanto si possa pensare, non si tratta degli stessi gruppi che gestiscono la tratta degli stupefacenti dal sud America. I clan impegnati nell’immigrazione sono denominati “Coyotes”: sono loro a prendere in consegna migliaia di disperati, trattenendoli a volte con la forza prima di lasciarli vagare nelle giungle e negli impervi territori di frontiera. Secondo l’Inami, l’Istituto National de Migracion (l’ente messicano che monitora la situazione sul fronte migratorio), i Coyotes si fanno pagare fino a 12mila Euro per un singolo viaggio. Se un migrante non paga quanto pattuito, potrebbero scattare torture e sequestri. A volte la destinazione è solo un miraggio: la polizia messicana negli ultimi anni ha trovato nei posti più impervi centinaia di cadaveri, probabilmente migranti abbandonati dai Coyotes per via dei mancati pagamenti.

Il nuovo business dei trafficanti: far scappare i prigionieri dell’Isis dalle carceri siriane. Daniele Bellocchio su Inside Over il 18 giugno 2021. Il Califfato è crollato e l’Isis è stato sconfitto. Questo è quanto apparentemente il mondo sa del destino del sedicente Stato islamico. Ma la realtà è molto più complessa rispetto a quanto appare a una prima lettura delle carte e delle analisi geopolitiche. Ci sono infatti molti risvolti secondari che rivelano invece come Daesh continui a essere pulsante, come una ferita infetta, e abbia ancora l’intonazione di un canto di sirene per ex combattenti jihadisti e foreign fighters europei. E uno degli aspetti più inquietanti di questa resilienza islamista è emerso da un’inchiesta pubblicata dal settimanale Jeune Afrique che rivela come oggi molti prigionieri di Daesh, reclusi nei campi di detenzione in Siria, fuggano dai centri di prigionia, affidandosi a dei trafficanti, per raggiungere nuovi Paesi dove il jihad cova sotto le ceneri o per dar vita a sacche di resistenza islamica in alcune zone della Siria e dell’Iraq. Il prezioso lavoro giornalistico realizzato da Ines Daif e Stephane Kenech si concentra in particolar modo sulle mogli degli jihadisti e sui loro figli. Donne, in diversi casi europee che, dopo aver abbandonato il vecchio continente per andare ad allargare le fila del Califfato, sono state imprigionate ma non hanno abiurato il loro passato di mujhaidin, anzi continuano a sognare un futuro da guerrigliere o martiri tanto che le loro evasioni dai campi di prigionia hanno come ultimo approdo soprattutto il Pakistan, l’Afghanistan o l’Iraq. L’indagine ha avuto inizio dopo un SOS lanciato nel 2020 da Jean Charles Brisard, presidente del CAT, Centre d’analyse du terrorisme, uno dei centri di ricerca più professionali d’Europa in materia terrorismo e formazioni jihadisti, che ha fatto sapere all’opinione pubblica internazionale che Souad Benalia, francese e ex moglie di un veterano jihadista reduce dell’Afghanistan e morto in Siria, era sparita dal campo di detenzione di Al Hol. Un campo controllato dalle Forze Democratiche Siriance, un’alleanza di milizie a maggioranza curda costituitesi formalmente nel 2015. È stata questa notizia a spingere i due giornalisti di Jeune Afrique a indagare e cercare di capire come e dove fosse sparita la vedova jihadista. I giornalisti si sono quindi messi in moto e si sono recati nel campo di Al Hol in Siria, e qui sono riusciti ad avere una dichiarazione tanto preziosa quanto inquietante: ”Vi confermo che non è stata la sola donna ad aver lasciato il campo in quel periodo, ma altre due jihadiste prigioniere, di origine francese, negli stessi giorni sono fuggite”. E a dichiararlo è stato il passeur stesso che ha aiutato le donne a fuggire. Dopo questa dichiarazione i cronisti hanno iniziato a indagare per capire la portata del fenomeno. Quello che è emerso è che nato un nuovo business per i trafficanti di uomini, arricchitisi prima nel portare i profughi al di là delle frontiere e ora riciclatisi nel fare lo stesso lavoro ma non più per le vittime ma per i carnefici. Leggendo i dati del report si scopre che per le mogli di combattenti e martiri di Daesh il contrabbandiere prende tra i 5.000 e i 7.500 dollari se la donna è irachena, e prende dai 10.000 ai 15.000 dollari se è straniera. A dichiaralo ai giornalisti è un passeur che ha voluto però restare anonimo e che poi ha proseguito dicendo: ”I trafficanti, come me, si mettono d’accordo con una delle guardie del campo e la corrompono pagandogli un’ ingente somma perché lasci fuggire le prigioniere e talvolta veniamo contattati direttamente dai parenti del membro di Daesh che offrono anticipatamente una cospicua somma perché si faccia evadere il parente. I contrabbandieri sono persone che hanno molte connessioni”. Quello che emerge ora, leggendo le dichiarazioni, è che le rotte variano in base alla destinazione finale dei fuggitivi. E ora una nuova via è stata aperta, quella che attraverso il nord dell’Iraq che, da un lato è molto pericolosa perché, qualora dovessero essere intercettati, i fuggitivi rischierebbero la pena di morte ma dall’altro lato permette di raggiungere più agilmente i territori dove è ancora presente Daesh come nelle regioni oltre il fiume Khabur, nella provincia di Saladin e in quella di Anbar. E inoltre, si viene a sapere leggendo il testo del reportage, che molti degli evasi poi provano a riparare in Afghanistan dal momento che ci sono cellule dormienti di ISIS che stanno cercando di rafforzarsi in modo silenzioso e latente in previsione del ritiro delle forze della coalizione internazionale. Il responsabile del campo di Al Hol, parlando con i due cronisti ha spiegato che una lista e un controllo completo di tutti i prigionieri non c’è e che le autorità che amministrano il penitenziario sono al corrente dell’evasione di diverse prigioniere europee, non solo francesi ma anche svedesi, che sono fuggite per unirsi ai gruppi di Daesh. L’evasione non è una fuga immediata è fatta di tante tappe e tanti ingranaggi da ungere. Guardie di frontiera, autisti, miliziani e cittadini che mettono a disposizione le proprie case nei punti di frontiera dove nascondono i latitanti di giorno e aspettano il calare della notte per fare loro attraversare i confini. Ma non sono però soltanto le frontiere porose del Medio Oriente ad essere interessate da questo flusso latente di evasi e terroristi in fuga. C’è anche una rotta che interessa da vicino l’Europa e a far emergere l’inquietante particolare è la testimonianza ottenuta da un attivista siriano che sulle colonne del settimanale ha aggiunto: “Alcuni fuggiaschi fanno un altro percorso che non mira ad est ma ad ovest. Attraversano la Turchia e poi da Iskenderun si dirigono a Port Said, in Egitto, in traghetto. Alcuni si fermano in Egitto altri invece proseguono e da lì si dirigono dapprima in Maghreb e infine in Europa”.

Ora l'Ong prende a schiaffi pure la lingua italiana: ecco perché. Giuseppe De Lorenzo il 16 Giugno 2021 su Il Giornale. Mediterranea Saving Humans si accoda alla moda dei Murgia nostrani: addio desinenza maschile universale, arriva la "schwa". In principio fu il Comune di Castelfranco Emilia. Poi s’è accodata la mai doma Michela Murgia. E ora tocca alla Ong dell’ex no global Luca Casarini. Direte: cosa accomuna questi tre soggetti del panorama politico, mediatico e istituzionale italiano? La passione per il perbenismo linguistico. O meglio per il politicamente correttissimo fluidismo di genere applicato al dizionario e alla grammatica italiana. Un paio di mesi fa il sindaco (ovviamente del Pd) del paesino nel Modenese ha dato il “la” all’uso della “schwa” nei comunicati ufficiali del Comune. In pratica il malcapitato redattore dell’ufficio stampa (spero che nel frattempo si sia dimesso) s’era trovato a redigere ogni benedetto testo declinando al neutro le parole di genere maschile universale. Nella pratica, un inferno in cui le pene hanno la forma di questo segno fonetico “ə” a metà tra le “a” e la “e”. Tipo: “buongiorno a tuttə”, “gentilissimə”, “carə concittadini” e orrori linguistici simili. Uno sgorbio. Che aveva come obiettivo - sentite un po’ - quello di “plasmare” il “modo in cui pensiamo, agiamo e viviamo le relazioni”. Plasmare, capito? Volevano (e probabilmente vogliono ancora) modificare il pensiero in favore di una irragionevole neutralità di genere. Che ha come unico effetto immediato quello di rendere praticamente incomprensibile un testo. E visivamente fastidiosa la lettura dei giornali. Già, perché sulla scorta di quanto creato dal geniale sindaco di Castelfranco, qualche giorno fa la sempre informatissima Murgia ha ben pensato di copia incollare l’idea sulle pagine di un quotidiano nazionale. Il direttore Massimo Giannini forse non l’avrà visto prima, o forse sì e sarebbe pure peggio, ma alla fine La Stampa è finita sulle rotative con un testo pieno zeppo quel simbolo della barbarie radical chic. Una roba inutile, che col femminismo e il superamendo del gender gap c’entra come il cavolo a merenda, ma che fa fighissimo. Ed è di tendenza. Tanto di moda che ieri in un tweet passato quasi inosservato, anche Mediterranea Saving Humans ha sposato la stessa banale battaglia. “Duecento donne, uomini e bambini DEPORTATƏ illegalmente in #Libia", ha scritto su Twitter. E non si capisce se quel maiuscolo serva a sottolineare la presunta “deportazione” oppure far notare la schwa. Fatto sta che l’Ong travolta dalle indagini, nell’attesa di rimettere in acqua la Mare Jonio in vista dell’estate, intanto si prodiga a posizionarsi nel podio dei radical linguistici. Ci attendiamo nei prossimi giorni comunicati con l’abuso di “migrantə”, “richiedentə asilo”, “profugə” e via con altre storpiature dello stesso calibro. Perché dal buonismo migratorio al fluidismo letterario è un attimo. E i Casarini Boys non si sono fatti sfuggire l’occasione.

Giuseppe De Lorenzo. Sono nato a Perugia il 12 gennaio 1992. Stavo per intraprendere la carriera militare, poi ho scelto di raccontare quello che succede in Italia e nel mondo. Rifuggo l'ipocrisia di chi sostiene di possedere la verità assoluta: riporto la realtà che osservo con i miei occhi. Collaboro con ilGiornale.it dal 2015. Nel 2017 ho pubblicato Arcipelago Ong 

L'ultimo regalo dei giallorossi: le toghe liberano le Ong. Mauro Indelicato il 18 Giugno 2021 su Il Giornale. Il precedente governo ha tolto le multe alle Ong e oggi la nave Eleonore, come certificato dalla sentenza del tribunale di Ragusa, può tornare in mare: via la confisca e la maxi multa al proprietario. Via la sanzione e annullata la confisca. La nave Eleonore della Ong tedesca Mission Lifeline può tornare nelle mani del suo proprietario e soprattutto può tornare nuovamente in mare. Una conseguenza diretta delle mosse degli esponenti "giallorossi" della precedente maggioranza. Il 16 giugno infatti il tribunale civile di Ragusa ha annullato le precedenti sanzioni, applicando i nuovi decreti sicurezza approvati dai giallorossi durante il governo Conte II.

La vicenda. Tutto nasce nell'estate del 2019, quella più calda nel contesto del braccio di ferro tra Ong e l'allora ministro dell'Interno Matteo Salvini. Quest'ultimo, quando la vicenda Eleonore si sviluppa, per la verità da qualche giorno non è più titolare del Viminale in quanto l'esecutivo gialloverde ha già preso la via del tramonto. Ma sono in vigore in quel momento i decreti sicurezza da lui fortemente voluti e approvati l'8 agosto 2020, dodici giorni prima della caduta del Conte I. Il 2 settembre la nave Eleonore entra in acque italiane con a bordo 101 migranti e si dirige verso Pozzallo, violando alcune norme sia dei decreti di Salvini che del d. lgs. 286/1998, più comunemente noto come “legge Turco/Napolitano”. Per questo, una volta approdata nel porto della cittadina siciliana, a bordo della Eleonore salgono gli uomini della Guardia di Finanza i quali notificano all'equipaggio il decreto di fermo amministrativo cautelare. La vicenda è poi andata avanti nei mesi successivi. Nel gennaio 2020 in particolare, la prefettura di Ragusa, in applicazione dei decreti sicurezza, ha emanato un'ingiunzione da più di 300mila Euro al proprietario della Eleonore, l'imprenditore tedesco Claus Peter Reisch, così come anche la confisca della nave.

La decisione del giudice di Ragusa. Sanzioni e atti che oggi non esistono più. Il giudice della sezione civile del tribunale di Ragusa infatti, ha annullato sia la confisca che la maxi multa al proprietario. Questo in applicazione del “principio costituzionale e convenzionale di retroattività della legge più favorevole”, si legge nella sentenza. Infatti nel frattempo sono cambiate le norme. Nell'ottobre 2020 in materia di immigrazione è sopraggiunto un altro decreto, emanato questa volta dal governo Conte II. Si tratta del decreto 130/2020, con il quale buona parte dell'impalcatura delle norme volute dall'allora ministro Matteo Salvini è stata di fatto smontata. “Il Ministro dell'interno, di concerto con il Ministro della difesa e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, e previa informazione al Presidente del Consiglio dei ministri si legge nel nuovo testo – può limitare o vietare il transito e la sosta di navi nel mare territoriale, salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale. Non trovano comunque applicazione le disposizioni del presente comma nell'ipotesi di operazioni di soccorso”. Dunque le navi Ong non sono oggetto di sanzioni, se non molto limitate nei casi più gravi: “Nei casi di inosservanza del divieto o del limite di navigazione stabilito al periodo precedente – si legge ancora nel decreto 130/2020 – si applica l'articolo 1102 del regio decreto 30 marzo 1942, n. 327 e la multa è da Euro 10.000 ad Euro 50.000”. Del resto quello di togliere le maxi multe alle Ong era proprio uno degli obiettivi della precedente maggioranza giallorossa. Gli intenti, a giudicare dalla sentenza di Ragusa, sono stati raggiunti.

Quel "capriccio" della sinistra che rende l'Italia meno sicura. Sofia Dinolfo e Mauro Indelicato il 7 Ottobre 2020 su Il Giornale. Colpo di spugna della maggioranza giallorossa che ha cancellato i decreti voluti da Salvini sull'immigrazione. Ecco come si è arrivati alle nuove norme. Un taglio netto col recente passato attraverso dei nuovi decreti sicurezza che nulla hanno a che vedere con quelli voluti dall’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini nel precedente governo gialloverde. Così il governo Conte II ha avviato un nuovo capitolo sulla gestione del “sistema migranti” rispecchiando la volontà del Pd che, sin dal momento dell’insediamento, ha puntato sulla volontà di cancellare l’operato di Salvini. Accoglienza ad ampio raggio, protezione umanitaria, divieto di respingimenti con la cancellazione delle sanzioni per le Ong: è questo il fulcro delle nuove norme proposte dal ministro dell’Interno Luciana Lamorgese e approvate in meno di un’ora e mezza dal consiglio dei ministri. Il colpo di spugna dato ai “vecchi” decreti sicurezza non poteva di certo essere ben accolto da colui che n’è stato l’artefice: “Questi passano il tempo a smontare invece che a costruire”, ha detto Matteo Salvini proseguendo: “A quello che ho letto, li chiamerei ‘decreti clandestini’. Si torna esattamente alla mangiatoia sull’immigrazione clandestina e ai permessi regalati a chiunque cammina per strada e agli sbarchi a migliaia. Non so che cosa abbiano da festeggiare”.

Il contesto politico in cui sono maturati i due decreti voluti da Salvini. Il leader della Lega, una volta insediatosi al Viminale nel giugno 2018 dopo l'accordo di governo con il M5S, ha voluto subito imprimere il proprio orientamento sulla gestione dell'immigrazione. È in questo contesto che la maggioranza gialloverde ha approvato il primo decreto sicurezza il 5 ottobre 2018. La nuova norma ha abbracciato anche altri ambiti oltre quello relativo all'immigrazione, tuttavia i punti divenuti oggetto di intenso e aspro dibattito tra le varie forze politiche riguardavano la gestione dell'accoglienza. Stesso scenario che si è poi ripetuto alcuni mesi più tardi, quando nel giugno del 2019 il consiglio dei ministri ha dato il via libera al “decreto sicurezza bis”, la cui approvazione definitiva è avvenuta il 5 agosto 2019. Dunque nel pieno del braccio di ferro tra il Viminale guidato da Salvini e le Ong, con queste ultime che in più occasioni hanno sfidato i divieti previsti dai decreti sicurezza. Non a caso, tra i detrattori del decreto sicurezza vi era anche Carola Rackete, la capitana della Sea Watch 3 che a Lampedusa nel giugno 2019 ha speronato a Lampedusa una motovedetta della Guardia di Finanza: “L'Italia ha approvato legge contro il diritto internazionale – ha dichiarato al parlamento europeo il 3 ottobre Rackete – Credo che sia stato delineato che le operazioni di ricerca e soccorso rientrano nel diritto internazionale. Non so come l’Italia abbia approvato una legge che non rispetta il diritto internazionale e del mare”. In occasione dell’approvazione del secondo decreto sicurezza, dal Quirinale sono arrivati alcuni rilievi riguardanti soprattutto presunte difformità con l’articolo 10 della Costituzione.

Com’è cambiato il decreto sicurezza. Con un colpo di spugna è stato riscritto praticamente un nuovo decreto sicurezza che non ha legami con quello precedente. Andiamo con ordine partendo dal trattamento malleabile nei confronti delle Ong. Se nei decreti di Salvini le multe nei confronti di queste organizzazioni potevano arrivare anche ad un milione di Euro, adesso il tetto massimo è di 50.000 Euro. La multa non verrà applicata in caso di notifica di azione di salvataggio da parte delle Ong. Cambia anche il sistema dei Siproimi: se prima qui si ospitavano solo le persone che avevano ottenuto il diritto di asilo, adesso in questi istituti potranno ritornare anche i richiedenti tale diritto. Per loro è prevista anche la possibilità di iscriversi all'ufficio anagrafe. Nei nuovi decreti si ripristina l’istituto di protezione umanitaria che nei decreti di Salvini era stata sostituita dalla protezione speciale. Si parla ancora di protezione speciale ma sono state ampliate le casistiche per le quali verrà concesso il diritto sulla stregua della protezione umanitaria appunto. Nessun diniego alla richiesta dei migranti che dichiarano di rischiare la tortura nel loro Paese, per cui è presumibile che arrivino richieste di massa. Altra novità è legata alla possibilità per il tribunale dei minori di autorizzare l'arrivo in Italia del genitore di un minore non accompagnato “per gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico e tenuto conto dell'età e delle condizioni di salute del minore”. Ed ancora, non si potranno espellere migranti se l'azione “determini il rischio di una violazione del diritto alla vita privata e familiare”. Non mancano le novità per quanto concerne i centri di rimpatrio. Qui i migranti potranno essere trattenuti per un massimo di 90 giorni, a fronte dei 180 precedenti, estensibili di altri 30 se si attende la risposta di uno Stato che ha stipulato con l'Italia un accordo di riammissione.

Uno sgarbo a Salvini. Quando nel settembre del 2019 si è insediato il nuovo governo Conte, subito all'interno della nuova maggioranza giallorossa è emersa la spinta per cancellare i decreti sicurezza voluti da Matteo Salvini. A premere maggiormente è stato il Pd: soprattutto dall'area più a sinistra del partito, si è iniziato a parlare di “discontinuità” sulle politiche migratorie, con il chiaro intento di ridimensionare la portata delle norme a firma del segretario della Lega. Una volontà quindi ben precisa: tagliare e tranciare di netto quei documenti che nei 18 mesi di governo con Lega e M5S hanno rappresentato il principale atto dell'ex titolare del Viminale. Un vero e proprio sgarbo personale rivolto a Salvini, inquadrabile nel contesto stesso della nascita del Conte II, la cui maggioranza giallorossa ha avuto nell'anti salvinismo uno dei pochi collanti. Se lo sgarbo si è potuto materializzare soltanto dodici mesi dopo l'insediamento del governo formato da Pd e M5S, è stato per via di diverse contingenze. A cominciare dai malumori grillini, i quali non gradivano una repentina discontinuità con i decreti sicurezza per non smentire sé stessi nel giro di poche settimane. Nell'agosto del 2019 era stato il M5S a votare positivamente con la Lega per l'approvazione dei decreti. A marzo invece è stato il coronavirus a rallentare i propositi del centro – sinistra. Superata la fase acuta della pandemia, alla prima occasione utile di ottobre il taglio di penna sulle norme di Salvini è diventato realtà. Lo sgarbo quindi è stato attuato e dal Pd si è iniziato a festeggiare.

Perché proprio adesso le modifiche ai decreti? Cambiare adesso le norme volute da Salvini avrà delle conseguenze sui flussi migratori? La domanda, al termine di un'estate che ha segnato numeri che sull'immigrazione non si vedevano da almeno due anni, sorge spontanea. Secondo Vittorio Emanuele Parsi, politologo e docente dell'Università Cattolica, per la verità le nuove norme non avranno un grande impatto sui flussi: “Non è certo con le grida manzoniane che si ferma l'immigrazione – ha dichiarato il professore a IlGiornale.it – Vecchi e nuovi decreti potrebbero avere un impatto limitato sui numeri”. Questo perché in realtà gli elementi determinanti per gli sbarchi sono da rintracciare altrove: “I decreti valgono per la gestione interna dell'immigrazione – ha continuato Parsi – Ma l'Italia per poter frenare il flusso migratorio deve agire su altri fronti, ad esempio cercando accordi con altri Paesi, in primis quelli dirimpettai, per fermare le partenze”. “Il punto – ha poi proseguito il docente della Cattolica – è che da un lato c'è la necessità di chi scappa e vuole raggiungere l'Europa, dall'altro c'è la necessità del controllo dei confini di chi riceve il flusso migratorio. Per governare questi fenomeni i decreti possono fare ben poco. Serve invece un approccio europeo, una condivisione dei problemi a livello comunitario”. A parte i rilievi su alcuni punti mossi dal Quirinale, per il resto non sono emersi elementi tali da giustificare fretta nell'approvazione dei nuovi decreti. Al contrario, forse occorreva concentrarsi più sugli accordi con i Paesi da cui si originano i flussi o sui dossier inerenti il nord Africa, a partire da quello libico. E allora a emergere è un'altra domanda: qual era la necessità di accelerare proprio in questa fase politica sulle modifiche ai decreti?

Sofia Dinolfo. Sono nata il 30 marzo del 1982 ad Agrigento e sin da piccola ho chiesto ai miei genitori un microfono per avvicinarmi a chi mi stesse vicino e domandare qualsiasi cosa mi passasse per la mente. Guardavo i telegiornali e poi imitavo i giornalisti raccontando a modo mio quello che avevo appena ascoltato. Quella passione non mi ha mai abbandonato pur intraprendendo, una volta cresciuta, gli studi di Giurisprudenza. Appena laureata, non ho pensato di fare l’avvocato ma di andare avanti con il settore del giornalismo che nel frattempo non avevo mai accantonato coltivandolo come hobby. Ed ecco che poi sono arrivate le prime esperienze lavorative effettive...

Mauro Indelicato. Sono nato nel 1989 ad Agrigento, città in cui dirigo il locale quotidiano InfoAgrigento.it. Nel marzo 2017 conseguo la laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali presso l’Università degli Studi di Palermo, città dove sviluppo la mia curiosità per il Mediterraneo, per i suoi popoli e per le sue culture che da secoli arricchiscono una delle aree più suggestive del pianeta. Inizio la mia attività giornalistica nel marzo del 2009 con alcune...

Gian Micalessin per "il Giornale" il 9 giugno 2021. Alla fine l'hanno capito. E certificato. Ma per intuire che Frontex, l'agenzia per il controllo delle frontiere della Ue con sede a Varsavia, «non è idonea a contrastare l'immigrazione illegale e la criminalità transfrontaliera» non serviva la «relazione speciale» della Corte dei Conti Europea pubblicata lunedì scorso. Per capire che Frontex serve soltanto a dilapidare i soldi dei contribuenti europei bastava guardare quanto succede da anni sulle coste della Grecia, nel canale di Sicilia e nelle enclavi spagnole di Ceuta e Melilla. O, volendo spaziare nel campo della criminalità e del terrorismo, bastava verificare quanti presunti attentatori in viaggio verso l'Europa sono stati bloccati dagli agenti di Frontex: si contano sulle dita di una mano. Mentre sul fronte dell'immigrazione fanno testo i resoconti sull'arrivo in Europa negli ultimi dieci anni di svariati milioni di migranti penetrati attraverso le tre principali rotte del Mediterraneo. E allora quel che all'apparenza sembrava semplice inefficacia si è rivelata fallimentare catastrofe. Il rapporto costi-benefici di Frontex o, meglio, il rapporto tra investimenti e risultati basterebbe a far chiudere per bancarotta qualsiasi azienda privata. In questo caso parliamo di una forza di polizia creata nel 2004 forte, nel 2019, di 750 agenti e di una dotazione finanziaria pari a 450 milioni di euro all'anno. Considerando i risultati quei 450 milioni gettati alle ortiche ogni anno rappresentano uno scialo non indifferente. Ma bisogna considerare anche l'altro lato della medaglia: 750 uomini in divisa rappresentano il dispositivo di sicurezza impiegato in caso di disordini in una grande città non certo una forza sufficiente a garantire la difesa dei confini europei. E quando si è incominciato a incrementare il numero degli agenti, in vista del raggiungimento dei 10mila effettivi entro il 2027, i risultati di Frontex non sono migliorati. In compenso si sono moltiplicati i costi destinati a raggiungere, secondo le previsioni, i 900 milioni l'anno entro il 2027. Il problema di questo ulteriore fallimento, secondo l'analisi della Corte, va ricercato in uno sviluppo di Frointex «non corroborato da alcuna valutazione preliminare». Si è attinto a risorse senza chiedersi a cosa servissero soldi e agenti aggiuntivi. Sulla base di questi elementi la Corte arriva alla conclusione che Frontex oltre a non aver «pienamente adempiuto» al mandato ricevuto nel 2016 per sostenere gli Stati membri nella lotta all'immigrazione illegale e alla criminalità transfrontaliera stenta anche a «svolgere efficacemente il nuovo ruolo operativo che le è stato assegnato». Leo Brincat, membro della Corte responsabile della relazione affonda il dito nella piaga ricordando che «le mansioni affidate a Frontex alle frontiere esterne dell'Ue sono fondamentali per la lotta alla criminalità transfrontaliera e all'immigrazione illegale ma nondimeno, Frontex non le assolve con efficacia». L'inefficacia dell'Agenzia, guidata dal francese Fabrice Leggeri, è dovuta anche alle illusorie ipocrisie di un'Unione convinta di poter sigillare le proprie frontiere evitando azioni come il respingimento. Nel mondo dei sogni europei non è chiaro quali mezzi potrebbero usare gli agenti di Frontex per evitare gli sbarchi. E qualora dovessero vedersela con i terroristi non potrebbero tirar fuori neanche un temperino. Ad oggi infatti l'Ue non ha ancora studiato leggi che consentano ai presunti guardiani delle sue frontiere di portare un'arma.

Le Ong fanno le vittime: "Ecco perché mentono". Sofia Dinolfo e Mauro Indelicato il 6 Giugno 2021 su Il Giornale.  Dopo le richieste avanzate dalle Ong al Viminale, è arrivato il momento di fare chiarezza su alcune pretese impossibili. Gridare alla criminalizzazione del loro operato per provare ad avere un ruolo determinante nella gestione del fenomeno migratorio nel Mediterraneo: è questa la strategia messa in campo anche nelle ultime settimane dalle Ong. Nei giorni scorsi la nave Sea Eye 4 è stata ad esempio raggiunta da un nuovo provvedimento di fermo amministrativo e Luca Casarini, capomissione della Mare Jonio, ha subito puntato il dito contro il governo: “È chiaro che il Comando delle Capitanerie di porto – ha dichiarato – riceve ordini in questo senso dal governo”. Ma le cose non stanno così. E dalla stessa Guardia Costiera spiegano il perché.

Le Ong escono allo scoperto. Il 28 maggio scorso la nuova puntata della strategia delle Ong ha avuto luogo al Viminale, dove si è tenuto un incontro con il ministro Luciana Lamorgese. Qui, i rappresentanti delle organizzazioni hanno messo mani avanti mischiando il mazzo delle carte in tavola davanti la padrona di casa. Sulla scrivania sono state lasciate una serie di proposte per la tutela della loro attività che consiste nel transitare a largo delle coste libiche, raccogliere i migranti in navigazione e portarli in Italia come taxi del mare. La nostra Nazione, pur non essendo l'unica europea ad affacciarsi nel Mediterraneo, da diverso tempo è divenuta il luogo in cui le imbarcazioni delle Organizzazioni Non Governative “scaricano” gli stranieri. Un meccanismo consolidato nel tempo che assume erroneamente i connotati di una prassi. Ed ecco che è stato chiesto un maggiore impegno all’Italia "di istituire un efficace sistema di ricerca e soccorso che abbia come scopo primario quello di salvaguardare la vita umana nel Mediterraneo”. Criticando anche le scelte di cooperazione del governo di Roma con la Libia, pur non avendone titolo e competenza, i rappresentanti delle Ong hanno chiesto al ministro “di riconoscere le organizzazioni umanitarie”. Ma ciò non è bastato, perché altro obiettivo per le delegazioni è stato quello di apparire come organizzazioni bersagliate dai provvedimenti di fermo amministrativo: hanno infatti chiesto la rimozione dei provvedimenti sulle navi ancora bloccate.

“Nei porti italiani ci sono tante navi oltre le Ong in stato di fermo amministrativo”. “Abbiamo chiesto- si legge in una nota delle Ong - alla ministra di riconoscere il ruolo delle organizzazioni umanitarie, colpite dalla criminalizzazione, liberando le nostre navi ancora sotto fermo". Una richiesta che non può essere avanzata in questi termini perché significherebbe rivoluzionare il sistema normativo italiano e comunitario. Le norme ci sono, vanno rispettate da tutti e, di conseguenza, le violazioni, prevedono per tutti le stesse sanzioni. Sabato un nuovo fermo amministrativo ha raggiunto la nave Sea Eye 4, dell'omonima Ong tedesca. Luca Casarini, capomissione di Mare Jonio, ha rincarato le polemiche: “Ancora una volta una nave del soccorso civile, dopo aver onorato quella legge del mare e quelle Convenzioni internazionali che impongono di soccorrere chi chiede aiuto nel Mediterraneo, è sottoposta a pretestuosi quanto arbitrari controlli che la bloccano in un porto – ha dichiarato Casarini all'AdnKronos – È chiaro che il Comando delle Capitanerie di porto riceve ordini in questo senso dal governo”.

A chiarire su IlGiornale.it come si svolgono le attività di controllo delle imbarcazioni che sostano nei porti italiani è una fonte della Guardia costiera: “Il fermo amministrativo – ci dice la fonte - è un’attività che la Capitaneria di porto e la Guardia costiera svolgono ai fini della sicurezza della navigazione. Nello specifico vengono effettuati due controlli. Il primo nei confronti delle Unità che battono bandiera italiana in merito alle certificazioni che le navi devono avere per navigare e svolgere le funzioni per le quali sono state dichiarate idonee. Il secondo controllo viene svolto nei confronti delle navi battenti bandiera straniera che fanno scalo nei porti italiani". L'esperienza del 2020 insegna: "Lo scorso anno – prosegue la fonte - abbiamo ispezionato più di 1200 navi battenti bandiera estera. Almeno 60 sono state fermate e non sono state tutte Ong. Quindi non c’è alcun ostracismo verso le imbarcazioni appartenenti a queste organizzazioni”. La Commissione europea ha emesso una specifica raccomandazione affinché le Unità civili delle Ong che svolgano attività di ricerca e soccorso in mare siano certificate per lo svolgimento di quelle funzioni. “Alcuni Stati – spiega la fonte - si sono adeguati come Spagna e Norvegia. Altri, in particolare la Germania, non lo hanno fatto. Ad oggi la situazione è che ci sono Ong certificate e altre no”.

La posizione di Luciana Lamorgese. Il titolare del Viminale ha fatto intendere di aver recepito o quanto meno compreso le istanze delle Ong. Del resto l'iniziativa dell'incontro è stata proprio sua: “Io ho già ricevuto tutte le Ong – aveva annunciato Luciana Lamorgese lo scorso 19 maggio durante l'audizione al comitato parlamentare di controllo sull'attuazione di Schengen – e credo che la prossima settimana le riunirò ancora”. Da qui una posizione non certamente contraria alle Ong, circostanza quest'ultima stigmatizzata da alcuni esponenti della maggioranza ed etichettata come un segnale di debolezza: "Il comportamento del ministro dell'Interno – ha dichiarato su IlGiornale.it il docente della Cattolica Vittorio Emanuele Parsi – trova base probabilmente sulla necessità di lavorare su due binari: da un lato cercare la solidarietà europea, dall'altro evitare nuovi morti in mare”. Anche perché, sempre secondo Parsi, ci si sta avviando verso una stagione contrassegnata da un gran numero di partenze soprattutto dalla Libia: “Tante partenze equivalgono a tanti morti, più si parte e più cresce il numero delle persone che muoiono in mare – ha aggiunto il docente – in questo senso il ministro ha preferito scegliere la via del dialogo con chi materialmente sta in mare”. Una soluzione che sotto il profilo politico potrebbe generare problemi: “All'interno dell'attuale maggioranza ci sono più anime – ha dichiarato Parsi – l'iniziativa della Lamorgese non è piaciuta alla Lega e potrebbe generare in futuro ulteriori tensioni”.

“Dal consiglio europeo di giugno non uscirà nulla di nuovo”. Il primo binario di cui ha parlato il docente, ossia quello relativo alla solidarietà europea, per l'intero governo di Mario Draghi rappresenta un'incognita. Lo stesso ministro Lamorgese, nell'audizione del 19 maggio scorso dinnanzi al comitato di controllo Schengan, ha espresso perplessità sui piani dell'Ue sull'immigrazione: “Dubito però che al prossimo consiglio fissato a giugno – ha evidenziato Vittorio Emanuele Parsi – possa uscire qualcosa di nuovo. Di sicuro non saranno approvati quegli automatismi nella redistribuzione da tempo chiesti dall'Italia”. Uno scetticismo giustificato dalla storia recente, con Bruxelles costantemente divisa sul tema e spesso rimasta immobile alle richieste di solidarietà da parte del nostro Paese. L'unica speranza, secondo il docente, nel medio periodo è data dal senso di responsabilità che prima o poi dovrà emergere in seno ai partner europei: “Forse a giugno verrà fatto qualche passo in avanti politico – ha aggiunto – ma cambierà poco. Nel proseguo dell'estate però la pressione migratoria sarà tale da richiamare tutti alle proprie responsabilità”. L'unico elemento certo al momento è dato dalla concreta possibilità di assistere a un'estate calda sul fronte migratorio. La rotta libica nel 2021 è tornata a preoccupare come negli anni pre Covid e i numeri appaiono impietosi: dal primo gennaio al 4 giugno sono 14.999 i migranti sbarcati in Italia, a fronte dei 5.461 dello stesso periodo del 2020.

Sofia Dinolfo. Sono nata il 30 marzo del 1982 ad Agrigento e sin da piccola ho chiesto ai miei genitori un microfono per avvicinarmi a chi mi stesse vicino e domandare qualsiasi cosa mi passasse per la mente. Guardavo i telegiornali e poi imitavo i giornalisti raccontando a modo mio quello che avevo appena ascoltato. Quella passione non mi ha mai abbandonato pur intraprendendo, una volta cresciuta, gli studi di Giurisprudenza. Appena laureata, non ho pensato di fare l’avvocato ma di andare avanti con il settore del giornalismo che nel frattempo non avevo mai accantonato coltivandolo come hobby. Ed ecco che poi sono arrivate le prime esperienze lavorative effettive: dalla conduzione di una trasmissione di calcio in una tv locale (dal 2...

Mauro Indelicato. Sono nato nel 1989 ad Agrigento, città in cui dirigo il locale quotidiano InfoAgrigento.it. Nel marzo 2017 conseguo la laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali presso l’Università degli Studi di Palermo, città dove sviluppo la mia curiosità per il Mediterraneo, per i suoi popoli e per le sue culture che da secoli arricchiscono una delle aree più suggestive del pianeta. Inizio la mia attività giornalistica nel marzo del 2009 con alcune testate locali, dal gennaio 2013 sono iscritto presso l’Ordine dei Giornalisti di Sicilia nell’albo dei "pubblicisti". Collaboro dal giugno 2016 con IlGiornale.it e Gli Occhi della Guerra, testata per la quale seguo il G7 di Taormina del 2017 ed il vertice di Palermo sulla Libia nel novembre 2018. Nel novembre del 2015 partecipo alla stesura del libro Rinascita di un Impero edito dal Circolo Proudhon, nel 2016 al saggio Italia Nel Mondo della stessa casa editrice. Nel 2019 collaboro alla stesura del libro Bella e perduta, edito da Idrovolante edizioni.

Fausto Biloslavo per il Giornale il 29 maggio 2021. La Ong con i fondatori sotto inchiesta, gli spagnoli che sparano a zero sul governo italiano, Msf che sta mandando una super ammiraglia davanti alla Libia ed i talebani tedeschi dell'accoglienza. Tutti assieme appassionatamente convocati al Viminale dal ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese. E pronti a dettare legge. Tanto che la reazione della Lega non si fa attendere: «Prima la felpa di Letta, poi i colloqui con il Viminale. Ci chiediamo se il Pd e la ministro Lamorgese siano al governo in Italia o in Spagna». All'incontro, di ieri pomeriggio, secondo il comunicato congiunto delle Ong, si è preso atto «dell'apertura al dialogo offerta dalla ministra, ribadendo allo stesso tempo come il soccorso in mare non possa essere mai negoziabile». Lamorgese sognava un nuovo codice di condotta per le Ong, che, al contrario, hanno chiesto di «riconoscere il ruolo delle organizzazioni umanitarie, colpite dalla criminalizzazione, liberando le nostre navi ancora sotto fermo» amministrativo. Nel comunicato ufficiale Lamorgese, sulla difensiva, sottolinea «che una chiave per meglio regolare i flussi migratori e contrastare il traffico di essere umani è certamente rappresentata da un'intensificazione dei corridoi umanitari con la Libia». Ovviamente gli irriducibili dell'accoglienza sparano a zero sulla Guardia costiera di Tripoli «che è il problema». Il governo italiano, però, vuole continuare ad appoggiare i libici per fermare i migranti. «Questa forma di supporto e finanziamento va interrotta il prima possibile» pontificano le Ong. Il massimo di colpo di reni del ministro è la richiesta di coinvolgere i «paesi di riferimento delle Organizzazioni non governative e degli Stati di bandiera delle loro navi» per la redistribuzione dei migranti. La beffa è che al tavolo del Viminale c'era anche Mediterranea fondata da personaggi che sono sotto inchiesta per favoreggiamento aggravato dell'immigrazione clandestina a Ragusa. Al tavolo era presente pure Open arms, dopo che il fondatore Oscar Camps, al Manifesto di due giorni fa aveva dichiarato sull'incontro con Lamorgese: «Quando si riveste una carica istituzionale si hanno responsabilità importanti che vanno rispettate. Negoziare con le mafie libiche e delegittimare le organizzazioni umanitarie con ogni ostacolo non credo sia etico». Ancora più assurdo l'invito ai talebani dell'accoglienza tedesca come Sea Watch e Sea Eye. Quest'ultima non si è presentata, ma quando la sua nave Sea Eye 4 ha sbarcato la scorsa settimana l'ennesimo carico di migranti a Pozzallo, anziché Palermo, gli «umanitari» hanno dichiarato che «non c'è motivo di dire grazie, perché l'Italia ha appena raggiunto il minimo dopo giorni di inattività». Medici senza frontiere, pezzo grosso all'incontro con Lamorgese, è accusata dalla procura di Trapani di aver puntato nel 2017 ad una «maggiore visibilità pubblica e mediatica, con conseguente incremento della partecipazione - anche economica - dei propri sostenitori dato il costante impiego della nave nei numerosi eventi di soccorso». E adesso ha messo in mare la Geo Barents, che batte bandiera norvegese. La super ammiraglia delle Ong è in navigazione davanti all'ultimo lembo di Algeria diretta verso la Libia.

Torna la cuccagna migranti: Lamorgese dà più soldi alle coop. Giuseppe De Lorenzo il 28 Maggio 2021 su Il Giornale. Ritoccato il capitolato dell'accoglienza. Aumenti sul kit di ingresso per i migranti: da 150 euro passa a 300. Poi lo psicologo e le stoviglie green. Torna un po’ di cuccagna. Dopo i tagli imposti dall’allora ministro Salvini, che utilizzò le forbici per ridurre i costi dell’accoglienza dei migranti, ora il Viminale ha ritoccato (al rialzo) i bandi dedicati alle associazioni che si occupano di ospitare, coccolare e istruire i richiedenti asilo sbarcati sulle coste italiane. La novità è contenuta, come ha scovato Il Tempo, in un decreto ministeriale di febbraio 2021 che fornisce ai prefetti tutte le indicazioni per predisporre gli appalti dell’accoglienza. Il primo cambio di passo che balza all’occhio riguarda l'aumento dei servizi forniti dall'Italia a chi approda illegalmente nel Belpaese. Oltre ai già previsti vitto e alloggio, assistenza sanitaria, assistenza sociale e mediazione linguistica culturale, il Viminale ha aggiunto “ulteriori” benefit come i corsi di lingua italiana o l’orientamento legale e al territorio. Sono tutti servizi che vanno pagati, ovviamente. E che dunque costeranno alla collettività, anche quando - come nel caso del sostegno psicologico - appaiono attività del tutto assimilabili ad altre già garantite. Come l'assistente sociale. Visti i notevoli cambiamenti, il ministero ha ovviamente aggiornato lo schema di capitolato redatto nel 2018 dagli uffici di Salvini. Sono stati introdotti i pannolini per i bambini fino a 30 mesi di età, le stoviglie ecocompatibili e l’erogazione di beni come materiale didattico, ludico (?) nonché farmaci e altre prestazioni sanitarie non coperte dal SSN. Inoltre verrà garantita assistenza del richiedente asilo da remoto in caso di colloquio con la Commissione territoriale. Tutte misure che fanno già gridare allo scandalo a Giorgia Meloni, che parla di "regalo" del governo Draghi alle onlus dell'accoglienza: "Il tutto - dice la leader di Fdi - mentre l'Italia è in ginocchio, la povertà è in aumento, le aziende rischiano di chiudere e i ristori sono insufficienti". Calcolatrice alla mano, in effetti, l’incremento in termini di vil denaro è di tutto rispetto. Basta leggere la tabella sulla stima dei costi medi di riferimento, prendendo a esempio un centro collettivo da 50 posti massimo. Per il costo del personale se ne vanno 11,15 euro al giorno a migrante, contro i 7,40 euro del decreto Salvini, dovuti principalmente all’impiego di psicologi che staranno coi migranti per otto ore a settimana (che diventano 16 ore nei centri fino a 100 posti e 24 ore in quelli fino a 300 posti). L’aggiunta di stoviglie monouso green ci costeranno invece 0,60 centesimi al dì ogni ospite, cui bisogna aggiungere 0,15 centesimi per i pannolini dei neonati, indipendentemente dalla presenza o meno di poppanti all’interno del centro. Non solo. Perché Lamorgese ha anche deciso di raddoppiare di netto il prezzo del kit di primo ingresso fornito due volte l’anno ai migranti, che passa dai 150 euro di Salvini ai 300 euro attuali. E se schede telefoniche (5 euro) e pocket money (2,50 euro) non sono stati toccati, alla lista di benefit vanno aggiunti 1,80 euro al giorno per il materiale didattico, il trasporto scolastico il materiale ludico e i farmaci. Alla fine della fiera il costo medio a immigrato di un centro da 50 persone fino a poco fa era di 26,35 euro mentre con il ministro Lamorgese schizza a 33,47 euro. Praticamente gli stessi famigerati 35 euro al dì dei grassi tempi andati. Quelli in cui “accoglienza” faceva rima con “business”.

Giuseppe De Lorenzo. Sono nato a Perugia il 12 gennaio 1992. Stavo per intraprendere la carriera militare, poi ho scelto di raccontare quello che succede in Italia e nel mondo. Rifuggo l'ipocrisia di chi sostiene di possedere la verità assoluta: riporto la realtà che osservo con i miei occhi. Collaboro con ilGiornale.it dal 2015. Nel 2017 ho pubblicato Arcipelago Ong 

Dritto e rovescio, Giuseppe Cruciani contro la rappresentante delle Ong: "Dice il falso". La verità su chi "fugge dalla guerra". Libero Quotidiano il 28 maggio 2021. "L'Europa non esiste, non si è presa carico di nessuno in questa famosa redistribuzione". Giuseppe Cruciani, ospite di Paolo Del Debbio a Dritto e rovescio su Rete 4, parlando di immigrazione va dritto al punto, sfidando gli interlocutori di sinistra in studio. "La portavoce dell'associazione delle ong dice una cosa che non è così, assolutamente. Le persone fuggono per vari motivi, quelle che fuggono dalle guerre sono una minoranza. Poi uno fugge per motivi che hanno a che fare con la disperazione, la fame, per cercare un futuro migliore. Tutto questo è assolutamente legittimo, chi fugge io non lo disprezzo, fugge perché vuole migliorare le proprie condizioni di vita. Ma di fronte a milioni di persone che fuggono per migliorare le proprie condizioni di vita, l'atteggiamento di uno Stato sovrano deve però essere diverso". Continua il conduttore della Zanzara su Radio 24: "Non può dire: siccome avete bisogno, allora accogliamo tutti. Siccome lì si vive meno bene rispetto all'Italia, allora ti accogliamo. Siccome c'è la siccità o la carestia, nel caso dei famosi migranti climatici, o perché un Paese opprime le minoranze omosessuali allora ti dobbiamo accogliere per forza. Altrimenti sarebbe il caos più totale, come talvolta avviene". "Il problema è che noi accogliamo tutti, poi non li sappiamo gestire - conclude -. Io penso che se qualcuno sapesse che in Italia non si può accogliere nessuno tranne le persone che vengono per lavorare, questi flussi via via diminuirebbero. Non è un'idea utopistica quella di bloccare le migrazioni, non si possono bloccare del tutto ma se facciamo sapere che non esistono più i campi migranti io penso che non partirebbero più come oggi". "Una posizione chiara", è il commento di Del Debbio.

Chiara Giannini per “il Giornale” l'8 giugno 2021. Le partenze indiscriminate causano ancora morti. Stavolta è la Norvegia a dover assistere all'ennesimo strazio con il corpo di un bambino di 15 mesi recuperato dalla polizia locale lo scorso Capodanno e identificato solo nei giorni scorsi. Il piccolo Artin, curdo-iraniano, era annegato insieme alla famiglia che il 27 ottobre 2020 stava cercando di attraversare la Manica dalla Francia verso il Regno Unito. La polizia precisa che il corpo era stato trovato vicino a Karmoy, ma solo adesso, attraverso il riscontro del Dna, è stato possibile dare un nome al piccolo. I suoi resti verranno mandati in Iran per la sepoltura. «Professionisti qualificati del dipartimento di scienze forensi dell'ospedale universitario di Oslo - spiega una nota degli investigatori - sono riusciti a recuperare i profili del Dna corrispondenti». Le altre vittime sono Rasoul Iran-Nejad, 35 anni, Shiva Mohammad Panahi, 35 , Anita, 9, e Armin, 6. La famiglia proveniva dalla città di Sardasht nell'Iran occidentale, vicino al confine con l'Irak. Sul naufragio è stata aperta un'inchiesta a Dunkerque dalla procura francese. La famiglia, della minoranza curda emarginata dal punto di vista politico ed economico, era partita il 7 agosto 2020 da Sardasht. Prima il viaggio attraverso la Turchia, poi la traversata del Mediterrano verso le coste dell'Italia, su un'imbarcazione di trafficanti di esseri umani. Quindi un altro viaggio affidandosi ai passeur che portano i migranti sulle coste francesi del Nord. Il 27 ottobre la partenza dalla spiaggia di Loon, con l'imbarcazione che si ribalta e tutta la famiglia annegata, compreso il piccolo Artin di 15 mesi. Intanto le ong nel Mediterraneo restano a «bocca asciutta» e attendono inutilmente l'arrivo di barconi, che in zona Sar libica vengono riportati indietro dalla Guardia costiera di Tripoli. Oscar Camps, direttore di Proactiva Open Arms, ammette candidamente ciò che è evidenziato dagli inquirenti che hanno indagato alcune ong nell'inchiesta di Trapani. Ovvero che senza partenze e con diverse navi in fermo amministrativo per irregolarità, le organizzazioni non governative stanno perdendo fondi «Cinque navi bloccate dal governo italiano - twitta Camps -: Alan Kurdi, Open Arms, Sea Watch 3 e 4 e Sea Eye 4. Agiscono contro il diritto marittimo internazionale, guadagnando tempo e punendoci finanziariamente. Quello che non sanno è che dietro ci sono milioni di persone che continueranno a sostenerci». Un modo per darsi la zappa sui piedi ammettendo che vanno alla ricerca dei migranti per prendere più fondi. Nei primi 7 giorni di giugno sono arrivati appena 373 clandestini, contro i 1.831 dello stesso periodo dello scorso anno. Il picco più alto si è avuto il 1° giugno con 237 immigrati giunti sulle coste italiane. Domenica ne sono sbarcati, invece, 58. La maggior parte arriva da Paesi in cui non ci sono conflitti. Da inizio anno sono approdati sulle nostre coste 2.608 immigrati del Bangladesh, 2.113 della Tunisia, 1.410 della Costa d'Avorio, 971 dell'Eritrea, 958 dell'Egitto, 945 della Guinea, 905 del Sudan, 623 del Marocco, 568 del Mali, 456 dell'Algeria e 3.508 di altre nazionalità. Con il nuovo governo di unità nazionale in Libia e con una stabilità maggiore, la Guardia costiera sta salvando e riportando indietro migliaia di persone. L'Italia sta pensando, con il piano anti migranti voluto dal premier Mario Draghi, di fornire nuovi mezzi, soprattutto motovedette, alla capitaneria del Paese Nord africano.

1991-2021: trent'anni fa lo sbarco della Vlora e dei 20mila albanesi. L'evento che cambiò la storia di Bari.  Gianfranco Moscatelli, Paolo Russo (coordinamento) su La Repubblica l'8 agosto 2021. Il capo dei vigili, una profuga a bordo, il capo dell'opposizione, il fotoreporter che scattò la foto simbolo, l'assessore comunale: 5 testimoni raccontano lo sbarco storico. Proprio le parole dell'allora sindaco Enrico Dalfino sono diventate oggi un manifesto dell'accoglienza: "Sono persone". Trent'anni. Secondo la statistica sono più di una generazione (in base ai calcoli più recenti il cambio è ogni 25 anni). Nella vita di un uomo tre decenni sono un bel pezzo di strada. Nella vita di una città possono essere i tempi della trasformazione, del cambiamento, del cambio di passo. Nella Storia, quella che poi si studia sui libri, 30 anni sono il tempo in cui un momento, un evento diventa passaggio epocale.

I 30 anni della Vlora. "I migranti chiusi nello stadio la notte ci affidarono i bambini: si fidarono di Bari". Gianfranco Moscatelli su La Repubblica il 4 agosto 2021. L'8 agosto del 1991 l'arrivo della nave con 20mila albanesi. L'avvocato Gianni Di Cagno, all'epoca capo dell'opposizione in consiglio comunale, ricostruisce le prime convulse ore in città al fianco del sindaco Enrico Dalfino. In quei giorni, quando la Vlora arrivò a Bari, fu in prima linea a contatto con la disperazione e la speranza. Ma anche alle prese con le mai condivise decisioni del governo. Gianni Di Cagno, all’epoca capogruppo Pci-Pds, era il capo dell’opposizione ma il sindaco Enrico Dalfino lo volle accanto a sé per gestire un’emergenza epocale.

I 30 anni della Vlora. "Quando sbarcai dall'Albania un uomo mi offrì una pizza, fu la prima della mia vita". Gianfranco Moscatelli su La Repubblica il 3 agosto 2021. L'8 agosto del 1991 l'arrivo a Bari della nave con 20mila albanesi. Il racconto di Eva Meksi che, allepoca 24enne, era a bordo insieme con il marito. Oggi fa la tutor nei corsi di formazione: "Adesso questa è casa mia". Salire sulla Vlora per lei fu come rispondere a un richiamo a cui in quel momento, dall'altra parte dell'Adriatico, nessuno riusciva a sottrarsi. Oggi, a 30 anni di distanza, Eva Meksi spiega così quel viaggio straordinario e allo stesso tempo terribile. Lei 24enne abbracciata al marito e tutti e due stretti fra quelle migliaia di corpi sotto un sole implacabile.

Lo sbarco degli Albanesi, il ricordo dell'ex ministro Scotti. «Anche allora facemmo da soli senza l’Europa». Vincenzo Scotti su Il Quotidiano del Sud l'8 agosto 2021. Sono trascorsi trenta anni da quel 1991 che segnò la fine del cinquantennale isolamento dell’Albania e della contemporanea nascita di un Paese libero alla ricerca del suo riposizionamento nella storia dei Balcani, del Mediterraneo e dell’Europa, riprendendo il cammino della sua storia secolare. Nel mio primo viaggio di Ministro dell’interno, il Presidente Alia mi raccontò che al momento della rottura delle relazioni con l’Unione Sovietica, avevano chiesto aiuto all’Italia ma che la nostra risposta era stata che gli accordi di Yalta non lo consentivano, come mi confermò Taviani, con cui gli albanesi si erano incontrati. Così nel 1991, d’accordo con i Presidenti della Repubblica e del Consiglio, Francesco Cossiga e Giulio Andreotti, De Michelis e io, ministri degli esteri e dell’interno, facemmo due visite a Tirana per consolidare le relazioni diplomatiche, concordare un piano di aiuti e di cooperazione economica e sociale. Sin dal primo colloquio, la preoccupazione prioritaria fu quella della fuga dall’Albania delle energie migliori, sia per età che per professionalità. L’accordo che raggiungemmo fu quello di controllare e contenere l’emigrazione e, nel contempo, mettere in campo subito un piano di sostegno alimentare e di altri beni di prima necessità (l’operazione Pellicano gestito dai nostri militari) oltre a un programma di cooperazione per l’insediamento di piccole e medie industrie italiane, di addestramento professionale e di formazione di quadri dirigenti. Crebbe anche in noi a Roma la paura che la situazione ci stesse sfuggendo di mano e che se non avessimo accelerato l’attuazione degli accordi, in Albania la situazione sarebbe stata ingovernabile. L’Albania “fino a quel momento era stata la prigione, una prigione cui era stato aperto il cancello. Per uscire e riconquistare la libertà bisognava attraversare il fossato rappresentato dal basso Adriatico”.

Comincia così la fuga: Il 9 febbraio oltre 10 mila persone si ammassavano nel porto di Durazzo per emigrare in Italia; Nei giorni successivi centinaia di persone salivano su imbarcazione di fortuna con destinazione la costa pugliese. I boat people diventavano un fiume inarrestabile che partiva da Durazzo, Valona, e da Santi Quaranta. Molte navi furono bloccate all’imbocco del porto di Brindisi tra cui la Tirana con 3,500 persone e la Ljiria con 3.000 persone. Si scrissero pagine di grande solidarietà in quei primi giorni di agosto sia a Brindisi che a Bari e in altri piccoli porti della Puglia. Ma crescevano le preoccupazioni dei due governi per le conseguenze del flusso e sulla possibilità di controllare in qualche modo gli arrivi e di poter avviare il progetto degli aiuti e della cooperazione. L’8 agosto del 1991 i servizi segreti italiani informavano il nostro governo che stava per partire una nave con la presenza di migliaia di uomini, donne e bambini, con l’impotenza delle autorità albanesi a frenare e in qualche modo controllare i movimenti. Le televisioni italiane mandavano in Albania immagini di una Italia ricca, alla vigilia di una stagione di vacanze che stimolava la fantasia di un Paese del benessere. In quella situazione diventava difficile anche la distribuzione degli aiuti da parte dei militari italiani e di promuovere investimenti italiani in Albania. Il Presidente del Consiglio, il pomeriggio dell’8, convocò una riunione di Gabinetto coi ministri interessati per decidere cosa fare. Sia io che De Michelis avevamo parlato con il Presidente della Repubblica albanese, per cui, mettendo insieme tutte le notizie e i pareri, si arriva alla conclusione che fosse indispensabile bloccare il flusso, riportare in patria tutti e accelerare i programmi di aiuti. Il ministero dell’interno avrebbe da quel momento coordinato le iniziative del governo: rimpatrio, conclusione degli accordi, avvio rapido dell’operazione Pellicano gestito, nell’immediato, dai militari italiani esperti nelle missioni di pace e, infine, l’attivazione della cooperazione allo sviluppo. Decidemmo anche di richiamare subito un impegno da parte della Commissione Europea. Nel corso della riunione dichiarai che potevo gestire il rimpatrio solo a condizione che si mettessero in azione tutte le altre azioni, gestite con estrema rapidità ed efficienza. Il rimpatrio doveva avvenire nel giro di pochissimi giorni e con il ricorso di un ponte aereo e navale, senza far disperdere gli albanesi sul territorio regionale e nazionale. Eravamo a Ferragosto, e se avessimo acconsentito a deroghe non saremmo stati più in grado di evitare che il flusso esplodesse con numeri inimmaginabili e alla fine tutto il progetto saltasse. Questa la ragione della scelta di concentrare tutti gli albanesi in due punti controllabili (il piazzale del pontile del Porto) e requisire tutti i possibili mezzi di trasporto utili. Il Governo, le Regioni, le associazioni umanitarie e singoli cittadini avevano già distribuito migliaia di emigranti. In questo caso la gestione dell’operazione a Bari fu affidata al Prefetto Parisi. Io restai a Roma e non consentimmo a nessun Ministro di andare a Bari al fine di non intralciare il lavoro sul campo degli operatori. Nello spazio di sette giorni, dal 10 al 17 agosto, l’operazione rimpatrio fu completata senza alcuna violenza verso le persone, comprese quelli che la stampa definì i violenti che – nei fatti – non lo erano affatto. In quei giorni e precisamente il 14 agosto il Presidente Cossiga andò a Tirana per garantire al suo omologo che tutti gli impegni sarebbero stati rispettati nei modi e nei tempi previsti. I primi aiuti furono consegnati già prima della partenza da Bari. Pur nel pieno di una emergenza così grave, insieme ai colleghi De Michelis e Boniver, riflettemmo sulla nostra strategia nei confronti dell’immigrazione, andando oltre l’orizzonte albanese. Nelle prime ore, pur consapevoli che ad agosto a Bruxelles non sarebbe stato facile rintracciare molte persone, cercammo, comunque, di metterci in contatto con le autorità della Comunità Europea per tentare di coinvolgerli in qualche modo sul come fronteggiare un fenomeno che non era un fatto contingente e straordinario ma con cui l’Europa si sarebbe dovuta misurare a lungo. La nostra rappresentanza a Bruxelles ottenne la convocazione di una riunione straordinaria del cosiddetto gruppo Trevi, composto dai ministri della sicurezza e della giustizia, dal momento che i trattati europei non prevedevano nessuna competenza in materia di emigrazione. All’incontro con i colleghi a Bonn (era il turno di presidenza tedesca) mi sforzai di spiegare innanzitutto che quella albanese non era una questione italiana, e che occorreva definire una iniziativa europea. Su questo punto la risposta fu negativa. Avremmo potuto chiedere qualche fondo per le spese che avevamo affrontate. Ringraziai ma specificai che la ragione della riunione era una altra. Volevamo sollecitare una riflessione della Comunità su un dato preciso, ci fosse in quel momento o meno una competenza in testa all’Europa. Non potevamo immagine che l’Europa ignorasse il tema e non pensasse ad affrontarlo con le proprie politiche, proprio in una fase costituente e specie dopo la caduta del muro di Berlino. Purtroppo non una parola venne ascoltata. Gli ultimi trent’anni non hanno visto cambiare significativamente posizione europea anche di fronte alla tragedia dei morti nel mediterraneo e negli altri confini dell’Europa. Oggi, 8 agosto del 2021, possiamo dire che in quelle giornate, anche prima e soprattutto dopo, l’Italia e l’Albania hanno affrontato una terribile fase della storia con uno spirito di coesione ammirevole. Certamente sia gli italiani che gli albanesi hanno conosciuto la tragedia dell’emigrazione per i loro cittadini e questo ricordo ha alimentato lo spirito di coesione. Oggi, le giornate non sono le stesse, ma nuove sfide politiche, economiche, sociali, ed umane sono di fronte a noi. I morti degli emigranti nel mediterraneo non possono lasciarci indifferenti. Come Europei, dobbiamo puntare ad avere una politica migratoria e, prima di tutto una politica di sviluppo nei Balcani e nel Mediterraneo che veda i nostri due paesi impegnati a dare ai nostri concittadini una visione euro mediterranea, di cui Balcani sono parte; una visione di coesione verso il continente dell’Africa, essenziale per lo sviluppo complessivo e capace di equilibrare – nel prossimo futuro – i carichi demografici.

Trent’anni fa lo sbarco degli albanesi, oggi alcuni di loro sono avvocati….Era il 7 agosto del 1991, 20mila albanesi presero d'assalto la nave mercantile Vlora, di ritorno da Cuba carica di zucchero di canna, e si diressero vero le coste italiane. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 12 agosto 2021. Pochi giorni fa è stato l’anniversario dell’arrivo nel porto di Bari della nave Vlora. L’8 agosto 1991 il nostro Paese iniziava a fare i conti con un fenomeno travolgente: l’immigrazione dall’Albania e successivamente da altri Paesi del “continente liquido”, come definito dallo storico Fernand Braudel. Le macerie del muro di Berlino erano ancora a terra e l’Italia divenne trent’anni fa l’approdo naturale per tanti albanesi desiderosi di rifarsi una vita altrove e mettersi alle spalle i guasti della dittatura di Enver Hoxa. Per gli albanesi l’Italia era la loro America, ma anche la terra in cui circa cinquecento anni prima i loro antenati, nel Sud, si stanziarono e diedero origine ai primi fenomeni di integrazione fondando alcune comunità arbereshe. Il tutto in nome dell’eroe nazionale Giorgio Castriota Scanderbeg, che si oppose alla conquista dei turchi. Dopo il 1991 tanti altri cittadini albanesi hanno raggiunto l’Italia e si sono affermati come professionisti. È il caso degli avvocati Fabiola Ismaili, Kristina Blushi e Arjol Kondi. «Vivo tra l’Italia e l’Albania da circa vent’anni», racconta al Dubbio l’avvocata Fabiola Ismaili. «Nel 2006 – dice – ho conseguito l’abilitazione professionale in Albania e attualmente sono in attesa del riconoscimento del titolo abilitativo in Italia». Nelle parole di Ismaili c’è tanta ammirazione per l’Italia e per chi, nonostante le difficoltà acuite dalla pandemia, continua ad indossare la toga con onore e dignità. «Il mio percorso professionale – afferma – è singolare, poiché esercito in Albania e, avendo fatto la pratica forense anche in Italia, ho una buona conoscenza del vostro diritto. Attualmente mi occupo di diritto societario. Ho fondato in Italia una società di consulenza legale e tributaria a disposizione degli investitori italiani che decidono di andare in Albania». Ma quanto è difficile svolgere in Italia la professione forense? «È impegnativo», confessa Ismaili. Però vi è un legame forte tra Italia ed Albania pure in ambito giuridico. I codici albanesi sono stati ispirati integralmente da quelli italiani. Attualmente, però, il diritto e la normativa albanese, nel quadro dell’armonizzazione con il diritto europeo e del processo di preadesione, trovano il loro fondamento nelle direttive e nei regolamenti dell’acquis communautaire».  Nel 2019 è stata creata l’«Associazione avvocati albanesi in Italia». Un modo per favorire il dialogo ed il confronto tra i colleghi delle due sponde dell’Adriatico. I punti di contatto tra il diritto albanese e quello italiano non sono pochi e l’associazione intende favorire l’organizzazione di webinar ed altre iniziative in Italia e a Tirana. Con la speranza che si riprenda tutto in presenza. Un pensiero Fabiola Ismaili inevitabilmente lo rivolge all’arrivo a Bari della Vlora nel 1991: «I trent’anni sono passati in fretta e noi come comunità albanese in Italia sentiamo il bisogno di un cambio di narrazione. Gli albanesi che vivono qui offrono il loro contributo quotidiano in modo eccellente. Ci sono operai, insegnanti, professori, imprenditori, medici e tantissimi avvocati, che giocano un ruolo decisivo nella gestione delle pratiche che vedono coinvolti i nostri connazionali, considerata l’importanza della intermediazione culturale da non sottovalutare mai». Un’altra storia di integrazione professionale è quella dell’avvocata Kristina Blushi, in Italia da oltre diciannove anni. Si occupa di diritto dell’emigrazione. «Sono arrivata – commenta – solo con l’intento di studiare, ma poi, anno dopo anno, ho creato le mie radici in Italia, più precisamente a Bari. Qui ho aperto il mio studio legale. L’Albania, come l’Italia, appartiene al sistema del civil law. C’è stata una continua influenza italiana in tutti i settori del diritto albanese, ma non senza differenze. Ad esempio, in Albania non è previsto l’istituto dell’adozione dei maggiorenni. È un problema di non poco conto per gli albanesi maggiorenni adottati in Italia». Trent’anni fa una svolta che cambiò la storia dell’Albania. «L’8 agosto 1991 – evidenzia Kristina Blushi -, dopo la caduta del regime comunista, l’arrivo della nave Vlora con a bordo 20mila persone è stato un grido di aiuto che la città di Bari ha accolto grazie alla sensibilità del suo sindaco, Enrico Dalfino (docente di Diritto amministrativo nell’Università Aldo Moro, nda). Un uomo di larghe vedute, che all’epoca è andato quasi controcorrente con coraggio e sacrificio e al quale ogni albanese, giunto con la Vlora o dopo, in altro modo, deve tanto. Queste persone che hanno avuto molto dalla città di Bari e dall’Italia hanno anche restituito. I loro figli hanno studiato in Italia e tanti di loro sono diventati dei rispettabili professionisti pure del diritto». Il legame dell’avvocato Arjol Kondi con l’Italia risale al 31 agosto 2001. «Mi sono trasferito – ricorda – nel vostro Paese quel giorno. Sono partito dal porto di Valona per arrivare a Brindisi. Volevo studiare in Italia. Dopo un periodo di ambientamento, una volta trovato un lavoro stabile, che mi avrebbe accompagnato per tutta la carriera universitaria e che mi avrebbe permesso di studiare, iniziai a frequentare la facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli studi di Macerata. Una realtà che mi piacque subito, perché a misura di studente, dove si instaura un ottimo rapporto con i professori». Da lì Kondi inizia a spostarsi più a Nord. Conseguita la laurea a Macerata, il trasferimento a Bologna e l’esame per diventare avvocato. Subito dopo il definitivo ritorno nelle Marche. «Sono rientrato a Fermo – prosegue Kondi -, città dove vivo da anni, e dove esercito la professione, occupandomi di diritto penale, di immigrazione e tutela contro le discriminazioni. Penso che il diritto dell’immigrazione abbia fatto un po’ da collante a tutto il resto. Il diritto albanese non è molto diverso da quello italiano». Anche secondo Kondi il legame con l’Italia è forte e duraturo. «I professori universitari albanesi – aggiunge – che si sono formati in Italia sono tanti. Da non sottovalutare, inoltre, le diverse riforme, tra le quali quella della procedura penale, che ha una chiara impronta italiana. In quest’ultimo caso uno degli esperti coinvolti è stato il professor Giorgio Spangher. A ciò si aggiunga che l’Albania da diversi anni ormai cerca di armonizzare la sua legislazione con la normativa Ue e questo si riflette sugli aspetti comuni tra il diritto albanese e quello dei Paesi già membri dell’Unione».

Mamma, gli albanesi: il cuore di Bari e il rifiuto leghista del centrosinistra. Pierangelo Buttafuoco su Il Quotidiano del Sud l'8 agosto 2021. “Non c’era posto nemmeno per una mela”. Così Halim Milaqi comandante del mercantile “Vlora”, a distanza di vent’anni ricordava in un’intervista su “La Repubblica” l’odissea affrontata da circa diciottomila albanesi. È appunto il 7 agosto del 1991 e i figli della mirabile Terra delle Aquile – saldi nel sangue di Giorgio Castriota Scandeberg, eroe della civiltà europea – prendono d’assalto la nave e costringono Halim Milaqi a far rotta su Brindisi. Altri dieci anni sono nel frattempo passati se già si ricorda il trentennale del più grande sbarco di anime in cerca di vita mai avvenuto sulle coste italiane da una sola nave. Come se gli abitanti di un’intera cittadina si fossero dati convegno, tutti insieme sulla stessa imbarcazione, stipata all’inverosimile, così le vecchie foto di repertorio riemerse in questo torrido agosto, mostrano. Anche se oggi siamo tristemente abituati a migliaia e migliaia di sbarchi su vecchie carette, quello, di arrivo, rimane unico e memorabile: “Tutta quella gente a bordo, senza cibo, né acqua” ricordava ancora il capitano che riuscì a sbarcare a Bari dove la nave venne dirottata dalle autorità italiane, nonostante non potesse nemmeno utilizzare la strumentazione di bordo, impedito com’era dal numero esorbitante di persone stipate ovunque. Anche allora il caldo era feroce, e già allora le figure istituzionali, completamente impreparate si ritrovarono a gestire un simile evento. I protagonisti della politica di allora sono nomi di peso, seppure ormai defunti o fuori dalla vita politica. Giulio Andreotti era presidente del consiglio, Claudio Martelli il suo vice, Vincenzo Scotti ministro degli Interni, Gianni De Michelis degli Esteri, Margherita Boniver dell’Immigrazione, Giovanni Cossiga presidente della Repubblica. Andreotti, spalleggiato da Cossiga, fu fermissimo sulla linea di azione intransigente: “Non siamo assolutamente in grado di accogliere e ospitare gli albanesi sbarcati, siamo d’accordo con il governo di Tirana per procedere al rimpatrio”. Gli albanesi erano intere famiglie con bambini, anziani, giovani, disposti a rischiare la vita per quell’Italia che avevano imparato a conoscere guardando segretamente i programmi della Rai – una delle star più amate era Raffaella Carrà – e ai loro occhi rappresentava l’Eldorado, dopo quarantacinque anni di dittatura comunista. Nel 1989 era caduto il muro di Berlino e l’Albania senza più la sicurezza rappresentata dal blocco socialista – con Pechino troppo lontana per garantire protezione al potere comunista – subiva un tracollo economico inarrestabile. Le speranze dei migranti si infrangono appena sbarcati. Poco più di un migliaio riescono a fuggire da porto – non molti aiutati dai pugliesi, sempre misericordiosi – ma gli altri vengono condotti allo stadio cittadino e lì rinchiusi. Comincia una gestione difficilissima sia dal punto di vista dell’ordine che degli approvvigionamenti. I più disperati sono nelle mani di uomini armati, gli stessi che hanno minacciato di morte il comandante costringendolo a partire. I viveri, quasi solamente panini, gettati dagli elicotteri. All’interno della struttura si innesca una feroce lotta per la sopravvivenza di questa massa di disperati che non mangia e non beve dal giorno della partenza. Il sindaco di Bari, Enrico Dalfino, ingaggia uno scontro durissimo con i vertici istituzionali, accusati di una gestione da lager dello stadio. La solidarietà dei baresi s’incendia di passione: portano viveri e beni di prima necessità davanti allo stadio e accolgono nelle loro case i fuggitivi. Su quella nave si trovava Kledi Kadim, un ragazzo di sedici anni che qualche anno dopo sarebbe tornato in Italia con regolare visto, diventando un famoso ballerino. “Solo a pensarci ho ancora sete” dirà, “finì per bere l’acqua di mare che mi fece quasi uscire di senno”. Anche lo scultore Helidon Xhixha si trovava su quella nave. Oggi l’artista ricorda il trentennale con un grande scultura in acciaio esposta nella nuova piazza Italia di Tirana che vuol celebrare l’integrazione tra Italia e Albania e ricorda quanto aiuto i profughi ebbero dalle parrocchie, dalle scuole, dai centri sociali, dai privati cittadini. Tutto si concluse nel giro di una settimana. I profughi vennero fatti imbarcare su navi della marina militari o su aerei con l’inganno. Gli si fece credere che sarebbero stato smistati in altre città italiane, mentre tutti i mezzi fecero rotta su Tirana. Nessuno si sognò di mettere in stato di accusa i vertici delle istituzioni, né tanto meno di accusarli di sequestro di persona, cosa effettivamente accaduta, a parte il sindaco di Bari che per le sue critiche si attirò l’ira di Cossiga che lo definì “un cretino”, salvo riceverlo in un incontro riservato di cui il sindaco raccontò che le sue parole erano state fraintese e il malinteso chiarito. Il PCI italiano, da pochi mesi diventato PDS, ma pur memore del tempo in cui si scagliava contro gli ungheresi in rivolta contro la dittatura socialista, non protestò per il trattamento riservato agli albanesi. Scappavano da quello che rimaneva di un regime comunista, pur sempre – manco a dirlo – un pezzo di paradiso. L’Eden del proletariato dove un posto, a una mela, pur sempre si trova. Non però sul mercantile “Vlora”, avamposto della controinformazione borghese e capitalista. E l’epopea degli albanesi – la vecchia talpa della storia scava sempre i suoi più inaspettati cunicoli – è pur sempre un segreto doloroso dente nella faccia tosta della sinistra sempre immacolata. Lo testimonia il Kater i Rader, l’imbarcazione che è memoria di un tragico naufragio del 2015 quando una nostra corvetta – nello speronamento imposto da un blocco navale – raccoglie 80 morti e 27 dispersi dei 120 profughi a bordo. Non se ne fa story-telling della strage del Kater i Rader, non c’è narrazione e nemmanco uno straccio di serie tivù in perpetua programmazione. In quel tempo, infatti, c’era la civiltà e l’umanità a Palazzo Chigi, il blocco navale disposto dal Governo Prodi nientemeno. Il suggello della bonomia. Era il Venerdì Santo del 1997, il 28 marzo. E non c’era posto per nessuna mela.

Trent’anni dall’arrivo della nave Vlora: l’inizio dell’immigrazione in Italia. Jacopo Bongini l'08/08/2021 su Notizie.it. L'8 agosto del 1991 20mila albanesi giunsero a Bari a bordo della nave Vlora. Fu la prima delle grandi migrazioni che oggi interessano l'Europa. Sono passati trent’anni da quell’8 agosto del 1991, quando oltre 20mila persone partirono dall’Albania comunista di Enver Hoxha a bordo della nave Vlora per giungere sulle coste italiane in cerca di una vita migliore. Fu il primo episodio di un fenomeno all’epoca sconosciuto, di quelle ondate migratorie di massa che ne decenni successivi avrebbero caratterizzato la geopolitica dei paesi che si affacciano sul mar Mediterraneo e che sarebbero sfociate nella crisi europea dei migranti del 2013. La traversata della Vlora ebbe come prologo l’arrivo a Brindisi di circa 24mila profughi albanesi a partire dal precedente marzo del 1991. Persone disperate che lasciarono l’Albania a bordo di pescherecci e gozzi sgangherati e che vennero successivamente ridistribuite in tutto il territorio nazionale. Il regime di Hoxha era ormai agli sgoccioli e questo contribui sicuramente a far sì che altre migliaia di persone cogliessero la palla al balzo in quell’agosto del ’91, quando il mercantile Vlora tornò a Durazzo da Cuba carico di zucchero. In quei giorni si imbarcò chunque, persino i poliziotti che avrebbero dovuto fare da guardia al porto di Durazzo. Tra i primi arrivati nel porto di Bari vi fu anche l’ex operatore Rai Nicolai Ciannamea, che dell’esperienza vissuta raccontò in seguito: “C’era un odore mai più sentito e mai sentito prima. Era dolciastro, era odore di umanità”. L’arrivo dei primi immigrati nel nostro Paese fu un vero e proprio spartiacque che catapultò l’Italia direttamente nel XXI secolo e che anticipò di almeno dieci anni i problemi che avrebbero caratterizzato i nostri tempi. Già all’epoca politici e opinione pubblica erano infatti divisi tra chi definiva l’arrivo dei profughi come un’invasione e chi invece insisteva per accogliere delle persone che sognavano soltanto un futuro migliore, come l’allore sindaco di Bari Enrico Dalfino: “Sono persone disperate, noi siamo la loro unica possibilità. A commentare con grande lungimiranza gli avvenimenti di quei giorni fu sul quotidiano La Stampa il giornalista Enzo Bettiza, che scrisse un’editoriale in cui affermò: “Si è mai vista la Storia fermarsi davanti all’ingiunzione di un maresciallo dei carabinieri?“. Oggi sappiamo che le leggi restrittive servono a ben poco quando le migrazioni sono di portata epocale, specie in questi ultimi anni in cui i confini d’Europa si sono spostati da Bari a Lampedusa e dove gli africani sono diventati i nuovi albanesi. 

"Erano quasi tutti nudi e noi vigili trovammo la biancheria": il comandante racconta il lavoro dopo l'arrivo della Vlora a Bari. Gianfranco Moscatelli su La Repubblica il 6 agosto 2021. Il colonnello Saverio Gualtiero D'Alonzo, oggi in pensione, per una combinazione in quei giorni aveva la responsabilità del corpo. "All'arrivo con i 20mila albanesi un'immagine apocalittica".  Da anni girava in lungo e in largo nelle strade di Bari trovandosi di fronte a situazioni di tutti i tipi, ma qualcosa come quello che vide l'8 agosto del 1991 e poi visse nei giorni successivi non l'avrebbe mai immaginata. E mai dimenticherà. Saverio Gualtiero D'Alonzo quando a Bari arrivò la Vlora con il suo enorme carico di vite e disperazione, aveva la responsabilità del comando dei vigili urbani. Fu un caso perché il comandante e il vice erano in ferie e lui, a 41 anni, era il più alto in grado. "Fu un'impresa perché fu davvero qualcosa di nuovo e nessuno era preparato ad affrontare un'emergenza di questa portata". La sua fu una presenza costante accanto al sindaco Enrico Dalfino, dividendosi tra lo stadio della Vittoria e le strade vicine in cui si ritrovavano albanesi in cerca di aiuto o in fuga. E cinque anni fa il Comune gli ha consegnato la Stele nicolaiana della solidarietà per il lavoro svolto in quei giorni: "Un riconoscimento all'impegno di tutti i vigili".

Una situazione difficile da dimenticare.

"Per 72 ore non mi fermai mai, non tornai per niente a casa. All'epoca non esisteva la protezione civile e i vigili, tutti quelli in servizio, si fecero in quattro per aiutare i migranti".

Non fu una cosa semplice.

"In realtà questa parte del lavoro la facemmo di nostra iniziativa e anche in base alle indicazioni che ci dette il sindaco. Ma come agenti di polizia dovevamo comunque ottemperare agli ordini che arrivavano dal Governo centrale. Ricordo, ad esempio, che noi riportammo indietro tantissimi albanesi che erano fuggiti e correndo si ritrovavano nella sede del nostro comando all'epoca in via San Francesco alla Rena, a poca distanza dallo stadio. Prima di consegnarli alle forze dell'ordine, però, con i nostri soldi comprammo frutta, succhi, merendine da regalare ai bambini e panini per gli adulti: molti di loro non avevano mai visto cose del genere".

Facciamo un passo indietro, cosa successe la mattina dell'8 agosto?

"Alle 6 mi telefonò a casa l'allora capo di gabinetto della prefettura, Antonio Nunziante, per avvisarmi che al largo delle coste pugliesi c'era una nave carica di gente diretta a Monopoli o al massimo a Mola di Bari. Ci disse che non c'erano particolari problemi ma di essere comunque pronti per qualsiasi evenienza. Verso le 8 mi richiamò dicendo di andare immediatamente da lui con il sindaco perché la situazione era cambiata: la nava stava arrivando a Bari e soprattutto a bordo era stata calcolata la presenza di almeno 18-20mila persone".

Cosa accadde a quel punto?

"Quando con il sindaco Dalfino arrivammo in prefettura, la strategia dello Stato era già chiara: la situazione andava gestita come un'operazione di polizia".

Cioè?

"Era stato stabilito che tutti gli albanesi, una volta sbarcati, andavano trasferiti nello stadio della Vittoria per poi essere subito rimpatriati. Il sindaco subì questa decisione ma disse chiamante che queste persone erano ospiti nella nostra città e finquando sarebbero rimaste andava fatto di tutto per alleviare le loro sofferenze. Poi sappiamo tutti come finì".

Che sensazione ebbe quando arrivò al porto e vide la nave?

"Può apparire banale o poco pertinente ma mi sembrò di essere su una spiaggia di Rimini o di Riccione perché la prima cosa che mi colpì furono le centinaia di persone in mare oltre qulle che erano ancora stipate sulla Vlora o che già riempivano il molo foraneo. Faceva caldo, proprio come in questi giorni, e al di là del primo colpo d'occhio in direzione del mare, l'immagine della nave era apocalittica. Alcuni arrivarono a riva a nuoto, altri si diressero subito nella direzione opposta per tentare subito di andare via. Ma tantissimi per scendere si aggrapparono alle corde utilizzate per l'attracco della nave e si bruciarono tant'è che in pochi minuti il reparto di dermatologia dell'ospedale Di Venere si riempì di albanesi ustionati". 

Che cosa l'impressionò di più?

"Vedere tutta questa gente quasi nuda arrivata qui con solo i vestiti che indossava e che per giunta erano sporchi e logori. Va ricordato che quello non fu un imbarco programmato, in tanti appena avuta la notizia che nel porto di Durazzo c'era una nave che stava partendo per l'Italia si erano precipitati senza pensarci due volte, con quel poco che avevano. Il più delle volte nulla".

E voi vigili cosa faceste?

"Sembrerà una cosa strana, ma la prima cosa fu proprio cercare della biancheria. In molti erano rimasti in mutande e cannottiera e non avevano possibilità di cambiarsi. Inoltre, sia allo stadio sia al porto non potevano lavarsi perché non c'erano servizi igienici. Ognuno di noi si adoperò per procurare biancheria nuova. In città come ogni agosto era praticamente tutto chiuso quindi sfruttando la nostra conoscenza del territorio ci mettemmo alla ricerca dei commercianti. Poi li dovemmo convincere ad aprire i negozi e quindi ci facemmo consegnare tutto il possibile. Fu una sorta di requisizione bonaria e loro poi furono pagati. Nella notte riuscimmo a portare mutande, cannoittiere, reggiseni, magliette e altro in modo da consentire a queste persone di indossare finalmente qualcosa di pulito e dignitoso".

"Avevo 16 anni e feci quella foto che rimase nella storia": il fotoreporter ricorda lo sbarco degli albanesi dalla Vlora. Gianfranco Moscatelli su La Repubblica il 5 agosto 2021. Lo sbarco a Bari con il suo carico di 20mila albanesi è ricordato in tutto il mondo soprattutto grazie a una fotografia che meglio di mille parole riuscii a dare le dimensioni del dramma: trent'anni dopo Lorenzo Turi racconta quella storia. Lo sbarco della Vlora a Bari con il suo carico di 20mila albanesi è ricordato in tutto il mondo soprattutto grazie a una fotografia che meglio di mille parole riuscii a dare le dimensioni del dramma: migliaia di persone assiepate sul molo e altrettante ancora a bordo della nave, aggrappate alle corde o ai pennoni. Ma probabilmente in pochi sanno che quell’immagine fu scattata da un ragazzino.

Quelle foto dell’orrore, che saziano le coscienze e impediscono l’azione. Dalla Vlora ad Alan. Il bimbo salvato a Ceuta e quelli morti a Zuwara. Gli scatti colpiscono, commuovono, indignano. Ma la loro proliferazione spesso anestetizza la nostra capacità di reagire. E le decisioni dei politici. Francesca Mannocchi su L'Espresso il 7 giugno 2021. Che ci sia una barca sotto le persone lo capiamo solo perché la piramide umana della foto galleggia. A muoversi sulle acque del mar Adriatico sono donne, uomini e bambini ammassati gli uni sugli altri sulla nave Kallmi partita dall’Albania la sera del sei marzo del 1991 e arrivata a Brindisi la mattina seguente. In poche ore, nella primavera di trent’anni fa, furono ventisettemila i cittadini albanesi giunti sulle coste della Puglia a bordo di centinaia di piccole navi.

Cinque mesi dopo, l’8 agosto dello stesso anno, il mercantile Vlora, partito dal porto di Durazzo, approdò a Bari con 20 mila persone, donne stremate, uomini sfiniti dal caldo aggrappati ai ponti della nave, ragazzi che si gettavano in mare gridando «Italia, Italia». Da lì, dal porto di Bari, la Vlora una volta fotografata approdò anche nella nostra memoria e divenne archetipo delle prime grandi ondate migratorie sulle nostre coste. Non ce ne fu mai più una di tale portata. A guardarli da lontano, quegli uomini erano un corpo indistinto, un groviglio di cui a fatica si individuavano i confini. A guardarlo da vicino, invece, il mercantile Vlora era fatto di ventimila vite, delle esistenze degli altri e del loro patimento. La Vlora è arrivata e, arrivando, si è fatta simbolo. Sembrava una semplice immagine, era l’icona della fuga in mare. Non potevamo non guardare quei ventimila disperati: erano qui. Dovevamo però scegliere quale distanza mantenere dalla nave per prendere l’unità di misura della comprensione. È il dilemma dell’immagine quando testimonia la storia e le ingiustizie che produce: ci chiama in causa e ci chiede non solo di essere testimoni di un evento, ma anche cosa fare di quello che vediamo. Nel 2003, due anni dopo l’attentato alle torri gemelle di New York e un anno prima di morire, Susan Sontag scrive il suo secondo libro sulla fotografia dopo i saggi pubblicati nel 1976, il volume, recentemente ripubblicato in italiano da Nottetempo con il titolo “Davanti al dolore degli altri”, è una critica sociale sulle implicazioni delle disumanità dell’uomo sull’uomo. Perché mostrare la brutalità? Si chiede e ci chiede Sontag. Può la rappresentazione di atti umani orribili, del dolore degli altri, provocare un cambiamento? È questo il punto di partenza della sua riflessione: per molto tempo le persone hanno creduto che se l’orrore fosse stato vivido, gli altri, gli spettatori, avrebbero compreso gli oltraggi, la follia della guerra, si sarebbero battuti contro tali ingiustizie. Viviamo un’inversione: fino al diciannovesimo secolo l’orrore della guerra ci era distante, l’idea stessa del conflitto e delle sofferenze da esso generate era lontana nel tempo e nello spazio. La comunità assente dagli eventi percepiva la guerra come un immaginario mitico, espressione di eroismo e sacrificio. Oggi le immagini della ferocia delle azioni belliche, degli affanni e della sofferenza, dei popoli in fuga e di quelli in cammino, invadono ogni forma di comunicazione in un flusso costante e indistinto che spazia dal Myanmar al Sudamerica, dal Medio Oriente al Continente africano. Viviamo in un mondo saturo di immagini, possiamo essere ovunque. Vogliamo vedere tutto. Il tema è: come percepiamo quello che vediamo? Cosa ce ne facciamo di quell’immagine? Cosa resta nella foto che rappresenta il dolore, di quel dolore? Mutuando le riflessioni di Sontag potremmo domandarci oggi: abbiamo davvero capito la portata del fenomeno che viaggiava sulla Vlora più ancora che interrogarci sulle vite disperate che trasportava? Abbiamo previsto che potesse accadere ancora? Abbiamo cercato risposte, soluzioni che durassero nel tempo? A guardare il mare oggi si direbbe di no. Sontag lega il dolore degli altri alla responsabilità e all’autorità. Perché dovremmo guardare immagini di orrori vicini e lontani se non siamo in grado di fare nulla per modificare quello che le immagini mostrano? Il 2 settembre del 2015 la fotografia di un bambino diventa virale. È il cadavere di Alan Kurdi, un bambino siriano di tre anni che viaggiava con la sua famiglia, in fuga dalla guerra. Volevano raggiungere Kos, un’isola greca e da lì arrivare in Nordeuropa. Il suo corpo fu ritrovato su una spiaggia nei pressi di Bodrum, in Turchia. Il mondo si indignò, si levò un’ondata di partecipazione emotiva, di empatia verso le pene del popolo siriano in fuga dal regime di Bashar al-Assad. Il 2015 era l’anno della crisi della rotta balcanica, l’anno record per numero di morti nel Mediterraneo centrale, la guerra siriana iniziata quattro anni prima aveva già provocato 14 milioni di sfollati, eppure fu l’immagine del corpo di un bambino di tre anni a faccia in giù, morto affogato e ritrovato esanime nella sua maglietta rossa a rendere vivida, reale, l’immagine della crisi dei rifugiati siriani nel continente europeo. La foto di Alan Kurdi apparve su venti milioni di schermi in un giorno e fu incorporata ogni ora in 53 mila tweet nelle 24 ore successive al ritrovamento del corpo. I leader europei si affrettarono a esprimere solidarietà a suo padre, rilasciando dichiarazioni sulle modifiche necessarie ai piani di ricollocamento delle persone in fuga dalla guerra. Il 5 settembre Cameron disse: «Ci prenderemo le nostre responsabilità», l’allora primo ministro italiano Matteo Renzi disse: «L’Europa non si può solo commuovere, si deve muovere». A muoversi fu Angela Merkel che annunciò di accogliere i siriani «senza limite di numero». Il corpo di Alan Kurdi è stato per un po’ «icona delle notizie istantanee», un’immagine che attraverso una rapida, virale diffusione diventa cornice di riferimento per un pubblico ampio, persino globale: era un corpo e insieme tutti i corpi migranti, e il loro strazio e chiedeva che l’atto del guardare diventasse forma dell’agire. Era l’oltraggio della guerra, doveva scuotere le coscienze e con esse le decisioni politiche. Eppure poche settimane dopo la sua morte, l’Ungheria chiuse i confini e lo stesso fecero e la Croazia e la Slovenia in risposta alle decisioni della Cancelliera tedesca, il movimento di estrema destra e antimusulmano di Pegida sfruttò il risentimento di molti cittadini tedeschi per radicarsi velocemente e sul vento xenofobo che ha cominciato da allora a soffiare in Europa, il resto è Storia. L’Europa ha lentamente esternalizzato i confini, delegando il controllo delle frontiere di terra e di mare. I partiti di estrema destra si sono moltiplicati. I ricollocamenti dei rifugiati continuano ad essere scarsi, in mare si muore ancora e si muore tanto. Otto mesi dopo la morte di Alan, il padre del bambino, Abdullah Kurdi, in un’intervista a Repubblica disse: «I bambini profughi continuano ad affogare ogni giorno, la guerra in Siria non è stata fermata. Vedo Stati che costruiscono muri e altri che non ci vogliono accogliere. Il mio Alan è morto per niente, il mondo lo ha pianto. Poi solo parole e muri per chi fugge». Il corpo di Alan Kurdi ha provocato un sentimento, ma non un cambiamento. Quel cadavere di tre anni, simbolo dell’indecenza della guerra, espressione dei limiti delle politiche europee ha determinato in chi guarda un sentimento meccanico: la compassione. E un’equazione semplice: provo pietà dunque partecipo. Un’illusione, la medesima provocata dalle immagini del naufragio del 3 ottobre 2014 a Lampedusa, le centinaia di bare nell’hangar dell’aeroporto dell’isola, le immagini subacquee della Guardia Costiera dei corpi ritrovati nei relitti in fondo al mare, stretti, un abbraccio fissato immobile nell’atto di affondare, giovani impigliati nelle cime dei barconi, una madre che stringe un bimbo al petto, presumibilmente suo figlio. Abbiamo visto tutto in questi anni, bambini denutriti nello Yemen, bambini nelle gabbie divisi dai loro genitori al confine tra Messico e Stati Uniti, bambini recuperati dalle Ong in mezzo al mar Mediterraneo. Per ognuna di queste situazioni abbiamo un’immagine da agganciare alla memoria. La bambina di 2 anni che piange disperatamente mentre sua madre viene perquisita da un agente di frontiera al confine tra Stati Uniti e Messico, Amal, la bambina yemenita ritratta in un centro sanitario ad Aslam e morta pochi giorni dopo essere stata fotografata, gli occhi di Josefa, che prima di essere salvata da Open Arms aveva visto morire accanto a sè donne e bambini nel mar Mediterraneo. Abbiamo visto e non potevamo non vedere, volevamo sentirci lì dove accadevano le tragedie, essere testimoni attraverso le lenti di altri e in fondo uscirne anche migliori perché osservando e indignandoci riconoscevamo l’ingiustizia subita dall’Altro, soggetto (oggetto?) dello scatto. Guardare ci ha messi in relazione con le persone riprodotte, ci ha dato la sensazione di averle comprese. Eppure, a ben pensarci, era un’allucinazione. La proliferazione delle immagini anziché essere strumento di conoscenza è diventato spesso sinonimo di ignavia. L’aveva scritto già nel 1976, Susan Sontag: la fotografia è diventata uno dei principali meccanismi per provare qualcosa, per dare una sembianza di partecipazione. Una sembianza di partecipazione. Guardare può portare riconoscimento ma anche rendere invisibile l’altro, perché vedere tutto ci illude di partecipare, e dunque ci illude di comprendere. Forse, ci dice ancora Sontag, l’interesse umano per il dolore può essere paragonato a un incidente d’auto che fa rallentare i passanti che cercano tracce della tragedia. Il pensiero è: sta succedendo ma non sta succedendo a me. Traslato sulle sofferenze delle vite distanti, delle vite migranti, dei profughi di guerra, il non sta succedendo a me si unisce a: il soggetto ritratto – la vittima – non mi somiglia. E qui lo scarto raddoppia, non solo non sta succedendo a me, ma: a me non può capitare. Il riconoscimento diventa una doppia negazione. Guardando viviamo una «sembianza di partecipazione», pensiamo che l’accesso alle informazioni visive ci mostri la vastità di un problema, in verità viviamo una chimera. Perché quell’immagine che prima ci sconvolge, in seconda battuta ci solleva, ricordandoci che a noi un tale dolore non capiterà mai. Abbiamo guardato, ci siamo sdegnati e questo basta a riconciliarci con la coscienza, a farci sentire assolti. Anche l’inizio di questa estate 2021 è segnato da istantanee che fermano un volto, un’emozione, un abbraccio, un momento di liberazione in cui il dramma, il terrore di morire, l’urgenza della fuga, sono finalmente alle spalle. Sono le immagini che arrivano da Ceuta, l’enclave spagnola in Marocco, dove nelle ultime settimane sono arrivati, nuotando o a piedi, novemila migranti, molti giovanissimi, persino bambini di sei o sette anni. Una fotografia porta il volto di un uomo della Guardia Civile Spagnola: sta salvando nell’acqua un bambino che rischiava di annegare. È un neonato, ha il volto rivolto verso il basso, un cappellino a coprire la nuca, sulle mani dei piccoli guanti. L’uomo sembra sostenere il bambino verso l’alto, a voler leggere il suo gesto da due lati lo sta salvando dalle onde e allo stesso tempo mostrando alle coscienze di chi guarda. Sono di bambini anche i sessantasette volti della prima pagina del NY Times e di Haaretz, le piccole vittime palestinesi degli undici giorni della guerra di Gaza, sono di bambini anche i corpi ritrovati sulle spiagge libiche nei pressi di Zuwara, riversi, senza nome e senza storia, la sabbia bagnata copre i vestiti da neonato, uno è stretto in una tutina grigia che gli copre il corpo per intero, un’altra un po’ più grande, avrà quattro forse cinque anni, ha una maglietta dal colore acceso, un celeste simile al colore del cielo. È la prima cosa che si vede della foto, il celeste luminoso. Poi, a fermarsi un po’ senza distrarsi, si vede la pancia gonfia, che spunta dalla maglia. Quanta acqua avrà bevuto prima di annegare, quanto tempo ci ha messo a morire? Ha ancora senso mostrare queste immagini? Ha ancora senso l’esibizione del patimento, lo spettacolo scandaloso del dolore degli altri? Se esiste un’unità di misura del guardare, abbiamo visto troppo o abbiamo solo visto male? Lo sperimentiamo quotidianamente, la marea di immagini scioccanti (sempre più scioccanti) sembra aver saturato le nostre menti, sembra aver prodotto il contrario della consapevolezza, l’insensibilità, avendoci fatto smarrire la capacità di reagire. Quanto più vediamo, tanto più vogliamo vedere, desideriamo illuderci di partecipare, tanto più la compassione iniziale diminuisce, proporzionalmente alle immagini prodotte. Forse vent’anni fa Susan Sontag parlava allo spettatore del futuro, un noi retoricamente coinvolto nelle vite degli altri ma in definitiva anestetizzato, un noi che ha prodotto una proporzionalità diretta e insidiosa: quanto più vedo, tanto piu’ l’Altro diventa invisibile, quanto più mi illudo di partecipare, tanto più l’Altro è dato per scontato. Mostrare oggi ha senso solo se smettiamo di compatire le vittime e sollecitiamo domande inevase: chi ha causato ciò che mostra l’immagine? Chi è responsabile? Guardare allora diventerebbe un incitamento all’agire, un riscatto alle ingiustizie. Questo salverebbe il soggetto dall’estetizzazione del suo dolore, e salverebbe tutti noi dall’essere – come siamo – compromessi dall’inazione. Susan Sontag ci aveva ammonito, scrivendo: lasciamoci ossessionare dalle immagini atroci. Forse, oggi, per vedere meglio dobbiamo guardare meno. Liberare i corpi, le vite, dalla griglia dell’emozione momentanea - provata e obliata nel tempo di un istante – liberare il dolore degli altri dall’esercizio deresponsabilizzante del ricordare. È l’insegnamento più grande che Sontag ci consegna, che dovremmo tenere come una lente sul presente, quando ricordiamo i ventimila della Vlora, i morti di Lampedusa, i bambini uccisi dalle bombe, i tanti Alan Kurdi che abbiamo lasciato al di là dei confini, i morti annegati del Mediterraneo, i bambini morti di fame dall’altra parte del pianeta: forse attribuiamo troppo valore alla memoria e non abbastanza al pensiero.Forse, dovremmo chiudere gli occhi, smettere di ricordare e chiederci: che fare?

Mattia Ferraresi per “Domani” il 27 maggio 2021. È terribile ma forse necessario ammettere che le immagini dei bambini morti sulle spiagge della Libia producono in noi un riverbero emotivo che dura appena lo spazio di un istante. Poi la nostra attenzione si sposta su un’altra immagine tragica, poi su un’altra e su un’altra ancora, una carrellata senza fine di fotogrammi della sofferenza. A ogni passaggio da un fotogramma all’altro una quota della carica comunicativa del soggetto inquadrato si disperde, la sua capacità di mobilitare la coscienza si affievolisce. È un anestetico che viene iniettato per gradi. Da occasione per intraprendere un serio esercizio di empatia o sofferenza condivisa, l’immagine della morte – di più: della morte innocente – diventa anticamera dell’indifferenza. Intendiamoci: questo effetto non diminuisce di uno iota l’oggettiva gravità della tragedia che le immagini catturano e non costituisce un argomento sensato per limitare la rappresentazione e pubblicazione di certi scatti. Il problema ineludibile è che il soggetto che li guarda è esausto.

Occhi saturi. Ha gli occhi saturi di visioni moralmente insostenibili, che finiscono per cancellarsi automaticamente dalla coscienza. C’è stato un tempo in cui la decisione di pubblicare immagini particolarmente crude o violente era motivata dalla ragionevole aspettativa che l’impatto scioccante potesse risvegliare gli animi intorpiditi, generare consapevolezza, mobilitare. Oggi questa aspettativa è assai meno ragionevole. La costante documentazione in tempo reale di guerre, genocidi, disastri naturali, carestie, soprusi, violenze di ogni tipo e natura ci permette di sapere e vedere molto più male di quanto potessimo vedere in passato, accorciando drasticamente le distanze. Nella preistoria dell’era digitale si credeva ingenuamente che questo avvicinamento alle sofferenze di persone lontane e invisibili ci avrebbe resi più sensibili ai destini altrui, specialmente dei più deboli. È vero il contrario. Più vediamo, meno proviamo compassione. Ciononostante, nelle redazioni continua a circolare una delle frasi più sciocche fra quelle che affliggono la professione giornalistica: “Non ne parla nessuno”. Il dramma è invece che tutti parlano di tutto, sempre. Il flusso informativo porta una quantità di immagini del dolore incommensurabilmente più grande rispetto a qualunque capacità di elaborazione umana.

Rimozione emotiva. Scatta così una strana forma di rimozione emotiva. Certo, alcune immagini rimangono, diventando, come si dice, iconiche, ad esempio quella di Alan Kurdi, ma le più passano lasciando soltanto qualche increspatura passeggera. Si tratta di un’evoluzione di effetti che gli psicologi che si occupano di empatia ed elaborazione dei sentimenti collettivi hanno individuato da decenni. Il fenomeno del “psychic numbing”, l’anestesia psichica, è sintetizzato dalla frase “più persone muoiono, meno la cosa ci importa”: quando si parla di un elevato numero di vittime, come nella pandemia, diventa impossibile per la mente elaborarle e per la coscienza soffrire e agire di conseguenza. La percezione che ogni sforzo individuale sia vano per lenire sofferenze di proporzioni enormi è invece nota come “pseudoefficiency”. Si è spesso pensato che concentrarsi su singoli episodi, casi e storie particolari, potesse aiutare a dare un volto e dunque a generare empatia e mobilitazione. Il fotogiornalismo ha dato un contributo enorme in questo senso. Ma le storie particolari sono diventate così tante, pervasive, onnipresenti e incessanti che gli occhi si sono assuefatti. Siamo in un cortocircuito: abbiamo l’obbligo di guardare i corpi senza vita di quei bambini, ma abbiamo anche l’obbligo di ammettere a noi stessi che più ne vediamo, meno ne soffriamo.

Marta Serafini per il "Corriere della Sera" il 25 maggio 2021. I corpi dei bambini e quello di una donna: uno ha il volto seminascosto dalla sabbia, indosso una tutina di quelle che portano i piccoli più o meno fino a un anno di vita; un altro ha i piedi scalzi e sulla sabbia sembra riposare; la terza foto ritrae un corpo femminile coperto di stracci. Sono le foto, terribili, pubblicate ieri su Twitter da Oscar Camps, tra i fondatori della Open Arms, la Ong spagnola che opera nel Mediterraneo prestando soccorso ai migranti. «Sono ancora sotto choc per l'orrore della situazione, bambini piccoli e donne che avevano solo sogni e ambizioni di vita. Sono stati abbandonati su una spiaggia, a Zuwara, in Libia per più di tre giorni. A nessuno importa di loro», scrive Camps. Non è chiaro quando questi corpi siano arrivati sulla spiaggia di Zuwara e non è nemmeno confermato se siano stati rimossi o siano ancora lì. Tuttavia l'ipotesi è che siano vittime dell'ultimo naufragio di cui ha dato conferma nei giorni scorsi l'Oim, l'Organizzazione internazionale dei migranti: una cinquantina di dispersi, 33 superstiti che hanno raccontato che su quel barcone partito nella notte tra il 18 e il 19 maggio da Zuwara erano una novantina, tra loro molte donne e bambini. Ipotesi che si rincorrono sulla rotta del Mediterraneo centrale che non smette di essere mortale, tra i trafficanti che buttano in mare i gommoni e i soccorsi che spesso non arrivano. Domenica la Ong Alarm Phone segnalava un altro distress, come si dice in gergo marittimo: «Non siamo stati in grado di riconnetterci con le 95 persone in difficoltà. L'ultimo contatto risale a 15 ore fa. Ma sappiamo che la barca è ancora in mare: i mercantili First Brother e Sea Loyaltyála stanno monitorando. Temiamo un respingimento illegale verso la Libia». Altri barconi che spariscono mentre i corpi vengono inghiottiti dal mare che poi li restituisce alle stesse coste da cui i gommoni partono. O che vengono riportati in Libia. E mentre si attendono conferme sulla dinamica di quest'ennesima tragedia, da sottolineare come nelle ultime settimane le partenze siano aumentate. Tra lo scorso gennaio ed aprile, le traversate illegali lungo la rotta del Mediterraneo centrale sono raddoppiate rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso, per toccare quota 11.600, un aumento del 157 per cento se confrontato al dato del 2020. Per il solo mese di aprile gli arrivi sono stati 1.500 e questo ben prima dell'inizio dell'estate, periodo che coincide, di solito con il picco delle partenze. Solo un mese fa, un naufragio costato la vita a 130 persone. E chi non trova la morte nel Mediterraneo rischia di perdere la vita nei famigerati centri libici, controllati dal dipartimento per la lotta all'immigrazione illegale, o in quelli clandestini. Da inizio anno, 500 persone sarebbero già morte mentre cercavano di attraversare il Mediterraneo centrale, secondo dati diffusi ad inizio maggio dall'Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), mentre nel 2019 i decessi nel «mare nostrum» sarebbero stati almeno mille. Per Amnesty International, che ha denunciato una «strage silenziosa», nel cimitero Mediterraneo almeno in 15 mila hanno perso la vita tra il 2014 e il 2019. Inoltre, il rapporto tra partenze e i decessi durante la traversata è drammaticamente mutato: è passato da uno ogni 29 nel 2018 a uno ogni sei nel 2019, un segnale inquietante che queste foto confermano. Lo stesso anno, almeno 2.747 migranti intercettati sono stati riportati Libia. Un dato, in forte aumento da inizio 2021, dopo la riduzione del 2020, causa pandemia: da gennaio, secondo Unhcr, oltre 5.500 persone sono state rimpatriate in territorio libico. «Disperati, scalzi, stanchi e maltrattati, sono stati condotti in detenzione arbitraria dove affrontano maggiori rischi», ha riferito Safa Msehli, portavoce di Un Migration. Secondo gli ultimi dati diffusi dalle poche Ong presenti sul campo, tra cui Medici senza frontiere (Msf), in Libia sono attivi 15 campi governativi, con oltre 4.100 migranti prigionieri, di cui 3.200 nella sola Tripoli, 470 nel Nord-Est del Paese e 386 nell'Est. Tra i migranti detenuti, è stato censito una presenza di minorenni, al 27%, e di donne (12%), per un totale di 1.046 migranti particolarmente vulnerabili. I volontari di Msf, testimoni diretti da quei centri di detenzione, riferiscono di condizioni «sconvolgenti che stanno ulteriormente peggiorando», con sei o più persone ammassate in ogni cella, senz'aria né luce, con poco cibo e poca acqua. Una vera e propria lotta per la sopravvivenza. A peggiorare la situazione, il divieto di accesso ai centri perfino all'Unhcr, che fino a marzo distribuiva coperte, materassi ed abiti.

Per fermare questo orrore, fermate subito gli sbarchi. Andrea Indini il 25 Maggio 2021 su Il Giornale. Il fondatore di Open Arms posta su Twitter tre foto choc che ritraggono i cadaveri di alcuni bimbi sulle spiagge libiche. Ma per evitare che questo orrore si ripeta bisogna solo azzerare le partenze. Per tre giorni quel corpicino, ancora gonfio d'acqua del mare, è stato ricoperto dalla sabbia e dalla salsedine. Poi i militari lo hanno raccolto e portato via. Adesso riposa in pace, sotto terra. Lo hanno sepolto nel cimitero di Abu Qamash, non tanto distante dalla costa di Zuwara dove, con molta probabilità, tutto ha avuto inizio. Non ha un nome, quel corpicino. E, anche se lo avesse, non ci sarebbe certo la fila di parenti a posargli un fiore bianco sulla lapide e a sussurrargli una preghiera per accompagnarlo nell'aldilà. Ce ne sono tanti, in Africa, di bambini morti che non vengono pianti dai genitori. Ad ammazzarli sono la fame, le guerre, le malattie. L'Occidente è abituato a vedere sagome scheletriche con le pance gonfie e gli occhi in fuori. Poi, però, basta un post su Twitter a risvegliare l'indignazione generale. È stato Oscar Camps, il fondatore della spagnola Open Arms, una delle tante ong che da anni scorrazzano nel Mediterraneo Centrale e riversano i clandestini recuperati tra le onde sulle nostre coste, a postare tre fotografie devastanti. Due di queste ritraggono i cadaveri di due bambini. Uno è il piccolino portato dai militari al cimitero di Abu Qamash nei giorni scorsi. "Sono ancora sotto shock per l'orrore della situazione, bambini piccoli e donne che avevano solo sogni e ambizioni di vita - ha scritto su Twitter - a nessuno importa di loro". E poi ancora in un secondo post pubblicato dalla ong: "Corpi abbandonati. Vite dimenticate. L'orrore tenuto lontano perché scompaia. Vergogna Europa". Quegli scatti drammatici hanno così fatto irruzione al Consiglio europeo iniziato ieri sera e che, proprio su richiesta del nostro Paese, ha avuto all'ordine del giorno anche il tema dell'emergenza immigrazione. Quello che il premier Mario Draghi pretende dall'Unione europea, anche a fronte degli sbarchi, che nell'ultimo mese sono più che triplicati, e dei continui naufragi, è un cambio di passo nelle politiche comunitarie. Un cambio di passo che superi, una volta per tutte, l'approccio emergenziale del problema e affronti in un contesto europeo coordinato il nodo degli sbarchi e delle successive redistribuzioni. Nonostante il pressing di Palazzo Chigi, durante il summit, come ha fatto sapere il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, la questione "non è stata affrontata nel merito". Bisognerà aspettare il prossimo vertice, che si terrà a giugno, per farlo. Nel frattempo l'Italia continuerà a combattere in prima linea, da sola. La fotografia del piccolo di Zuwara ricorda tanto quella di un altro bambino: Alan Kurdi. A soli tre anni era stato ritrovato anche lui, senza più vita, su una spiaggia. Era il 2 settembre del 2015 e, quando apparve sui giornali di tutto il mondo, lo scatto della fotografa turca Nilüfer Demir divenne immediatamente il simbolo della crisi dei migranti che, in seguito alla guerra civile in Siria, aveva travolto l'Unione europea. Per giorni, forse anche settimane, le vignette del siriano avevano invaso le bacheche di Facebook e riempito le bocche di politici e associazioni umanitarie. Si erano tutti ripromessi di risolvere l'emergenza e di fare in modo che immagini del genere non ne avremmo più viste. Pura utopia. Il problema non fu mai risolto e il numero dei morti continuò a crescere nell'indifferenza generale. Perché i numeri e le percentuali sono un'idea inconsistente, mentre le immagini catturano (anche se per poco) l'attenzione. E così il miracolo del militare spagnolo, che qualche giorno fa ha salvato un neonato dalle onde del mare e che tutti i quotidiani hanno raccontato in prima pagina, ha risvegliato tutti quanti dal torpore. Per poco. Non sappiamo chi abbia messo su una nave il piccolo di Zuwara. Né da cosa stesse scappando, se da una guerra o dalla fame. O se stavano tutti inseguendo il miraggio di una vita migliore in Italia o in Europa, senza sapere che, superato il Mar Mediterraneo, li avrebbe attesi comunque una vita difficile. È per questo che la soluzione a questo dramma non può essere quella sventolata da Oscar Camps su Twitter o da Enrico Letta alla direzione del Partito democratico. Non è certo la regolarizzazione dei flussi. Per salvare vite bisogna azzerare gli sbarchi. Per salvare vite bisogna fare in modo che nessuno più parta dalle coste del Nord Africa. Ne era convinto anche Marco Minniti che, quando aveva preceduto Matteo Salvini alla guida del Viminale, aveva avviato una serie di incontri con i capi di Stato africani per risolvere l'emergenza alla radice. Una strategia che aveva ovviamente scontentato tutti gli ultrà dell'accoglienza che, invece, sognano ponti umanitari per far venire quanti più stranieri nel nostro Paese. Solo azzerando le partenze, invece, si evitano quelle drammatiche morti che destano indignazione soltanto a giorni alterni. Solo azzerando le partenze, si evitano schiere di invisibili che dai centri di accoglienza fuggono ai margini delle nostre città. Solo azzerando le partenze, possiamo sperare di tornare più umani.

Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile. Dal 2008 al sito web del Giornale, ne sono il responsabile dal 2014. Con ilGiornale.it ho pubblicato Il partito senza leader (2011), ebook sulla crisi di leadership nel Pd, e i saggi Isis segreto (2015) e Sangue occidentale (2016), entrambi scritti con Matteo Carnieletto. Nel 2020, poi, è stata la volta de Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni), un'inchiesta fat

Le foto choc vanno a segno. Dall'Onu via libera alle ong. Fausto Biloslavo il 27 Maggio 2021 su Il Giornale. I bambini morti in Libia usati per smuovere coscienze e permettere alla flotta umanitaria il ritorno in mare. «Foto inaccettabili» ha giustamente sottolineato il presidente del Consiglio, Mario Draghi, parlando delle immagini choc dei corpicini senza vita portati a riva in Libia dalla marea. Però è «inaccettabile» anche l'uso cinico e spregiudicato di queste terribili immagini da parte di una Ong del mare, che le ha sbattute su twitter. Un pugno allo stomaco non solo per denunciare una morte inutile e straziante, ma per pura «pressione politica», come viene platealmente ammesso dagli stessi talebani dell'accoglienza. La macchina da guerra mediatica e propagandistica delle Ong appena può utilizza foto di corpi annegati che galleggiano, dei salvataggi disperati e di bambini che non respirano più. Se lo facessero solo per denunciare le morti in mare sarebbe condivisibile, ma in realtà usano le stragi degli innocenti per ribaltare la tragica realtà. Gli unici e veri responsabili dei bambini senza vita con la faccia nella sabbia sono i trafficanti, che fanno partire a pagamento i migranti sui gommoni della morte diretti verso l'Italia. Le Ong, come Open arms, che grazie al suo fondatore Oscar Camps ha lanciato le immagini choc, preferiscono puntare il dito contro il nostro paese e l'Europa che secondo loro hanno abbandonato il soccorso in mare. L'ovvio risultato è che per evitare le tragedie deve pensarci la flotta umanitaria facendo sbarcare i migranti in Italia. Va bene lanciare l'allarme per i morti in mare, ma non certo dare via libera alle navi dei talebani dell'accoglienza. Anche la tempistica del pugno nello stomaco fotografico non è mai scelta a caso. Le ultime foto escono in occasione del summit dei capi di governo Ue, che doveva affrontare il tema dell'emergenza migranti. Per di più le navi delle Ong, come Open arms, sono rallentate da fermi amministrativi e controlli. E a breve il Parlamento dovrà votare per rinnovare, o meno, le missioni in Libia compreso l'appoggio alla Guardia costiera che da gennaio ha riportato indietro oltre 9mila migranti. E pure le Nazioni Unite, con l'Alto Commissario per i diritti umani, chiedono alla Libia e all'Ue di modificare le operazioni di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo. Di fronte allo sdegno nessuno si chiede come siano saltate fuori queste foto. La portavoce di Open arms glissa, ma la spiaggia dei bambini annegati è vicina a Zuwara, principale hub di partenza dei migranti, dove comandano trafficanti e miliziani. Proprio i trafficanti avrebbero interesse a fare circolare le foto dei bambini annegati per vedere riapparire la flotta Ong davanti alle coste libiche. La costola dell'Onu per le migrazioni ha personale sul campo, ma non sapeva nulla delle immagini a tal punto che ha aperto un'indagine per capirne di più. La Mezzaluna rossa, l'equivalente musulmana della nostra Croce rossa, recupera spesso i cadaveri degli annegati, ma avrebbe potuto denunciare il naufragio senza aver bisogno di veicolare le foto attraverso Open arms. A parte i dubbi, immagini del genere sono un'arma potente come nel primo caso emblematico del piccolo Alan Kurdi immortalato esanime su una spiaggia turca nel 2015. Pochi mesi dopo, anche grazie al drammatico scatto, la Ue siglò l'accordo di 6 miliardi di euro con la Turchia per fermare il flusso che arrivava da noi lungo la rotta balcanica. Giusto o sbagliato che sia il problema è stato risolto a suon di euro dai turchi bloccando non tutte, ma gran parte delle partenze. Al coro dello sdegno partecipa una sfilza di campioni di pseudo buonismo, che non si rende conto della realtà: il problema va risolto a terra e non in mare, quando è troppo tardi. Meno foto che ti fanno stringere il cuore e più fatti, che blocchino le partenze, garantiscano umanità nei centri di detenzione e riportino a casa i tanti migranti che vogliono uscire dall'inferno libico. I piani ci sono, ma nessuno ha la volontà di applicarli, in Italia e in Europa.

L'armata rossa all'assalto di Draghi. Federico Garau il 26 Maggio 2021 su Il Giornale. Il commento del premier Mario Draghi scatena le reazioni dei buonisti, che tornano alla carica sul tema immigrazione. Radical chic di sinistra e buonisti di tutta Italia uniti alla carica del governo Draghi sul tema immigrazione: dalla richiesta di abolizione del patto con la Libia fino alla necessità impellente di spalancare le porte del nostro Paese per favorire l'incremento demografico, nelle ultime ore si è sentito davvero di tutto, anche se con poca fantasia rispetto al solito.

Toscani e l'immigrazione "necessaria". Non poteva, ovviamente, mancare nella mischia il fotografo Oliviero Toscani, degno rappresentante della sinistra favorevole all'immigrazione indiscriminata. Partendo dalle immagini choc dei corpi senza vita di alcuni bambini sulle spiagge della Libia, che ieri il premier ha definito "inaccettabili", Toscani così commenta all'AdnKronos: "Devo dire che, finalmente, sono fiero di fare il fotografo perché attraverso le immagini ci si rende conto di che cosa succeda al mondo. Quelle immagini sono inaccettabili o è la realtà ad esserlo? Draghi dovrebbe dire: è inaccettabile quello che sta succedendo, non le immagini. Non bisogna lamentarsi che le fotografie scioccano", spiega il fotografo, dato che "sono la semplice documentazione di realtà che ci circondano". Dopo l'arringa iniziale, Toscani va al nocciolo della questione: l'unico modo per evitare queste immagini è spalancare le porte del Paese, senza se e senza ma. Dopotutto l'Italia ha pure bisogno di immigrazione, come a dire "una mano lava l'altra", no? Da un lato risolviamo il problema dei migranti e dall'altra ci facciamo un grosso favore pure noi."Adesso bisogna fare qualcosa. Il problema è la migrazione. Va risolto, non c'è niente da fare, è inarrestabile. Dobbiamo essere bravi a diventare un grande Paese, questa è la prova se ne siamo all'altezza". Un grande Paese, quindi, per il fotografo, è un Paese che apre all'immigrazione indiscriminata. "L'Italia ha bisogno di immigrazione. Va organizzata come hanno fatto tutti i grandi Paesi. Come è nata l'America? E poi il 57% degli svizzeri è di origine migratoria". Tutte frasi fatte già sentite più volte quando i radical chic di sinistra toccano il tema dei flussi migratori verso l'Italia: dobbiamo, secondo il fotografo, "cominciare a programmare il fenomeno. I migranti devono lavorare come dobbiamo lavorare tutti noi. Dobbiamo organizzare una società civile".

Casarini: "Basta al patto con la Libia". Il capo missione di Mediterranea Luca Casarini rilancia, prendendo ancora una volta di mira gli accordi tra il nostro Paese e la Libia. Il "la" viene fornito ancora una volta dalle parole del presidente del Consiglio. "Il Presidente Draghi ha definito 'inaccettabili' le immagini dei piccoli corpi senza vita sulla spiaggia di Zwara, in Libia. È esattamente così, inaccettabile. Ma allora il Presidente dovrebbe definire inaccettabile il sistema che provoca queste morti continue". Ecco quindi che Casarini si scaglia contro il vero elemento in grado di ostacolare la serena prosecuzione dei flussi migratori dalle coste africane all'Italia: "Quel 'patto Italia-Libia' che costringe migliaia di bambini a vivere dentro campi di concentramento dove sono esposti alle più brutali sofferenze. È inaccettabile che il soccorso in mare sia stato sospeso in favore di una attività di 'polizia di frontiera'", accusa il capo missione di Mediterranea ai microfoni di AdnKronos, "perché questo è quello che fanno le milizie libiche travestite da 'guardia costiera' - che ha catturato e deportato di nuovo in quei campi migliaia di persone dall'inizio dell'anno". "È inaccettabile che per meri calcoli politici ed elettorali, questi bambini siano morti cosi, con i loro genitori, tentando di scappare da quelle prigioni", aggiunge Casarini, che poi si scaglia contro chi non la pensa esattamente come lui, in perfetta linea con la tradizione buonista nostrana. Pur senza mai menzionare tali personaggi, pare evidente che, ricollegandosi a forze politiche che fanno parte del governo Draghi (essendo la Meloni all'opposizione) il riferimento sia a Salvini ed alla Lega. "E mentre accade questo, e accade ogni giorno, qualche sciacallo che fa parte del governo del Presidente Draghi, ha il coraggio di definire "turisti a spese nostre" le donne, gli uomini e i bambini che riescono a salvarsi e chiedono accoglienza sulle nostre coste. Inaccettabile parlare di "difesa dei confini" mentre i bambini annegano è inaccettabile. Questo sistema inoltre alimenta il traffico di esseri umani, perché non esistono vie legali e sicure per scappare dall'inferno libico". Anche limitare le partenze per limitare il numero dei morti è ovviamente inconcepibile per chi si occupa di traghettare i migranti fino alle nostre coste:"È inaccettabile che si continui a dire che "meno partono e meno muoiono": quelli che rimangono in Libia sono ridotti allo stato di schiavitù, sottoposti a torture e stupri, uccisi senza che nessuno lo sappia", precisa Casarini, che poi porta l'attenzione sulle difficoltà burocratiche che le navi Ong devono affrontare per svolgere il loro servizio di trasporto. "E infine è inaccettabile che continui la guerra e la criminalizzazione con inchieste pilotate e fasulle contro chi fa soccorso civile in mare. Finché gli Stati continueranno con le politiche di morte, noi continueremo ad andare in mare per aiutare i nostri fratelli e sorelle".

Open Arms: "Ci si indigna solo a singhiozzo". Ad intervenire è anche la responsabile della comunicazione della Ong spagnola in Italia Veronica Alfonsi, che commenta le stesse immagini e la reazione del premier ad esse: "Ci si indigna a singhiozzo di fronte a immagini drammatiche", esordisce la donna, come riferito da AdnKronos. "Una indignazione che non si traduce mai, purtroppo, in una presa di coscienza e una assunzione di responsabilità rispetto a questo tema. Attendiamo che finalmente avvenga. Dall'inizio dell'anno", precisa Alfonsi, "sono morte oltre 600 persone, tra cui tanti altri bambini. E sono numeri al ribasso. Sappiamo benissimo che in assenza di navi umanitarie, notizie non ce ne sono, il mare ingoia e non lascia tracce se non dopo molti giorni. Nel caso delle ultime immagini, per esempio, è ancora necessario capire di quale naufragio si tratti. La situazione è davvero inaccettabile". Anche Open Arms si lamenta degli eccessivi controlli sulle attività delle navi che operano nel Mediterraneo: "Sono 6 anni che continuiamo ad essere in mare, nonostante fermi e processi, per ricordare all'Europa la sua identità e che la sua responsabilità è di mettere in campo politiche che abbiano come priorità il rispetto dei diritti umani e della vita delle persone". È giunto quindi il momento di tirare le somme e lasciare più libertà di azione, "meno indignazione e più fatti. C'è un'emergenza in mare che va affrontata e ci dovrebbe essere una struttura europea a livello governativo di soccorso in mare. Questa è la prima risposta", dichiara Alfonsi. "Poi è chiaro che il problema va risolto a monte e non solo con i soli corridoi umanitari ma anche con canali di ingresso legali in Europa. Stiamo parlando di numeri piccoli che si potrebbero gestire evitando che le persone rischino la vita in mare", conclude.

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dove mi occupo soprattutto di cronaca.

I buonisti gettano la maschera: "Importiamo persone dall'Africa". Giuseppe De Lorenzo il 26 Maggio 2021 su Il Giornale. Il professore della Luiss, Cristopher Hein: "Li importiamo dall'Africa? In un certo modo sì". Il professor Cristopher Hein magari s’è espresso male per colpa della lingua. Però il concetto è arrivato forte e chiaro a destinazione. E forse ci voleva anche: finalmente qualcuno ha avuto il coraggio di dire che dietro la “strategia” immigrazionista ci sono “interessi economici” e “demografici” per rimpiazzare i giovani italiani con baldi ragazzotti africani. Ospite a Quarta Repubblica lo scorso lunedì, il professore di Diritto e politiche di immigrazione e asilo alla Luiss non ha lesinato perle imperdibili. Tra le altre cose ha sostenuto che in Italia non c'è alcuna emergenza immigrazione o “invasione” (lo vada a chiedere nelle periferie cittadine), che il problema non è “quanti” clandestini arrivano ma “come” arrivano, che la colpa è tutta di un sistema, quello europeo, che ha “reso impossibile” a un cittadino africano di “arrivare un Ue in modo regolare”. Insomma vorrebbe più “corridoi umanitari”. E s’è scagliato pure contro il blocco navale, considerato a torto o a ragione “un atto di guerra” non applicabile. Ora, potremmo ricordare qui che l’ultimo “atto di guerra” lo fecero ai tempi del governo di Prodi e Napolitano nel 1997, e che Repubblica nell’occasione batté pure le mani. Ma sarebbe inutile. Perché il nocciolo della questione ieri sera era un altro. Alla domanda di Nicola Porro se esista anche un “elemento di interessi economici” dietro i flussi “che fa sì che continueranno a prescindere dalle nostre scelte economiche”, il professore ha messo a nudo la filosofia migratoria della sinistra. “Certamente - ha detto - c’è un interesse economico dal punto di vista demografico”. Essendoci in Italia il “dramma del calo delle nascite”, meglio accogliere a gogo. Anzi. Facciamoli arrivare tutti in aereo, che se gli ultimi sbarcati fossero approdati a Malpensa “nessuno se ne sarebbe reso conto”. E quando gli chiedono “allora li importiamo dall’Africa?”, Hein risponde candidamente: “In un certo modo sì”. Potranno sembrare cinque parole buttate lì un po’ a caso. Ma in realtà smascherano anni di retorica sull’“accogliamo chi ci chiede asilo” e palesano un progetto che sa di sostituzione etnica, già teorizzato dal sacerdote dell’immigrazionismo, tal Roberto Saviano. Il tutto, ha spiegato Hein, va infatti visto all’interno di una “strategia per salvaguardare i nostri sistemi di previdenza”, visto che “i migranti sono giovani e noi abbiamo un problema di invecchiamento”. Si tratta di un salto di qualità non indifferente: il mantra dell'accoglienza si trasforma nel modello di "importazione". Che poi scusate: qualora non arrivassero a sufficienza coi barconi, cosa dovremmo fare? Andarli a prendere direttamente nel Continente nero? Tipo schiavisti del XVIII secolo? Forse sì. O almeno è questo quello che il telespettatore potrebbe aver inteso l’altra sera.

Giuseppe De Lorenzo. Sono nato a Perugia il 12 gennaio 1992. Stavo per intraprendere la carriera militare, poi ho scelto di raccontare quello che succede in Italia e nel mondo. Rifuggo l'ipocrisia di chi sostiene di possedere la verità assoluta: riporto la realtà che osservo con i miei occhi. Collaboro

La disastrosa proposta sui migranti. Il mercato dei profughi in Europa: così gli stati li comprano e poi li vendono. Gianfranco Schiavone su Il Riformista il 23 Maggio 2021. Le diversità all’interno dell’Europa per ciò che riguarda la presenza di richiedenti asilo e di rifugiati rimangono estreme: nel 2020 (dati Eurostat) il numero dei richiedenti asilo in Europa è crollato del 34% rispetto all’anno precedente (da 631mila a 416mila domande) e in Italia persino del 39,4% (smentendo ancora una volta i tradizionali luoghi comuni) ma solo 5 stati membri su 27 hanno assorbito l’80% di tutte le domande di asilo: si tratta della Germania con quasi il 25%, della Spagna con il 21%, della Francia con il 20% e della Grecia con il 9%. Chiude l’Italia con un 5.1%. Ancor più che questi dati, a confermare una situazione di squilibrio è l’analisi delle presenze di richiedenti asilo rispetto al numero di abitanti. La media europea è di solo 931 persone ogni milione di abitanti ma nella maggior parte dei paesi pressoché non c’è nessuno. Giova, per una volta, elencarli: si tratta di Romania, Irlanda, Finlandia, Danimarca, Lituania, Portogallo, Lettonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia. Chiude beffarda l’Ungheria con 9 richiedenti asilo ogni milione di abitanti. Dove si trova in tutto ciò l’Italia? Ancora una volta la percezione diffusa viene smentita, in quanto nel nostro Paese ci sono solo 355 richiedenti asilo ogni milione di abitanti: due terzi al di sotto della media europea. Al di sotto di questa media troviamo anche i Paesi Bassi, la Bulgaria e la Croazia. Ci sono molte ragioni storiche che spiegano gli squilibri sopra illustrati e certo la soluzione non è quella di forzare per decreto i tempi di cambiamenti sociali e culturali profondi, che non possono che essere progressivi. Tuttavia il cambiamento non può essere ulteriormente rinviato perché il quadro attuale rende impossibile la costruzione di un sistema unico di asilo in Europa. Chi non accoglie nessuno, infatti, difende questa posizione e vi costruisce grandi rendite di posizione politica; in particolare nei paesi (quasi) refugee-free (ma anche in tutti quelli con basso tasso di presenze) i governi agiscono con ogni mezzo a loro disposizione per rendere non attrattivo il loro paese per i rifugiati tramite azioni molto concrete quale la destrutturazione dei sistemi di accoglienza, l’inasprimento dei criteri per l’esame delle domande, la mancanza di politiche per l’inclusione sociale dei rifugiati. Il Parlamento europeo provò con determinazione nella scorsa legislatura a modificare questo quadro approvando, nel novembre 2017, una riforma del Regolamento Dublino III incardinata su due pilastri.

Il primo: superare il criterio che, ancora oggi, lega la competenza all’esame della domanda di asilo al primo paese dello spazio europeo in cui il richiedente fa il suo primo ingresso. Si tratta di una nozione giuridica introdotta nel 1990, ovvero in un contesto storico del tutto diverso da quello attuale, proprio con la finalità di riequilibrare le presenze tra i paesi dell’allora CEE, ma che rapidamente si è trasformata proprio nel più micidiale dei meccanismi distorsivi. La Commissione Juncker aveva proposto di temperare questo criterio prevedendo di non applicarlo in caso di pressione migratoria sproporzionata su un dato Paese; il Parlamento europeo, con più decisione, votò per cancellarlo del tutto sostituendolo con un principio di redistribuzione vincolante, a regime, calcolato sul PIL e la popolazione dei diversi stati.

Il secondo pilastro della riforma prevedeva una forte valorizzazione dei legami significativi di un richiedente asilo con un dato paese europeo (legami famigliari allargati, precedenti soggiorni per studio e lavoro, conoscenza della lingua, presenza di sponsorizzazioni) cercando un bilanciamento tra l’obbligo per il richiedente di accettare la destinazione in un dato Paese e il rispetto dei suoi legami più importanti. Il Parlamento si scontrò con l’opposizione generalizzata degli Stati (anche di quelli che a parole si presentano favorevoli alla redistribuzione) e la riforma fallì.

La redistribuzione delle presenze dei richiedenti asilo tra i diversi paesi europei è tornata al centro del dibattito politico di questi giorni, ma quali sono da parte della Commissione europea a guida von der Leyen le proposte in campo? Tentando di trovare il consenso tra posizioni spesso inconciliabili, nella sua “Proposta di Regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione” COM (2020) 610 final che sta iniziando l’esame nella commissione LIBE del Parlamento Europeo, la Commissione ha scelto di mantenere il criterio che lega la domanda di asilo al paese di primo ingresso “irregolare”, prevedendo la distribuzione tra i diversi Paesi solo in caso di pressione migratoria considerata elevata su un Paese membro. Diversamente dalla Commissione Juncker, però, quella attuale non ripropone più la definizione di una soglia di crisi oltre la quale scatterebbe la ricollocazione obbligatoria dal paese di primo ingresso. La Commissione ritiene che gli Stati possano rispettare gli obblighi di cui all’articolo 80 del Trattato sul funzionamento dell’Ue su solidarietà e ed equa distribuzione delle responsabilità in materia di asilo scegliendo all’interno di una sorta di menù composto da quattro opzioni: 1) l’effettiva ricollocazione di quote di richiedenti asilo dal Paese membro sottoposto a pressione migratoria. Da ciò, salvo deroghe, verrebbero però esclusi i richiedenti provenienti da paesi terzi il cui tasso medio di riconoscimento del diritto d’asilo è inferiore al 20%, i quali verrebbero invece bloccati nel paese di primo arrivo e lì sottoposti alla cosiddetta “procedura di frontiera”; 2) la ricollocazione di quote di stranieri che hanno già ottenuto il riconoscimento di una delle due forme della protezione internazionale (status di rifugiato o status di protezione sussidiaria); 3) la sponsorizzazione dei rimpatri dei migranti irregolari presenti in altri stati; 4) il sostegno a paesi terzi per sviluppare sistemi di asilo, ma anche per attuare politiche generali di respingimento e di contrasto dei flussi migratori. Nel caso di pressioni migratorie legate a “sbarchi a seguito di operazioni di ricerca e soccorso” i quali “generano arrivi ricorrenti” la Commissione può proporre quote di ricollocamento dei richiedenti asilo (anche vulnerabili), ma gli Stati possono accogliere questa proposta o parzialmente sottrarvisi scegliendo di elargire più fondi per potenziare il controllo dei flussi migratori nei paesi terzi. La nozione di solidarietà, quindi, si monetizza in “contributi di solidarietà”. Se l’ammontare dei contributi è nettamente inferiore a quanto stabilito dalla Commissione, la stessa invita “gli Stati membri ad adeguare il numero e, se del caso, il tipo di contributi.” Se infine, dopo un complesso meccanismo di trattative, “il numero totale e il tipo di contributi” è ancora insufficiente la Commissione adotta un “piano di esecuzione” che prevede “il numero totale di cittadini di paesi terzi da ricollocare”. Nuovamente si tratta di un vincolo alla ricollocazione solo in apparenza, perché aggirabile attraverso la scelta di una nuova erogazione finanziaria destinata al potenziamento dei controlli nei paesi terzi. Infine, solo se “dalle indicazioni fornite dagli Stati membri risulti un deficit superiore al 30% del numero totale di ricollocazioni” gli Stati saranno “tenuti a coprire il 50% della loro quota anche mediante la ricollocazione o la sponsorizzazione dei rimpatri o una combinazione di entrambi”. In questa concezione di tipo mercantile della solidarietà proposta dalla Commissione Ue gli Stati possono, di fatto, sempre evitare i ricollocamenti o ridurli a numeri risibili, mentre vengono spinti a una maggiore coesione tra loro per realizzare politiche comuni sulla esternalizzazione dell’asilo in paesi terzi e per una strategia comune di rimpatri forzati. L’obiettivo di andare verso una lenta, ma progressiva presenza dei richiedenti asilo e dei rifugiati in tutta l’Europa, correggendo le distorsioni attuali e costringendo gli stati riottosi a diventare paesi di asilo, non solo non viene dunque realizzato ma al contrario viene abbandonato. La non-riforma proposta dalla Commissione produce infatti almeno due effetti gravissimi che minano ulteriormente il fragilissimo sistema unico di asilo in Europa. Il primo è il rafforzamento delle forze politiche che galvanizzano il consenso popolare attorno alle politiche identitarie e di totale chiusura verso l’accoglienza. Il secondo, non meno paradossale, è quello di aumentare la pressione sui paesi aventi confini esterni marittimi o terrestri, tramite la scelta di bloccare in tali paesi il maggior numero possibile di richiedenti da sottoporre alla procedura di frontiera e, come tali, non soggetti alla ricollocazione. Applicando ad essi la finzione giuridica del “non ingresso”, secondo la quale i richiedenti sono presenti ma non soggiornanti nel paese di primo ingresso, verrebbero dunque inviati, anche in Italia, a campi di confinamento non dissimili a quelli che sono stati sperimentati in Grecia e lungo la rotta balcanica. In caso di esito negativo della loro domanda di asilo verrebbero infine respinti alla frontiera attingendo al fondo di solidarietà creato dalle sponsorizzazioni dei rimpatri. Non intravedo in questo cupo contesto molti margini di mediazione; nel loro complesso le proposte di riforma avanzate dalla Commissione, frutto di assoluta ed inquietante cecità politica, non possono che essere respinte perché accelerano la disgregazione dei valori fondanti dell’Unione. Gianfranco Schiavone

Il suk degli stranieri: che fine fa il cibo per i poveri. Gabriele Laganà il 15 Maggio 2021 il 15 Maggio 2021 su Il Giornale. Segnalati numerosi casi di vendita di beni, con veri e propri mini suk, presi dalla onlus Pane Quotidiano. La Lega in campo per contrastare l’illegalità. Sfruttare la beneficenza per tornaconto personale. Accade a Milano dove da tempo sono segnalati piccoli ed improvvisati mercatini illegali nei quali persone vendono prodotti ricevuti da Pane Quotidiano, la onlus che distribuisce cibo gratuitamente alle persone che ne hanno bisogno. Qualcuno riceve un bene e, invece di consumarlo, lo cede, dietro pagamento di somme di denaro, ad altri. Un vero e proprio sfregio per quanti sono in difficoltà e contano sul sostegno della onlus per mettere in tavolo quel tanto che basta per poter condurre una vita dignitosa. La crisi economica conseguenza dell’emergenza sanitaria ha, poi, peggiorato la situazione. Sono sempre più i cittadini che negli ultimi tempi sono stati costretti a ricorrere all’aiuto della onlus per potersi sfamare. Per questo la vendita di beni presi da Pane Quotidiano appare ancor più sconcertante. I volontari fanno quel che possono ma qualcuno si approfitta del buon cuore delle persone e dei donatori compiendo azioni inqualificabili. Sulla questione era già intervenuta Striscia la notizia che sul finire dello scorso anno ha documentato dei mercatini improvvisati soprattutto dagli stranieri sui marciapiedi e sotto le pensiline delle fermate degli autobus. Gruppi di furbetti che rivendono, illegalmente, e forse anche a caro prezzo il cibo donato loro gratuitamente. A denunciare di nuovo la situazione, simbolo di degrado anche morale, è la Lega che questa mattina ha organizzato un presidio lungo Viale Monza proprio accanto alla sede di Pane Quotidiano. Lo scopo del presidio è denunciare "situazioni spiacevoli", come la compravendita dei prodotti donati e "bivacchi, con conseguente degrado nei giardini accanto". Nessuna vena polemica, quindi, contro la preziosa attività sociale svolta dalla onlus ma solo un modo per richiamare l’attenzione su azioni illegali o, quanto meno, moralmente da condannare compiute a volte con i prodotti donati in beneficenza. "Ringraziamo Pane Quotidiano per il grande ruolo sociale che svolge in un momento complicato. Il problema è il degrado intorno, come denunciato da anni dai residenti e dal comitato di quartiere", ha commentato Samuele Piscina, presidente del Municipio 2. L’esponente della Lega ha spiegato che i prodotti alimentari donati a chi ha bisogno finiscono “per essere merce da rivendere e tutto ciò è inaccettabile". Individuato anche il luogo, o forse solo uno dei tanti, dove avviene la compravendita. Lo stesso Piscina evidenzia, infatti, che nel parcheggio limitrofo si creano dei veri e propri mini suk illegali dove si vendono i beni. "Chi abita questa zona lamenta un evidente mancanza di decoro e l’abbandono da parte dell’amministrazione comunale", ha affermato ancora il presidente del Municipio 2. Sulla questione è intervenuta anche Silvia Sardone, eurodeputata e consigliere comunale della Lega, che ha ricordato le idee lanciate dal suo partito per difendere il lavoro della onlus e allo stesso tempo garantire legalità e sicurezza. "La Lega ha da tempo lanciato delle proposte: sostenere le importanti attività del Pane Quotidiano ma allo stesso tempo mettere un presidio fisso della Polizia Locale in modo da evitare la compravendita dei prodotti donati dal Pane Quotidiano e garantire un controllo più frequente dei giardinetti dove bivaccano sbandati e ubriachi", ha dichiarato la Sardone. L’esponente leghista ha poi duramente criticato il sindaco di Milano Beppe Sala, chiedendo ironicamente "dove è finita l’ossessione per le periferie" del primo cittadino. "Forse è più impegnato a immaginare nuove folli ciclabili disegnate per terra", ha esclamato la Sardone che poi ha affermato che "i milanesi che abitano in questi quartieri sono stanchi della propaganda vuota della sinistra". Sulla stessa lunghezza d’onda Stefano Bolognini, commissario provinciale della Lega, che ha evidenziato come "in un momento di crisi economica e sociale è doveroso aiutare le persone in difficoltà ma allo stesso tempo bisogna bloccare gli sgradevoli episodi di rivendita dei prodotti che il Pane Quotidiano offre ai bisognosi". Bolognini poi è andato all’attacco del sindaco affermando che "purtroppo Sala perde tempo esclusivamente per il centro, Milano non è solo i salotti ma anche periferie dignitose che hanno necessità di attenzione".

Immigrazione, quanti miliardi hanno spedito oltre confine: una risorsa solo per loro, le cifre parlano chiarissimo. Antonio Castro su Libero Quotidiano il 21 aprile 2021. Miliardi di euro di rimesse economiche che volano via ogni anno. Nonostante la crisi economica, anzi pure più di prima. Mentre gli italiani devono fare i salti mortali per far quadrare i conti a fine mese e i flussi globali, come conferma la Banca mondiale diminuiscono a causa della pandemia, tra licenziamenti e cassa integrazione, le rimesse inviate in patria dagli immigrati sono aumentate nel 2020 del +12,9%. Dopo il crollo del 2013 e alcuni anni di sostanziale stabilizzazione, il volume delle rimesse aveva subito un significativo aumento nel 2018 (+13,1%), proseguito anche nel 2019 (+3,0% rispetto all'anno precedente). Stando allo studio della Fondazione Leone Moressa (che fa capo alla Cgia di Mestre), secondo i dati della Banca d'Italia, sono lievitate nel 2020 le rimesse della popolazione extracomunitaria. Ed è la prima volta dal 2012, con un incremento (considerando il rapporto rimesse/Pil) sopra quota 0,4%.

L'ASIA SUL PODIO. Il Bangladesh si conferma il primo Paese di destinazione delle rimesse, con 707 milioni di euro complessivi (10,5% delle rimesse totali), anche se in calo nell'ultimo anno si è verificato un deciso calo (-12,8%). Il secondo Paese di destinazione dei trasferimenti in denaro è la Romania (ma è diminuito dell'1,2% nell'ultimo anno e -31,5% negli ultimi 7). Tra figli, genitori, zii e amici da aiutare in patria chi ha inviato più soldi a casa sono stati gli asiatici: Bangladesh, anche Filippine, Pakistan, India e Sri Lanka. Molti Paesi hanno invece registrato incrementi significativi nell'ultimo anno. In particolare, spiccano Nigeria (+119,6%), Ucraina (+72,2%), Moldavia (+41,1%), Marocco (+31,1%). Aumenti che sicuramente risentono dell'impossibilità da parte del lavoratore straniero di fare ritorno a casa a causa delle limitazioni imposte dalla pandemia. Rapportando il volume delle rimesse con il numero di residenti in Italia si è stimato valore medio pro-capite: mediamente, ciascun immigrato in Italia ha inviato in patria poco più di 1.300 euro nel corso del 2020, circa 112 euro al mese. I più generosi sono i cittadini del Bangladesh: mediamente hanno inviato in un anno oltre 5 mila euro, oltre 400 euro al mese. Superando così i 300 euro mensili medi spediti dai cittadini del Senegal come i lavoratori originari del Pakistan. È invece di oltre 200 euro al mese quanto inviato dai cittadini originari di Filippine, India e Sri Lanka. A livello locale, le regioni con il maggior volume di rimesse inviate sono Lombardia (1,5 miliardi) e Lazio (953 milioni). Seguono Emilia Romagna (706 milioni) e Veneto (587 milioni). Nell'ultimo anno, in tutte le regioni si è registrato un aumento delle rimesse.

LIEVITANO I VAGLIA. A Milano e Roma con 802 milioni si concentra oltre un quinto del volume complessivo, un dato piuttosto prevedibile poiché nelle province del Centro- Nord si ha la più alta concentrazione di stranieri. Secondo Michele Furlan, presidente della Fondazione Leone Moressa, «le rimesse rappresentano la prima forma di sostegno degli immigrati allo sviluppo dei Paesi d'origine. Anche nell'anno della pandemia, nonostante il calo dell'occupazione, gli immigrati hanno continuato a sostenere le famiglie in patria. I flussi sono addirittura aumentati, parallelamente alla riduzione delle possibilità di movimento». Probabilmente i soldi solitamente spesi per i viaggi di ritorno sono stati trasferiti a casa in aggiunta alle normali rimesse mensili.

Letizia Tortello per "La Stampa" il 12 maggio 2021. Il primo contatto con chi vende il pacchetto avviene in patria: in Iraq, Iran, Afghanistan, Pakistan, Marocco, oppure nei porti e nelle stazioni dei treni di Grecia e Turchia. Pagamento anticipato al cento per cento. I più fortunati ottengono il cinquanta: «Poi saldi all'arrivo, o la tua famiglia lo dovrà fare per te se finisci i soldi», dicono gli "organizzatori" del viaggio. Al migrante in partenza chiedono subito: «Sei solo? Quanto sei disposto a corrompere? Quanto sei disposto a rischiare?». Così capiscono quanto vale in denaro. Attraversare le frontiere internazionali, penetrando i Balcani tutt'altro che chiusi (nel 2020 sono aumentati i migranti su questa rotta) in direzione Europa, «salvezza», futuro, lavoro, nascosti su un camion o a piedi per giorni in montagna, può costare fino a 20 mila euro a persona, a seconda del punto di partenza e della destinazione. È quanto racconta il report «Spot Prices» di Global Initiative, che da settembre scorso ad aprile ha condotto interviste e viaggi per raccogliere testimonianze dei profughi, battendo la regione palmo a palmo, attraverso le tendopoli che li ospitano, per capire i nuovi flussi, i prezzi, i meccanismi di una rete che muove uomini e destini per un valore di 50,4 milioni di euro l'anno. I piccoli tratti si percorrono in taxi. Più sei giovane, meno sei disposto a perdere fino a farti arrestare, picchiare, respingere, meno spendi. I bambini spesso viaggiano gratis, quelli su cui si lucra sono i genitori. Funziona come in un'agenzia turistica, solo che il tour non è di piacere, e si rischia la vita. Per chi dal Medio Oriente o dall'Africa vuole arrivare nella Ue ogni rotta ha un tariffario base e vari optional: il trasporto organizzato con accompagnatori, coordinate GPS che arrivano sul cellulare, passaporti falsi o di qualcuno che assomiglia al viaggiatore, alloggi e nascondigli vari, mazzette per la polizia di confine. Per far spostare i gruppi, di solito una quindicina di persone al massimo, i contrabbandieri contano su contatti fidati nei vari Paesi e nei campi profughi. Ci sono tre tipi di trafficanti: i fixer, i ranghi più bassi dell'organizzazione criminale, che agiscono come vedette o esploratori, per testare sulla loro pelle se un tragitto è sicuro o l'ufficiale che lo controlla è compiacente e si fa comprare. Aspettano nelle stazioni per incontrare chi passa, informano i colleghi sulla dimensione del gruppo e la composizione. Poi ci sono i «gatekeeper», i guardiani dei confini, che traghettano al Paese successivo, ma se hanno deciso di guadagnarci, il viaggiatore finisce nel gruppo dei kamikaze che distraggono i poliziotti e si fanno catturare, per far passare gli altri. Accade a Bihac, tra Bosnia e Croazia. Questo punto lo chiamano «the game», il gioco della morte, e l'unica speranza è restare vivi. La terza categoria di trafficanti sono gli organizzatori di «pacchetti». «È impossibile spostare immigrati da uno Stato all'altro o assicurare loro il trasporto in autostrada senza l'appoggio della polizia locale», spiegano Walter Kemp, Kristina Amerhauser e Ruggero Scaturro, gli autori del report. Destinazione Italia, ma ancor di più Austria, Germania, Francia, Nord Europa. Gli ingressi sono Macedonia del Nord, Albania e Grecia, le uscite Bosnia, Croazia, Serbia, Bulgaria e Ungheria. Quest'ultimo è uno dei confini più pericolosi della rotta balcanica oggi. Nel 2015, dopo l'afflusso di oltre 1,5 milioni di migranti nella Ue e dopo che Orban ha eretto barriere con la Serbia e la Croazia, la Macedonia del Nord si è blindata con 30 chilometri di muro e la via regionale è stata chiusa con un accordo tra Ue e Turchia, il mercato del contrabbando di migranti si è in fretta ricostruito nuovi itinerari, e i prezzi sono aumentati. Venire dall'Iran o dall'Afghanistan in qualsiasi Paese dell'Unione può costare 3.500 euro a persona, ma anche molto di più. «I migranti intervistati in Bosnia - dicono i ricercatori - che cercavano di arrivare in Croazia hanno pagato 6.000 euro dal Pakistan». E poi c'è il mare: a ottobre 2020, un gruppo di 52 curdi è stato salvato al largo del Montenegro. Faccendieri turchi avevano organizzato il viaggio, si sono fatti dare tra 5.000 e 8.000 euro a persona per il trasferimento in Italia su uno yacht. Nelle tasche dei criminali sono entrati 300.000 euro, ma l'Italia non l'ha mai vista nessuno. Come migliaia di altri profughi respinti, per loro il viaggio della disperazione deve ricominciare da capo. Nuove tariffe, nuovi soldi da trovare, senza garanzie di arrivare vivi in Europa.

Grazia Longo per “la Stampa” il 12 maggio 2021. Ci può stare una vita dentro un'enorme busta di plastica? Sì, ci può stare, se si tratta della vita di giovani migranti che hanno attraversato il Mediterraneo in cerca di fortuna. E se la vita comprende un semplice bagaglio con una coperta e un cambio di abiti rimediati dalle associazioni di volontariato. Sono le quattro di un pomeriggio soleggiato, ma molto ventoso e quasi trecento migranti, 287 per l'esattezza, lasciano a scaglioni, sui pulmini, il centro di prima accoglienza di Contrada Imbriacola e arrivano al porto commerciale. Qui li attende il rimorchiatore Asso Trenta di Napoli che li condurrà sulla nave Azzurra per la quarantena. Altri 400 hanno abbandonato l'hotspot lunedì pomeriggio per la nave quarantena Splendid e altri 1.517 sono rimasti ancora lì. Un'enormità se si pensa che, come ricorda il sindaco di Lampedusa Totò Martello, «il centro anche se è stato ristrutturato e ha nuovi padiglioni può accogliere al massimo 700 persone». Le navi quarantena in realtà sono grandi e potrebbero ospitare più immigrati, ma le condizioni del mare agitato per colpa del Maestrale non favoriscono l'attracco al porto e quindi bisogna ricorrere al rimorchiatore. Sempre a causa del cattivo tempo, ieri non sono sbarcati sull'isola nuovi immigrati. Gli unici 17 arrivati al mattino li ha recuperati in mare proprio il rimorchiatore Asso Trenta. «Erano su una barchetta naufragata a 60 miglia dalle coste libiche e lì sono stati salvati da una petroliera - spiega il comandante dell'Asso Trenta, Emiliano Astarita -. Ci hanno lanciato l'Sos e noi li abbiamo presi e portati qui». I giovani africani si intravedono sul ponte del rimorchiatore, qualcuno si affaccia per parlare con i giornalisti. «Ho 21 anni, vengo dall'Etiopia - dice un ragazzo in inglese -. Sono stato costretto a smettere di studiare per la guerra, il mio sogno è proseguire gli studi in Norvegia. In Libia sono rimasto due mesi: è molto pericoloso, è una prigione». E ancora: «Ho pagato 4 mila dollari per poter partire, un viaggio mostruoso». È arrivato su un barcone di legno. Tra domenica e lunedì in centinaia sono giunti in questo modo. E i resti del loro passaggio si vedono ancora dall'altra parte dell'isola, al molo Favarolo dove i migranti ricevono le prime cure. Su una di queste carrette del mare si notano abiti stracciati, scarpe spaiate, calzini, foulard. Quel poco che resta della vita passata è ora dominio dei gabbiani in cerca di cibo. «Sembra un po' di essere tornati a prima del naufragio del 3 ottobre 2013 - osserva Marta Bernardini, operatrice di Mediterranean Hope, programma rifugiati della federazione delle chiese evangeliche - quando arrivavano tanti pescherecci di legno, carrette del mare stracariche di migranti. Negli ultimi due giorni a Lampedusa è stato il delirio: troppa gente in momenti ravvicinati e con le navi quarantena che non potevano attraccare». La volontaria, 33 anni, impegnata sull'isola dal 2014, ribadisce inoltre l'amarezza per «un disagio annunciato: ogni anno si ripete lo stesso copione, con la bella stagione incominciano gli sbarchi. Non è certo una novità e invece le istituzioni si fanno trovare impreparate. Senza contare poi che, tra il problema delle quarantene e quello del fermo amministrativo, molte Ong non possono più agire». Sul «vuoto istituzionale, non solo italiano ma anche europeo» interviene infine il sindaco Martello: «La cabina di regia annunciata da Draghi è stata avviata solo dopo il mio appello. Per non parlare della latitanza dell'Europa che non si fa carico del problema. Viviamo questa situazione dal '93 e ancora si parla di emergenza. Ma quale emergenza? È una situazione più che consolidata contro cui il centrodestra non fa altro che soffiare sul fuoco e alimentare odio razziale, mentre il Pd, il mio partito, fa finta di nulla per non perdere voti». Domani il sindaco sarà a Roma per incontrare la ministra dell'Interno Lamorgese. «Speriamo di non fare solo chiacchiere».

Scafisti, annunci sui social. "Viaggia con noi, è sicuro". Chiara Giannini il 3 Maggio 2021 su Il Giornale. Pubblicità su Facebook o su Whatsapp con tariffe e polizza: "Sbarco in Italia garantito al 100%". «Chiunque sia pronto, viaggi in Italia garantiti cento per cento con Haj Abdo Abdou. Viaggi verso il salvataggio»: è solo uno dei tanti messaggi lasciati su Facebook dai trafficanti di esseri umani che ormai non si nascondono più e sui social mettono a disposizione le informazioni per organizzare le partenze. Contattarli è semplice, postano i numeri di telefono e scrivono: «Chiamami, mandami un messaggio whatsapp». Il costo della traversata, nella maggior parte dei casi, è di circa 5mila dinari libici, ovvero poco più di 900 euro. Ciò che garantiscono è la partenza e assicurano che chi prenderà la via del mare sarà raggiunto dalle navi del soccorso. «Alì aspetta la notizia felice», scrive un utente libico postando lo screenshot che riporta il tragitto della Sea Watch 4 di fronte a Tripoli. La nave della Ong tedesca attualmente ha 455 migranti a bordo. Molti inviano messaggi ai trafficanti, dicendo di essere a bordo e questi li postano sui social per far vedere che la «missione è compiuta» e invogliare a nuove partenze. I profili di scafisti e «tour operator» dei barconi sono aperti e sono decine. C'è l'imbarazzo della scelta. «Scegli me, viaggia con me, scrive qualcuno. Altri sconsigliano di intraprendere il viaggio con qualche collega più «sfortunato» che ha fatto partire barconi poi affondati o che hanno avuto difficoltà. «Noi garantiamo sicurezza», scrivono altri. In ogni profilo si nota comunque la tendenza a ricordare che si viaggia, nella maggior parte dei casi, verso le navi del soccorso. Almeno questo accade per quanto concerne i viaggi dalla Libia, per lo più da al-Khoms o Zwara. Dalla Tunisia, invece, i natanti arrivano diretti a Lampedusa. Ma c'è anche chi arriva da altri Paesi. «Per chi avesse bisogno di un visto per entrare in Libia - scrive Mona, una donna che si è messa in affari nel settore - mi contatti in privato». E c'è chi garantisce passaggi alla dogana o ai confini «senza problemi». Ieri la trasmissione Piazza Pulita ha reso noto un audio di Alarm Phone in cui si sente un migrante chiedere aiuto. «Si sta rischiando una nuova tragedia nel Mediterraneo», scrivono. Ma la vera tragedia è che i trafficanti di esseri umani possano organizzare i viaggi alla luce del sole, con la complicità della Ong, che è ormai appurato si piazzino di fronte alle coste libiche in attesa delle partenze, che avvengono, è chiaro, esclusivamente quando in quelle acque Sar è presente una loro nave. L'Italia è un Paese ormai invaso dai migranti. A Lampedusa nel weekend sono arrivati oltre 700 migranti, nel silenzio più assoluto delle istituzioni. Una nazione chiusa agli italiani a causa del Covid, con regole ferree per ingressi e partenze verso tutti gli altri Stati, ma aperta insensatamente ai clandestini. Questo i trafficanti lo sanno. «Il governo - scrive qualcuno - proroga al 31 luglio i permessi di soggiorno scaduti il 30 aprile». È una comunicazione della Presidenza del Consiglio, che invoglia ancora di più a partire chi prende il largo dai Paesi del Nord Africa. «Dio è grande, il nostro fratello è arrivato a Lampedusa», scrive un trafficante di esseri umani e sotto i commenti si sprecano. «Partirò anche io», scrive un libico. «In Italia avremo una vita migliore», scrive un altro. Per poco meno di mille euro una nuova vita, se va bene, sarà assicurata. Oppure li aspetterà una morte in mare, come è accaduto di recente. Ma questo ai criminali internazionali poco importa.

Giornalisti intercettati, migranti ingiustamente in carcere: ecco tutti i flop delle inchieste sulla tratta di esseri umani. Sedici fascicoli aperti sulle organizzazioni umanitarie e nessun processo. Presunti scafisti assolti tra scambi di persona, traduzioni sbagliate e riconoscimenti frettolosi. I nomi di chi ora chiede i risarcimenti allo Stato per ingiusta detenzione. Enrico Bellavia e Antonio Fraschilla su L'Espresso il 9 aprile 2021. L’obiettivo in Italia è mancato ma gli effetti no. Sedici inchieste, sei già archiviate, una assoluzione, e la netta sensazione che la tesi delle organizzazioni umanitarie complici degli scafisti sia meno di un teorema. Dal Mediterraneo intanto, mentre la Guardia costiera libica si incarica di bloccare alla fonte i viaggi per mare, scompaiono le fonti indipendenti in grado di raccontare cosa accade davvero nella traduzione pratica di quella intesa bilaterale dell’agosto 2017, con la Libia di Serraj al tempo di Gentiloni e Minniti. Molto rumore per nulla, insomma. Nessuna pistola fumante, nessuna prova regina. Con il contorno di servire indirettamente all’intelligence libica un elenco dettagliato delle fonti dei giornalisti, Nancy Porsia, Francesca Mannocchi, Nello Scavo, Claudia Di Pasquale e Sergio Scadura, che si sono occupati dei centri di detenzione per migranti e delle complicità della marina nordafricana, mentre l’Italia della diplomazia volge l’occhio alla sicurezza di impianti e cantieri. Una lista sotto forma di brogliacci di intercettazioni, inessenziali per l’inchiesta, l’ennesima, della procura di Trapani sulle presunte malefatte delle Ong, utilissima però a capire come si muovono sull’infido terreno libico i cronisti più esposti, alle prese con i racconti di torture, stupri, sparizioni e fosse comuni. Un pasticcio che si aggiunge all’elenco di indagini finite con un buco nell’acqua nel tentativo di dare la caccia ai veri registi della tratta. False piste, scambi di persona, traduzioni eccentriche, bizzarre, monche, identificazioni sommarie hanno aperto in questi ultimi sei anni le porte del carcere a innocenti scambiati per scafisti, a disperati dati per contrabbandieri di carne umana. Viaggia sulla china di questo paradosso tutto italiano la nostra politica di contrasto all’immigrazione irregolare. Ha radici politiche profonde, nella distorsione di una visione che fa coincidere la sicurezza con la necessità dei muri. In perfetta linea di continuità da Alfano a Lamorgese, passando per Minniti e Salvini. Sul campo delle indagini, produce l’effetto di concentrare le energie investigative sugli arrivi e non sulle partenze. I migranti diventano i testimoni che devono indicare i timonieri dei barconi. E a bordo delle navi delle Ong si tenta di rintracciare a valle l’esistenza di accordi sottobanco che trasformano i natanti di Save the Children, Medici senza frontiere, Mediterranea in taxi dei migranti. Partendo dall’assunto che dove ci sono loro i clandestini arrivano a colpo sicuro. Dimenticando però che dopo la fine di Mare Nostrum o c’erano loro o nessuno e il Mediterraneo ha continuato a divorare migliaia di persone. Così, mentre le Ong cuociono al fuoco lento del sospetto che delegittima, c’è chi si è fatto fino a due anni di prigione per una scheda telefonica che non ha mai posseduto, e chi, venduto ai media come il re del mercimonio di viventi sulla rotta sahariana, risulta invece clamorosamente vittima di un gigantesco abbaglio che ha regalato l’impunità al vero negriero e a lui mesi e mesi di inferno. Bisogna tornare indietro di qualche anno per capire i frutti avvelenati di oggi. Tra il 2015 e il 2018, con in mezzo il picco di sbarchi del 2017, la pressione della politica è fortissima. L’allarme alto e gli arrivi continui. Le procure del Sud aprono a raffica decine di inchieste sugli scafisti puntando ai pesci grossi. Grande clamore, ordinanze di cattura internazionali, aerei in Germania a prelevare presunti negrieri. A distanza di tempo i giudici hanno smontato le accuse provocando una sfilza di richieste di risarcimenti per ingiusta detenzione. Uno dei casi più clamorosi è quello che riguarda Medhany Tesfamariam Berhe, arrestato in Sudan ed estradato, accusato dalla procura di Palermo di essere Mered, forse uno dei più grandi trafficanti di uomini. Per provarlo, la procura intercetta anche in quel caso un giornalista, Lorenzo Tondo, corrispondente del Guardian. La vicenda riempie le cronache di mezzo mondo. Medhanie, come sostenuto dall’avvocato Michele Calantropo, anche lui tra gli intercettati della procura di Trapani, era solo vittima di uno scambio di persona. Assolto dall’accusa più grave, il traffico di esseri umani, dopo 3 anni di carcere, aspetta l’appello e gli resta la condanna di aver fatto migrare due cugini. Da manuale la storia di Gurum Mulubrahan, 40 anni, arrivato in gommone a Lampedusa e passato per il Cara di Mineo. Per i magistrati dell’accusa, il regista di una gang tra le due sponde del Mediterraneo collegate da una sim telefonica. Allo sbarco, i poliziotti, in possesso di quel numero, avevano fermato Gurum e fatto squillare il telefono che però era rimasto muto. Non è bastato a evitargli 490 giorni di carcere che ora l’avvocata Isotta Maio prova a trasformare in un risarcimento dopo l’assoluzione definitiva. Strumenti come le intercettazioni diventano armi micidiali se in mezzo ci sono traduzioni traballanti. Con il tigrino capita di frequente. Gurum, per esempio, era chiamato “wedi”, non un nome proprio come si riteneva, ma l’equivalente di amico in italiano. Duecentomila euro, attraverso l’avvocato Calantropo li chiede Negash Fitiwi, che in carcere è rimasto 239 giorni per essere assolto definitivamente già in primo grado. Eritreo, ma residente a Catania, viene accusato di «far parte di un gruppo criminale transnazionale che ha basi operative ed affiliati in vari paesi africani ed europei (Svezia, Germania, Norvegia, Olanda, Francia e Austria)». Il suo torto è di conoscere e aver parlato al telefono in Germania con Ghermay Asghedom e Gebititoys Yonas, due pezzi da Novanta della tratta con il Nord Europa con i quali però non ha mai fatto affari. L’accusa di alcuni migranti, poi irrintracciabili, è costata un processo e da tre mesi a un anno di carcere a Crotone, a 4 presunti scafisti del barcone con 850 persone a bordo recuperate, il 16 luglio 2015, dalla nave Dattilo della Guardia costiera di Messina, attraccata a Vibo Valentia. Il tunisino Hmbila Marwan, i due gambiani Fatty Lamin e Lamara Lamine e il senegalese Gay Omar sono stati assolti senza nemmeno l’appello della procura. Faal Gibril, gambiano, Conteh Osman della Sierra Leone e Adonase Weworah del Ghana hanno scambiato qualche parola con il senegalese Ndour Yakhya sul barcone con 107 persone a bordo che, nella primavera del 2015, li portava dalla Libia in Italia. Abbastanza per finire accusati di aver gestito il viaggio. L’assioma timoniere uguale scafista non è sempre una verità assoluta. Lo sanno bene Mokhattar Ahmad, Abdul Aziz Mustapha, Hassanin Ahmad, Shahban Ahmad, rimasti in cella sei mesi dopo un soccorso in mare ad opera di una nave belga che aveva salvato loro e altri 196 migranti, trenta dei quali bambini, dal naufragio di un peschereccio. Li avevano visti armeggiare al motore nel tentativo di riavviarlo. L’avvocato Antonio Anania è riuscito a dimostrare che, abbandonati dagli scafisti libici, provavano davvero a salvare i compagni. Può anche accadere che i soccorritori norvegesi consegnino le foto degli scafisti e nella fretta si convochino i sospetti come testimoni e si dia per buona la loro versione. Con il risultato di avere altri accusati da mandare a giudizio. È successo agli egiziani Hassan Aberhman, Joumaa Mhammas, Mhammad Ahmad e Sabri Karim, finiti davanti ai giudici di Crotone che li hanno assolti prendendosela con la superficialità dei metodi di indagine. Scrivono i giudici: «Auspichiamo un aggiornamento dei protocolli investigativi sin qui eseguiti, un aggiornamento che preveda l’annotazione puntuale e rigorosa delle operazioni che culminano nella identificazione dei collaboranti». Un auspicio rimasto lettera morta. Come testimoniano AlarmPhone e la onlus Borderline Sicilia che hanno iniziato una ricerca sulle vicende dei finti scafisti. «Il nostro interesse ricade non solo sull’iter processuale delle persone accusate, ma anche sul modo in cui vivono la detenzione nelle carceri italiane e l’impatto che queste accuse hanno sulla loro vita», spiega Richard Braude del circolo Arci Porco Rosso di Palermo. Così come per le inchieste sugli scafisti anche per le Ong va riavvolto indietro il nastro per rintracciare le origini di una offensiva politico-giudiziaria che dispiega ancora oggi gli effetti. Con il risultato di aver lasciato pressoché intatti gli interessi autentici dei registi libici della tratta. Dicembre 2016. La prima impostura è la lettura interessata di un rapporto di Frontex, l’agenzia europea della guardia di frontiera. Adombra il sospetto che la presenza in mare delle navi delle organizzazioni umanitarie costituisca un possibile incentivo ai viaggi (un cosiddetto “pull factor”). Mai Frontex solleva il dubbio che ci siano accordi sottobanco. Quello è un sospetto insinuato dal servizio centrale della polizia. Angelino Alfano, ministro del governo Renzi, lascia la poltrona a Marco Minniti. Ed è appena dopo il cambio della guardia che la campagna sulle Ong comincia a montare. Lega e Fratelli d’Italia incalzano il governo. Ma per attivismo si segnalano anche Beppe Grillo e Luigi Di Maio. Il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro apre la prima inchiesta sulle Ong. Sarà costretto a chiuderla due anni dopo, ammettendo di non essere andato oltre la suggestione del sospetto che l’aveva animata. A giugno 2017 la situazione degli sbarchi è fuori controllo, in 4 giorni si segnalano 10 mila arrivi e Minniti torna indietro dal volo per Washington e si precipita in Italia. A Trapani parte l’inchiesta che porterà alle intercettazioni dei giornalisti e la polizia infiltra un agente a bordo delle navi umanitarie. Nancy Porsia viene ascoltata per ore riempiendo i brogliacci di ogni genere di dettaglio inutile, perfino dialoghi con l’avvocato. Perché quello che ha da dire veramente lo scrive. E lo racconta anche quando le fanno la cortesia di sentirla. Dà nomi e cognomi di trafficanti, parla di Bija, della Guardia costiera libica e della potente famiglia Dabbashi. Sulle Ong non ha molto da dire e il resto evidentemente non interessa. Chiusa la testimonianza, riparte l’ascolto. Su come tutto sia finito nel fascicolo divenuto pubblico la ministra Lamorgese ha chiesto una relazione allo Sco della polizia a cui non spettava scegliere cosa depositare e cosa no. Le inchieste si moltiplicano, mutuano il nome da quelle delle navi: Open Arms, Iuventa, Vos Hestia, Sea Watch, Mare Ionio e così via. A febbraio 2017 Minniti chiude il memorandum libico, comincia a osservare la china calante degli sbarchi, come era già accaduto nel 2008 e si lascia alle spalle il picco raggiunto l’anno prima con 200 mila arrivi. Prova a mettere in riga le Ong con la proposta di un patto di ingaggio che li obblighi alla collaborazione con le autorità di polizia fino alla pretesa di imbarco di forze dell’ordine. Intanto, con i natanti bloccati e sotto sequestro, con dirigenti e capitani sotto inchiesta, le Ong hanno da fronteggiare l’emergenza giudiziaria. A giugno 2018 è Salvini a rilevare Minniti. Parte la fase due. Chiudere i porti ora è il mantra ripetuto che gli costa anche una imputazione per il caso Diciotti e ad agosto dell’anno successivo nel decreto sicurezza bis riesce a far mettere le sanzioni alle Ong. Una manovra a tenaglia. Matteo Villa dell’Ispi, l’istituto di studi di politica internazionale, ha pubblicato un rapporto sulle migrazioni stabilendo che con o senza le Ong al largo tra il primo gennaio 2019 e il 20 gennaio 2020 la situazione non cambia. Dati alla mano, anche l’alibi del fattore di attrazione cade. Ma nel Mediterraneo che divora ancora naufraghi, i testimoni sono spariti.

Migranti, con Matteo Salvini meno morti e molti soldi risparmiati. Antonio Rapisarda su Libero Quotidiano il 21 marzo 2021. Strana Nazione è quella in cui a finire sotto processo è un ex ministro come Matteo Salvini che - conti alla mano - con i suoi decreti sicurezza ha evitato un'ecatombe di vite umane nella rotta Mediterranea, ha contrastato gli interessi degli scafisti permettendo, allo stesso tempo, un notevole risparmio di risorse per le casse dello Stato. La prova? Sta tutta nei dati: se nei primi tre mesi del 2018 erano stati 6.161 gli immigrati sbarcati in Italia (e addirittura 24.278 nel primo trimestre del 2017), nei primi tre mesi del 2019 - con la stretta sancita dall'allora titolare del Viminale - in Italia ne sbarcarono solo 398. Il corollario? Il motto «meno partenze, meno morti in mare» si è tradotto in un "risparmio" di vite della traversata: dalle 2874 vittime del 2017 alle 604 del 2019. Non solo. Stesso discorso vale per l'alleggerimento della pressione nei centri di accoglienza e, soprattutto, del costo sociale del fenomeno. Proprio ciò che per molte cooperative si è rivelato negli anni un vero e proprio «business dell'accoglienza», come ha sempre denunciato il leader del Carroccio che anche su quest' ultimo punto è intervenuto drasticamente riducendo il pacchetto finanziario a loro disposizione (tornato a lievitare con il governo Conte II e la gestione Lamorgese). A calcolare che cosa ha determinato un anno di misure targate Salvini - nel caso specifico il 2019 - è stato il think tank Openpolis. Uno dei dati interessanti del monitoraggio è quello riguardante le presenze nel sistema di accoglienza tra il dicembre 2018 e lo stesso mese dell'anno successivo. Il risultato? Meno 38% di ospiti stranieri. Un calo legato alla riduzione degli arrivi in Italia ma anche - come si legge -«all'eliminazione della protezione umanitaria, sancita dal decreto sicurezza, che ha comportato l'espulsione dai centri di molte persone».

FINE DEL BUSINESS - Che cosa ha determinato questo? Di certo la diminuzione del pull factor per gli immigrati, legato alle maglie larghissime della protezione umanitaria ma anche - proprio per volontà del ministro leghista - dell'interesse scemato da parte di molti enti e associazioni di occuparsi di accoglienza. Finché Salvini è rimasto al governo, infatti, è diminuito il numero dei comuni interessati ad ospitare migranti: dal 33,8% del 2018 al 23% del 2019. Il motivo? Chiarissimo. La decisione di tagliare il cosiddetto "prezzo" di gestione del migrante: si passerà, infatti, dai 35 euro a una forbice fra i 19 e i 26 euro. Un calcolo convalidato anche da Openpolis che valuta una riduzione media del 22,1% del prezzo giornaliero, passato fra il 2018 (che viene calcolato tutto) e il 2019 da 35 euro a 27,2. Uno degli esempi più calzanti è Milano dove si assiste in media «a una drastica riduzione dei prezzi per persona: da 35,4 euro nel 2018 a 19,3 nel 2019 (-45,5%)». Calcolando esclusivamente i centri aperti dal 2019, la riduzione è ancora più evidente e raggiunge in media il 30,1%. Un risparmio di un certo peso se si pensa che in poco più di un anno si passerà dai 174mila immigrati presenti nei centri (aprile 2018) ai 91mila di fine dicembre 2019. Un risparmio anche di vite umane salvate dalla possibile morte via mare. Ma nonostante questo a non essere "risparmiato" da un incredibile processo è proprio colui che ha permesso tutto questo.

Querelato da Casarini e criticato dalla sinistra: oggi i fatti danno ragione al sindaco di Sesto San Giovanni. Roberto Di Stefano, primo cittadino di Sesto San Giovanni, aveva criticato un'iniziativa nel suo comune a favore di Mediterranea Saving Humans, evidenziando la presenza di indagini contro Luca Casarini. Per questo motivo era stato denunciato dallo stesso ex attivista no global. Mauro Indelicato - Mer, 07/04/2021 - su Il Giornale. Per il sindaco di Sesto San Giovanni il nuovo anno era iniziato con una trasferta a Palermo, lì dove ha risposto ad alcune domande degli inquirenti per un'inchiesta a suo carico. Roberto Di Stefano, questo il nome del primo cittadino, era stato trascinato in tribunale da Luca Casarini. L'ex attivista no global e adesso capomissione della Mare Jonio, nave ammiraglia dell'Ong italiana Mediterranea Saving Humans, aveva querelato il sindaco del comune dell'area metropolitana di Milano. Da qui la convocazione a Palermo. A distanza di mesi, la situazione in qualche modo sembra ribaltata. Il perché è presto detto. Dopo la convocazione nel capoluogo siciliano, era stato lo stesso Di Stefano a spiegare in un video su Facebook i motivi della querela di Casarini. I fatti risalivano all'anno precedente, quando il primo cittadino aveva contestato una raccolta fondi a favore di Mediterranea all'interno di un oratorio di Sesto San Giovanni: “Pur rispettando le idee di tutti – aveva dichiarato nel video il sindaco – avevo semplicemente fatto notare che l'oratorio non fosse il luogo più adeguato per fare politica, ricordando come lo stesso Casarini fosse stato indagato per favoreggiamento all'immigrazione clandestina. Cosa certificata, poi, dalla realtà ”. Ma proprio quest'ultima affermazione ha fatto scattare la denuncia. Non la prima da parte dello stesso Casarini. Analogo motivo ha portato il capomissione della Mare Jonio ad esporre querela contro l'ex ministro dell'Interno Matteo Salvini: “In pratica – aveva ancora commentato Roberto Di Stefano – questo signore non vuole che si dica che c'è un legame tra alcune Ong e i clandestini. Immaginatevi quale grande offesa nei suoi confronti”. Adesso però è Casarini ad essere indagato, proprio come aveva dichiarato a gennaio il primo cittadino di Sesto San Giovanni. L'ex attivista no global il primo marzo scorso è stato raggiunto da un'indagine portata avanti dalla procura di Ragusa. Gli inquirenti hanno come obiettivo fare luce su un possibile accordo preventivo tra la Idra Social Shipping, società armatrice della Mare Jonio, e la Maersk Tankers, società proprietaria della Marsk Etienne. Da quest'ultima nave l'11 settembre 2020 erano stati trasbordati 27 migranti sulla Mare Jonio. Per i magistrati di Ragusa il tutto è stato figlio di un accordo preventivo, per la difesa invece si tratterebbe di un'intesa siglata dopo il trasbordo sulla base della Convenzione di Londra. Il bonifico da 125mila Euro è stato effettivamente erogato dalla società danese a favore della Idro Social Shipping nel novembre 2020. Su questo passaggio di denaro si stanno concentrando buona parte delle indagini. Alla luce dell'inchiesta ragusana, la querela verso il sindaco di Sesto appare ancora più ingiusta. Il riferimento del primo cittadino era verso un'altra inchiesta che ha coinvolto Casarini, poi archiviata dal tribunale di Agrigento, riguardante il caso Mare Jonio del marzo 2019. Ad ogni modo, delle indagini effettivamente ci sono state e ci sono. Poche le voci però levatesi a difesa del primo cittadino. Specialmente da sinistra, da dove all'epoca della sua denuncia politica verso Di Stefano erano pioviute feroci critiche.

Immigrazione, l'ultima strage in Libia? Con i porti aperti i morti nel Mediterraneo sono triplicati. Lorenzo Mottola su Libero Quotidiano il 24 aprile 2021.

Lorenzo Mottola. Milanese sulla quarantina, storico bocconiano, nel senso che la Bocconi l'avevo cominciata, ma poi mi sono laureato in storia (altrimenti mica sarei qui a fare il giornalista). Caporedattore centrale di Libero da parecchi anni, mi occupo principalmente di politica. Ma anche di pandemie, quando qualche genio decide che è giunto il momento di scoprire di cosa sa un pipistrello alla piastra. Su questo blog cercheremo di trattare di tutto. Con i porti aperti i morti nel Mediterraneo sono triplicati. C’è qualcosa che non torna nelle analisi pubblicate dopo l’ennesima strage al largo dell’Africa. I fatti sono noti: un gommone carico di profughi è salpato per l’Italia tre giorni fa in condizioni meteo disastrose. La guardia costiera libica non è riuscita o non ha voluto intervenire proprio per il maltempo. Risultato: uno degli scafi si è ribaltato ed è colato a picco, mentre la nave di una Ong, la Ocean Viking, cercava di raggiungere i naufraghi. La reazione alla vista delle foto dei cadaveri scattati dai volontari è stata la solita: colpa dell’Italia e dell’Unione Europea, che non si attrezzano per intervenire con operazioni di salvataggio tempestive. Il Pd chiede il ritorno a Triton (o Frontex Plus), missione che nel periodo in cui il flusso da Tripoli – dopo la fine del regime di Gheddafi – era stata concepita per evitare nuove tragedie in mare. Ovviamente con il concorso delle Ong. Ma siamo sicuri che sia questa la ricetta? In realtà quella missione è stata a dir poco un disastro. Nel 2016 con il picco degli sbarchi, siamo arrivati a contare ben 4500 morti l’anno. Le nostre navi schierate al largo delle coste africane erano diventate una calamita per i gommoni. Poi qualcosa è cambiato. L’unico intervento politico che pare aver ridotto sensibilmente il numero di morti è proprio quello di Matteo Salvini e di Marco Minniti prima di lui. La chiusura dei porti ha infatti determinato un calo drammatico delle partenze. E diminuendo le partenze sono diminuite anche le vittime. Nell’anno di Salvini al Viminale sono state 1200. Lo scorso anno le cose sono continuate a migliorare, il traffico nel canale di Sicilia è stato poco significativo a causa della pandemia. Il nuovo ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese  ha insistito con l’azione di contrasto alle Ong. Da qualche mese però il quadro è mutato di nuovo: la maggioranza giallorossa ha cancellato i decreti sicurezza voluti dalla Lega. Su Libero avevamo pronosticato un aumento delle partenze e di conseguenza dei morti. E’ andata esattamente così. Lo scorso anno erano stati 149 le vittime al 24 aprile, quest’anno siamo a 357. A queste, bisogna aggiungere i 130 annegati dell’altro giorno. Insomma, abbiamo già triplicato i numeri dello scorso anno. Si tratta di dati di un’agenzia Onu, ovvero dell’International Organization for migration. Da notare: le agenzie Ue stimano che a fine pandemia l’Europa verrà investita da un’ondata di profughi dal terzo mondo, dove la crisi per il Covid si è fatta sentire anche più che da noi. Bisogna capire quale strategia vogliamo adottare. Provare a fermare le partenze alla base (come sta cercando di fare Mario Draghi e fece all’epoca Silvio Berlusconi con gli accordi con Gheddafi) o tentare di salvare chi cola a picco in mare?

Da corriere.it il 23 aprile 2021. Almeno 130 migranti sarebbero morti in un naufragio poche miglia a Nord delle coste della Libia; ma di fronte a questa ennesima tragedia le Ong attive nel Mediterraneo lanciano gravissime accuse. Sea Watch in un messaggio su Twitter accusa la Ue e Frontex di aver omesso i soccorsi nei confronti del gommone affondato. «Sapevano della situazione di emergenza, ma hanno negato il soccorso. La nave Ocean Viking è arrivata sul posto solo per trovare dieci cadaveri». La Ocean Viking è una nave impegnata in operazioni di salvataggio nel Mediterraneo centrale; aveva ricevuto giovedì un Sos raccolto da Alarm Phone a proposito di due imbarcazioni in difficoltà nella zona di competenza della Libia. In quelle ore le condizioni del mare erano pessime, con onde alte oltre 6 metri, nessuna unità di soccorso libica stava operando in quel momento nell’area. Questo è il racconto fatto da Alessandro Porro, presidente di Sos Mediterranee che era a bordo della Ocean Viking: «Nel pomeriggio la nave My Rose ha avvistato un gommone, ci siamo avvicinati ed è stato navigare in un mare di cadaveri. Letteralmente. Del natante restava poco, delle persone neanche il nome». Porro ricorda le ricerche «senza aiuto da parte degli Stati. Fosse cascato un aereo di linea ci sarebbero state le marine di mezza Europa, ma erano solo migranti, concime del cimitero mediterraneo». Le persone ritrovate dai volontari di Sos Mediterranée erano a bordo di un gommone che trasportava 130 persone. Della seconda imbarcazione in difficoltà non si hanno più notizie da oltre 48 ore. Con il barcone risulta sparita un’altra cinquantina di migranti. Anche in questo caso la richiesta di soccorso è stata raccolta da Alarm Phone.

Nel Mediterraneo ennesima strage annunciata di migranti: 130 morti al largo della Libia. Carmine Di Niro su Il Riformista il 23 Aprile 2021. L’ennesima strage nel silenzio colpevole e complice dell’Europa. Sarebbero almeno cento le perone morte al largo della Libia, annegati nel naufragio di un gommone che si stava dirigendo verso le coste italiane o maltesi. A riferirlo è Alarm Phone in un tweet in cui si precisa che la barca “con cui eravamo in contatto si è capovolta. Ocean Viking ha trovato corpi senza vita. Tutte le autorità erano allertate, Frontex li aveva avvistati: li hanno lasciati annegare. Per l’Europa, black lives don’t matter”. Il gommone avrebbe tentato la traversata in condizioni di mare proibitive: le tracce dell’imbarcazione di fortuna si sono perse a nord-est di Tripoli, dove sono stati finora avvistati in mare i cadavere di trenta persone, ma non è stato ancora possibile recuperarli. A ricostruire quanto accaduto tra Italia e Libia è Sos Mediterranee. “L’equipaggio della Ocean Viking ha dovuto assistere alle devastanti conseguenze del naufragio di un gommone a nord est di Tripoli. Questa barca era stata segnalata in pericolo con circa 130 persone a bordo mercoledì mattina. Alarm Phone – continua Sos Mediterranee – ci aveva avvisato di un totale di tre imbarcazioni in pericolo nelle acque internazionali al largo della Libia. Tutti loro erano ad almeno dieci ore dalla nostra posizione al momento della ricezione degli avvisi. Abbiamo cercato due di queste barche, una dopo l’altra, in una corsa contro il tempo e con mare molto mosso, con onde fino a 6 metri”. “In assenza di un efficace coordinamento guidato dallo Stato”, prosegue Sos Mediterranee – tre navi mercantili e la Ocean Viking hanno collaborato per organizzare la ricerca in condizioni di mare estremamente difficili”. Sos Mediterranee sottolinea che “senza ricevere il sostegno delle autorità marittime responsabili, tre cadaveri sono stati avvistati in acqua dalla nave mercantile “My Rose”. Poco dopo un aereo Frontex ha individuato il relitto di un gommone. Da quando siamo arrivati sulla scena, non abbiamo trovato nessun sopravvissuto mentre abbiamo potuto vedere almeno dieci corpi nelle vicinanze del relitto. Pensiamo alle vite perse e alle famiglie che potrebbero non avere mai la certezza di quello che e’ successo ai loro cari”. La Ong sottolinea il prezzo pagato dai migranti nel tentativo di arrivare in Europa: più di 350 persone hanno perso la vita in questo tratto di mare quest’anno, “senza contare le decine di morti nel naufragio a cui abbiamo assistito oggi. Gli Stati abbandonano la loro responsabilità di coordinare le operazioni di ricerca e salvataggio, lasciando gli attori privati e la società civile a riempire il vuoto mortale che si lasciano alle spalle. Possiamo vedere il risultato di questa deliberata inazione nel mare intorno alla nostra nave”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia.

Strage nel Mediterraneo: ecco il racconto della tragedia. Ieri il naufragio al largo della Libia, dispersi 130 migranti. Il racconto di Sos Mediterranee: «Quando siamo arrivati sulla scena, non abbiamo trovato nessun sopravvissuto mentre abbiamo potuto vedere almeno dieci corpi nelle vicinanze del relitto». Simona Musco su Il Dubbio il 23 aprile 2021. Abbandonati in mare aperto per ore. Nonostante gli allarmi lanciati per tempo da Alarm Phone, che ha informato le autorità europee e libiche del gommone carico di 130 persone, la cui vita era a rischio in mezzo alle onde troppo difficili da domare. Allarme inutile: le ong, le uniche che si sono attivate per tentare di raggiungere in tempo uomini, donne e bambini in cerca di una speranza, sono arrivate troppo tardi, trovando il gommone lacerato e decine di corpi in mare, ormai senza vita. Un’ennesima strage che poteva essere evitata e la conferma dell’inaffidabilità della Guardia costiera libica, interlocutore ufficiale di Paesi come l’Italia quando si parla della gestione delle migrazioni nel Mediterraneo. «Abbiamo visto almeno dieci corpi nelle vicinanze del relitto. Abbiamo il cuore spezzato – ha dichiarato Luisa Albera, coordinatrice di Ricerca e Soccorso a bordo della Ocean Viking -. Pensiamo alle vite che sono state perse e alle famiglie che potrebbero non avere mai la certezza di ciò che è successo ai loro cari. Questa tragedia arriva appena un giorno dopo l’orribile notizia condivisa dall’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni di una donna e un bambino morti su un gommone stracarico che è stato intercettato dalla Guardia Costiera libica in acque internazionali, e i naufraghi sono stati riportati coste libiche e portati in detenzione arbitraria, dove molti di loro subiscono violenze e abusi indicibili. Questa è la realtà nel Mediterraneo centrale: più di 350 persone hanno già perso la vita in questo tratto di mare quest’anno, senza contare le decine di persone che sono morte nel naufragio a cui abbiamo assistito oggi. Gli Stati abbandonano la loro responsabilità di coordinamento delle attività di ricerca e soccorso, lasciando gli attori privati e la società civile a riempire il vuoto mortale che si lasciano dietro. Possiamo vedere il risultato di questa deliberata inazione nel mare intorno alla nostra nave». Persone che avrebbero potuto essere salvate, denuncia Alarm Phone, se tutte le autorità interpellate non le avessero «consapevolmente lasciate morire in mare». Alarm Phone è rimasta in contatto con il gommone per dieci ore, comunicando ripetutamente la sua posizione alle autorità e la terribile situazione a bordo. L’unica azione intrapresa è stata il lancio di un aereo di sorveglianza di Frontex (Osprey 3), sette ore dopo il primo allarme. L’aereo ha individuato il gommone, informando le autorità. Ma nonostante tale allarme, soltanto le ong hanno cercato di salvare le persone in pericolo. Le autorità europee, infatti, hanno indicato la Libia come Paese competente, rifiutando ogni responsabilità. E dal canto suo la Guardia costiera libica si è rifiutata di coordinare i soccorsi, pur essendo intervenuta per intercettare una seconda imbarcazione, a sole cinque miglia nautiche dai 130 migranti in difficoltà. Ancora dispersa una terza barca con a bordo 40 persone. Ad avvisare Alarm Phone è stato un pescatore locale. I migranti erano partiti da Al-Khoms intorno alle 22.00 del 20 aprile insieme a una seconda imbarcazione, in seguito intercettata dalla Guardia costiera. Date le condizioni metereologiche, Alarm Phone allerta le autorità competenti tramite e-mail alle 09.51. Da quel momento, dunque, le Guardie costiere di Italia e Malta, quella libica, l’Unhcr e le Ong sono a conoscenza della situazione. Pochi minuti dopo, alle 10.03, Alarm Phone riesce a contattare la barca in difficoltà, ma la scarsa connessione rende impossibile scambiare informazioni. Alle 10.33, ristabiliti i contatti, dalla barca arriva un unico grido: «Chiamare i soccorsi». Alle 11.00, con un terzo collegamento, la barca riesce ad inviare la posizione Gps, informando di avere a bordo, tra le 130 persone, sette donne, di cui una incinta. L’allarme viene lanciato nuovamente, questa volta con la preziosa informazione dell’esatta posizione in cui il gommone si trovava in avaria. A bordo, intanto, aumenta il panico, a causa delle onde alte. Alle 14.11 la Guardia costiera italiana invita Alarm Phone a rivolgersi alle autorità libiche, competenti per il caso in questione. Ma solo alle 14.44 è possibile mettersi in contatto con un ufficiale libico, «che ha dichiarato di essere a conoscenza di tre barche e di cercarle con la loro motovedetta Ubari». Gli aggiornamenti sulla posizione del gommone, da parte di Alarm Phone, sono costanti, così come della situazione a bordo. Alle 17.53 la Ocean Viking, tramite mail, avvosa sia Alarm Phone sia le autorità che sarebbe andata alla ricerca del gommone. Alle 19.15, intanto, Osprey si trova proprio sopra il gommone. E alle 20.15 Alarm Phone stabilisce l’ultimo contatto con i migranti, chiamata interrotta, però, prima di riuscire a scambiare informazioni. Quaranta minuti dopo, dunque, una nuova telefonata con la Guardia costiera italiana, alla quale il contatto di emergenza in supporto alle operazioni di salvataggio comunica il silenzio delle autorità libiche. «L’ufficiale italiano ci ha detto: “Stiamo facendo il nostro lavoro, chiamateci se avete nuove informazioni”», continua Alarm Phone. Per risentire le autorità libiche tocca attendere le 22.22: «L’ufficiale libico ci ha detto che non avrebbero cercato la barca in pericolo perché le condizioni meteorologiche erano pessime – afferma -. Abbiamo scoperto che la cosiddetta Guardia costiera libica aveva intercettato un’altra barca, che aveva anche allertato Alarm Phone, trasportando circa 100 persone – in questo caso, una donna e il suo bambino sono morti. Alle 22.55 abbiamo informato l’Mrcc Italia che la cosiddetta Guardia costiera libica non avrebbe condotto un’operazione di ricerca». Alle 7.30 del giorno successivo, Alarm Phone prova di nuovo a chiedere aiuto alle autorità italiane. «L’ufficiale italiano ha detto: “Chiamaci se hai nuove informazioni, sappiamo della barca”. Alle 7.53 – continua il racconto -, abbiamo informato nuovamente tutte le autorità via e-mail, compresa Frontex, richiedendo un’operazione aerea e guida per le navi nelle vicinanze della barca in pericolo: le navi mercantili Vs Lisbeth, Alk e My rose, nonché la nave Ong Ocean Viking. Alle 8.30, abbiamo anche scritto un’e-mail direttamente a Frontex, chiedendo informazioni sulla loro operazione aerea il giorno prima nell’area di pericolo. Alle 8.49 abbiamo ricevuto la seguente risposta da Frontex: “Gentile Signore/a, grazie per la tua e-mail. Si informa che Frontex ha immediatamente inoltrato il messaggio alle autorità italiane e maltesi”». Alle 10.42 le autorità libiche negano di avere informazioni sulla barca, ribadendolo alle 11.31. «Hanno anche affermato che l’Italia aveva chiesto loro di dare il permesso alle navi mercantili di condurre un’operazione di salvataggio, che avevano dato loro. Hanno ripetuto che non erano usciti e non sarebbero usciti a causa del maltempo», continua Alarm Phone. Sul posto, dunque, arrivano Ocean Viking, Vs Lisbeth, Alk e My rose ma lì trovano solo i resti della tragedia. E Ocean Viking, tramite mail, lo comunica a Alarm Phone: in mare ci sono diversi corpi e nessun sopravvissuto. «Ancora una volta, questi eventi dimostrano che la morte in mare non è un incidente, ma il risultato di azioni e inazioni intraprese da attori europei e libici. E ancora una volta, questi eventi dimostrano la necessità di corridoi di migrazione sicuri e l’abolizione delle guardie di frontiera e delle istituzioni violente – continua Alarm Phone -. Sia le autorità marittime europee che quelle libiche hanno dimostrato ancora una volta di essere del tutto incompetenti. Devono essere sostituiti da un Centro di coordinamento del soccorso marittimo civile che lavori nell’interesse di coloro che sono in difficoltà invece di lasciarli annegare nel Mar Mediterraneo». «Da oltre 24 ore la Ocean Viking stava inseguendo dei destini nel mare, quelli di due imbarcazioni in difficoltà, molto lontane fra di loro. Della prima non abbiamo trovato alcuna traccia, possiamo solo sperare che sia rientrata a terra o comunque giunta in salvo. La seconda è stata rincorsa attraverso una bufera, in una notte con onde alte sei metri. Non ho difficoltà ad ammetterlo, ho passato qualche ora in bagno a vomitare – ha dichiarato Alessandro Porro, presidente di Sos Méditerranée -. Non sono bastati la prometazina, il dimenidrinato, metà degli ultimi tre anni passati in mare. Ero esausto, disidratato, a fatica sono tornato nel letto, ed ero protetto da una signora delle acque che pesa migliaia di tonnellate. Colpi secchi sulla chiglia, oggetti rovesciati nelle cabine. Fuori, da qualche parte in quelle stesse onde, un gommone con 120 persone. O 100, o 130. Non lo sapremo mai, perché sono tutte morte. All’alba abbiamo cercato ancora, assieme a tre mercantili, senza coordinamento né aiuto da parte degli Stati. Fosse cascato un aereo di linea ci sarebbero state le marine di mezza Europa, ma erano solo migranti, concime del cimitero mediterraneo, per i quali è inutile correre, e infatti siamo rimasti soli. Nel pomeriggio la nave My Rose ha avvistato il gommone, ci siamo avvicinati ed è stato navigare in un mare di cadaveri. Letteralmente. Del natante restava poco, delle persone neanche il nome. Impotenti, abbiamo fatto un minuto di silenzio, a riecheggiare sulle terre degli uomini. Le cose devono cambiare, le persone sapere».

Durissimo attacco delle Ong a Ue e Frontex. “Navigavamo in mezzo ai cadaveri”, l’ennesima strage nel Mediterraneo: oltre 100 morti. Antonio Lamorte su Il Riformista il 23 Aprile 2021. Un’altra, l’ennesima tragedia, al largo del Mar Mediterraneo. Oltre 100, forse fino a 130 vittime, naufragate al largo della Libia. Erano partite con un gommone. L’allarme era scattato mercoledì mattina. Sos Mediterranée aveva fatto sapere che nelle precedenti 48 ore il network di Alarm Phone aveva avvisato di tre barche in difficoltà nelle acque internazionale al largo della Libia. Una strage. Durissima l’accusa dell’Ong Sea Watch su Twitter all’Unione Europea e all’agenzia Frontex: “Sapevano della situazione di emergenza, ma hanno negato il soccorso. La nave Ocean Viking è arrivata sul posto solo per trovare dieci cadaveri”. Il mare mosso. Onde fino a sei metri. A cooperare per il salvataggio tre navi mercantili e la Ocean Viking di Sos Méditerranée. Il primo avvistamento da parte della mercantile MY ROSE: tre cadaveri. Un aereo di Frontex ha individuato in seguito il relitto di un gommone. Nessun sopravvissuto. Sconosciuto il destino di altre 40 persone a bordo di una barca in legno. La terza imbarcazione dell’allarme era un gommone con un centinaio di persone a bordo. Il primo dei due gommoni si è capovolto. Il secondo è stato riportato ieri in Libia dalla Guardia Costiera: a bordo i cadaveri di una mamma e del suo bimbo. Le tracce del primo si erano perse a nord-est di Tripoli. Le condizioni proibitive del mare hanno reso impossibile il recupero delle salme. “Questa è la realtà nel Mediterraneo centrale: più di 350 persone hanno già perso la vita in questo tratto di mare quest’anno, senza contare le decine di persone che sono morte nel naufragio a cui abbiamo assistito oggi. Gli Stati abbandonano la loro responsabilità di coordinamento delle attività di ricerca e soccorso, lasciando gli attori privati e la società civile a riempire il vuoto mortale che si lasciano dietro. Possiamo vedere il risultato di questa deliberata inazione nel mare intorno alla nostra nave”, si leggeva nel comunicato di Luisa Albera, coordinatrice di Ricerca e Soccorso a bordo della Ocean Viking. Secondo Repubblica le autorità marittime della Libia hanno ignorato una delle richieste di soccorso dalla zona Sar libica a nord est di Tripoli. A raccontare l’ennesima strage nel Mediterraneo un messaggio di Alessandro Porro, soccorritore a bordo della Ocean Viking di Sos Mediterranée, dal giornale di bordo dell’Ong: “Dopo un giorno e una notte siamo arrivati sulla scena di una tragedia e siamo arrivati ovviamente troppo tardi, 100 morti, 120, 130, non lo sapremo mai. Di sicuro era un gommone, grande, completamente distrutto dalle onde. Nella notte ci sono state onde fino a 6 metri e anche noi sulla Ocean Viking che è una nave grande, che pesa tonnellate e tonnellate, siamo stati male. Immaginate quello che può essere successo sul gommone. Siamo arrivati sulla scena con altre tre imbarcazioni civili, tre navi mercantili, abbiamo cominciato a fare una ricerca auto-coordinata senza alcun supporto da parte delle autorità. E ci siamo trovati a navigare letteralmente in mezzo ai cadaveri. Ci chiediamo se tutto questo potesse essere evitato con un semplice coordinamento da parte degli Stati. L’Ocean Viking ha osservato un minuto di silenzio in memoria di queste vittime, non c’era altro che si potesse fare”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Nuova tragedia al largo della Libia. Strage in mare: 130 naufragi in difficoltà da giorni, ma con le Ong lontane gli Stati hanno fatto finta di niente…Giulio Cavalli su Il Riformista il 24 Aprile 2021. Il fatto è che ormai questi morti non pesano più, sono battute, qualche centinaio di battute che finiscono sulle pagine dei giornali, quando va bene in una notizia che è poco di più una semplice “breve”, oppure farciscono un lancio di agenzia. Perfino quelli che (giustamente) ogni giorno provano a sottolineare i quintali di carne morta per Covid non riescono ad avere la stessa attenzione per i morti nel Canale di Sicilia. Lì abbiamo deciso che “devono” morire, che “possono” morire, come se davvero nel 2021 potesse esistere una parte di mondo che preveda ineluttabile l’annegamento, va così, ci si dà di gomito, ci si intristisce di quel lutto passeggero che si dedica alle notizie di cronaca nera e quelli non esistono più, non erano nemmeno vivi prima di essere morti, quelli che attraversano il Mediterraneo esistono perfino di più quando sono cadaveri che galleggiano nel mare. 130 migranti morti, 3 barconi messi in mare dai trafficanti libici e tre navi commerciali (lì dove ci dovrebbero essere le autorità coordinate dall’Europa) a deviare dalle loro rotte per provare ad evitare il disastro che non è stato evitabile. “Gli Stati si sono opposti e si sono rifiutati di agire per salvare la vita di oltre 100 persone. Hanno supplicato e inviato richieste di soccorso per due giorni prima di annegare nel cimitero del Mediterraneo. È questa l’eredità dell’Europa?”, dice la portavoce dell’iim, l’organizzazione dell’Onu per i migranti, Safa Mshli ma anche le parole dell’Onu ormai pesano niente, sono una litania che si ripete regolarmente e che non scalfisce quest’Europa che riesce a passarla sempre liscia. Anche dal punto di vista giudiziario sorge qualche dubbio, pensateci bene: le Procure che rinviano a giudizio Salvini non si accorgono (o non si vogliono accorgere?) Delle responsabilità dell’Europa? Perché questi non rimangono nemmeno sequestrati, questi muoiono, annegano, galleggiano sul mare e vengono recuperati senza nemmeno uno straccio di qualche fotografia di cronaca. Sopra a quei tre gommoni di gente viva che poi è morta sono perfino transitati perfino velivoli di Frontex eppure non è scappato nemmeno un messaggio di allerta alla cosiddetta Guardia costiera libica che ha pensato bene di non inviare nemmeno una delle motovedette (che le abbiamo regalato noi). Troppa fatica. Quando i morti cominciano a non valere più niente allora ci si può permettere di lasciare morire e forse un giorno ci interrogheremo sulla differenza tra lasciare morire e uccidere, forse un giorno decideremo, avremo il coraggio di riconoscere, che questa strage ha dei precisi mandanti e dei precisi esecutori. “Quando sarà abbastanza? Povere persone. Quante speranze, quante paure. Destinate a schiantarsi contro tanta indifferenza”, dice Carlotta Sami, portavoce dell’alto commissariato per i rifugiati e il dubbio è che ormai non sarà più abbastanza perché quando si diventa impermeabili ai morti allora quelli aumenteranno, continueranno a morire ancora di più, continueranno a cadere e intorno non se ne accorgerà nessuno. Centotrenta persone annegate. Le autorità dell’Ue e Frontex sapevano della situazione di emergenza, ma hanno negato il soccorso. La Ocean Viking è arrivata sul posto solo per trovare dieci cadaveri: è un’epigrafe che fa spavento ma che non smuove niente. Sono passate due settimane da quando il presidente del Consiglio Mario Draghi ha ringraziato la guardia costiera per i “salvataggi” e quando qualcuno si è permesso di ricordare che in Libia e in quel tratto di mare mancano completamente tutti i diritti fondamentali i sostenitori del governo si sono perfino risentiti. E la storia di questo annegamento, badate bene, non è nemmeno un incidente: comincia mercoledì alle ore 14.11 con il primo allarme e si è conclusa il giorno successivo alle 17.08 con una mail di Ocean Viking che comunicava di avere trovato “i resti di un naufragio e diversi corsi, senza alcun segno di sopravvissuti”. Nessuna motovedetta libica all’orizzonte. Lì sono annegati loro ma in fondo continuiamo ad annegare anche noi e la cosa mostruosa è che ci siamo abituati.

Giulio Cavalli. Milano, 26 giugno 1977 è un attore, drammaturgo, scrittore, regista teatrale e politico italiano.

La tragedia al largo della Libia. La strage nel Mediterraneo è voluta dai governi europei: così pensano di fermare l’immigrazione. Piero Sansonetti su Il Riformista il 24 Aprile 2021. Le autorità italiane, nell’ultimo anno, si sono prese la briga di fermare decine di navi dei soccorritori. Tutte e sette le Ong che hanno operato in passato, e in parte ancora operano nel canale di Sicilia, hanno subìto i provvedimenti repressivi. Le Ong oggi sono rimaste le uniche organizzazioni che si dedicano in modo metodico all’azione per ridurre il numero dei morti nel Mediterraneo. Colpire e ostacolare la loro azione, e contemporaneamente non muovere navi della marina italiana nell’opera di salvataggio e di soccorso, è sicuramente un reato, come ha detto ieri Luca Casarini, che proprio perché è impegnato in una Ong si è trovato indagato lui stesso dalla magistratura. La magistratura indaga molto poco sulle cause della morte di migliaia di africani nel nostro mare. Preferisce indagini sui soccorritori. Il diritto internazionale, credo, stabilisce che non è permesso intralciare i soccorsi, specialmente quando c’è il rischio di morte. Neanche in guerra è permesso. È proibito sparare sulla Croce Rossa. Da noi, nel nostro curioso “diritto materiale”, non è più proibito. Che diversi governi, diversi ministri dell’Interno e un certo numero di Procure si siano impegnati per rendere sempre più difficili i soccorsi in mare è cosa risaputa. Grida vendetta al cielo. Ma solo al cielo. In terra frega niente a tutti. Salvini in parte rivendica questa politica. Lui fa pubblicamente questo ragionamento: se impediamo i soccorsi scoraggiamo i migranti. Molti – dice – se sanno che non saranno soccorsi, non partono. E se non partono, non muoiono. Vedete, questo ragionamento assomiglia molto a quelli che dicono che la pena di morte è la cosa migliore per garantire la civiltà. Perché ha valore deterrente, riduce i reati. Questo modo di ragionare è terrificante, si fonda su una idea di civiltà che è molto simile alla civiltà della giungla. Salvini ha il merito, se posso dire così, di rendere esplicito il suo ragionamento. Di rivendicarlo. Il resto del mondo politico, quasi tutto, è esattamente sulle posizioni di Salvini e si nasconde solo dietro un velo sottile sottile di parole un po’ belle, che sono ipocrisia e poi ipocrisia e poi ipocrisia. La politica dei governi e della magistratura, in questi anni, è stata sempre la stessa: usare le morti per scoraggiare i migranti, armare i libici per fermarli a terra, sospendere tutte le attività di soccorso di Stato e combattere le organizzazioni private. Voi pensate che queste politiche siano iscrivibili nelle regole fissate nella nostra Costituzione, nelle convenzioni internazionali, nella dichiarazione universale dei diritti dell’uomo? Non lo sono. Ma è molto difficile combatterle, perché non esiste né in Parlamento né nella società una opposizione consistente. Esistono alcuni gruppi piccoli, che si battono, che gridano, strepitano. Vengono trattati con sufficienza dal potere, ignorati dai giornali, sbeffeggiati. E quei settori più moderati e moderni di establishment che sono ben consapevoli dell’orrore in corso, specialmente in Italia ma un po’ in tutt’Europa, sanno di avere poco spazio, si nascondono, donabbondieggiano. Devo fare qualche nome? Beh, quasi tutto il Pd, innanzitutto. E poi temo di dover fare anche il nome di Draghi. La ragione di questo cinismo che rimanda indietro di molti anni la civiltà occidentale, è strettamente politica. La faccia dura contro gli immigrati porta voti, è benzina per la propaganda. Non solo a destra. E oggi i partiti, gli intellettuali, i giornali, sono molto poveri di idee e hanno bisogno di carburante a buon mercato per fare propaganda. Non trovano altro che vendersi la vita dei migranti. C’è una spirale “ideologica”. I partiti incitano il popolo alla xenofobia e il popolo si incendia sempre di più e spinge i partiti ad essere più xenofobi che mai. La propaganda, per esempio, racconta di questa invasione, delle orde di clandestini che chiedono e ottengono asilo politico. E poi dice: mica possiamo prenderli tutti, no? E allora, comunque, buttiamoli a mare. Nei giorni scorsi sono usciti i dati sui richiedenti asilo. I dati ufficiali di Eurostat. Cosa dicono? Che il numero dei richiedenti asilo è in netto calo. Che il 25 per cento del totale (in Europa) chiede asilo in Germania, il 20 in Francia, il 20 in Spagna e il 5 per cento da noi. E che le domande accolte, mediamente, in Europa, sono circa il 40 per cento, da noi invece meno del 20 per cento. In Spagna (paese molto più piccolo dell’Italia, in termini di abitanti) vengono accolte circa il 60 per cento delle richieste. Secondo voi queste cifre dicono che in Italia c’è una emergenza rifugiati? No, dicono che in Italia c’è un’emergenza politica. Il populismo domina l’intero sistema politico. Si è aperta una gara al populismo. E il populismo vive di cinismo. Anche di morti. Di morti da nascondere in fondo al mare.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Il giallo della rotta di Ocean Viking dietro il naufragio dei 130 migranti. Chiara Giannini il 25 Aprile 2021 su Il Giornale. Stazionava davanti alla Libia. Ma quando è partito l'sos si era spostata verso Tunisi. La morte dei 130 migranti di fronte alle coste libiche potrebbe essere direttamente collegata con la presenza della Ocean Viking, la nave della Ong Sos Mediterranee che da giorni faceva avanti e indietro nelle acque antistanti la Libia. Per farla breve, a giugno 2018 l'area Sar libica è stata riconosciuta dall'Imo (International maritime organization), che l'ha ufficialmente inserita nel database internazionale. Già da quel periodo i soccorsi, nell'area di competenza, vengono coordinati dalla Guardia costiera libica. Le leggi internazionali dicono che non si può entrare in un'area Sar altrui e interferire. Insomma, non è che se il Centro di coordinamento e soccorso italiano (Imrcc) riceve un alert per primo può inviare soccorsi senza che sia prima stata avvertita la Guardia costiera libica. Questo può accadere solo in caso di mancata risposta delle autorità dello Stato competente. Ciò che è accaduto prima del naufragio del gommone è chiaro. La nave Ocean Viking si trovava in acque Sar libiche dal 19 aprile e faceva avanti e indietro in attesa della partenza di qualche barcone. Alle 22 del 20 aprile, con un mare in tempesta, tre natanti inspiegabilmente partono in direzione della Ocean Viking, che fino a poche ore prima si trovava a 30 miglia nautiche da al-Khoms. I migranti, però, dopo aver preso il largo, iniziano ad avere problemi e chiamano Alarm Phone, che avverte i libici. Ocean Viking a quel punto non è più in quell'area, ma molto più lontano, perché proprio su segnalazione del numero di emergenza, alle 18 del 20 aprile era partita in direzione Tunisia, dove era stato segnalato un barcone in difficoltà, poi successivamente rientrato sulla terraferma.

Una motovedetta libica parte subito alla ricerca dei tre barconi, ma chiede la cooperazione di altri, viste le condizioni del mare, così Imrcc Roma individua tre mercantili che si trovano in zona e che partono alla ricerca dei natanti in difficoltà. Un primo barcone con a bordo 104 persone viene recuperato dai libici. Sullo stesso una donna e un bambino morti. I cadaveri delle persone che erano a bordo del secondo gommone vengono avvistati il 21 aprile da uno dei tre mercantili, il «My Rose». Della terza imbarcazione con a bordo, pare, una quarantina di migranti, non si sa ancora niente. Il relitto del gommone affondato viene quindi avvistato e fotografato da un aereo di Frontex. La versione viene confermata anche dal commodoro Massoud Abdelsamad, portavoce della Marina libica: «Abbiamo fatto tutto quanto era possibile per salvare quelle persone». E alle accuse rivolte dalle Ong risponde: «Abbiamo ricevuto la chiamata e inviato subito una motovedetta da al-Khoms verso la posizione comunicataci sia da Imrcc Italia che Mrcc Malta. Ci siamo assunti le nostre responsabilità, abbiamo collaborato». Il tutto mentre il segretario Pd Enrico Letta chiede il ripristino di Mare Nostrum e Alarm Phone continua ad attribuire responsabilità altrove dicendo che «mancano ancora 42 persone su una terza barca. L'Europa uccide, li lascia annegare». O forse a lasciarli annegare è l'irresponsabilità di chi continua a favorire l'immigrazione clandestina non capendo che le partenze irregolari, purtroppo, portano anche alla morte di moltissime persone?

Immigrazione, la strage e i 130 morti in mare: giallo sulla rotta di Ocean Viking. Libero Quotidiano il 25 aprile 2021. Il naufragio e la morte dei 130 migranti davanti alle coste libiche potrebbero essere collegati in qualche modo al caos nell’organizzazione dei soccorsi. Potrebbe esserci qualche legame, in particolare, con la presenza della Ocean Viking, la nave della Ong Sos Mediterranee che da giorni si trovava davanti alla Libia. Per capire meglio la vicenda, è necessario sapere che nel 2018 l’Imo (International maritime organization) ha ufficialmente riconosciuto l’area Sar libica, nella quale i soccorsi vengono coordinati dalla Guardia costiera libica. Stando alle leggi internazionali, come spiega il Giornale, non si può entrare in un’area Sar altrui e interferire. Nel caso della zona libica, per esempio, le autorità italiane possono intervenire solo se le autorità dello Stato competente non rispondono. Prima del naufragio, invece, la Ocean Viking si trovava già in acque Sar libiche. Era lì dal 19 aprile, in attesa  di qualche barcone. Questa la ricostruzione riportata dal Giornale: alle 22 del 20 aprile, nonostante il mare in tempesta, tre natanti sono partiti in direzione della Ocean Viking, che fino a poche ore prima stazionava a 30 miglia nautiche da al-Khoms, città libica. Dopo aver preso il largo, i migranti iniziano ad avere dei problemi e quindi chiedono aiuto ad Alarm Phone, che avverte i libici. A quel punto, però, la Ong non si trova più nello stesso punto, ma è molto più lontana, a causa di un’altra segnalazione vicino alla Tunisia. Parte, allora, una motovedetta libica per andare incontro ai tre barconi in difficoltà, chiedendo anche l’aiuto di altre imbarcazioni. Un primo barcone viene individuato dai libici; i cadaveri delle persone a bordo del secondo vengono avvistati il giorno dopo, mentre della terza imbarcazione con circa 40 migranti non si sa nulla. “Abbiamo ricevuto la chiamata e inviato subito una motovedetta da al-Khoms verso la posizione comunicataci sia da Imrcc Italia che Mrcc Malta. Ci siamo assunti le nostre responsabilità, abbiamo collaborato”: queste le parole del commodoro Massoud Abdelsamad, portavoce della Marina libica, in risposta alle accuse delle Ong.

Le Ong vogliono il comando delle operazioni in mare. Fausto Biloslavo il 25 Aprile 2021 su Il Giornale. Chiedono un centro di coordinamento dei soccorsi Unhcr e Iom: stop al ritorno dei migranti in Libia. Le Ong gettano la maschera e cavalcando l'ultimo naufragio dei migranti svelano i loro veri piani per l'estate, che si teme porterà ad un aumento di partenze dalla Libia. «Il regime di frontiera europeo continuerà a uccidere se non viene fermato. Attori statali e Frontex vogliono solo proteggere i confini e non le persone» denunciano i talebani dell'accoglienza di Alarm Phone, come se fosse un delitto difendere le frontiere. Il centralino dei migranti riceve le telefonate dai satellitari che i trafficanti consegnano ai migranti sui gommoni. Ieri su Twitter Alarm Phone ha annunciato che i sistemi europei, compreso quello di Roma, «devono essere aboliti e sostituiti da un Civil Rescue Coordination Centre finalizzato ai soccorsi anziché alle stragi in mare». In pratica un Centro di coordinamento delle Ong, che dovrebbe gestire liberamente con le loro navi i recuperi dalla Libia replicando i fasti del 2016-2017 quando sbarcarono in Italia 180mila migranti all'anno. Alarm Phone insiste che «gli ultimi giorni sono stati duri. Una madre e il suo bambino sono morti dopo che il gruppo con cui erano a bordo ci ha telefonato. Poi, 130 persone che ci hanno chiamato sono state lasciate annegare dalle autorità europee e libiche». Ovviamente non si fa cenno che i corpi della madre e del bambino sono stati recuperati dalla Guardia costiera libica assieme a 106 migranti ancora vivi nel mare in tempesta. I libici sono stati gli unici non ad abbandonare, ma a soccorrere almeno uno dei gommoni partiti da Khoms, mentre l'altro è affondato. Ieri il commodoro Massoud Abdelsamad, portavoce della Marina di Tripoli, ha bollato come «assolutamente false» le accuse delle Ong di avere lasciato annegare i migranti. «Abbiamo ricevuto la richiesta di soccorso e inviato un'unità da al-Khoms direttamente alla posizione ricevuta da Malta e dall'Italia» ha spiegato l'alto ufficiale. Nonostante le onde alte sei metri i libici sono riusciti ad individuare uno dei due gommoni salvando 106 migranti. L'Ong francese Sos Mediterranee, che con la sua nave Ocean Viking ha trovato i resti del gommone affondato e una decina di cadaveri, ha lanciato la campagna #BastaMortiInMare continuando a puntare il dito contro Tripoli e l'Europa. In vista della campagna estiva sta arrivando a dare manforte Sea watch 4, l'ammiraglia dei talebani tedeschi dell'accoglienza, salpata ieri dalla Spagna. In appoggio alle Ong sono scese in campo anche le costole dell'Onu. Unhcr e Iom chiedono la riattivazione delle operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo, uno stop al ritorno dei migranti in porti non sicuri (leggi Libia) e la creazione di un meccanismo di sbarco che alla fine riguarderà sempre l'Italia. La propaganda buonista contro la Guardia costiera libica viene smascherata da un audio pubblicato sul sito del Giornale, che dimostra come le Ong, quando fa comodo, attivano proprio Tripoli per soccorrere i migranti in mare. Il 27 marzo l'aeroplano Seabird, che individua i gommoni partiti dalla Libia ne ha trovato uno, ma probabilmente non c'erano navi «umanitarie» in giro. Nonostante il gracchiare alla radio si sente chiaramente che dal cielo viene lanciato il «mayday» a tutte «le stazioni» in ascolto per «un'imbarcazione con 50 persone a bordo in difficoltà che ha bisogno di assistenza immediata». Alla fine risponde una motovedetta della tanto vituperata Guardia costiera libica, che chiede di ripetere le coordinate. L'Ong volante, che come le altre contesta l'attivazione dei libici se proviene dall'Italia, perché riportano i migranti a terra nei campi di detenzione, non ha problemi a ripetere la posizione del gommone poi intercettato alla deriva.

Ribaltata la sentenza del Tar: la Sea Watch 4 torna sotto sequestro. Mauro Indelicato l'8 Maggio 2021 su Il Giornale. La nave dell'Ong tedesca dovrà rimanere ferma a Trapani: secondo i giudici amministrativi gli attivisti devono adeguare le condizioni della Sea Watch 4 alle normative vigenti. Attualmente è ancora a Trapani e probabilmente resterà lì ancora per diverse settimane: oggi infatti il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana ha messo nuovamente sotto sequestro la Sea Watch 4, la nave dell'Ong tedesca Sea Watch. La sentenza, depositata nelle scorse ore, ha ribaltato quella stabilita dal Tar. La vicenda è nel settembre 2020, quando la nuova nave battente bandiera tedesca a seguito di un controllo della Guardia Costiera è stata raggiunta da un fermo amministrativo. La Sea Watch 4 è rimasta ancorata per diversi mesi a Palermo, fino al marzo scorso quando il Tar aveva invece disposto la sospensione del sequestro. E infatti la nave ha potuto riprendere il largo. Il 4 maggio scorso il mezzo dell'Ong tedesca ha portato a Trapani 456 migranti, dando vita quindi a uno dei più importanti sbarchi degli ultimi mesi in territorio italiano. Appena ieri su Twitter gli attivisti scrivevano di aspettare la fine della quarantena per l'equipaggio, disposta dopo lo sbarco, per ripartire. Ma non sarà così: “In assenza di specifiche prescrizioni sulle caratteristiche tecniche delle unità di salvataggio – si legge nella sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa – il servizio di pattugliamento, ricerca e soccorso in mare deve avvenire in condizioni di sicurezza per le stesse persone soccorse, per l'equipaggio (riguardo, tra l'altro, alla sufficienza dei servizi igienici e ad adeguate turnazioni del personale), per la navigazione, per l'ambiente, condizioni che allo stato non sono riscontrabili a bordo”. In poche parole, prima di ripartire la Sea Watch 4 deve mettersi a norma. Questo per l'incolumità di tutte le persone a bordo, compresi i migranti raggiunti nel Mediterraneo centrale durante le missioni dinnanzi le coste libiche. Oppure, in alternativa, l'Ong dovrebbe procedere alla rimodulazione del suo servizio in base alle attuali condizioni strutturali della nave. A presentare il ricorso contro la decisione del Tar dello scorso marzo, era stato il ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture. Sui social per adesso non sono stati rilevati commenti ufficiali da parte degli attivisti. L'unica dichiarazione in tal senso è arrivata da Giorgia Linardi, portavoce di Sea Watch: “Ne prendiamo atto – ha dichiarato su La Stampa nelle scorse ore – fermo restando che per noi la partita vera si gioca a livello della Corte europea. Rileviamo comunque come prosegua l’accanimento della Guardia costiera nei confronti delle Ong”. Il fermo applicato sulla Sea Watch 4 non è certamente il primo a riguardare una nave Ong. Al contrario, dal 2019 in poi sono diversi i mezzi raggiunti dai sequestri amministrativi. A dispetto di quanto narrato soprattutto dal centrosinistra, è dopo la fine dell'era Salvini al Viminale che si è arrivati a un aumento del numero dei fermi verso navi cosiddette umanitarie. Attualmente sotto sequestro c'è anche la nave spagnola Open Arms, ancorata dal 21 aprile a Pozzallo.

La verità sulle inchieste sulle Ong. Mauro Indelicato il 30 Aprile 2021 su Il Giornale.  Da diversi anni a questa parte quando un'indagine, per un verso o per un altro, tocca una Ong sembrano quasi inevitabili le polemiche politiche. Gli ultimi episodi sembrano dimostrarlo. L'inchiesta partita da Trapani nell'agosto del 2017 e ancora oggi in corso, tanto da essere la più importante su questo fronte, non è stata la prima sulle Ong. Prima ancora il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro si è beccato le ire di attivisti e politici del centrosinistra per aver aperto un'indagine su presunti contatti tra Ong e scafisti. Anche le sue parole pronunciate all'epoca nella trasmissione Agorà, circa la complicità delle organizzazioni con i trafficanti, hanno causato veri e propri terremoti mediatici. Quell'inchiesta è stata poi archiviata nel 2019. Altre, da parte di diverse procure siciliane, sono state aperte. Spesso è sopraggiunta l'archiviazione, ma le indagini hanno anche permesso di acquisire elementi e indizi delicati in chiave politica. Oggi le inchieste aperte sono tre. C'è quella di Trapani appunto, così come quella di Ragusa su Luca Casarini con al centro Mediterranea Saving Humans. Non è ancora chiusa ufficialmente quella su Carola Rackete ad Agrigento, con il fascicolo messo in piedi dopo lo speronamento della Sea Watch 3 di una motovedetta della Guardia di Finanza a Lampedusa nel giugno 2019.

Le inchieste passate. C'è una costante quando si parla delle indagini sulle Ong. Buona parte del mondo mediatico e politico vicino agli attivisti plaude alle procure che non mettono sotto inchiesta le organizzazioni. Al contrario, vengono messe sotto cattiva luce quelle che avviano procedimenti avversi alle Ong. Contro Carmelo Zuccaro a Catania, dopo la prima inchiesta sul mondo delle organizzazioni umanitarie impegnate nel Mediterraneo, non sono mancati attacchi politici. Il ministro della Giustizia di allora, si trattava di Andrea Orlando del Pd, ha chiesto al procuratore di parlare con atti alla mano. Anche negli anni successivi non sono mancati attacchi verso il capo della procura etnea. Luca Casarini, capomissione di Mediterranea Saving Humans, lo scorso 7 aprile ha parlato di “criminalizzazione” delle Ong da parte di alcune procure, con riferimento alle inchieste partite da Catania: “Basta ricordare – ha dichiarato in un'intervista riportata da AdnKronos – la grande sinergia tra Zuccaro e l'ex ministro dell'Interno Marco Minniti”. Un modo per insinuare presunti coordinamenti tra il Viminale e gli uffici della procura del capoluogo etneo. Al contrario, non sono mancati plausi verso altri giudici. Come quando ad esempio nel luglio 2019 il Gip di Agrigento, Alessandra Vella, ha tolto i domiciliari a Carola Rackete pochi giorni dopo lo speronamento di Lampedusa. Per le Ong ovviamente il Gip in questione ha agito liberamente. La procura di Agrigento ha aperto e poi chiuso altre inchieste sulle organizzazioni. Ma erano di tenore diverso. Riguardavano, in particolare, i sospetti di favoreggiamento dell'immigrazione durante la torbida estate del 2019, caratterizzata proprio dal braccio di ferro tra Ong e l'allora ministro Matteo Salvini a seguito del via libera dei decreti sicurezza. La “colorazione” politica data alle procure siciliane è rimasta solo sul piatto delle polemiche. Da Catania, così come da Agrigento e da altre piazze dell'isola, semplicemente sono state seguite leggi e procedure. Tanto è bastato per scatenare negli anni un'infinità di insinuazioni, sia a favore che contro le attività delle procure.

L'inchiesta di Trapani. Riemerso dopo 4 anni di silenzio, il procedimento avviato dalla procura trapanese nel 2017 è invece ancora aperto e sta innescando anche in questo caso molte polemiche. Gli inquirenti hanno in mano molti indizi contro tre Ong: la tedesca Jugend Rettet, Save The Children e Medici Senza Frontiere. Ci sono foto, video e testimonianze su presunti rapporti tra attivisti e trafficanti. E infatti non si sta procedendo in questo caso all'archiviazione, per 24 soggetti è stata inviata ad inizio aprile la notifica di conclusione delle indagini. Le polemiche sono però arrivate su altri fronti. Ossia sul caos scoppiato in relazione alle intercettazioni di alcuni giornalisti nel 2017. Molti cronisti in realtà sono stati intercettati indirettamente. L'unica utenza realmente sotto controllo era quella di Nancy Porsia, estranea all'inchiesta. Da qui le polemiche che probabilmente faranno rallentare i tempi dell'inchiesta. Da Trapani il procuratore Maurizio Agnello ha però puntualizzato alcuni dettagli. Come ad esempio il fatto che il colloqui tra la giornalista e il suo avvocato, quello maggiormente finito al centro delle polemiche, non era di tipo professionale. Così come si legge tra i documenti della procura di Trapani esaminati da IlGiornale.it, tra Nancy Porsia e l'avvocato si parlava del ruolo della giornalista come testimone o come consulente in un altro processo sull'immigrazione in corso a Palermo. Ad ogni modo, il fatto che ad essere intercettata è stata una cittadina non indiziata e non indagata potrebbe richiedere molto tempo agli ispettori inviati dal ministero della Giustizia nella città siciliana. Rinviando a data da destinarsi altre (probabili) polemiche politiche.

Le polemiche politiche. Ovviamente anche la procura di Ragusa, “rea” di aver aperto l'inchiesta su Mediterranea Saving Humans accusata di aver concluso un accordo preventivo con una società navale danese per il trasbordo di migranti nel settembre 2020, è finito al centro delle polemiche. Con gli inquirenti iblei etichettati come coloro che hanno il solo scopo di criminalizzare le Ong. Un'indagine partita il primo marzo Nelle settimane successive invece a Palermo è stato rinviato a giudizio l'ex ministro Matteo Salvini sul caso Open Arms. In questo caso il mondo politico e mediatico vicino alle Ong ha lanciato un plauso alla procura siciliana. E qui emerge un'altra costante: quando si tratta di inchieste che coinvolgono le organizzazioni, sui giudizi in merito le attività dei giudici si applicano sempre due pesi e due misure. Le polemiche sulle indagini riguardanti le Ong riflettono le tensioni di natura politica sul fronte immigrazione. Un'altra costante, anche questa, destinata a perdurare nel tempo.

Immigrazione e vittime in mare, lo studio: ecco quali sono le responsabilità delle Ong. Libero Quotidiano il 06 aprile 2021. I complici degli scafisti sono i governi europei che incentivano la tratta. Senza parlare del ruolo delle decine di ong che, a scopo umanitario, raccolgono fondi, organizzano spedizioni navali nel Mediterraneo e si prodigano per accogliere a bordo più gente possibile. Andare a recuperare i naufraghi non solo è doveroso, ma abbandonarli è un crimine, secondo il diritto internazionale e della navigazione. Soprattutto quando i gommoni affrontano la traversata del Mar Mediterraneo, riconosciuta come la più pericolosa al mondo, dato il bilancio delle vittime depositate sui fondali o raccolte dopo essere annegate. Ma è ormai accertato anche, anzi è il risultato preliminare di un recente studio scientifico, che ne partirebbero molti di meno e si rischierebbe la vita di un numero inferiore di persone, se le Marine militari europee si limitassero a proteggere i confini nazionali, magari respingendo chi non ha diritto a farvi ingresso e non fossero invece ridotte, dal 2010 in avanti, a svolgere la funzione di taxi per i disperati salpati dalla Libia, speranzosi di essere condotti sulle coste italiane. Insomma, parallelamente alla strada che conduce all'inferno, sulla rotta fra l'Africa e l'Europa vi sono alcune conseguenze involontarie e impreviste che nascono dalle migliori intenzioni politiche. Sarebbe meglio cambiare strategia, scrivono Claudio Deiana, Vikram Maheshri e Giovanni Mastrobuoni, autori di una ricerca di 56 pagine per la Fondazione Collegio Carlo Alberto, iniziativa congiunta dell'Università di Torino e della Compagnia di San Paolo. Non si spingono a ipotizzarne la sospensione, ma seguendo un modello econometrico, gli studiosi sostengono che l'intensificarsi delle operazioni di soccorso dei migranti in mare abbia letteralmente scatenato il traffico di esseri umani, rendendo le traversate anche più pericolose in presenza di navi da salvataggio.

FATTORI DI RISCHIO  - Gli elementi presi in esame, in primo luogo le condizioni marittime avverse e la transizione verso barche piu instabili, sommate alla presenza della flotta militare e civile che presidia le zone dove è maggiore il flusso dei barconi, hanno avuto l'effetto collaterale di aumentare la crudeltà dei trafficanti di esseri umani sulle coste libiche e tunisine. Così i trafficanti ne hanno approfittato per aumentare le partenze anche in situazioni meteorologiche proibitive, con il mare forza nove, basse temperature e vento forte, utilizzando allo stesso tempo imbarcazioni di minore qualità, che tanto all'arrivo verrebbero comunque distrutte. Un costo strutturale in meno, fra l'altro, che non fa che aumentare i guadagni compiuti sulla pelle altrui. È vero che da Bruxelles è stato imposto uno stretto embargo alla commercializzazione di battelli gonfiabili in Libia. Per aggirare il divieto di importazione in realtà basta poco, soprattutto per delle bande di criminali. Sul mercato, perfino sui siti di e-commerce digitando le parole "refugee boat", si trovano natanti in quantità e a poco prezzo, di fabbricazione cinese e decisamente non affidabili, almeno non per essere sovraccaricati di uomini, donne e bambini. Del resto, una volta che hanno pagato la loro quota per il viaggio della speranza, vengono abbandonati alla loro sorte, così si può tornare alla base e passare a un altro carico di poveracci. Tanto, poi, si è sparsa la voce che basta una telefonata per farsi venire a prendere direttamente dalla Guardia Costiera.

SCELTE DI VITA - Un'analisi seria, fondata sull'elaborazione di migliaia di dati, descrive quindi quali sono le condizioni ideali per provocare le prossime stragi nel braccio di mare che ci divide dal Continente nero. Da qui dovrebbe partire anche una serena valutazione dell'impatto delle decisioni politiche, l'apertura o la chiusura dei porti, e delle inchieste giudiziarie che colpiscono i governanti e i responsabili dell'ordine pubblico, sull'attività delle organizzazioni che gestiscono il flusso dei migranti che tentano di raggiungere l'Europa. L'unico elemento immodificabile è il bollettino dei naviganti. Tutti gli altri sono variabili, cioè frutto di scelte che possono risparmiare vite umane o metterle a repentaglio.

Fausto Biloslavo per "il Giornale" il 22 aprile 2021. Contatti e accordi con i trafficanti di uomini, appuntamenti in mare mascherati da soccorsi, segnalazione agli scafisti sulle posizioni delle navi, gommoni trainati dalle acque libiche, riconsegna di barchini, motori fuoribordo o di giubbotti di salvataggio per fare arrivare nuovi migranti. La poderosa inchiesta della procura di Trapani, durata 4 anni, ha scoperto un «costante modus operandi» dei talebani dell'accoglienza tedeschi di Jugend Rettet e di grandi Ong come Medici senza frontiere e Save the children per portare i migranti in Italia. Gli inquirenti, nelle 653 pagine dell'informativa finale sull'inchiesta, scrivono che «le numerose condotte di cui con la presente indagine si intende dimostrare l'illegalità, sono state messe in atto» dai 24 indagati per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e altro «con un costante modus operandi caratterizzato da connotati ricorrenti e quasi sempre coincidenti». Un sistema descritto nei dettagli, che in parte, ma in maniera meno plateale esiste ancora oggi con le Ong rimaste in mare. Il modus operandi è diviso in varie fasi. «Talvolta la nave (degli umanitari, nda) era a conoscenza dell'avvenuta partenza di unità nautiche (gommoni o barchini, nda) con migranti a bordo - si legge nelle carte - o talvolta intratteneva contatti di vario tipo (con i trafficanti, nda) anche al mero fine di indicare la propria presenza in zone di mare prossime al limite delle acque territoriali libiche». Veri e propri appuntamenti come nel caso di Vos Hestia, la nave noleggiata da Save the children, che nel luglio 2017 si piazzava «in acque internazionali antistanti le coste libiche, accogliendo a bordo numerosi migranti alla costante presenza di trafficanti che li avevano scortati mediante varie imbarcazioni e che sorvegliavano le operazioni finalizzate al trasbordo». Non solo: i «trafficanti al termine delle operazioni rientravano verso la Libia con le unità precedentemente impiegate per trasportare i migranti, rendendo così possibile il reimpiego dei mezzi per successivi trasporti. In tal modo procedendo ad una vera e propria consegna concordata di migranti». E nel 2017, quando sono sbarcati 119.310 migranti in Italia, «talvolta gli equipaggi delle navi in uso alle Ong trainavano le unità con i migranti a bordo dalle acque territoriali libiche fino alle acque internazionali». Il 23 maggio 2017 il comandante Marco Amato e Cristina Gillian Moyes team leader di Save The Children «disponevano l'ingresso di due battelli di servizio (gommoni veloci, nda) della nave stessa all'interno delle acque territoriali libiche al fine di trainare verso l'alto mare un gommone con a bordo dei migranti () imbarcando 120 migranti sulla Vos Hestia». Il 26 giugno dello stesso anno sempre Vos Hestia accoglieva «a bordo circa 1.066 migranti alla costante presenza di più imbarcazioni di piccole dimensioni con varie persone a bordo che gestivano e controllavano l'andamento delle operazioni anche restituendo ai soccorritori i giubbotti di salvataggio dapprima forniti ai migranti». L'inchiesta ha scoperto «contatti e comunicazioni intraprese dagli indagati con i trafficanti di esseri umani, che manifestano connotati atti a delineare un complessivo accordo preordinato tra trafficanti e Ong. Di fatto, secondo le emergenze investigative, si costituivano i presupposti per un pressoché regolare svolgimento del traghettamento dei migranti dalle coste libiche di provenienza verso le navi Ong pronte ad attenderli». Il 18 giugno 2017 gli umanitari tedeschi di Jugend Rettet «si incontravano in acque internazionali con trafficanti libici a bordo delle rispettive imbarcazioni, quindi facevano momentaneo ritorno presso la motonave Juventa (mentre i trafficanti si dirigevano verso le acque libiche), e, da ultimo, si incontravano nuovamente con i trafficanti, che questa volta scortavano un'imbarcazione con a bordo dei migranti che venivano poi trasbordati sulla motonave». E come se non bastasse «al termine delle operazioni i trafficanti prelevavano dall'imbarcazione utilizzata dai migranti il motore e facevano ritorno in acque libiche. In tal modo procedendo ad una vera e propria consegna concordata di complessivi 264 migranti». Secondo gli inquirenti esisteva «un tacito accordo» con i trafficanti, che coinvolgeva anche nave Vos Hestia e Vos Prudence di Msf. «Nell'indagine sono emersi chiari elementi circa il fatto che i trafficanti di esseri umani presenti in Libia e implicati nella relativa tratta verso l'Italia avevano l'abitudine (nota alle Ong presenti a bordo delle navi) di mantenere sotto controllo i siti web specializzati e gli strumenti Ais (sistema automatico di identificazione satellitare, nda) atti a rilevare la presenza in mare delle navi». Così i trafficanti, come fanno ancora oggi, lanciavano i gommoni verso le imbarcazioni con la certezza che i migranti sarebbero stati recuperati e portati in Italia.

Fausto Biloslavo per "il Giornale" il 22 aprile 2021. «Haha! La lezione appresa è che non si devono prendere 1.000 persone. Ero fortemente tentata di parlare con le imbarcazioni di trafficanti e dirgli di non inviare così tanti (migranti) in una sola volta». Il commento scherzoso è di Gillian Moyes, capo squadra di Save the children a bordo di nave Vos Hestia di fronte alla Libia. Il messaggio WhatsApp del 28 giugno 2017, ore 12.06, prova, come tanti altri, «la piena consapevolezza che i piccoli barchini presenti (a volte definiti pescatori) altro non erano che trafficanti». Nella 653 pagine riassuntive dell'inchiesta di Trapani ci sono anche le chat delle Ong (centinaia di messaggi), che descrivono pure la collusione della Guardia costiera libica di allora con i trafficanti di uomini. Foto, immagini, video, documenti, intercettazioni in gran parte di un agente sotto copertura a bordo di una delle navi delle Ong, ma realizzati anche dagli stessi «umanitari» con le loro go pro. Il 5 maggio 2017 alle 9.17, Paolo Alfonso Rino Russo, uno dei 24 indagati, comandante pro tempore di Vos Hestia, non sa di essere intercettato: «Vedi i motoscafi? Vanno vicini ai gommoni, si avvicinano e vanno via, forse prendono gli scafisti. Procedono velocemente, ma se guardi la costa è piena, in questa direzione è piena». Un altro indagato, il comandante Marco Amato, il 25 maggio 2017 alle 16.05, parla intercettato in plancia di un barchino dei migranti «nelle acque territoriali (libiche, nda) lo abbiamo tirato fuori». E un suo collaboratore, Matteo, lo consiglia: «È meglio che non scrivi che siamo stati nelle acque territoriali». Le Ong del mare fornivano informazioni false al Centro di soccorso di Roma e imponevano l'omertà con la polizia. Allegato alle carte dell'inchiesta c'è un documento con intestazione Save the children «dal quale emerge la linea di condotta assunta dalla Ong consistente nel non fornire alle Autorità informazioni utili per il riconoscimento dei trafficanti». I talebani dell'accoglienza, come fanno almeno in parte ancora oggi, fornivano informazioni palesemente false per farsi incaricare dalla Guardia costiera italiana del soccorso dei migranti e coprivano gli scafisti. Ignazino Arena, comandante pro tempore di Vos Prudence e Stephan Van Diest, team leader a bordo di Msf, nel luglio 2017, durante uno dei tanti eventi documentati dall'inchiesta, «davano corso a ulteriori operazioni in mare che permettevano il recupero di 930 migranti, tra cui almeno uno scafista la cui presenza non veniva riferita alle autorità. In tale frangente ponevano in essere anche manovre tali da occultare alla nave Diciotti della Guardia Costiera Italiana - coordinatrice dei soccorsi - la presenza di un barchino carico di migranti al fine di effettuare essa stessa tale recupero come in effetti accaduto». Le foto allegate alle carte dell'inchiesta non lasciano dubbi, come il fermo immagine di un video che riprende uno dei gommoni di nave Juventa. Gli umanitari sono «intenti a distribuire giubbotti di salvataggio ai migranti a bordo di un gommone. Al minuto 11.45 si affianca un barchino di trafficanti che interagisce col personale di Juventa» annotano gli inquirenti. Nel fotogramma di un altro video si vede una barca in vetro resina con tre libici a bordo. «Il trafficante con la felpa azzurra, che rivolge saluti al personale sul Rhib (gommone di Vos Hestia/Save the children, nda) è transitato successivamente sul barcone dei migranti». Un altro scafista al timone di un gommone carico di migranti «era coadiuvato dagli operatori dell'organizzazione (Save the children, nda) nella distribuzione dei giubbotti salvagente». Trapani ha identificato, Abdulsalem Suleiman Dabbashi e Nasser al Fituri, del potente clan di miliziani e trafficanti Dabbashi di Sabrata, immortalati mentre si avvicinano sotto bordo a una nave delle Ong. «Dai dispositivi di intercettazione ambientale installati sula plancia della Vos Hestia si comprendeva - riportano le carte - che i soggetti descritti si erano avvicinati preannunciando l'arrivo di altre unità con migranti a bordo». Secondo la procura di Trapani le grandi Ong puntavano, come oggi, a una «maggiore visibilità pubblica e mediatica, con conseguente incremento della partecipazione - anche economica - dei propri sostenitori dato il costante impiego della nave nei numerosi eventi di soccorso».

Ecco i numeri che smascherano le ipocrisie della sinistra sulle Ong. C'è un filo conduttore che lega l'operato sulle Ong tra Matteo Salvini e Luciana Lamorgese. Ecco i dati del confronto nell'operato dei due ministri. Sofia Dinolfo e Mauro Indelicato - Mer, 17/03/2021 - su Il Giornale. Sull’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini pendono dei procedimenti legati al caso Gregoretti e Open Arms. Si tratta di due questioni che hanno a che fare con le politiche attivate dal leader del Carroccio in fatto di immigrazione. In particolare, la linea del Viminale durante la “gestione” Salvini era quella di chiudere i porti alle navi con migranti a bordo senza prima avere un accordo con l’Ue in merito alla loro redistribuzione. Il suo successore, Luciana Lamorgese, con il governo Conte II ha attuato davvero una differente strategia?

Come ha agito Lamorgese con le Ong. Come si è comportato l’attuale ministro dell’Interno Luciana Lamorgese succedendo a Matteo Salvini? Andiamo a vedere. C’è un primo caso emblematico che risale ad ottobre 2019 con Ocean Viking. Dopo dieci giorni di attesa in zona Sar libica con 104 persone a bordo, l’Ong di Sos Mediterranée ha lanciato un appello con la richiesta di poter avere un porto sicuro. Al contrario di tutte le altre volte dove al massimo, al terzo giorno, l’Ocean Viking è riuscita a far sbarcare i suoi migranti, questa volta ha atteso a lungo. Tracciando un bilancio delle vicende che si sono susseguite nei porti italiani è emerso che è cambiata la tattica ma non il fine. Se Matteo Salvini ha fatto ricorso alla misura del sequestro, la Lamorgese nel periodo analizzato,ha applicato quella del fermo amministrativo. La primavera seguente all’insediamento del nuovo ministro, è stata caratterizzata dall’applicazione di una serie di provvedimenti di fermo. Tra maggio e giugno dal Viminale è partita l’autorizzazione di tale misura nei confronti di Alan Kurdi e la Aita Mari. Stesso provvedimento per Sea Watch3 e Ocean Viking a luglio e a settembre per la Sea Watch4 e di nuovo per la Alan Kurdi. Ad ottobre il turno per la Louise Michel.

La continuità tra il governo Conte I e il Conte II. Il passaggio di consegne al Viminale, avvenuto nel settembre 2019, non ha quindi cambiato di molto le carte in tavola. Anche con Luciana Lamorgese le attività delle Ong sono state limitate. Tanto che diversi attivisti nel corso dei mesi successivi all'insediamento del Conte II hanno criticato la maggioranza giallorossa. Il ministro Lamorgese ha però in qualche modo provato a raffreddare gli animi. La riforma dei decreti sicurezza voluti da Salvini, arrivata nell'ottobre 2020, è andata in questa direzione: dare una parvenza di discontinuità tra il suo operato e quello del predecessore. Discontinuità che però, nei fatti, è molto più ridimensionata di quanto la ricostruzione politica e mediatica di questi mesi ha portato a pensare. È stata la stessa Luciana Lamorgese, nel corso della sua audizione sul caso Gregoretti rilasciata nell'udienza del 19 febbraio scorso, a parlare di continuità: “C'è una continuità di azione fra casi Diciotti, Gregoretti e Ocean Viking”, si legge nella sua risposta data al Gip di Catania Nunzio Sarpietro, il quale aveva chiesto l'eventuale esistenza di differenze tra i tre casi in questione. Non solo. Sempre nel corso dell'audizione del 19 febbraio, l'attuale ministro dell'Interno ha dichiarato che “a volte le navi Ong si fermano anche tre o quattro giorni – si legge – per recuperare il più possibile quelli che sono in difficoltà”. Un'affermazione che sembrerebbe coincidere con quelle, pronunciate ad esempio da Luigi Di Maio nell'aprile 2017, secondo cui le Ong lavorano come “taxi del mare”.

Il caso Gregoretti e Open Arms. Il 26 luglio 2019 alla nave Gregoretti, ferma in rada nelle coste orientali della Sicilia con a bordo 140 migranti recuperati pochi giorni prima a largo della Libia, viene comunicata l’impossibilità di far sbarcare gli stranieri sulla terraferma . La decisione è arrivata dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini. L’intento del capo del Viminale era quello di assegnare un porto sicuro solo dopo aver ricevuto rassicurazioni da parte dell’Ue sulla redistribuzione dei migranti. Arrivate le rassicurazioni richieste, il 31 luglio la nave ha avuto l’ok per far sbarcare i migranti nel porto di Augusta. Poco dopo la procura di Siracusa ha aperto un fascicolo d’inchiesta dove Matteo Salvini è risultato indagato per abuso di ufficio e sequestro di persona. Da qui si è avviato l’iter che ha portato al procedimento nei confronti del leader della Lega che è tutt’ora in corso. Stesso copione con il caso Open Arms. Tra il primo e il 10 agosto del 2019 la nave Ong battente bandiera spagnola aveva recuperato in tre diverse operazioni a largo della Libia 161 migranti avvicinandosi a Lampedusa. Nessuna notizia su dove far sbarcare gli stranieri. Malta aveva vietato l’ingresso nel proprio porto e in Italia, sempre Matteo Salvini, ne aveva vietato pure l’ingresso dichiarandosi pronto a sequestrare il mezzo in caso di violazione delle sue disposizioni. In quel frangente è intervenuta la procura di Agrigento con un’ispezione a bordo della nave e ne ha disposto il sequestro. Fatti sbarcare i migranti si è aperta anche in questo caso un’indagine nei confronti di Matteo Salvini per abuso di ufficio e sequestro di persona. Poi l’avvio del procedimento che tutt’ora è in corso.

Le accuse contro Salvini. Il blocco degli sbarchi dalle navi con migranti a bordo e il divieto di ingresso imposto ai mezzi delle Ong, hanno attirato contro l'ex ministro dell'Interno una vera e propria campagna di critiche. Le azioni delle procure sui casi Gregoretti e Open Arms hanno rappresentato in tal senso soltanto la punta di un iceberg. Salvini è stato accusato, non solo dalle Ong ma dal centro – sinistra e da una parte dei media, di aver portato avanti una politica contraria a volte ai principi umanitari. Questo soprattutto perché il leader del carroccio da ministro dell'Interno ha più volte fatto attendere in mare le navi delle Ong. Un comportamento che, secondo i suoi detrattori, avrebbe creato dei pericoli per i migranti. Dal canto suo Matteo Salvini si è sempre difeso sottolineando che “mai nessuno, durante questi presunti sequestri, si è fatto male – come si legge in una dichiarazione resa a margine di una delle udienze sul caso Gregoretti – abbiamo fatto ciò che gli italiani ci chiedevano”. Tuttavia, prima e dopo la sua esperienza al Viminale, Salvini si è guadagnato la fama di principale esponente anti Ong. Si è aperto così un braccio di ferro che l'allora ministro dell'Interno ha portato avanti anche sul fronte politico, specialmente dopo l'approvazione, da parte della maggioranza a sostegno del governo Conte I, dei decreti sicurezza. In base a quelle norme, sono infatti scattati i divieti di ingresso in acque italiane delle navi Ong, più volte poi sequestrate dalle autorità giudiziarie. Ad ogni modo la vera differenza tra la visione di Matteo Salvini e Luciana Lamorgese, sta più nella forma che nella sostanza. Questo è bastato però per mettere sulla graticola soltanto il primo, con tanto di processi giudiziari e politici ancora pienamente in corso.

Lorenzo Mottola per "Libero quotidiano" il 10 marzo 2021. Rimpatriare i migranti non è facile, ma un trucco c'è: pagare. Da anni tutti i governi cercano di incrementare il numero delle partenze verso il terzo mondo ma trovano interlocutori ostili. Prendete il Gambia: perfino l'attuale presidente, Adama Barrow, da ragazzo è entrato in Germania da clandestino per poi esserne espulso. E ovviamente oggi frena su ogni intesa, assolutamente necessaria per convincere i Paesi d'origine a riaccogliere i loro concittadini. Con la giusta cifra, però, ci si può sempre accordare. Il problema è trovare i soldi o almeno utilizzare quelli che sono già stati accantonati in passato e non sono mai stati utilizzati. Partiamo dai numeri: nel 2020 riportare un irregolare nel suo Paese mediamente è costato all'Italia 1.900 euro. Se vi sembra tanto, considerate che mantenere un richiedente asilo oggi può costare fino a 13.000 euro all'anno. Il prezzo del rimpatrio si ricava in un modo abbastanza semplice: ogni anno il governo deve indicare l'entità della multa da comminare a chi dà lavoro a un sans papier. E questa sanzione corrisponde per legge a quanto l'Italia spende per riportare a casa un immigrato. Così, leggendo la Gazzetta Ufficiale pubblicata questa settimana, abbiamo appreso che la spesa nell'ultimo anno è lievitata parecchio: era di 1.398 euro l'anno precedente. La ragione è chiara: il costo dei viaggi a causa della pandemia è cresciuto. E non solo: oltre a essere più cari, i rimpatri sono stati pochissimi. Finora quest'anno sono stati circa 600 quelli portati a termine; nel 2020 erano stati 3.585, un numero dimezzato a causa delle varie problematiche determinate dal Coronavirus, che ovviamente ha ribaltato l'ordine delle priorità.

IL CONFRONTO. Facciamo un confronto che fa capire la pochezza di questi numeri: la Germania nel solo 2017 ha fatto ripartire ben 100.000 clandestini. Qual è il trucco di Angela Merkel? La cosa più importante è accordarsi (anche o soprattutto economicamente) con i Paesi del terzo mondo. Come spiegato in un'intervista a Libero dal sottosegretario all'Interno Nicola Molteni, il nostro Paese al momento ha solo un'intesa funzionante per quanto riguarda le espulsioni, quella con la Tunisia. Per il resto non si riesce a combinare nulla. Il precedente governo e in particolare l'attuale ministro degli Esteri avevano promesso di raggiungere nuovi accordi. Luigi Di Maio aveva fatto sua anche la lista dei 13 Paesi "sicuri" (in realtà elaborata da Salvini quand'era al Viminale) dove sarebbe stato possibile riaccompagnare i migranti. Erano stati messi sul piatto anche dei soldi. Ma il Conte-bis alla fine ha fermato tutto. Come noto, Salvini nel corso del suo mandato aveva drasticamente ridotto il numero di sbarchi e anche tagliato le cifre corrisposte ai centri profughi per mantenere i rifugiati. Solo per quest'ultima parte, era stato risparmiato un miliardo di euro. Una parte di quel denaro era finito in un fondo, istituito con il secondo decreto sicurezza e mai abolito, che è stato destinato alla Farnesina e che sarebbe servito proprio a convincere i Paesi del terzo mondo a collaborare. Inizialmente erano stati stanziati 2 milioni di euro che era previsto venissero incrementati fino a 50. Quel fondo esiste ancora, ma bisogna avere la volontà di rimpinguarlo e usarlo.

I VOLONTARI. Rispetto all'Italia, poi, la Germania impiega un altro strumento in maniera massiccia: quello dei rimpatri volontari. In pratica, i tedeschi mettono soldi in mano ai clandestini in cambio della promessa di non farsi più vedere da quelle parti. Su questa scelta ovviamente si potrebbero porre varie obiezioni, ma comunque funziona. Tanti si sono fatti ingolosire dai 3.600 euro che Angela ha dato agli stranieri per andarsene. E come dicevamo prima, bisogna anche tener presente che tenere i migranti in Italia costa molto di più. Salvini era riuscito a portare l'entità della spesa a circa 9.000 euro all'anno, ora siamo tornati tranquillamente a quasi 13.000. Tutto sommato, il rimpatrio - volontario o meno - conviene.

Meloni, imprese senza ristori, famiglie in ginocchio: ma il governo foraggia migranti e anti-razzismo. Ginevra Sorrentino lunedì 1 Marzo 2021 su Il Secolo d'Italia. Meloni, imprese senza ristori, famiglie in ginocchio: ma il governo foraggia migranti e anti-razzismo. Una presa di coscienza amara e fieramente polemica, quella di Giorgia Meloni. Che denuncia via social quanto costa la propaganda buonista che finanzia la causa socio-culturale contro il razzismo e a vantaggio del business immigrazionista. Soldi spesi in favore di battaglie teoriche che levano aiuti concreti e improcrastinabili a imprese. Famiglie. Intere comunità cittadine e categorie professionali in ginocchio per la crisi economica endemizzata dall’emergenza sanitaria. E così, in due emblematici post pubblicati sulla sua pagina Facebook, la leader di Fratelli d’Italia tira le somme. E fa il conto delle spese della propaganda dem e di quelle che la numero uno di Fdi definisce «le priorità di chi è Palazzo Chigi». Che, non può non sottolineare la Meloni: «Sono sempre le stesse». Evocando, cioè, l’ombra di un vizio italico, quello di un inestricabile “gattopardismo”. Un tratto distintivo stigmatizzato nella celebre frase del libro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: «Tutto cambia perché nulla cambi»… Non siamo lontani da quella situazione. Anzi, quell’adagio ormai proverbiale sembra adattarsi alla perfezione della realtà italiana del momento. Dove, come si evince dai post di Giorgia Meloni, cambiano i governi ma non le loro azioni. E di sicuro, non le priorità in agenda. E così, registra la leader di Fdi, «dopo aver elargito 400.000 euro per foraggiare le ricorrenze della fondazione del Pci, apprendiamo oggi dal quotidiano La Verità che la presidenza del Consiglio – attraverso l’Unar – ha pubblicato il decreto per spendere ben 350mila euro per la “Settimana di azione contro il razzismo”». Non solo. Oltre al danno, la Meloni segnala anche la beffa. E infatti, nel suo post prosegue: «Apprendiamo che tra le associazioni destinatarie di questi soldi ci sarebbe anche una realtà al centro di indagini della Procura bergamasca per gestione indebita di fondi pubblici per l’accoglienza». E così, «mentre le imprese chiudono – scrive la presidente di Fdi -. Le famiglie sono in ginocchio e i ristori non arrivano, le priorità di chi è a Palazzo Chigi sono sempre le stesse. Tutto cambia per non cambiare nulla», conclude amaramente Giorgia Meloni. E infatti, su uno dei fronti più caldi, quello dell’immigrazionismo selvaggio, che vede i buonisti dem impegnati, dal fronte culturale presidiato dall’intellighenzia salottiera e radical chic, alla trincea governativa, la sinistra sempre in prima linea per la concessione di sostegno logistico-politico ai migranti. Un business che non conosce crisi, nemmeno in tempi di Covid. E così, l’ultima vicenda che coinvolge la Mare Jonio, pone un inquietante interrogativo: quello rilanciato dalla Meloni online: «Trasbordo di migranti in cambio di soldi? Accusa gravissima da parte della Procura di Ragusa in merito a un recupero di immigrati illegali da parte della Mare Jonio». Un caso, assicura la presidente del partito, «Fratelli d’Italia andrà in fondo… E chiede risposte urgenti da parte del Ministro dell’Interno Lamorgese. Come sempre, continueremo a batterci contro il business che ruota attorno al traffico di esseri umani verso la nostra Nazione. Spesso mascherato dietro un velo di falso umanitarismo», scrive dunque su Facebook Giorgia Meloni. Quel velo che oggi, con le sue denunce, Giorgia Meloni solleva scoperchiando un vaso di Pandora sempre sul punto di esplodere.

IL RAPPORTO. L’Italia ha speso oltre un miliardo di euro per fermare i migranti. Negli ultimi 5 anni è questa la cifra impiegata dal nostro Paese. Con i fondi per favorire lo sviluppo di paesi africani impiegati per aerei, navi e droni. Gloria Riva su L'Espresso il 9 marzo 2021. Al di là dell’Oceano la questione migranti è plasticamente rappresentata dal muro di Tijuana, che separa il Messico da San Diego. Il muro della Vergogna, lo chiamano i messicani. Una tangibile barriera di sicurezza incarna il gretto tentativo yankee di stoppare il flusso umano proveniente da Centro e Sud America. In Europa, non essendo possibile costruire una muraglia in mezzo al Mar Mediterraneo, tantomeno sulle spiagge di Lampedusa, si è quindi lavorato a una cortina fatta di fondi, finanziamenti e progetti utili a materializzare armi, posti di blocco militari, droni, sistemi di sorveglianza e tanto altro ancora per stoppare gli sbarchi sulle coste italiane di chi proviene da Niger, Sudan, Libia, Tunisia, Etiopia. Quell’immaginaria linea Maginot che separa i due continenti è composta da 317 linee di finanziamento, gestite dall’Italia con fondi propri e parzialmente cofinanziati dall’Unione Europea, costate ai contribuenti 1,33 miliardi di euro tra il 2015 e la fine del 2020. A calcolarlo è il dossier The Big Wall, Il Grande Muro, realizzato da ActionAid Italia, l’organizzazione internazionale impegnata nella lotta alle cause della povertà, che per la prima volta rivela quanti soldi il nostro paese ha investito nel contrasto all’immigrazione irregolare e come sono stati spesi. Un lavoro complesso perché, come spiega Roberto Sensi, Policy Advisor Global Inequality di ActionAid, «non esistono dati ufficiali che raccolgono, organizzano e rendono accessibili le informazioni sulla distribuzione di queste risorse pubbliche. Sono serviti mesi di lavoro per ricostruire, attraverso numerose richieste di accesso effettuate dalla società civile, quanti e quali fondi sono stati utilizzati per contrastare il fenomeno dell’immigrazione». Risultato: la metà delle risorse - 666,3 milioni - è stata usata per il controllo dei confini, ovvero per l’acquisto di 16 imbarcazioni, due aerei, cinque elicotteri, sette droni, più svariati sistemi radar e di intercettazione da parte della Guardia di Finanza, della Marina Militare e della Polizia di Stato. A vincere gli appalti sono quasi sempre Leonardo spa, il cui maggior azionista è il ministero dell’Economia e delle Finanze, e i Cantieri Navali Vittoria che, ironia della sorte, negli stabilimenti navali di Monfalcone, in Friuli Venezia Giulia, impiegano soprattutto manodopera straniera: sono loro stessi a realizzare le unità marine che contribuiscono a respingere i migrati nel Mediterraneo. «Il controllo dei confini, come rileva la nostra indagine, ha poco a che vedere con l’aiuto dei migranti, molto con la repressione dei flussi migratori. Un sostegno fondamentale è arrivato dalla stessa Unione europea, che ha finanziato per il 65 per cento la spesa italiana per il controllo delle frontiere», spiega Sensi. Mentre lo Stato italiano va all’incasso, perché i soldi stanziati per l’acquisto di nuovi equipaggiamenti finiscono nelle casse dell’ex Finmeccanica, e quindi del ministero dell’Economia. Sensi spiega inoltre che «quel contributo è destinato ad aumentare nei prossimi anni come prevede il nuovo quadro finanziario pluriennale europeo, in vigore da quest’anno e fino al 2027, che ha stabilito un capitolo specifico per le migrazioni, destinate per lo più al controllo dei confini e ai rimpatri». Per un totale di 195,3 milioni di euro, la seconda voce di spesa è quella delle cause profonde: rappresenta il 14 per cento delle spese totali. Si tratta di 97 progetti di cooperazione allo sviluppo nei paesi di origine o di transito che puntano a migliorare le condizioni sociali ed economiche per evitare che la popolazione locale sia costretta a lasciare i propri territori: sostanzialmente risponde alla logica dell’”Aiutiamoli a casa loro”. Il primo paese a beneficiarne l’Etiopia e molti dei fondi - 19,8 milioni - sono stati usati dal governo locale per realizzare il Youth Employability Center a Dahir Bar, per ovviare al problema dei giovani disoccupati e quindi potenziali migranti. «L’obiettivo primario del progetto, secondo il documento di finanziamento, è la “riduzione della migrazione irregolare, tramite un miglioramento delle condizioni di vita”. Ma in quel documento non corrisponde alcun indicatore progettuale: di fatto il raggiungimento dell’obiettivo non è verificabile», si legge nel dossier The Big Wall. Detto altrimenti, non è possibile sapere se, dopo aver partecipato al progetto, i giovani hanno trovato un’occupazione o sono comunque saliti su un barcone alla volta di Lampedusa. Infatti il meccanismo di ripartizione di quei fondi segue altre logiche: «Più uno Stato si impegna nella repressione della migrazione e nei rimpatri, più riceve finanziamenti per lo sviluppo locale. Il fine ultimo è sempre quello di ridurre gli sbarchi e poco interessa sapere se i finanziamenti siano serviti per migliorare le condizioni di vita di chi rimane in Africa», dice Sensi, che racconta come non a caso al ministero degli Esteri, per via di una norma contenuta nel Decreto Sicurezza bis voluto dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, è stato istituto un Fondo Premialità per i Rimpatri, che ha una capienza di 50 milioni di euro, e sostiene quei paesi africani che più si impegnano ad ostacolare la dipartita dei loro connazionali, «anche se le azioni messe in atto sono di tipo repressivo», commenta Sensi. È un funzionario del ministero degli Affari Esteri, che chiede l’anonimato, a spiegare che quel denaro veniva elargito a piene mani, senza troppi vincoli: «Il mantra era che più sviluppo avrebbe fermato le migrazioni e in un certo momento ha funzionato per tutti. Ha funzionato per l’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, ente che fa capo al ministero degli Esteri, e che giustificava i propri fondi di fronte a una politica spaventata dalla questione degli sbarchi; e ha funzionato per molte Ong, che hanno sfruttato le migrazioni, inserendo questa voce come il prezzemolo nella presentazione di richieste di finanziamento», spiega ad ActionAid un funzionario del ministero degli Affari Esteri. Eppure molti studiosi dei fenomeni migratori nutrono perplessità sulla strategia “aiutiamoli a casa loro”. Michael Clemens, economista dello sviluppo che lavora al Center for Global Development di Washington, sostiene infatti che proprio lo sviluppo locale creato su modello delle economie occidentali può far aumentare le migrazioni. E ancora, Bram Frouws, direttore del Mixed Migration Center, un think-tank che studia la mobilità internazionale, sottolinea come l’approccio delle “cause profonde” paradossalmente rimane sempre in superficie: «Non si parla mai di accordi internazionali per salvaguardare la pesca, che è una risorsa per le comunità locali, tantomeno di accaparramento di terre da parte di speculatori, di grandi opere o di corruzione e vendita di armi o di preservazione dell’ambiente, che è una delle prime cause di migrazione, ma di una generica vulnerabilità economica, della scarsa stabilità degli stati. Di un fenomeno quasi astratto, in cui gli attori europei si esentano da qualsiasi responsabilità». Inoltre, in nome della lotta alla migrazione irregolare, l’intervento non avviene nei paesi più poveri, ma in quelli ad alta incidenza migratoria: ecco perché Etiopia e Sudan, che sono paesi in cui transita la tratta dei migranti, si spartiscono rispettivamente 47 e 32 milioni di euro. Recentemente anche il Niger è diventato un grande beneficiario di questi fondi. Non perché è uno dei paesi più poveri al mondo, ma perché da qui passa il flusso di persone che, dopo aver attraversato il paese fino alla città di Agadez, scompare nel Sahara per poi emergere, giorni dopo nel Sud libico. Nel 2016 l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni registra quasi 300mila persone in transito lungo quella tratta e così, dall’anno successivo, l’Italia stanzia 50 milioni per lo sviluppo del Niger: «I documenti progettuali contengono una serie di condizioni per la prosecuzione al finanziamento, tra cui l’aumento dei controlli lungo le piste per la Libia e l’adozione di normative stringenti per il controllo delle frontiere», rivela l’indagine di ActionAid. L’effetto è il blocco della libera circolazione garantita all’interno della Comunità Economica degli stati Uniti dell’Africa Occidentale, una sorta di spazio Schengen tra 15 paesi della zona: «Sarebbe come immaginare che l’Unione Africana convincesse l’Italia a non far scendere i cittadini francesi al di sotto di Roma perché potrebbero imbarcarsi per l’Africa», commenta Sensi. In nome dello stop alla tratta, l’allora ministero dell’Interno italiano, Angelino Alfano, appoggia anche l’Egitto e lo fa nel 2016, a ridosso dell’omicidio del ricercatore Giulio Regeni, in cui la complicità e la copertura da parte delle forze di sicurezza egiziane sembrano fin da subito evidenti: «È assurdo, ma l’Italia inizia a sostenere l’Egitto nei negoziati con l’Unione Europea proprio in quel periodo», spiega l’avvocato Muhammed Al-Kashef, membro della Egyptian Initiative for Personal Right e oggi rifugiato in Germania. L’Italia finanzierà un software per la presa delle impronte digitali in uso alla polizia locale egiziana e la creazione di un’accademia di polizia al Cairo per formare agenti di frontiera: «Roma poteva giocare un ruolo in Egitto, sostenere il processo democratico dopo la rivoluzione del 2011, ma ha preferito cadere nella trappola della migrazione, temendo un’ondata migratoria che non ci sarebbe mai stata», sostiene Al-Kashef. Anche il capitolo della governance, a cui sono dedicati 146,2 milioni di euro, ovvero l’11 per cento della spesa totale, si ricollega in modo significativo all’obiettivo di accrescere il controllo delle frontiere, dotandoli di apparati amministrativi, strutture di coordinamento e quadri normativi contro la tratta. Poco o nulla (14,7 milioni) resta per per i progetti di sensibilizzazione, ovvero per fornire informazioni sui rischi della migrazione irregolare, finanziati tramite i progetti di cooperazione internazionale del ministero degli Esteri e dell’Interno. Gli interventi di sensibilizzazione sono a loro volta sovrapposti, dentro lo stesso progetto, a interventi di contrasto alla tratta e al traffico di migranti (il cosiddetto antitraffiking) a cui sono stati destinati 142,5 milioni. Una parte significativa di questi interventi è rivolta alla lotta agli scafisti del Mediterraneo, che complessivamente è servita ad arrestare 143 scafisti e distruggere cinquecento imbarcazioni: «Ma questa attività non ha condotto a interventi giudiziari e di indagine in grado di risalire ai vertici delle organizzazioni criminali. Di più, ha contribuito a reimmettere le persone intercettate in circuiti di detenzione e partenza», si legge nel dossier di ActionAid. Una parte minoritaria di questa spesa è invece dedicata alla protezione delle vittime di tratta e alla cooperazione tra forze di polizie e apparati giudiziari per casi di tratta internazionale di persone a scopo di lavoro forzato o prostituzione. Novantadue milioni di euro sono destinati alla protezione dei rifugiati, mentre un capitolo di spesa importante è destinato ai rimpatri forzati o volontari: sono 64 milioni di euro. «Anche qui, non si tiene traccia di quale strada prendano queste persone dopo essere tornate in Africa. È probabile che molte, non avendo alternativa, cerchino nuovamente di imbarcarsi alla volta dell’Italia», dice Sensi. Infine, appena 15,1 milioni di euro - ovvero il 1,1 per cento della spesa totale - sono stanziati, «per quella che potrebbe rappresentare una delle crepe più importanti, e finora quasi impercettibili, nel Grande Muro», dice Sensi, che aggiunge: «Il modo migliore per stoppare la tratta irregolare dei migranti è rendere legale la migrazione». Ma in questo grande piano di finanziamenti e convenzioni c’è una regola che non viene mai meno: dai 25 paesi africani nessuno deve arrivare in Italia. Unica eccezione ammessa è partire con un visto. I funzionari delle ambasciate, però, hanno istruzioni precise: chi non ha qualcosa a cui tornare non va accettato. E non valgono amori e affetti, ma solo rendite, proprietà, affari, posizioni.

La superlobby buonista che ci riempie di migranti. I pm di Ragusa indagano sui finanziamenti alla Mare Jonio di Casarini. Il ruolo di banchieri e preti. Valentina Raffa e Fausto Biloslavo - Dom, 28/03/2021 - su Il Giornale. I talebani dell’accoglienza di casa nostra volevano creare una super lobby con la potente associazione degli armatori danesi per fare pressioni sulla Commissione europea a favore delle Ong del mare. Non solo: giornalisti, banche politicamente corrette e prelati compiacenti davano una mano. Ed i responsabili di Mediterranea saving humans erano pronti a coinvolgere una "diocesi" per fare arrivare come “donazione” soldi da Copenaghen oggetto di un’inchiesta della procura di Ragusa. 125mila euro pagati all’ex disobbediente Luca Casarini e soci dall’armatore danese Maersk per avere trasferito, da una loro petroliera, sulla nave “umanitaria” Mare Jonio, 27 migranti poi fatti sbarcare in Italia. Per non parlare del ruolo di Banca Etica, non indagata, dove è arrivato il bonifico dei danesi, al corrente dei piani lobbystici dei talebani dell’accoglienza della Ong italiana. Nelle carte dell’inchiesta per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina della procura di Ragusa con 8 indagati (Pietro Marrone, Giuseppe Caccia, Alessandro Metz, Luca Casarini, Alessandra Sciurba, Agnese Colpani, Giuseppe Fabrizio Gatti e Iaon Georgios Apostolopoulos) si specifica che il 7 ottobre 2020, un mese dopo lo sbarco dei migranti il capo missione Caccia, un tempo assessore dei Verdi a Venezia, vola a Copenaghen. Non solo per chiedere alla Maersk i soldi, che all’inizio erano 270mila, ma poi sono stati ridotti a 125mila euro. Anche “per una diversa concorrente finalità, allo scopo di avviare un dialogo costruttivo con i rappresentanti dell’associazione danese degli armatori”. Niente di male se non fosse per il fatto che i danesi “vivamente compiaciuti per la felice conclusione della vicenda Maersk Etienne” (la petroliera da dove l’11 settembre la Mare Jonio aveva trasbordato i migranti portandoli a Pozzallo ndr) hanno “preannunciato il proprio sostegno politico e materiale, nella prospettata opportunità di discutere dell’articolazione di forme, allo stato, del tutto inedite di coordinamento tra le organizzazioni armatoriali europee ed il mondo del soccorso civile in mare (…) nella fase critica del confronto con Stati riluttanti a favorire il disimbarco” dei migranti, si legge nelle carte. Il progetto prevede una specie di lobby, che eserciti pressione sulla Commissione europea a Bruxelles “affinchè non si ripetano più situazioni in cui le navi mercantili siano ostaggio delle “non scelte del governo” e da questo riuscire a sviluppare un rapporto con il mondo del soccorso civile in mare, dando il loro sostegno”. La petroliera dei 27 migranti trasbordati dalla Ong era ferma da oltre un mese e perdeva decine di migliaia di euro al giorno. Mediterranea saving humans ha risolto il problema portando i migranti in Italia ed i danesi hanno sganciato 125mila euro. Caccia informa del viaggio in Danimarca e dell’intenzione degli armatori danesi di sostenere “sia politicamente che materialmente” la Ong il vicepresidente di Banca Etica, Nazareno Gabrielli, non indagato, uomo forte dell’istituto politicamente corretto che aveva sostenuto l’acquisto di Mare Jonio con 400mila euro di finanziamento. “Nazareno gli risponde (a Caccia ndr) che si tratta di una cosa importante” si legge nelle carte di Ragusa. L’incontro e la comunanza di idee fra armatori danesi e talebani dell’accoglienza nostrani viene addirittura sancito da reciproci tweet, ovviamente senza fare cenno all’accordo pecuniario con la Maersk sui 125mila euro, che a fine novembre arriveranno sul conto della società armatrice di Mare Jonio nella filiale di Bologna di Banca Etica. L’istituto che non fa affari “sporchi” non è l’unico in rapporti con i talebani dell’accoglienza. Casarini insiste al telefono un paio di volte su un presunto prestito o finanziamento di Banca Intesa di 20mila-30mila euro. L’ex disobbediente insiste su “Banca Intesa” per “sapere se gli daranno quanto richiesto”. Alla ricerca di un sistema per fare arrivare in Italia i soldi dei danesi Caccia ipotizza al telefono con Casarini, il 13 novembre, di utilizzare un certo “dott. Paolo Wolf specialista medicina nucleare a Venezia” non si capisce bene con quale ruolo. “Oppure in altro modo per motivi fiscali (…) si potrebbe fare una “donazione ad una diocesi della Chiesa cattolica italiana (…)” viene riportato nell’inchiesta. Alcuni prelati sembrano dare man forte alla Ong di Casarini e soci. Il 20 settembre proprio Casarini, che è solo un dipendente dalla società armatrice di Mare Jonio, ma in realtà sembra uno dei dominus, sollecita il viaggio a Copenaghen “il prima possibile, perché Don Gianni De Robertis (…) mi chiamava per dirmi Luca, il progetto è ok ed è sicuro!”. E Casarini aggiunge: “Abbiamo i creditori alle calcagna” per i debiti di Mare Jonio. Non è chiaro a quale progetto faccia riferimento De Robertis, direttore generale dell’influente Fondazione Migrantes, organismo pastorale della Conferenza episcopale italiana. Non è l’unico prelato molto vicino ai talebani dell’accoglienza. Caccia, si legge nelle carte, “esamina con don Mattia Ferrari (parroco di Nonantola, sostenitore di Mediterranea saving humans) questioni spicce, relative alla difficoltà di reperire fondi, tacendo del viaggio a Copenaghen, si lascia scappare una appena impercettibile indiscrezione: “…a parte i debiti mostruosi che abbiamo… insomma sono però anche in attesa di notizie di altre cose che dovrebbero migliorarci la vita”. Non mancano i rapporti privilegiati con i giornalisti: “Caccia una volta incassato il compenso dalla Maersk (30.11.20), comunicava, con toni trionfalistici, la notizia di avere portato a termine (…) una assai lucrosa “operazione commerciale”; rivolgendosi ai numerosi referenti del mondo della stampa oltre che ad alcuni tra i più affidabili sostenitori del progetto Mediterranea”. Ovviamente “glissava sui dettagli dell’operazione avendo cura di celare il fatto che lo sbandierato exploit commerciale avesse, in realtà, tratto origine da una laboriosa negoziazione” con i danesi dell’affare migranti. Fin dall’inizio il business era chiaro e Caccia parlando con Casarini il 17 novembre spiega intercettato “che il problema non è se (avranno i soldi) ma è come (in che modo avranno i soldi)”. Ed i 125mila euro sono arrivati il 30 novembre.

Maria Giovanna Maglie e lo scandalo dell'Ong Mediterranea: "125mila euro per 27 immigrati, come sono buoni loro". Libero Quotidiano il 27 marzo 2021. “Come sono buoni loro”, ha esclamato Maria Giovanna Maglie commentando la notizia degli immigrati trasportati in cambio di denaro. “Sentite le intercettazioni dell’ex no global Luca Casarini - ha aggiunto la giornalista nel suo tweet - provano che la Ong Mediterranea Saving Humans ha incassato 125mila euro per il trasbordo di 27 clandestini dalla petroliera Maersk Etiemme alla nave Mare Jonio”. Le intercettazioni emerse in queste ore lasciano ben pochi dubbi alla procura di Ragusa, che è così riuscita a ricostruire in maniera piuttosto approfondita l’intera vicenda. Il bonifico di 125mila euro è stato effettuato dalla Maersk Tankers sul conto della Idra social shipping, che è proprietaria della Mare Jonio. A parlare a telefono con Casalini era stato Beppe Caccia, capo missione dell’operazione migranti in cambio di soldi. I due avevano concordato che il bonifico doveva apparire come il pagamento di “una fattura per attività di navigazione della Idra a dei partner privati”. Gli indagati sono otto, tutti accusati di aver trasbordato i migranti in cambio di denaro, come emerso da intercettazioni telefoniche e riscontri documentali. Il procuratore capo di Ragusa, Fabio D’Anna, ha confermato di aver riscontrato “una laboriosa negoziazione protrattasi dagli inizi di settembre al 30 novembre 2020”. La richiesta iniziale per il trasporto dei clandestini era addirittura di 270mila euro, ma evidentemente la contrattazione è andata a buon fine. Casarini è stato intercettato anche mentre parlava con Alessandro Metz, armatore della Mare Jonio, e sosteneva che “domani a quest’ora potremmo essere con lo champagne in mano a festeggiare perché arriva la risposta dei danesi”. 

Chiara Giannini per “il Giornale” il 2 aprile 2021. Agivano per avere visibilità e, di conseguenza, per avere più donazioni. È questo ciò che emerge dalle carte dell'inchiesta su nave Iuventa, che vede coinvolte anche le Ong Save the Children e Medici senza frontiere, che operavano sulla Von Hestia e sulla Vos Prudence. Le indagini, condotte dallo Sco della Polizia e dalla Squadra mobile di Trapani con il Nucleo speciale di intervento del Comando generale delle Capitanerie di Porto-Guardia Costiera, su indicazione della Procura di Trapani, che dal 2016 lavorano assiduamente, hanno portato a 200 mila intercettazioni. Da cui emerge che gli indagati hanno evidenziato un certo spessore criminale, preordinando artatamente scenari organizzativi complessi, anche di rilievo internazionale. L'accusa è quella di favoreggiamento all'immigrazione clandestina, ma anche di falso. I 24 soggetti, tra comandanti delle navi del soccorso, operatori di bordo, volontari, rappresentanti della società armatrice, soccorrevano in mare i clandestini, dopo contatti, attraverso i canali WhatsApp, Facebook, ma anche tramite email, con gli scafisti o i trafficanti di esseri umani, i quali comunicavano loro orari di partenza e coordinate dei barconi. La nave delle Ong arrivava sul luogo concordato e, quindi, dal barcone partiva la richiesta di soccorso. La Guardia costiera è in qualche modo parte lesa, visto che la normativa internazionale obbliga a inviare soccorsi ai naufraghi, che poi naufraghi non erano, visto che le imbarcazioni cariche di migranti non erano sempre in pericolo di imminente affondamento. La nave più vicina a quel punto era quella della Ong, che caricava gli immigrati e li portava in Italia. Le autorità italiane, insomma, venivano ingannate. Peraltro, ogni singolo natante delle Ong era certificato per altri scopi e non certo per il soccorso. Vos Hestia e Vos Prudence potevano portare 60 e 40 persone a bordo al massimo, ma spesso ne trasportavano centinaia. Ecco il perché delle indagini delle Capitanerie di porto, che hanno portato a individuare anche ulteriori diversi gravi reati. Gli stessi che hanno portato al sequestro della Iuventa, confermato in Cassazione. Le navi, pur essendo a conoscenza in anticipo della partenza dei barconi grazie ai contatti con gli scafisti, non comunicavano la circostanza alle autorità competenti. Fatto che costituisce reato. Peraltro, si apprende che in più di un'occasione le navi delle Ong hanno trainato i barconi dei migranti dalle acque Sar libiche fino a quelle internazionali. Di più: il personale di bordo, una volta in Italia, compilava verbali e documenti falsando la verità. Ma la cosa più grave è che il comportamento degli indagati ha portato al guadagno di ingenti somme di denaro anche per i trafficanti di esseri umani, che come è noto riutilizzano i soldi per fini terroristici o criminali. «L'accordo tra scafisti e Ong - spiega l'avvocato Valter Biscotti, che segue le associazioni, anche di lampedusani, che si costituiranno parte civile a un eventuale processo - è il cuore di questo procedimento con l'inevitabile conseguenza dell'imputabilità anche delle Ong come persone giuridiche. La cosa ancora più grave e che la loro attività illecita, così come configurata, è proiettata anche verso una visibilità mediatica per attrarre finanziamenti».

Ong, intercettati i giornalisti: ora interviene la Cartabia. Il caso dei giornalisti intercettati nell'ambito dell'inchiesta di Trapani sulle Ong genera polemiche e dibattiti: in ballo il segreto professionale dei cronisti, specialmente nei contesti più delicati. Il ministro della Giustizia Marta Cartabia ha disposto accertamenti. Mauro Indelicato - Sab, 03/04/2021 - su Il Giornale. Polemiche, reazioni e richieste di chiarimenti: il caso relativo alle intercettazioni ai giornalisti che si sono occupati di Ong operate dalla procura di Trapani ha continuato ad infiammare il dibattito anche nelle ultime ore. Tanto che adesso, come si è appreso da agenzie riportanti fonti del ministero, il guardasigilli Marta Cartabia ha disposto accertamenti. La notizia da cui tutto è partito è stata pubblicata ieri su Il Domani ed è riferita a quanto operato dal tribunale della città siciliana nel 2017. In quell'anno è scattata l'inchiesta sulle attività delle Ong. Due in particolare: Save The Children e Medici senza Frontiere, le quali svolgevano missioni a largo della Libia con le navi Vos Hestia e Vos Prudence. C'era poi un altro piccolo mezzo dell'Ong Jugend Rettet, ossia la nave Iuventia. Su quest'ultima si sono concentrati i fari degli inquirenti.

Intercettati i giornalisti che si occupano degli affari delle Ong. Si voleva accertare in che modo le Ong operavano nel Mediterraneo. Anche perché in quel momento la pressione migratoria era molto forte, il numero delle persone sbarcate a fine anno ha sforato quota centomila. A bordo della Iuventia è salita la giornalista Nancy Porsia. Il suo intento era quello di documentare le attività dell'equipaggio. Forse per questo gli inquirenti hanno deciso di intercettarla. Nancy Porsia è una delle giornaliste più impegnate nel seguire il dossier libico. Un'altra circostanza che potrebbe aver spinto gli investigatori ad ascoltare le sue conversazioni. Il problema, sottolineato su Il Domani, è che alcune chiamate erano rivolte al suo legale, Alessandra Ballarini.

Le polemiche. L'avvocato di Nancy Porsia segue anche altre vicende delicate, tra tutte il caso Regeni. Dunque potevano essere ascoltate alcune notizie delicate sugli spostamenti del legale. Così come sulle fonti della giornalista. Quest'ultima non è stata l'unica ad essere intercettata. Nell'elenco ci sono anche il nostro Fausto Biloslavo, così come Nello Scavo di Avvenire, Claudia Di Pasquale di Report, Francesca Mannocchi e i cronisti di Radio Radicale e IlFattoQuotidiano. In comune hanno il fatto di seguire tutti gli avvenimenti in Libia. L'ordine dei giornalisti ha espresso solidarietà a tutti gli intercettati: “Tutte le iniziative a tutela del segreto professionale saranno valutate nelle sedi competenti”, si legge in una nota del presidente Carlo Verna. Le polemiche sono incentrate soprattutto su questo punto: nessuno dei giornalisti era indagato, il fatto di essere intercettati potrebbe aver svelato dettagli sulle fonti. Circostanza grave per il lavoro del cronista, specie in contesti molto particolari. Tuttavia, come poi emerso dalle parole del procuratore di Trapani, Maurizio Agnello, ad essere realmente intercettata è stata solo Nancy Porsia. Secondo l'Ong Sea Watch però gli inquirenti avrebbero commesso delle violazioni: "Registrare le conversazioni tra i giornalisti e le loro fonti è una violazione della libertà di stampa - si legge in un tweet - Ma i pubblici ministeri non si tirano indietro neppure davanti a questo per attaccare i soccorsi in mare". Gli attivisti, quindi, sembrano pronti a cavalcare la vicenda e a strumentalizzarla perché venga insabbiato tutto. "Alcuni insorgono per le intercettazioni che avrebbero violato dei diritti. In altri casi quelli che si indignano sono stati zitti, eppure le intercettazioni in tante occasioni sono state utilizzate in maniera arbitraria della magistratura", fa notare il senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri, "Questa volta invece sono io a dire che bisogna tutelare il lavoro investigativo che mette in luce il ruolo ambiguo di molti settori della sinistra e di tante Ong che insieme hanno agito contro la sicurezza e contro gli interessi del nostro Paese. Quella delle Ong è una storia inquietante, una vicenda che merita processi esemplari e condanne immediate. Altro che aiuti umanitari. C'è una storia tutta da riscrivere". Su IlGiornale Valentina Raffa ha ascoltato un magistrato in merito: “Il segreto professionale del giornalista è sacrosanto, ma non è connesso alla persona quanto alla funzione, al ruolo che in quel momento il cronista sta svolgendo – ha dichiarato il magistrato – Voglio dire che ciò che interessa le indagini è se il giornalista incontrando qualcuno o sentendolo per telefono non si renda lui stesso in qualche modo un facilitatore, uno che in quel momento, consapevole o meno di ciò, stia favorendo qualcosa di illegale. Ai fini delle indagini interessa se il giornalista è al corrente di traffici. Allora non si può più tutelarne le fonti”. Sulla vicenda è intervenuto lo stesso Fausto Biloslavo: “Male non fare, paura non avere – ha dichiarato il giornalista intervistato dalla collega Raffa – Come categoria non siamo al di sopra della legge, ma le fonti vanno tutelate, bisogna rispettarne la riservatezza. Del resto, almeno per quanto mi riguarda, i miei reportage hanno raccontato anche la crisi dei migranti e della Libia. Sono stato il primo ad affermare ciò che solo adesso, dopo 4 anni, viene confermato dalle indagini, ovvero che i 3 trafficanti che si trovavano sul gommone fotografato sotto la nave Vos Hestia erano appartenenti al clan al-Dabbashi”.

Quella foto del 2017 che svela il legame tra i trafficanti e l'Ong. In effetti, occorre ricordare che per diverso tempo dell'inchiesta non si è saputo più nulla. Scattata nell'estate 2017, fino allo scorso mese di marzo non erano più trapelate altre notizie. Poi la vicenda è ritornata a galla con l'avviso di conclusione delle indagini emanato a 24 soggetti. Infine, nella giornata di venerdì, è scoppiata la polemica sulle intercettazioni. Appena 24 ore dopo dal ministero della Giustizia si è appreso dell'apertura di un accertamento. L'obiettivo è capire cosa realmente quattro anni fa sia successo. "Posso essere sincero? - ha poi ripetuto all'AdnKronos Fausto Biloslavo - Tutta questa vicenda mi sembra una tempesta in un bicchiere d'acqua. In realtà, a parte Nancy Porsia che è stata indubbiamente intercettata, il sottoscritto come gli altri non avevano la propria utenza telefonica intercettata".

Le parole del procuratore di Trapani. Intervistato dall'AdnKronos, il procuratore della città siciliana, Maurizio Agnello, ha provato a fare chiarezza: “Premetto subito che non intendo assolutamente disconoscere questa vicenda – ha esordito il magistrato – ma voglio sottolineare soltanto che io ho preso servizio alla Procura di Trapani nel febbraio 2019, quando era già in corso l'incidente probatorio del procedimento”. Secondo Agnello, oltre Nancy Porsia non ci sarebbero stati altri giornalisti intercettati: “Come mi ha riferito l'ex capo della Squadra Mobile di Trapani – ha aggiunto il procuratore – la giornalista Nancy Porsia è stata intercettata per alcuni mesi nella seconda metà del 2017, perché alcuni soggetti indagati facevano riferimento a lei che si trovava a bordo di una delle navi oggetto di investigazioni. Nessun altro giornalista è stato oggetto di intercettazioni”.

Migranti, sospetti sulle missioni delle Ong: "Concordate coi trafficanti". Nancy Porsia, sempre secondo il procuratore, non sarebbe stata né indiziata e né indagata: “Lei è stata intercettata in occasione di una sua escussione a sommarie informazioni – ha aggiunto il magistrato – In quell'occasione, mi dice ancora la Squadra mobile, lei diede peraltro una grossa mano all'inchiesta”. “In ogni caso – ha tenuto a precisare Maurizio Agnello – voglio sottolineare subito che nella informativa riepilogativa dell'intera indagine depositata nello scorso mese di giugno non c'è alcuna traccia delle trascrizioni delle intercettazioni della giornalista Nancy Porsia e non c'è alcun riferimento ad altri giornalisti”.

Nancy Porsia: "Io intercettata da libera cittadina". Secondo quanto appreso dall'AdnKronos, alcune trascrizioni sarebbero comunque finite nei documenti. Si tratta delle carte dove gli inquirenti della Polizia Giudiziaria, tra Sco, Squadra Mobile di Trapani e Guardia Costiera, hanno inserito le intercettazioni. Diverse anche leconversazioni private ascoltate e trascritte. C'è il colloquio tra il giornalista di Avvenire, Nello Scavo, e don Moussie Zerai, uno dei primi indagati la cui posizione è stata però stralciata in sede di conclusione delle indagini. Così come anche le chiamate che coinvolgono sempre don Moussie Zerai. Tra le carte anche alcuni colloqui telefonici riguardanti altri giornalisti intercettati: "Il retrogusto amaro di tutta questa faccenda è avere la conferma che chi doveva proteggermi invece mi intercettava - ha dichiarato all'AdnKronos Nancy Porsia - Questo è certo. La mia vita era in pericolo e loro lo sapevano". "Perché trascriverle quelle conversazioni? - si è poi chiesta la giornalista - Di fatto non è stato trascritto tutto quello che è stato detto da me in sei mesi, perché non sarebbero bastate 30 mila pagine solo per le mie intercettazioni. Solo alcune parti sono state trascritte". Nancy Porsia ha poi puntato il dito contro il ministero dell'Interno, all'epoca retto da Marco Minniti: "Sono stata intercettata per sei mesi in una inchiesta sulle ong, quando io sulle ong ho fatto poco o niente. Diciamolo chiaramente, mi hanno intercettata con una scusa. La richiesta per intercettarmi non è partita dalla Procura di Trapani ma dalla Polizia giudiziaria. E la Procura lo ha consentito. Volevano sapere cosa avessi in mano, con la scusa di quelle indagini. Io sono stata intercettata dal Ministero dell'Interno non da indiziata o indagata, ma da libera cittadina".

Valentina Raffa per il Giornale il 3 aprile 2021. Giornalisti non indagati ma intercettati. E le fonti, da tutelare, se ne vanno alla malora. Nel calderone dell'inchiesta di Trapani sulla Jugend Rettet, Save the Children e Medici senza frontiere di giornalisti intercettati ce ne sono finiti parecchi. Sono quelli che nel 2016 avevano contatti con la Libia o si erano recati lì come inviati per redigere reportage in un periodo storico in cui i viaggi della speranza nemmeno si contavano con oltre 180mila migranti che sono poi arrivati sulle nostre coste e tanti sono finiti in fondo al mare. Nel fascicolo si annoverano centinaia di pagine di intercettazioni, trascritte e depositate, con nomi di fonti, di contatti, di dati e di rapporti personali. Il fine ultimo della procura, di fare chiarezza sullo scenario libico, giustifica anche il mezzo usato, quello delle intercettazioni, malgrado intacchi la sfera del segreto professionale del giornalista, tutelato dal codice di procedura penale. Parliamo di quel rapporto inviolabile di fiducia che si instaura tra il giornalista e la fonte confidenziale, che spesso viene riportata nell'articolo, altre volte no, quando ciò è richiesto dal carattere fiduciario della fonte stessa. Ciò, in un contesto delicato come quello libico di quegli anni, è innegabile. Tra gli intercettati, come anticipa il Domani, c'è il nostro Fausto Biloslavo, che figura con altri colleghi come Nancy Porsia, esperta di Libia, che è stata intercettata persino nelle sue telefonate con il proprio legale, e poi cronisti del Fatto Quotidiano, di Avvenire, Radio Radicale, Report e Francesca Mannocchi che ha realizzato inchieste in Libia. Anche Biloslavo in quegli anni era in Libia per toccare con mano cosa stesse accadendo anche attraverso i racconti delle fonti. «Male non fare, paura non avere dice Biloslavo - Come categoria non siamo al di sopra della legge, ma le fonti vanno tutelate, bisogna rispettarne la riservatezza. Del resto, almeno per quanto mi riguarda, i miei reportage hanno raccontato anche la crisi dei migranti e della Libia. Sono stato il primo ad affermare ciò che solo adesso, dopo 4 anni, viene confermato dalle indagini, ovvero che i 3 trafficanti che si trovavano sul gommone fotografato sotto la nave Vos Hestia erano appartenenti al clan al-Dabbashi. Era il 2017 e io mi trovavo in Libia a indagare sui trafficanti, sui migranti, sugli interventi delle Ong. Mi sono anche recato a Sabrata, nota per le partenze dei viaggi della speranza, e sono entrato nei centri di detenzione dei migranti». Come stanno realmente le cose? «La situazione è molto delicata risponde un magistrato - Il segreto professionale del giornalista è sacrosanto, ma non è connesso alla persona quanto alla funzione, al ruolo che in quel momento il cronista sta svolgendo. Voglio dire che ciò che interessa le indagini è se il giornalista incontrando qualcuno o sentendolo per telefono non si renda lui stesso in qualche modo un facilitatore, uno che in quel momento, consapevole o meno di ciò, stia favorendo qualcosa di illegale. Ai fini delle indagini interessa se il giornalista è al corrente di traffici. Allora non si può più tutelarne le fonti».

Intercettazioni, anche quattro avvocati tra le persone “spiate” dalla procura di Trapani. Polemiche dopo le intercettazioni a carico dei giornalisti nell'ambito dell'inchiesta sulle Ong che operano nel Mediterraneo. Ora la ministra Cartabia vuole vederci chiaro. Simona Musco su Il Dubbio il 5 aprile 2021. Non solo i giornalisti, ma anche quattro avvocati, ascoltati dalle spie della procura di Trapani nello svolgimento della propria attività professionale. È quanto emerge dagli atti dell’inchiesta sulle ong, finita nella bufera a seguito dello scoop del quotidiano Domani sulle conversazioni di diversi giornalisti spiati dagli inquirenti mentre discutevano con le proprie fonti sui flussi migratori sulla rotta Libia-Italia. Intercettazioni effettuate e trascritte nonostante giornalisti ed avvocati coinvolti non risultassero iscritti nel registro degli indagati. Le conversazioni sono state registrate nell’ambito di un’indagine avviata dalla procura siciliana nel 2016, con lo scopo di fare luce sull’attività delle ong attive in mare per soccorrere i naufraghi che cercavano di raggiungere le coste europee. Un’inchiesta, hanno evidenziato Maurizio Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione Comunista e Stefano Galieni, responsabile immigrazione Prc-S.E, «partita su Servizio Centrale Operativo», alle dipendenze del ministero dell’Interno, allora guidato da Marco Minniti. Si tratta di circa 30mila pagine – 100 cd contenenti intercettazioni telefoni, 300 di ambientali – depositate con l’avviso di conclusione delle indagini che portarono al sequestro della nave Iuventa, della Ong tedesca Jugend Rettet, accusata di concordare i soccorsi con i trafficanti. I cronisti, come la giornalista di inchiesta Nancy Porsia, ascoltata anche al telefono con la propria avvocata, Alessandra Ballerini, sarebbero stati ascoltati per mesi e agli atti dell’inchiesta risulta anche la trascrizione di brani di colloqui relativi alle indagini su Giulio Regeni, la cui famiglia è rappresentata sempre dall’avvocata Ballerini. Ma tra le persone intercettate dalla polizia giudiziaria ci sono anche quattro avvocati – oltre Ballerini si tratta di Michele Calantropo, Fulvio Vassallo Paleologo e Serena Romano -, ascoltati dagli uomini in divisa mentre discutevano con i propri clienti di strategie difensive. E ciò nonostante quanto previsto dall’articolo 103 del codice di procedura penale, che al comma 5 vieta l’intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori. Secondo la norma, tali conversazioni sono inutilizzabili e il loro contenuto non può essere trascritto, neanche sommariamente. Ciononostante, però, in quelle 30mila pagine compare anche l’attività degli avvocati, spiata senza che alcuno dei professionisti risultasse indagato. Sul punto il procuratore reggente di Trapani Maurizio Agnello ha garantito che le telefonate non verranno utilizzate. «Sia io che le colleghe (le sostitute Brunella Sardoni e Giulia Mucaria, ndr) – siamo arrivati a Trapani due anni dopo che quelle intercettazioni erano state effettuate. Posso solo dire che non fanno parte dell’informativa sulla base della quale chiederemo il processo e che dunque non possono essere oggetto di alcun approfondimento giudiziario. Non conosco quelle intercettazioni che naturalmente abbiamo dovuto depositare ma che non useremo». Il bubbone è però ormai scoppiato. E la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ora vuole vederci chiaro. È per questo motivo, dunque, che ha deciso di avviare accertamenti sulla procura di Trapani, scelta che potrebbe portare, in futuro, anche all’invio degli ispettori. Attualmente, però, si tratta di una verifica preliminare, successiva alle richieste avanzate dai parlamentari Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana e Erasmo Palazzotto di Leu, che avevano annunciato la presentazione di interrogazioni sulla vicenda. E lo stesso aveva fatto il Pd, che ha chiesto chiarimenti attraverso un’interrogazione a firma di Stefano Ceccanti e altri 23 deputati dem, con la quale hanno chiesto un’ispezione alla procura di Trapani per verificare «lo scrupoloso rispetto di importanti principi costituzionali». Bazzecole, per Fratelli d’Italia, secondo cui l’inchiesta avvalorerebbe la tesi delle destre su accordi criminali tra volontari e trafficanti, tutti d’accordo per far arrivare in Italia migliaia di migranti. «Gli inquirenti siano lasciati liberi di svolgere il loro dovere senza alcun genere di intromissione e pressione eversiva», ha commentato il Questore della Camera e membro della commissione Affari Esteri Edmondo Cirielli, di Fratelli d’Italia. Che punta il dito contro Cartabia e il suo «attivismo»: «Invece di tutelare il lavoro investigativo dei magistrati e di condannare il modus operandi delle Ong, ha disposto accertamenti proprio sulle investigazioni della Procura di Trapani nel silenzio assordante del Csm», ha affermato. È invece «gravissimo quanto accaduto sulle intercettazioni dei giornalisti che si occupavano delle Ong», secondo il sottosegretario agli Esteri, Benedetto Della Vedova, di Più Europa. «L’inchiesta interna disposta dal ministro Cartabia è doverosa per una ragione molto precisa: abbiamo un sistema di garanzie e di diritti che non può essere messo in discussione. La libertà di stampa e l’uso delle fonti non possono essere messi in discussione». Mentre Riccardo Magi, deputato di +Europa Radicali, ha chiesto l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sull’attuazione degli accordi Italia-Libia. Secondo la ong umanitaria Mediterranea Saving Humans, «uno degli obiettivi delle diverse iniziative giudiziarie partite contro le attività umanitarie sembra essere quello di colpire chiunque sia impegnato, a vario titolo, nella ricerca della verità e nella pratica della solidarietà sulle violazioni dei diritti fondamentali in Libia e nel mar Mediterraneo». Un fatto non nuovo, dal momento che «anche negli atti dell’accusa, promossa dalla Procura della Repubblica di Ragusa, contro l’intervento di soccorso effettuato dalla nave Mare Jonio nel caso Maersk Etienne, vengono trascritte e utilizzate indebitamente intercettazioni telefoniche su utenze degli indagati di conversazioni telefoniche, professionali e confidenziali, con giornalisti e avvocati di fiducia», ha fatto sapere l’ong.

Non solo intercettazioni, con il virus anche "perquisizioni digitali" mai autorizzate. Il deputato di Azione Enrico Costa ora chiede norme chiare. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 5 aprile 2021. Sono moltissime le potenzialità del “trojan”, il software spia nato per trasformare il telefono cellulare in un microfono sempre acceso. L’uso del “captatore” informatico, inizialmente previsto solo per i reati associativi e di terrorismo, è stato esteso dall’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede anche a quelli contro la Pubblica amministrazione. Le indagini della Procura di Perugia nei confronti dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara, indagato appunto per corruzione, rappresentano ad esempio uno dei primi casi in Italia di utilizzo di tale strumento investigativo. Un strumento molto “invasivo” su cui è necessario mettere quanto prima dei paletti. Le potenzialità del trojan, come detto, sono tantissime e non tutte al momento regolamentate in maniera chiara dalle norme. Una di queste potenzialità riguarda la possibilità da parte del trojan, una volta installato nel cellulare, di acquisire tutti i documenti contenuti al suo interno. Quindi dai contatti presenti nella rubrica del telefono, alle foto o ai video conservati nella memoria: i cosiddetti “dati statici”.La loro “apprensione”, oggi, avviene di fatto all’insaputa dell’indagato. Il gip, su richiesta del pm, autorizza l’utilizzo del trojan solo per l’ascolto delle conversazioni e non per il sequestro di dati sopra menzionati. «Serve regolamentare lo strumento con una legge che chiarisca bene questi passaggi», sottolinea l’avvocato romano Stefano Aterno, fra gli auditi in commissione Giustizia alla Camera sul tema degli “ascolti”, e in particolare sul decreto ministeriale che stabilisce le tariffe delle prestazioni richieste dalle Procure alle società private incaricate di trattare il materiale captato. Il punto è che attualmente lo Stato italiano paga tali compagnie anche per attività, come l’acquisizione di foto e rubrica contatti, di fatto illegittime, perché assimilabili a perquisizioni che nessun gip ha mai autorizzato, come spiega Aterno.In pratica il trojan supera il concetto della normale intercettazione divenendo uno strumento altamente invasivo. La norme, come detto, disciplinano solo le intercettazioni “ambientali itineranti”. Per l’acquisizione di tutto il resto, servirebbe invece un provvedimento ad hoc del magistrato senza il quale non è possibile acquisire i documenti contenuti nel telefono cellulare. Questo, però, teoricamente. La Cassazione, fino ad oggi, in tali casi ha parlato di “prova atipica” che, non essendo disciplinata dalla legge, è comunque possibile.Un altro argomento molto delicato riguarda le intercettazioni telematiche tramite flusso di dati. È il caso delle conversazioni effettuate mediante gli applicativi WhatsApp, Telegram o Signal. Sono conversazioni “cifrate” che non vengono ascoltate come le normali intercettazioni telefoniche. In soccorso arriva sempre il trojan che, oltre a prendere tutta la messaggistica salvata nella memoria del cellulare, riesce ad intercettare anche la conversazione. Più precisamente ascolta la chiamata effettuata dal soggetto nel cui cellulare è stato installato il captatore. La conversazione viene registrata per intero se si utilizza il vivavoce, e quindiaccedendo al microfono del telefono.Ecco quindi l’invito rivolto alla commissione Giustizia da parte dell’avvocato Aterno, e che il deputato di Azione Enrico Costa ha già dichiarato essere pronto a far proprio con emendamenti ad hoc al testo in discussione circa le modifiche al decreto 161 del 2019 la riforma che ha introdotto “modifiche urgenti alla disciplina delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni”. Nella nuova previsione normativa la questione della captazione da remoto o “perquisizione occulta” di documenti o altri dati che non rientrano nel concetto di “comunicazioni” o “comportamenti comunicativi” dovrà essere ben esplicitata. Essendo possibile con il captatore acquisire da remoto documenti e file, andranno previste le opportune garanzie difensive. Ad esempio, la notifica all’indagato dell’atto di perquisizione classico. Questa attività di perquisizione o ispezione informatica oggi, invece, non è oggetto del ricordato decreto 161 proprio per mancata previsione da parte del legislatore. Servirà, allora, prevedere in futuro tali mezzi di ricerca della prova (con le opportune garanzie difensive come la notifica ritardata del provvedimento) al fine di evitare che la giurisprudenza ricorra ancora al concetto di “prova atipica” per legittimare attività con il captatore molto più simili alle ispezioni e alle perquisizioni piuttosto che alle intercettazioni.Per questo tipo di attività di captazione informatica e per il suo tentativo di regolamentarlo da tempo esiste una proposta che cercò di prevedere un nuovo mezzo di ricerca della prova, attraverso l’introduzione di un articolo 254-ter nel codice di procedura penale in materia di osservazione e acquisizione da remoto. Va infine rilevato che gli strumenti in uso alla criminalità impongono nuove e maggiori tecniche di captazione e di elusione degli apparati di cifratura (ormai con i telefoni Encrochat, cellulari cifrati olandesi BQ Acquaris, per citare solo alcuni, il solo captatore non serve più a nulla essendo necessari nuovi e diversi strumenti di hacking), pertanto è più corretto e, in previsione futura, più efficace parlare di “attività di captazione informatica” al fine di prevedere ed estendere a livello normativo le opportune garanzie menzionate proprio dal Dl 161 anche tutte le altre attività di captazione che la tecnologia rende e renderà possibile nel futuro e che non sono basate solo sul captatore, ma sullo sfruttamento, in generale e in sintesi, delle vulnerabilità di sistema.Ultimo accenno, infine, alle società private che forniscono all’autorità giudiziaria i software spia. Nel loro caso è importante verificare le modalità di gestione del dato acquisito, con un controllo puntuale sui server utilizzati. Oltre che sulle tariffe attualmente previste per servizi non coperti dalla legge.

Jacopo Iacoboni per "la Stampa" il 6 aprile 2021. Il caso dei giornalisti intercettati, senza essere indagati, dalla Procura di Trapani è destinato a non chiudersi facilmente, e potrebbe creare altri problemi. Secondo due fonti convergenti a conoscenza della vicenda, sono stati "profilati" anche i giornalisti stranieri (che non erano intercettati) in contatto con i reporter italiani, «tra cui alcuni spagnoli», il che aprirà un altro capitolo assai imbarazzante per l'Italia anche sul piano geopolitico. Emergono via via sempre più elementi che fanno discutere, oltre a quelli che hanno già spinto la ministra di Giustizia Marta Cartabia a ordinare accertamenti su cos' è avvenuto a Trapani, e a Roma. Alcuni ce li racconta Nancy Porsia, la cronista free lance che è stata l' unica a essere intercettata direttamente. Porsia in passato si è occupata molto di Libia e Tunisia. Il suo lavoro, già fin dal 2016, e quello del giornalista di Avvenire Nello Scavo hanno contribuito a svelare molte zone d'ombra delle vicende italo-libiche, per esempio l'ascesa dell'allora sconosciuto «comandante Bija», e la sua singolare, ripetuta comparsa in Italia. O a svelare elementi sui nuovi network criminali attivi in quei teatri, per esempio il clan Dabbashi. Porsia ci è riuscita grazie a un'ampia rete di contatti libici e di lavoro sul campo. Le sue inchieste hanno finito per far gola a chi doveva investigare, mettendo a rischio la sua sicurezza e quella delle sue fonti? Lei risponde: «Anche volendo ammettere che le mie conversazioni fossero così "importanti per l'indagine", come è scritto, perché poi non vengono menzionate nell' informativa, e finiscono invece solo nelle trecento pagine di allegati? Hanno usato l'inchiesta della procura, ma cercavano altro». Peraltro, ci riferisce, anche negli allegati queste sue conversazioni sono riportate selettivamente: «Hanno scelto solo qualche telefonate, altre no, e io non so quindi in base a quali criteri, cioè fino a che punto è stata violata la sicurezza delle mie fonti, chi ci è finito dentro dei miei interlocutori». In teoria, ricorda, «secondo il comma 2 dell'articolo 266 si può essere intercettati anche senza essere indagati, ma per un massimo di quindici giorni». Gli ascolti delle sue chiamate sono stati invece prorogati per mesi, da luglio a dicembre 2016. Perché? Per cercare cosa, e con quali diritti? Hanno avuto un ruolo lo Sco, il servizio centrale operativo della polizia, o l'allora ministero dell' Interno, guidato da Marco Minniti? «Nei fatti - ha osservato il giornalista Antonio Massari, un altro dei cronisti intercettati - la procura di Trapani arruola Porsia, a sua insaputa e senza il suo consenso, come un agente sotto copertura». Sergio Scandura, inviato di Radio radicale, anche lui intercettato, è amaro: «Ti accorgi che forse qui è stato sposato il modello del ministero degli Affari interni di Mosca e non quello di un Paese dell' Unione europea». Nello Scavo riflette: «Un così massiccio ascolto delle conversazioni dei giornalisti con le proprie fonti provoca un danno collaterale: molte delle fonti riservate adesso temono di venire individuate. Già in queste ore abbiamo percepiamo il timore di alcune di queste fonti. Il diritto di essere informati ancora una volta viene messo a rischio». Anche nel caso di Scavo sono finite allegate due sue telefonate a don Mosè Zerai, indagato per favoreggiamento dell' immigrazione clandestina, nelle quali peraltro si parla della strage di Misurata del 2011, non dei fatti dell' inchiesta. Oltretutto, la Procura ha chiesto ora l' archiviazione di don Zerai, perché allegare le intercettazioni di un giornalista?

Andrea Palladino per “Domani” il 6 aprile 2021. Nelle carte dell’inchiesta di Trapani appaiono nomi di fonti, contatti, rapporti personali, dati che il codice di procedura penale tutela come segreto professionale. Il caso più eclatante riguarda Nancy Porsia, giornalista esperta di Libia, intercettata a lungo, anche durante le telefonate con il proprio legale Alessandra Ballerini. Intercettati anche i cronisti di Avvenire, Radio Radicale, Il Fatto Quotidiano e la reporter Francesca Mannocchi, autrice di inchieste sulla Libia. Fausto Biloslavo, del Giornale, e Claudia Di Pasquale, di Report. Sono centinaia le pagine di intercettazioni, trascritte e depositate nell’inchiesta sulle Ong della procura di Trapani, che riguardano i giornalisti. Nomi di fonti, contatti, rapporti personali, dati che il codice di procedura penale tutela come segreto professionale. Nelle carte dell’indagine contro la Jugend Rettet, Save The Children e Medici senza frontiere non c’è solo la caccia alle Ong. A finire nel mirino della polizia giudiziaria - lo SCO, la squadra mobile di Trapani e il comando generale della Guardia costiera - è anche l’informazione che dal 2016 racconta lo scenario delle morti per affollamento nel Mediterraneo centrale. Il caso più eclatante riguarda Nancy Porsia, giornalista esperta di Libia. È stata intercettata a lungo, anche durante le telefonate con il proprio legale Alessandra Ballerini nelle quali riferiva la preoccupazione per le minacce ricevute dalle milizie libiche guidate da al-Bija. Alla sua attività di reporter è stato riservato un lungo dossier. Nel documento di 22 pagine - datato 27 luglio 2017, firmato SCO, squadra mobile e comando generale della Guardia costiera - ci sono fotografie, contatti sui social, rapporti personali e nomi di fonti in un’area considerata tra le più pericolose dell’africa del nord. Nell’informativa i funzionari di polizia riportano i contatti di Porsia con altri giornalisti internazionali, i suoi movimenti e anche alcuni dati personali. L’intercettazione è stata richiesta ed autorizzata con la funzione di “positioning”, ovvero con il tracciamento degli spostamenti dell’utente. In altre parole la giornalista è stata di fatto seguita telematicamente per lungo tempo. Sono state poi trascritte anche le telefonate di Porsia con altri giornalisti italiani, dove si parla della situazione libica e di come muoversi in quel contesto. Tutti dati assolutamente irrilevanti per le indagini in corso. Nancy Porsia non risulta mai indagata. Nella telefonata con il legale - che la legge vieta di trascrivere e divulgare, a tutela dei diritti della difesa - viene dichiarato apertamente il rapporto fiduciario. Nella sintesi della telefonata vengono anche riportati spostamenti al Cairo dell’avvocato Ballerini, attiva anche sul caso di Giulio Regeni. Molti altri giornalisti sono stati intercettati indirettamente. Alcuni indagati sono esponenti di spicco delle Ong. Era, dunque, assolutamente normale il rapporto - spesso fiduciario - con i giornalisti che seguivano i flussi migratori provenienti dalla Libia. In molti casi nel corso delle telefonate viene fatto riferimento a fonti di informazioni spesso sensibili. L’inviato di Avvenire Nello Scavo, ad esempio, viene intercettato mentre parla con una sua fonte sulle modalità per ricevere un video che dimostra le violenze subite dai migranti in Libia. Nelle carte sono riportati anche i contenuti delle conversazioni della giornalista Francesca Mannocchi con esponenti delle Ong, dove si fa riferimento ai viaggi in Libia. Era il 2017, l’anno più difficile e complesso nel paese del nord Africa e i pochi reporter che si recavano a Tripoli spesso correvano alti rischi. E’ stato intercettato anche il cronista di Radio Radicale Sergio Scandurra, mentre chiedeva informazioni ad alcuni esponenti di organizzazioni umanitarie, impegnate in quei mesi nei salvataggi dei migranti. Negli atti sono poi finite diverse telefonate del giornalista del Fatto quotidiano Antonio Massari che raccontò nell’agosto del 2018 i rapporti tra gli operatori della Imi e Matteo Salvini. Anche in questo caso il cronista stava parlando con alcune fonti. Intercettati, infine, anche Fausto Biloslavo, del Giornale, e Claudia Di Pasquale, di Report. La giornalista della Rai è stata ascoltata mentre parlava con Nancy Porsia. L’ex ministro dell’Interno Marco Minniti, responsabile del Viminale all’epoca delle indagini e delle intercettazioni, interpellato da Domani, non ha voluto commentare.

Cari giornalisti, basta ipocrisie: ci indigniamo solo quando gli intercettati siamo noi. Il caso Trapani è gravissimo. Ma non si può invocare la libertà di stampa sia per denunciare abusi di cui siamo vittima sia per ritenerci liberi di pubblicare (illegalmente) i brogliacci in cui compaiono altri. Errico Novi su Il Dubbio il 5 aprile 2021. Brutta storia. Dolorosa pagina nella storia italiana dell’equilibrio fra poteri e attori della democrazia. L’indagine della Procura di Trapani sulle presunte irregolarità delle Ong è viziata da quella che sembra una pesante violazione della libertà di informare, cioè dell’articolo 21. Si deve chiamare in causa la Costituzione: di rado noi cronisti eravamo divenuti oggetto di intercettazioni. Almeno in un caso, si tratta della collega freelance Nancy Porsia, che scrive anche per il Fatto quotidiano, il bersaglio è stato scelto dagli investigatori in modo deliberato. Esistono una richiesta della Procura di Trapani e l’autorizzazione di un gip del Tribunale siciliano, datate 2017. Giusta la reazione dell’Ordine dei giornalisti, che per voce del suo presidente Carlo Verna ha parlato di «sfregio al segreto professionale» e si è appellato al presidente Sergio Mattarella (anche in quanto massimo vertice del Csm). Opportuna l’iniziativa della guardasigilli Marta Cartabia, che ha avviato accertamenti, vale a dire acquisizione di informazioni sull’attività giudiziaria trapanese. Tutto giusto. Se non fosse per un interrogativo: perché non si leva una così corale indignazione (arrivata pure in Parlamento) quando le indebite intrusioni dei pm colpiscono, per esempio, gli avvocati?Non è una provocazione. Anzi: la vicenda di Trapani può innescare sviluppi positivi. La stampa italiana (ed europea, si è inalberato persino il Guardian) potrebbe scoprirsi un filo più prudente, di fronte a future occasioni di sbattere in prima pagina parole captate da presunti mostri nell’ambito di indagini mai sottoposte a giudizio. Può darsi finisca così, c’è da augurarselo. Ma la levata di scudi di noi giornalisti lascia un retrogusto sgradevole. Il fastidio per l’ipocrisia dell’indignazione a singhiozzo. Viene violato il segreto professionale di noi giornalisti e ci arrabbiamo: giusto. Ma perché siamo silenti se viene violato il segreto del difensore, troppo spesso intercettato in colloqui con il proprio assistito?I colleghi del Fatto quotidiano, attraverso il loro comitato di redazione, si sono soffermati sul caso di Porsia: seppure «mai sospettata di alcun reato», si è arrivati a intercettare Nancy «anche mentre parlava con il suo avvocato, Alessandra Ballerini». Rilievo giustissimo. Il Cdr del Fatto rimanda implicitamente alle norme che disciplinano le intercettazioni. Nelle quali non esiste una specifica tutela per i giornalisti. È prevista invece per gli avvocati. In particolare all’articolo 103 quinto comma del codice di procedura penale: «Non è consentita l’intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori». Nella recente riforma delle intercettazioni, è stata parzialmente estesa: i colloqui fra avvocato e assistito sono fra quelli che non possono essere trascritti. Ora, se noi giornalisti ci consideriamo giustamente sentinelle della democrazia, non possiamo svegliarci solo quando il siluro è puntato nei nostri confronti. I sacri principi della riservatezza e del segreto professionale vanno difesi sempre. E non è proprio accettabile lo spettacolo tristissimo a cui noi operatori dell’informazione abbiamo dato vita per anni, di fronte ai tentativi di riformare le intercettazioni, bollati come “bavaglio”, o alle proteste di politici messi alla gogna dai brogliacci dei pm fotocopiati nei nostri articoli. In quei casi abbiamo invocato a nostro baluardo la libertà di stampa. Appunto la stessa libertà di stampa che chiamiamo ora in causa per lo «sfregio» di cui parla giustamente Verna a proposito dell’inchiesta trapanese. Ambiguità e ipocrisia non sono accettabili. La Costituzione non può essere tirata in ballo sia per protestare quando altri vìolano la nostra autonomia sia per giustificare le violazioni da noi stessi compiute in danno di altri. È ridicolo, ci squalifica e al limite delegittima persino la nostra attuale sacrosanta indignazione. Da ultimo, è fastidioso, sì, che pochi giornali si siano inalberati di recente per l’intercettazione di diversi penalisti (basti citare i casi di Nicola Canestrini, del Foro di Rovereto, o di Giorgio Manca a Roma). Ma devono dare altrettanto fastidio le centinaia di casi in cui, per anni, sono state pubblicate illegittimamente intercettazioni in cui comparivano esponenti politici. Sarebbe ipocrita, da parte di questo giornale, difendere solo gli avvocati e non anche i parlamentari. Allo stato d’eccezione populista non si deve concedere un millimetro. Anche perché l’indifferenza, e persino il sospetto, che spingono a considerare normale spiare un difensore, vengono probabilmente proprio dal pregiudizio anticasta coltivato nei confronti dei politici. Giacché l’avvocato difende chiunque (anche il politico) viene assimilato ai reati dei propri assistiti, e merita perciò a propria volta di subire l’intrusione abusiva. E no: la deriva dev’essere stroncata. Ci riferiamo sia all’abuso delle intercettazioni che all’ipocrisia alimentata dal populismo.Mai come stavolta noi giornalisti dobbiamo sentirci con le spalle al muro: o diciamo una parola definitiva contro l’abuso delle intercettazioni, ivi comprese le tante che noi stessi abbiamo illegalmente pubblicato, o non siamo legittimati a protestare per il fatto che, stavolta, le vittime dell’abuso siamo proprio noi.

Anche Checco Zalone finanziava la Ong di Casarini. Nel film Tolo Tolo noleggiata la nave Mare Jonio. Riccardo Angelini sabato 3 Aprile 2021 su Il Secolo d'Italia. Cosa emerge dalle intercettazioni dell’inchiesta della Procura di Ragusa sulla Ong di Luca Casarini e compagni? Come emerso nei giorni scorsi secondo la Prcoura la nave Mare Jonio operante per l’ong Mediterranea Saving Humans  avrebbe ricevuto un’ingente somma di denaro per trasbordare migranti dalla motonave Maersk Etienne. Si tratta di 4.600 euro a migrante che, moltiplicati per le 27 persone che sono state trasportate, fa in totale 125mila euro. Somma che fa esultare Casarini: “Brindiamo a champagne…”.  Con Casarini l’inchiesta sul business di migranti coinvolge anche Alessandro Metz e Beppe Caccia, armatori della società Idra social shipping, che possiede il rimorchiatore Mare Jonio. Su La Verità Fabio Amendolara ricostruisce quanto sta emergendo dall’esame delle intercettazioni in possesso della Procura. Esse consentono di chiarire come si finanziava la Ong oltre che con le donazioni. “È ancora Caccia a svelarlo – scrive la Verità –  parlandone con Vera Mantengoli, giornalista del gruppo Gedi. Anche questa conversazione viene riassunta: «A patto che resti tra di loro due, nel film Tolo Tolo di Checco Zalone, lui, Checco Zalone, per finanziarli indirettamente, ha voluto la loro collaborazione noleggiandogli la nave con tutto l’equipaggio per il film, per le scene dei salvataggi, aggiungendo di utilizzare la società per fare delle operazioni fra virgolette commerciali che servono a…». E dopo un’esitazione, Caccia aggiunge: «Ma questa parte qua teniamola riservata».” Non solo, alla Maersk Etienne la mare Jonio assicurò di avere personale medico qualificato che avrebbe dovuto assistere i migranti a bordo. Il team medico è guidato dalla dottoressa Agnese Colpani, «medico di bordo (neo laureato)», annotano gli investigatori. “La giovane – scrive La Verità – è stata iscritta all’albo nell’ambito dell’emergenza Covid con una procedura semplificata. È lei alla guida del team medico che, «nel vivo delle stesse operazioni di trasbordo, avrebbe consultato tale Donatella Albini, palesandole la propria obiettiva incapacità di attendere con perizia allo svolgimento di prestazioni del tutto elementari, quali la rilevazione di una vena (alla migrante che si sospettava in stato di gravidanza) come pure l’accertamento di stati di ipotermia e disidratazione»”. I commenti tra Caccia e Casarini finiscono nel fascicolo: «Colpani è neo laureata, non conosce le persone disidratate e non sapeva individuare le vene». E la donna fatta sbarcare per prima, sentita dagli investigatori, ha confermato: «L’infermiera non riusciva ad infilarmi l’ago nella flebo». Dichiarazioni supportate dal marito, che ha anche aggiunto: «Ricordo che mia moglie ha riferito che avvertiva dolori allo stomaco []. A seguito di quanto riferito a personale medico della Mare Jonio, quest’ultimo le ha detto che era incinta». Si è poi scoperto che la donna non era in stato interessante”.

Fabio Amendolara per “La Verità” il 28 marzo 2021. «Domani a quest' ora potremmo essere con lo champagne in mano a festeggiare perché arriva la risposta dei danesi [...] abbiamo svoltato e possiamo pagare stipendi e debiti». L'armatore veneziano dell'accoglienza Luca Casarini, già consulente dell'ex ministro per la Solidarietà sociale Livia Turco durante il primo governo Prodi, che da un decennio ormai si è trasferito a Palermo dove ha trasformato un rimorchiatore, la Mare Jonio, in una nave da salvataggio, si sfrega le mani conversando con Alessandro Metz, armatore insieme a lui della Mediterranea Saving Humans ed ex consigliere regionale in Friuli Venezia Giulia con i Verdi. Al centro dell'inchiesta della Procura di Ragusa c'è un bonifico da 125.000 euro, datato 30 novembre, tra la compagnia danese Maersk e la Idra, società di Metz proprietaria della Mare Jonio. L'accusa ipotizzata dai magistrati è di aver accettato il trasbordo dei 27 migranti della Maersk Etienne solo per soldi. E le nuove intercettazioni, pubblicate ieri da Il Giornale, sembrano dimostrarlo. «Vogliono infangarmi», aveva affermato, alzando i toni, Casarini. Ma la teoria difensiva basata sul complotto è durata come da Natale a Santo Stefano. «È una fattura di pomp... a Copenaghen». Al telefono, l'ex disobbediente passato a lanciare le reti per migranti, quel bonifico da 125.000 euro lo definisce così mentre parla con un altro ex dei Verdi, Beppe Caccia, un tempo assessore a Venezia e ora capo missione di Mediterranea. I due concordano che il bonifico dovrà apparire come il pagamento di «una fattura per attività di navigazione della Idra a dei partner privati». Un'operazione, secondo l'accusa, che avrebbe schermato l'accordo «di natura commerciale» tra le società armatrici. La Mare Jonio, insomma, si sarebbe trasformata in taxi dell'immigrazione. Tant' è che l'accusa è di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, oltre che di violazione alle norme del codice della navigazione. La causale del bonifico: «Servizi di assistenza forniti in acque internazionali». Caccia avrebbe inizialmente chiesto alla Maersk il versamento di 270.000 euro, ottenendone infine 125.000. Il fatto che il versamento sia arrivato un mese dopo il trasbordo aveva spinto i difensori degli otto indagati a respingere le ipotesi dell'esistenza di un accordo economico preventivo. Ora, però, sembra emergere quella che il procuratore di Ragusa Fabio D'Anna definisce come una «laboriosa negoziazione protrattasi dagli inizi di settembre al 30 novembre 2020». Caccia, infatti, secondo la ricostruzione della Procura, il 7 ottobre sarebbe andato a Copenaghen (dove l'indagine ha evidenziato anche pressioni su ambienti dell'Ue da parte di una lobby danese, allo scopo di favorire l'immigrazione. In questo contesto sono emerse anche connessioni con alcune diocesi italiane e Banca Etica) per incontrare i dirigenti della Maersk al fine di «lucrare il controvalore pecuniario dell'operazione di trasbordo». Le telefonate di Casarini intercettate, poi, sembrano andare tutte in quella direzione: «Mi sa che abbiamo fatto il botto». Insomma, l'obiettivo sembrano proprio i 125.000 euro: «Con quelli si sistemano tutti», avrebbe detto Casarini. I danesi avrebbero invece trovato la strada per far apparire l'operazione come trasparente. Anche tramite un escamotage: l'aver rilevato una situazione emergenziale di natura sanitaria a bordo della petroliera, documentata da un report medico del team di soccorritori che si era imbarcato, secondo l'accusa, «illegittimamente sul rimorchiatore». La nave di Casarini e di Caccia, diffidata dall'effettuare in maniera stabile attività di salvataggio in mare, avrebbe raggiunto la nave danese solo «per consegnare 80 litri di benzina». In mare inoltrato, però, sulla Mare Jonio salgono dei sanitari. E comincia il trasbordo. Prima con una donna in presunto stato di gravidanza stimato al secondo trimestre e il marito (in ospedale però si scoprirà che non era incinta). E il giorno dopo, con l'assegnazione del porto, sbarcano tutti a Pozzallo. La Maersk ipoteticamente sarebbe rimasta ancora in mare. E ogni giorno di stop avrebbe avuto un costo di migliaia di euro. Per ricambiare il favore, è quanto sembra emergere dalle intercettazioni, sarebbe arrivata quella che Caccia avrebbe prospettato a Casarini nelle telefonate come «una confortante gratifica natalizia». «Mentre la cronaca fa emergere le intercettazioni delle Ong che parlano di soldi e champagne per portare i clandestini in Italia, la Francia respinge a Claviere degli immigrati», commenta il leader della Lega, Matteo Salvini, che non ci sta a passare come il sequestratore degli immigrati. Giorgia Meloni (Fratelli d'Italia), invece, ha definito «inquietanti» gli aggiornamenti sulla Mare Jonio: «Vigileremo affinché si vada fino in fondo a questa vicenda». Che sembra serbare ancora più di una novità.

Le intercettazioni che inchiodano la Ong: "Coi soldi festeggiamo a champagne". Immigrati trasbordati in cambio di denaro, la trattativa nei colloqui spiati con Casarini: 125mila euro per finto salvataggio. Fausto Biloslavo e Valentina Raffa - Sab, 27/03/2021 - su Il Giornale.  «È una fattura di pomp... a Copenaghen». Ecco come l'ex disobbediente Luca Casarini, intercettato dalla procura di Ragusa, descrive il versamento di 125mila euro per il trasbordo dell'11 settembre di 27 migranti dalla petroliera danese Maersk Etienne sulla nave Mare Jonio, poi portati in Italia. Il bonifico è arrivato il 30 novembre dalla Maersk Tankers, società armatrice della motonave danese, sul conto della Idra social shipping proprietaria della Mare Jonio, nave utilizzata dalla Ong Mediterranea Saving Humans. Dall'altra parte del telefono c'è Beppe Caccia, capo missione dell'operazione migranti in cambio di soldi, un tempo assessore dei Verdi a Venezia. I due concordano che il bonifico dovrà apparire come il pagamento di «una fattura per attività di navigazione della Idra a dei partner privati» per mascherare l'affare soldi-migranti. La causale del bonifico alla fine indica «servizi di assistenza forniti in acque internazionali». La pesante accusa a 8 indagati di avere trasbordato i migranti in cambio di denaro è avallata da «intercettazioni telefoniche e riscontri documentali». Il procuratore capo di Ragusa, Fabio D'Anna, ribadisce che emerge una «laboriosa negoziazione protrattasi dagli inizi di settembre al 30 novembre 2020» con una richiesta iniziale di 270mila euro da parte dei talebani dell'accoglienza. Caccia il 7 ottobre si è pure recato a Copenaghen per incontrare i dirigenti della Maersk al fine di «lucrare secondo la procura - il controvalore pecuniario dell'operazione di trasbordo». Casarini intercettato mentre parla con Alessandro Metz, armatore della Mare Jonio ed ex consigliere regionale dei Verdi in Friuli-Venezia Giulia, sostiene che «domani a quest'ora potremmo essere con lo champagne in mano a festeggiare perché arriva la risposta dei danesi» e se domani ci sarà l'ok «abbiamo svoltato e possiamo pagare stipendi e debiti». Ancora prima lo stesso Casarini aveva detto: «Mi sa che abbiamo fatto il botto». Le telefonate intercettate sono numerose. «Speriamo bene dice Casarini a Caccia -. Con quelli si sistemano tutti!». I danesi studiano la formula di copertura migliore per fare apparire l'operazione «legale». L'operazione di trasbordo dei migranti in mare era stata resa trasparente da un trabocchetto, «ovvero spiega il procuratore capo di Ragusa - il rilevamento di una situazione emergenziale di natura sanitaria a bordo della petroliera danese documentata da un report medico del team di soccorritori che si era imbarcato illegittimamente sul rimorchiatore». Mare Jonio, diffidata dall'effettuare, in maniera stabile, attività di salvataggio in mare, parte ufficialmente da Lampedusa «per consegnare 80 litri di benzina», così come attesta il comandante Pietro Marrone, anche lui indagato. A 12 miglia dalla costa italiana, però, si imbarcano in due sulla Mare Jonio per l'ispezione medica ed il trasbordo dalla Maersk Etienne. Dalla petroliera danese vengono fatti evacuare urgentemente una migrante «in presunto stato di gravidanza stimato al secondo trimestre» e il marito. Poi visitata in ospedale in Italia, si scopre che la donna non ha «nulla di patologico» e non è neppure incinta. Il giorno dopo, il 12 settembre, arriva l'autorizzazione a sbarcare a Pozzallo i 27 migranti trasbordati sulla Mare Jonio. La nave danese è «libera» dopo oltre un mese di stop costato decine di migliaia di euro al giorno. I talebani dell'accoglienza hanno risolto il problema e quando arrivano i 125mila euro dell'armatore danese Caccia, come si legge negli atti, preannuncia a Casarini «l'attribuzione di una confortante gratifica natalizia».

Immigrazione, il capo-missione della Ong intercettato: "Mi sono inventato cose inimmaginabili". Libero Quotidiano il 29 marzo 2021. Scoperchiato il vaso di Pandora. Dall'inchiesta che vede la ong Mare Jonio indagata sta emergendo l'impensabile. Sulla caso della nave utilizzata dalla Ong Mediterranea saving humans per il trasbordo di 27 migranti portati in Italia non c'è solo il "tornaconto" di 125mila euro. Tra le carte in mano alla procura di Ragusa spuntano ammissioni da brividi. "Sono riuscito a inventarmi cose inimmaginabili" si pronunciava così Giuseppe Caccia, capo missione che l'11 settembre 2020 rispondeva a una telefonata di Ezio Tavasani, un pezzo grosso nel mondo nautico veneziano. "Ezio gli riferisce (a Caccia indagato per favoreggiamento aggravato dell'immigrazione clandestina, ndr) che con la Mare Jonio lui fa cose molto in grande", è quanto si legge a pagina 9 del decreto di perquisizione e sequestro disposto dalla procura e pubblicato dal Giornale. Da qui la risposta data da Giuseppe riuscito nell'intento di "inventarsi cose inimmaginabili". Ma c'è di più perché a elargire consigli su come evitare l'alt delle forze dell'ordine c'era proprio Tavasani che, ammetteva, "è palese il fatto che l'imbarcazione non è idonea al soccorso". Daltro canto Caccia prometteva che "alla prossima missione mi organizzerò diversamente". Dal passato della Mare Jonio spuntano infatti altri due richiami da parte della Guardia costiera che la diffidava dal prendere il mare per recuperare migranti, ma niente. "Appena posso lo rifaccio. Costi quel che costi - prometteva sfidando la magistratura Luca Casarini, anche lui capo missione della nave -. Al vostro ordine continuerò a disobbedire. Perché obbedisco ad altro, di fronte al quale le vostre leggi ingiuste e criminali, ciniche e orribili, non possono niente". E infatti ha avuto la meglio, venendo graziato archiviando un'altra inchiesta per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Almeno fino ad ora perché la palla passa al Tribunale del riesame che dovrebbe pronunciarsi sulla legittimità dei sequestri ordinati dalla procura nell'ambito dell'inchiesta, che ha registrato anche l'ammissione delle "cose inimmaginabili" compiute.

Fausto Biloslavo Valentina Raffa per “il Giornale” il 29 marzo 2021. «Sono riuscito a inventarmi cose inimmaginabili» con la Mare Jonio. Salta fuori pure questa incredibile ammissione tra le carte dell'inchiesta aperta dalla procura di Ragusa sulla nave utilizzata dalla Ong Mediterranea saving humans, per il trasbordo di 27 migranti da una petroliera danese, poi portati in Italia, in cambio di 125 mila euro. A parlare è Giuseppe Caccia, detto Beppe, il capo missione l'11 settembre 2020, che risponde a una telefonata di Ezio Tavasani, un pezzo grosso nel mondo nautico veneziano. A pagina 9 del decreto di perquisizione e sequestro disposto dalla procura di Ragusa si legge che «Ezio gli riferisce (a Caccia indagato per favoreggiamento aggravato dell'immigrazione clandestina, ndr) che con la Mare Jonio lui fa cose molto in grande». E «Giuseppe (Caccia, ndr) risponde di essersi riuscito a inventarsi cose inimmaginabili». Nella telefonata Tavasani elargisce consigli per evitare le interferenze delle forze dell'ordine per fermare Mare Jonio. E spudoratamente sottolinea che «è palese il fatto che l'imbarcazione non è idonea al soccorso». Caccia risponde a Tavasani: «Alla prossima missione mi organizzerò diversamente» ammettendo di voler reiterare gli illeciti denunciati dalla procura iblea. E alla fine l'ex assessore dei Verdi a Venezia, esponente di spicco di Mediterranea saving humans, ammette di essersi inventato «cose inimmaginabili» per portare migranti in Italia con Mare Jonio. La nave era già stata sequestrata due volte, non essendo certificata per il soccorso, e poi «liberata». La Guardia costiera l'ha diffidata altre due volte a prendere il mare per recuperare migranti, ma senza successo. I talebani dell'accoglienza usano sempre lo scudo «dello stato di necessità» in nome del salvataggio di chi parte dalla Libia, ma adesso si scopre che hanno compiuto «cose inimmaginabili» pur di fare sbarcare migranti in Italia. La Guardia costiera, dalla fine del 2018, quando Mare Jonio è salpata per la prima volta per conto delle Ong Mediterranea saving humans, ha segnalato alle procure, da Roma ad Agrigento fino a Ragusa, con dettagliate informative, almeno 4 missioni zeppe di ombre. La prima nel marzo 2019 quando un gommone con 50 migranti è stato soccorso dalla nave che ha sbarcato tutti a Lampedusa. Un'altra missione «umanitaria» segnalata è del 9 maggio dello stesso anno con relativo sbarco di 30 migranti sempre sull'isola. Ancora il 28 agosto 2019 quando Mare Jonio soccorre un gommone con 98 migranti e coinvolge anche motovedette della Guarda costiera e della Guardia di finanza per poi arrivare in porto a Licata il 6 settembre dove viene posta sotto sequestro. Il 19 giugno 2020 altra missione, che recupera 67 migranti e finisce in un'informativa della Guardia costiera alla magistratura. I talebani dell'accoglienza, fino all'ultima inchiesta di Ragusa sull'evento dell'11 settembre 2020, sono sempre rimasti impuniti, nonostante le continue dichiarazioni di sfida a qualsiasi norma. Luca Casarini in riferimento alle accuse di Ragusa dichiara che «appena posso lo rifaccio. Costi quel che costi. Al vostro ordine continuerò a disobbedire. Perché obbedisco ad altro, di fronte al quale le vostre leggi ingiuste e criminali, ciniche e orribili, non possono niente». Il 4 dicembre scorso il Gip e la procura di Agrigento, spesso blanda con le Ong, ha graziato Casarini e soci archiviando un'altra inchiesta per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. I talebani dell'accoglienza non avevano rispettato l'alt intimato da una motovedetta della Guardia di finanza sbarcando 49 migranti a Lampedusa. Mare Jonio è la prima e unica nave italiana delle Ong del mare. Oggi a Ragusa il Tribunale del riesame dovrebbe pronunciarsi sulla legittimità dei sequestri ordinati dalla procura nell'ambito dell'inchiesta, che ha registrato anche l'ammissione delle «cose inimmaginabili» compiute dai talebani dell'accoglienza.

La campagna contro le Ong. Riparte la campagna di Travaglio e dei 5 Stelle contro le Ong che soccorrono i naufraghi in mare. Ciccilla su Il Riformista il 14 Marzo 2021. È ripartita la campagna di Travaglio e dei 5 Stelle contro i migranti e contro le Ong che soccorrono i naufraghi in mare. Si torna a scrivere dei taxi del mare, paragonando i naufraghi disperati ai signori turisti che girano in Mercedes per il centro di Roma. Noi, su questo giornale, lo abbiamo sempre scritto. Il nemico numero 1 dei migranti – nel senso del più vistoso, il più spettacolare – certo è Salvini. ma i nemici veri, quelli che colpiscono duro, sono soprattutto alcuni magistrati e poi i giornalisti che li sostengono e li incitano. Chi ha spazzato via le Ong dal Mediterraneo, rendendo impossibili moltissimi soccorsi e provocando l’aumento notevole del numero dei morti, sono state le iniziative giudiziarie, non Salvini. Lui ha chiuso i porti per un po’ di giorni, imponendo sofferenze supplementari e inutili ai profughi, ma non ha mai provocato la morte di nessuno. Anche per questo è un po’ ridicolo processarlo per sequestro di persona. Cosa si dovrebbe fare ai magistrati che hanno bloccato, in modo definitivo, i soccorsi? E anche ai governi di centrosinistra che -zitti zitti – li hanno ostacolati in tutti i modi? Il Fatto Quotidiano, ancora ieri, con l’editoriale del suo direttore, mette sotto accusa, sulla base della cieca fiducia nei magistrati inquirenti, grandi organizzazioni umanitarie come Msf e Save the Children. Oltre naturalmente a Mediterranea, che ha tra le sue colpe quella di avere come suo esponente Luca Casarini, pericolosissimo estremista di sinistra. Mediterranea è accusata di avere ricevuto una donazione da una compagnia privata. La tesi dell’accusa è che una Ong non finanziata dallo Stato (eppure lavora per supplire alle mancanze dello Stato) non debba ricevere finanziamenti ma vivere di aria, o magari di acqua. Msf e Save the children invece sono accusate di aver concordato con gli scafisti luogo e ora dei soccorsi. Nessuno dei magistrati (e neppure, ovviamente, il povero Travaglio, Pm di complemento ma ben agguerrito) si è occupato di informarsi su come funzionano le fughe dei disperati dalla Libia. Salpano sempre alla stessa ora, navigano sempre sulla stessa rotta. Incontrano sempre più o meno nella stessa zona di mare i rischi maggiori di naufragio. Tutti i naufragi, purtroppo assai frequenti, specie quando il mare è grosso, avvengono negli stessi luoghi. Voi pensate che un gruppo di persone che fanno i soccorritori debbano andare a navigare in quei luoghi o che invece debbano andare a nascondersi vicino a Marsala? Non serve un genio per capire queste cose. Basta un mozzo. Serve però la volontà di capirle. Le inchieste contro le Ong (sono inchieste contro le Ong, non sulle Ong) non hanno trovato ancora niente di concreto. Accuse fatte rimbalzare bene sui giornali. È quello che conta. Pensate, tra l’altro, che Msf è inquisita per tre salvataggi. Tre. In questi anni Msf ha compiuto 456 salvataggi portando al sicuro quasi 82mila persone. Se non fosse intervenuta diverse migliaia di loro sarebbero morte. Ha ottenuto vantaggi da questo lavoro? No, solo vagonate di fango. La campagna giudiziario-giornalistica contro le Ong che effetti ha? Che i soccorsi in mare diventano sempre più difficili. Rari. E molti naufraghi affogano. Ma a loro che gliene importa?

Sulle ong botte da orbi ​tra Travaglio e Lerner. Scontro tra Gad Lerner e Marco Travaglio sulla questione migranti, una discussione tutta a sinistra sull'evoluzione della questione Mediterranea. Francesca Galici - Sab, 13/03/2021 - su Il Giornale. Scontro tra Gad Lerner e Marco Travaglio sulle Ong dalle pagine de Il Fatto Quotidiano, diretto da quest'ultimo. Tutto nasce da un articolo del direttore del quotidiano, del quale Gad Lerner ha voluto contestare alcuni passaggi con una lunga lettera alla quale Travaglio ha deciso di rispondere a sua volta con una missiva, il tutto pubblicato sulle colonne de Il Fatto Quotidiano. "Caro Marco", esordisce Lerner, "quelli che 'attirano e incoraggiano il traffico di esseri umani' nel Mediterraneo non sono certo 'gli angeli delle Ong', come li hai apostrofati con sarcasmo degno di miglior causa nell'editoriale di ieri". Un inizio di impronta polemica per Gad Lerner, che non risparmia critiche al suo collega.

La lettera di Gad Lerner. "Aggiungi, bontà tua, che saresti disposto a concedere loro la grazia, purché la smettiamo di fare finta che i soccorritori del mare non commettano reati. Strano, di solito sai riconoscere i potenti che commettono gravi reati dai pesci piccoli che restano impigliati nella rete della giustizia", ha continuato Lerner. Una lettera dai toni polemici, nella quale Gad Lerner accusa il governo italiano e l'Unione europea di "omesso soccorso, in violazione del Diritto internazionale del Mare". Questo sarebbe il reato compiuto dai governi nazionali ed europei fin dal 2014, "da quando il governo Renzi stoppò l'operazione Mare Nostrum della nostra Marina militare. Semplicemente, hanno deciso di lasciar crepare i naufraghi, o di farli catturare dai libici". Solo in quel momento, per evitare il ritorno dei migranti in Libia che da lui è considerato un porto non sicuro, "cui segue la deportazione in campi di prigionia infami", sarebbero scese in campo le Ong. "Cercano di limitare i danni perpetrati da quelli che per davvero hanno 'attirato e incoraggiato il traffico di esseri umani': cioè i leader italiani ed europei che - interrompendo ogni canale di immigrazione legale (e controllata) - hanno regalato agli scafisti il monopolio sulle rotte mediterranee", ha asserito Gad Lerner. Il giornalista ha poi tirato in ballo il volume I sommersi e i salvati, di Primo Levi, e la cosiddetta "zona grigia" dove "tra vittime e carnefici s' instaurano relazioni in cui diviene complicato perfino separare il bene dal male". Il libro di Primo Levi è utile a Lerner per spiegare che "può darsi anche che gli armatori di Mediterranea abbiano impropriamente accettato denaro da una compagnia danese", ma "ciò non cambia di una virgola l'attribuzione delle colpe fra chi, pur dotato di flotta militare, si macchia di omesso soccorso, e chi si mobilita per salvare il maggior numero possibile di migranti". Per tale ragione, secondo il giornalista, "insinuare che vi siano Ong scese in mare a scopo di lucro è una bassezza che può compiacere solo i cercatori di un'impossibile giustificazione morale alla propria inadempienza". A fine lettera, Gad Lerner ha citato alcuni personaggi noti della storia che si sono macchiati di diversi reati pur di salvare gli ebrei durante la Seconda guerra mondiale.

La risposta di Marco Travaglio. Dello stesso tenore, ma in difesa delle sue idee e delle sue parole, la risposta di Marco Travaglio: "In questi anni si sono fronteggiati sull'argomento due opposti estremismi: Ong tutte criminali e Ong tutte sante, immigrati a casa loro e immigrati a casa nostra". Travaglio scrive nella sua lettera di aver cercato di stare sopra le parti e che per questo motivo è stato sempre insultato sia da una "fazione" che dall'altra. "Sull'arretramento da Mare Nostrum a Frontex siamo d'accordo: il Fatto lo scrive dal 2014. Ma i termini che usi denotano una visione troppo parziale e ingenua del fenomeno", attacca Travaglio, che non arretra di un passo: "Esistono alcuni operatori di alcune Ong che non "restano impigliati nella rete della giustizia": commettono reati magari minori, che però vanno perseguiti secondo le leggi dei loro Paesi, certo con pene meno severe di chi commette reati più gravi (infatti non ne risulta neppure uno in carcere)". A quel punto, Marco Travaglio ricorda al collega che i "canali di immigrazione controllata riguardano chi ha diritto di stabilirsi in Europa (per lavoro, per studio, perché rifugiato politico o di guerra), quindi escludono i 9/10 dei migranti sui barconi, irregolari da rimpatriare in base alle leggi Ue". Riconoscendo che salvare migranti "è una nobile missione", Marco Travaglio sottolinea però che "non c'entra nulla col mettersi d'accordo con gli scafisti per rilevare i loro carichi umani in un certo punto del Mediterraneo, far loro risparmiare natanti e carburante, metterli al riparo da indagini e arresti, caricarli a bordo per portarli in Italia travestiti da poveri migranti, non intervenire quando picchiano i passeggeri dopo averli depredati, non denunciarli dopo e restituire loro i gommoni". Questo non è stato escluso da Gad Lerner nella sua lettera, anzi, il giornalista non esclude che questo avvenga ma Marco Travaglio, rivolgendosi al collega, sostiene che "li nobiliti equiparandoli ai reati commessi nella Germania nazista e nell'Italia fascista da chi salvava gli ebrei dai lager. Argomento suggestivo, ma fallace". Il direttore de Il Fatto Quotidiano, infatti, sostiene che "per salvare migranti dal naufragio si possono, anzi si devono infrangere tutte le leggi del mondo; ma rilevare carichi di esseri umani da barca a barca non è salvare i migranti. È salvare gli scafisti, aiutarli e incoraggiarli nei loro sporchi traffici. Ed è peggio di un reato: è una vergogna".

Sulle Ong e gli scafisti Travaglio dà ragione alla destra e fa infuriare Lerner: “Vergogna”. Luca Maurelli sabato 13 Marzo 2021 su Il Secolo d'Italia. L’inchiesta sulla Ong Mediterranea, non la prima e neanche l’ultima sui viaggi dei “volontari” al centro degli scafisti, nella speranza di recuperare immigrati abbandonati in mare, è stata la goccia che ha fatto traboccare il Lerner. Le osservazioni di Marco Travaglio sul ruolo “complice” delle Organizzazioni di volontariato no profit che vanno per mare a fare del bene ma che finiscono per incentivare i traffici di clandestini – ragioni fatte proprie, da sempre, dalla destra italiana – non sono piaciute a Gad Lerner, che si è scagliato con acidità contro il direttore del “Fatto Quotidiano“, contestandogli alcuni affermazioni che lui ritiene scandalose. Una lite a sinistra, si direbbe. O forse solo una lite sinistra, inquietante, tra chi fa demagogia e chi si sforza di analizzare i fatti, anche a costo (si fa per dire) di dare ragione a Meloni e Salvini. “Caro Marco, quelli che attirano e incoraggiano il traffico di esseri umani nel Mediterraneo non sono certo gli angeli delle Ong, come li hai apostrofati con sarcasmo degno di miglior causa nell’editoriale di ieri. Aggiungi, bontà tua, che saresti disposto a concedere loro la grazia, purché la smettiamo di fare finta che i soccorritori del mare non commettano reati. Strano, di solito sai riconoscere i potenti che commettono gravi reati dai pesci piccoli che restano impigliati nella rete della giustizia…”.

Ecco l’incipit del durissimo l’attacco di Gad Lerner a Marco Travaglio, oggi, sul “Fatto Quotidiano”, il giorno dopo un articolo nel quale l’amico di sempre (amico, almeno a giudicare dalle foto di archivio) si era permesso di allinearsi alle posizioni della destra sull’uso strumentale che le Ong fanno del tema dell’immigrazione e dei danni collaterali, anche involontari, che arrecano al principio di legalità nella navigazione e nell’accoglienza degli immigrati. Lerner, da sinistra, infiocchetta il solito ragionamento buonista sulla necessità di salvare vite umane, senza entrare nel merito del problema: gli scafisti che fanno sponda, talvolta con complicità più o meno tacite, con le navi Ong, pronte a svolgere il ruolo di “taxi del mare”, come ebbe a dire (quando era alleato di Salvini) il grillino Luigi Di Maio. Una tesi sottoscritta anche da Travaglio, che infiamma Gad Lerner, che come al solito ne fa una questione ideologica: “Le navi delle Ong sono entrate in azione solo dopo che chi di dovere è venuto meno ai suoi doveri di salvataggio. Cercano di limitare i danni perpetrati da quelli che per davvero hanno ‘attirato e incoraggiato il traffico di esseri umani’ cioè i leader italiani ed europei che – interrompendo ogni canale di immigrazione legale (e controllata) – hanno regalato agli scafisti il monopolio sulle rotte mediterranee. Non si può invertire il carico delle responsabilità in questa che verrà ricordata come una colpa storica, una tragedia che segna anche l’abbassamento della nostra soglia morale…”. Rispetto alle inchieste, anche recenti, su Ong che hanno incassato soldi dagli armatori, Lerner fa la verginella, come sui rapporti incestuosi tra salvatori e aguzzini: “Non escludo affatto che ciò, in taluni casi, possa essere avvenuto nei rapporti fra volontari e scafisti. Anzi, mi stupirei del contrario. Può darsi anche che gli armatori di Mediterranea abbiano impropriamente accettato denaro da una compagnia danese. Ma ciò non cambia di una virgola l’attribuzione delle colpe fra chi, pur dotato di flotta militare, si macchia di omesso soccorso, e chi si mobilita per salvare il maggior numero possibile di migranti. Insinuare che vi siano Ong scese in mare a scopo di lucro è una bassezza che può compiacere solo i cercatori di un’impossibile giustificazione morale alla propria inadempienza…”. Durissima la replica di Travaglio: “Caro Gad, se gli intellettuali veri e presunti che hanno insultato, oltre a me, chiunque in questi anni abbia tentato un approccio laico e non fideistico-fanatico sull’immigrazione avessero usato i tuoi argomenti e toni, l’articolo dell’altroieri non l’avrei scritto. Perché sarebbe stato inutile. Invece era utile…”.  Ed ecco le accuse: “Salvare migranti è una nobile missione, ma non c’entra nulla col mettersi d’accordo con gli scafisti per rilevare i loro carichi umani in un certo punto del Mediterraneo, far loro risparmiare natanti e carburante, metterli al riparo da indagini e arresti, caricarli a bordo per portarli in Italia travestiti da poveri migranti, non intervenire quando picchiano i passeggeri dopo averli depredati, non denunciarli dopo e restituire loro i gommoni… salvare gli scafisti, aiutarli e incoraggiarli nei loro sporchi traffici. Ed è peggio di un reato: è una vergogna”.

Dal “Fatto quotidiano” il 13 marzo 2021. Caro Marco, quelli che "attirano e incoraggiano il traffico di esseri umani" nel Mediterraneo non sono certo "gli angeli delle Ong", come li hai apostrofati con sarcasmo degno di miglior causa nell'editoriale di ieri. Aggiungi, bontà tua, che saresti disposto a concedere loro la grazia, purché la smettiamo di fare finta che i soccorritori del mare non commettano reati. Strano, di solito sai riconoscere i potenti che commettono gravi reati dai pesci piccoli che restano impigliati nella rete della giustizia. L'omesso soccorso, in violazione del Diritto internazionale del Mare, è un crimine di cui si macchiano il governo italiano e la Ue almeno dal 2014, cioè da quando il governo Renzi stoppò l'operazione Mare Nostrum della nostra Marina militare. Semplicemente, hanno deciso di lasciar crepare i naufraghi, o di farli catturare dai libici. Infischiandosene che le Nazioni Unite definiscano "non sicuro" quell'approdo, cui segue la deportazione in campi di prigionia infami. Le navi delle Ong sono entrate in azione solo dopo che chi di dovere è venuto meno ai suoi doveri di salvataggio. Cercano di limitare i danni perpetrati da quelli che per davvero hanno "attirato e incoraggiato il traffico di esseri umani": cioè i leader italiani ed europei che - interrompendo ogni canale di immigrazione legale (e controllata) - hanno regalato agli scafisti il monopolio sulle rotte mediterranee. Non si può invertire il carico delle responsabilità in questa che verrà ricordata come una colpa storica, una tragedia che segna anche l'abbassamento della nostra soglia morale. Suppongo che tu abbia letto I sommersi e i salvati di Primo Levi e non ti sia ignota la sua scoperta della "zona grigia" dove, per esperienza vissuta, è stato costretto ad addentrarsi. Tra vittime e carnefici s' instaurano relazioni in cui diviene complicato perfino separare il bene dal male. Non escludo affatto che ciò, in taluni casi, possa essere avvenuto nei "rapporti fra volontari e scafisti". Anzi, mi stupirei del contrario. Può darsi anche che gli armatori di Mediterranea abbiano impropriamente accettato denaro da una compagnia danese. Ma ciò non cambia di una virgola l'attribuzione delle colpe fra chi, pur dotato di flotta militare, si macchia di omesso soccorso, e chi si mobilita per salvare il maggior numero possibile di migranti. Insinuare che vi siano Ong scese in mare a scopo di lucro è una bassezza che può compiacere solo i cercatori di un'impossibile giustificazione morale alla propria inadempienza. Vi sono frangenti in cui tocca sporcarsi le mani ed entrare in contatto col nemico. Forse conosci la tragica vicenda del leader sionista ungherese Rudolf Kastner che trattò direttamente con Eichmann la salvezza di 1.684 ebrei destinati ad Auschwitz in cambio di pietre preziose e di una forte somma di denaro. Per non parlare dei reati commessi da Oskar Schindler e da Giorgio Perlasca. A quale salvagente di legalità vorresti aggrapparti, quando a naufragare nel Mediterraneo è la nostra umanità? Gad Lerner

Risposta di Marco Travaglio. Caro Gad, se gli intellettuali veri e presunti che hanno insultato, oltre a me, chiunque in questi anni abbia tentato un approccio laico e non fideistico-fanatico sull'immigrazione avessero usato i tuoi argomenti e toni, l'articolo dell'altroieri non l'avrei scritto. Perché sarebbe stato inutile. Invece era utile perché in questi anni si sono fronteggiati sull'argomento due opposti estremismi: Ong tutte criminali e Ong tutte sante, immigrati a casa loro e immigrati a casa nostra. Io le ho sempre rifuggite entrambe, cercando di distinguere alla luce della realtà e del realismo, e mi sono beccato del buonista dai fanatici del primo tipo e del razzista da quelli del secondo. Sull'arretramento da Mare Nostrum a Frontex siamo d'accordo: il Fatto lo scrive dal 2014. Ma i termini che usi denotano una visione troppo parziale e ingenua del fenomeno. So bene che sulle Ong non ci sono "potenti che commettono gravi reati". Però esistono alcuni operatori di alcune Ong che non "restano impigliati nella rete della giustizia": commettono reati magari minori, che però vanno perseguiti secondo le leggi dei loro Paesi, certo con pene meno severe di chi commette reati più gravi (infatti non ne risulta neppure uno in carcere). I "canali di immigrazione controllata" riguardano chi ha diritto di stabilirsi in Europa (per lavoro, per studio, perché rifugiato politico o di guerra), quindi escludono i 9/10 dei migranti sui barconi, irregolari da rimpatriare in base alle leggi Ue. "Salvare migranti" è una nobile missione, ma non c'entra nulla col mettersi d'accordo con gli scafisti per rilevare i loro carichi umani in un certo punto del Mediterraneo, far loro risparmiare natanti e carburante, metterli al riparo da indagini e arresti, caricarli a bordo per portarli in Italia travestiti da poveri migranti, non intervenire quando picchiano i passeggeri dopo averli depredati, non denunciarli dopo e restituire loro i gommoni. Che ciò avvenisse, da parte di alcune Ong, lo disse il pm Zuccaro in Parlamento e fu linciato. Così come Minniti e chiunque osasse dire quelle fastidiose verità: un muro di gomma di negazionismi e scomuniche, a dispetto di foto, filmati, intercettazioni, satelliti, testimonianze. Ora tu "non escludi affatto" i "rapporti tra volontari e scafisti" (ti prego di informarne i vari Manconi&C. che li negano pervicacemente da anni). Ma li nobiliti equiparandoli ai reati commessi nella Germania nazista e nell'Italia fascista da chi salvava gli ebrei dai lager. Argomento suggestivo, ma fallace. Mussolini e Hitler sono fortunatamente morti e con loro le leggi razziali. Non solo: per salvare migranti dal naufragio si possono, anzi si devono infrangere tutte le leggi del mondo; ma rilevare carichi di esseri umani da barca a barca non è salvare i migranti. È salvare gli scafisti, aiutarli e incoraggiarli nei loro sporchi traffici. Ed è peggio di un reato: è una vergogna. Marco Travaglio.

Ong, immigrati pestati dagli scafisti. L'intercettazione del volontario: "Io non faccio la spia". Renato Farina su Libero Quotidiano il 09 marzo 2021. Invano il mio amico C. R. aveva testimoniato l'orrore dei traffici umanitari. Titolare di una società specializzata in sicurezza marittima era stato ingaggiato in questa veste da compagnie ong impegnate nel soccorrere naufraghi davanti alle coste libiche.Ci sono stati salvataggi autentici, certo. In molti casi però ha verificato l'esistenza di un patto tra gli scafisti cattivi e i loro complici buoni per definizione, in quanto "umanitari". Tra loro era un classico l'appuntamento per il trasbordo dei migranti da canotti pensati proprio per un naufragio a orologeria con soccorso incluso. Tutto previsto nel pacchetto pagato dai profughi e/o clandestini. Favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, si dirà. Certo. E tutto questo non è niente rispetto a una prassi schiavistica accettata e protetta da un'omertà utile al protrarsi dell'affare umanitario. Le foto ieri pubblicate da Repubblica, prese dal fascicolo d'indagine dei pm di Trapani, trasferiscono la nostra mente ai sussidiari delle elementari dove si raccontava della frusta e del latrato di cani nelle piantagioni di cotone in Alabama prima della guerra di secessione. C'erano le illustrazioni. Le schiene nude rigate dalle cicatrici. Queste foto sono invece di pochi anni fa. Canale di Sicilia. Vi si vede uno scafista - che non è sinonimo di tassista abusivo come sosteneva Emma Bonino ma di negriero - che ha organizzato il viaggio dai porti della Tripolitania verso la nave "Vos Hestia". Costui con il ghigno di un attore da film di Tarantino usa il bastone di ferro giallo e la cinghia di pelle per infierire sui suoi sciagurati clienti, che hanno versato migliaia di dollari per essere trattati da bestie. Un razzismo violento salvaguardato con il silenzio e il ricatto da mascalzoni che poi vanno dal Papa a farsi benedire come buoni samaritani del XXI secolo. C.R. aveva visto, aveva chiesto che i suoi datori di lavoro denunciassero lo scafista torturatore. Niente da fare. Il carnefice arriva gongolante e sicuro a riva, ha il suo bello zaino, ripulito e fresco eccolo sulla banchina del porto di Reggio Calabria: ripartirà tranquillo per rifornire le navi della provvidenza, così splendidamente affidabili per i criminali, con altro bestiame dotato di anima. Ma ce l'hanno un'anima i "salvatori"? Forse sì, ma è un'anima razzista. Pur di farsi mettere in testa l'aureola di eroi chiudono occhi, orecchie e bocca sui maltrattamenti di creature inermi. Altrimenti finisce il businnes. C. R. ha denunciato tutto. Ha perso l'appalto, gli armatori delle Ong anche se la sua ditta è la migliore, non lo vogliono più, perché ha posto come condizione la trasparenza e la legalità. Ha dato questa testimonianza nel libro di Massimo Polledri "I misteri del Mediterraneo". Il libro inchiesta sulle Ong, edito da Rubbettino e con la prefazione di Vittorio Feltri. Ora nelle carte dei pm siciliani compaiono intercettazioni desolanti. «Ti ho detto seimila volte che non ho il ruolo di fare la spia». Riferendosi a C.R.: «Appena torna lo scemo vedo cosa vuole fare, altrimenti lo mando a fare in culo dicendogli: "Vedi dove te ne devi andare, ti vuoi stare zitto o te ne vai"». Se n'è andato. In Procura. Diciamolo. Finché queste cose le ha scritte un Polledri, con il torto di essere stato senatore della Lega, e le riferisce Libero, non succede nulla. C'è un razzismo inesorabile che delegittima nel mainstream chi non appartiene al coro delle voci rosse o bianche. Per fortuna la Procura di Trapani ha lavorato, e Repubblica ha esibito le pistole fumanti, grazie a Salvo Palazzolo. Vedremo a processo se saranno smontate dalla difesa. Intanto siamo felici che il quotidiano degli Agnelli non abbia censurato una realtà assai scomoda per i migrazionisti dei quartieri alti. Et voilà. Si alza il sipario sull'ipocrisia assassina di certi benefattori dei migranti. Magari fosse un sipario, è un sudario. Ci sono le impronte del sangue di tanti povericristi. Sono neri, anzi fratelli, per usare il linguaggio dei loro aguzzini dal dolce e salvifico sguardo. Stiamo parlando dei comandanti e dei capi missione di svariate navi Ong (non tutte, almeno si spera). Sono coinvolti marchi prestigiosi in corsa per il Nobel della pace, quali "Save the Children" e "Medici senza frontiere". Sapevamo avessero trasferito in Italia molti presunti profughi, il più delle volte clandestini, ma non è questo il punto. Siano degni di asilo oppure no, qui non è questione. Il fatto è che sono persone. Invece in certi casi - lungi dal trascinarli fuori dai gorghi per amore - li hanno ricevuti dai negrieri, loro sì fratelli, come le bande di rapitori fanno con gli ostaggi.

Immigrazione, Save The Children nel mirino della Procura di Trapani: "Hanno coperto lo scafista che pestava i migranti". Libero Quotidiano l'08 marzo 2021. Si mette male per Save The Children. La Procura di Trapani muove l'accusa di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e falso contro la ong. A mettere sul piede di guerra i pm alcune foto scattate di nascosto da un agente sotto copertura, che nel 2017 ha finto di essere un volontario. Le immagini mostrano uno scafista picchiare i migranti con una cintura, davanti ad alcuni volontari della nave "Vos Hestia". Qui si vede l'uomo con in mano un tubo di ferro giallo, dal quale un giovane a bordo si ripara il volto. Tutta ha avuto inizio quattro anni fa quando il comandante di "Vos Hestia", Marco Amato, - ricorda Repubblica - non diede alcuna informazione alla polizia sugli scafisti. "Ti ho detto sei mila volte che io a bordo ho altri ruoli e non quello di fare la spia o l'investigatore", diceva innervosito a un suo collaboratore. E ancora: "Appena torna lo scemo vedo cosa vuole fare, altrimenti lo mando a fare in c**o dicendogli: 'Vedi dove te ne devi andare, vai a mangiare a casa, ti vuoi stare zitto o te ne vai siamo partiti già male'". Il riferimento è all'uomo che aveva indicato alla polizia due scafisti. Amato che non fa parte di Save the Children, era il comandante di un'imbarcazione affittata dalla ong e per questo è diventato uno dei protagonisti della vicenda. "È evidente che Amato fosse a conoscenza di quanto commesso in pregiudizio dei migranti. Ma nessuna segnalazione è stata fatta alle autorità di polizia presenti allo sbarco, né sui giornali di bordo", è il commento della polizia nel rapporto alla procura, firmato anche dalla Guardia Costiera. In sostanza il comandante avrebbe chiuso un occhio per portare a termine l'operazione di salvataggio. Nel mirino dei magistrati anche la nave "Vos Hestia", "Vos Prudence" e "Iuventa". In particolare sono 21 le persone sottoposte alle indagini.

Svolta Lamorgese: ammette i trucchi Ong sui migranti. La testimonianza al processo contro Salvini: "Stazionano per giorni nelle acque libiche per caricare più persone possibile". Chiara Giannini - Lun, 08/03/2021 - su Il Giornale. Il ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese, ha svelato il trucchetto delle navi Ong, che vanno di fronte alle coste libiche, recuperano i migranti e poi aspettano altri carichi prima di ripartire alla volta dell'Italia e chiedere un porto sicuro di sbarco. La rivelazione della titolare del Viminale è contenuta nella trascrizione della sua testimonianza al processo contro l'ex ministro Matteo Salvini, accusato di sequestro di persona per il caso Gregoretti, al tribunale di Catania. Nelle carte si legge che, rispondendo al pubblico ministero, la Lamorgese chiarisce: «Le navi che vanno a fare soccorso in acque Sar libiche non è che ogni volta che fanno un soccorso tornano immediatamente indietro. Tante volte, con dei soccorsi effettuati, si fermano nelle aree, diciamo libiche, anche tre, quattro giorni in attesa poi di recuperare il più possibile quelli che sono in difficoltà. Quindi - dice ancora - vuol dire che sono delle navi che comunque sia hanno la possibilità di stare ferme con delle persone appena recuperate in acqua. Di farle stare sulle imbarcazioni anche per quattro, cinque giorni, perché loro chiedono il Pos (place of safety) quando hanno l'imbarcazione piena e poi ritornano». E prosegue: «Quindi chiedono il Pos con la procedura che ho detto, prima nelle acque Sar libiche, poi Malta e poi l'Italia. Se fossero in condizioni di non poter stare, allora appena recuperati dovrebbero immediatamente venire, avvicinarsi verso Paesi che sono sicuri, tipo Malta e l'Italia e non sempre è così perché talora rimangono anche più giorni». Insomma, la titolare del Viminale per la prima volta ammette pubblicamente che le navi Ong non sono altro che taxi del mare, che non recuperano naufraghi, ma immigrati clandestini, permanendo giorni e giorni in acque Sar libiche per fare tranquillamente il loro carico. D'altronde, è ormai provato dalle varie inchieste aperte che i migranti partono solo quando di fronte alle coste della Tripolitania ci sono le imbarcazioni del soccorso. La Lamorgese ha dato un'altra risposta che costituisce un assist a Salvini. Il giudice le chiede: «Secondo lei qual è la differenza fra il caso Diciotti, Gregoretti e l'Ocen Viking»? E lei risponde: «Ogni volta che c'è uno sbarco sicuramente ci sono delle difficoltà che affrontano tutti gli uffici. Oggi noi seguiamo una linea che è quella, perché all'epoca, nel 2018, fu fatto il decreto Sicurezza, di blocco della possibilità di interdizione del porto che è stato poi effettivamente utilizzato. Ma in effetti, poi, se vogliamo, nonostante ci fosse il decreto di interdizione, sostanzialmente tutte le volte regolarmente sono scesi, perché c'è anche da dire che quando arrivano poi sulle nostre coste dobbiamo iniziare tutta la procedura della redistribuzione, rapporti con l'Europa e quant'altro. Su questo non c'è dubbio». «Quindi - le dice ancora il giudice - non trova una differenza sostanziale in questi tre casi»? E il ministro risponde: «Alla fine il risultato è stato, diciamo, più o meno analogo a quello precedente, perché questo va detto, anche se con motivazioni diverse». Ma anche il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, chiamato a testimoniare, dà una versione dei fatti che aiuta Salvini. Parlando del caso Gregoretti ammette che «di solito, quando c'era un momento di criticità nel governo, a questo corrispondeva sempre un momento politico a tre, di solito o addirittura a due, in alcuni casi tra i due vicepremier e il presidente del Consiglio in cui si cercava la soluzione per lo sbarco». Quindi, per Di Maio la soluzione di non far scendere i migranti fu presa di comune accordo con l'allora premier Giuseppe Conte. E chiarisce che anche in quel caso «potrebbe esserci stata una condivisione politica». E sulla redistribuzione dei migranti di quel periodo ammette: «Ci sono tante mie dichiarazioni pubbliche su questo. Il principio era quello di provocare il meccanismo della redistribuzione e di questo si trova traccia da più parti sia del ministro Toninelli, ma anche mia».

Ong sotto attacco, le procure indagano per favoreggiamento. Per le Procure, i salvataggi dei disperati che attraversano il Mediterraneo avverrebbero a seguito di cospicui pagamenti. Ma gli elementi a supporto di tali tesi scarseggiano. Simona Musco su Il Dubbio venerdì 5 marzo 2021. Sembra di fare un tuffo nel passato. A quando, per intenderci, le ong venivano viste come il male assoluto. L’ultimo capitolo della guerra alla solidarietà è quello scritto dalla procura di Ragusa, che ha deciso di indagare su quanto accadde nel Mediterraneo l’ 11 settembre scorso. Ma non per chiarire come sia stato possibile tenere la vita di 27 persone sospesa per più di un mese, dopo il terrore di un viaggio verso la salvezza. Ma per criminalizzare chi quelle persone le ha portate in salvo, a dispetto di leggi ciniche e contraddittorie. La procura ha iscritto sul registro degli indagati l’ex assessore di Venezia Beppe Caccia, l’attivista Luca Casarini, il regista Alessandro Metz e il comandante Pietro Marrone, destinatari di un decreto di perquisizione e sequestro, con l’accusa, a vario titolo, di trasferimento dei migranti dalla nave Etienne Maersk alla ong Mare Jonio, sulla base di un «accordo commerciale» tra le società armatrici. La vicenda riguarda il soccorso di quei naufraghi rimasti bloccati per 38 giorni in mezzo al mare tra Malta e Lampedusa, a bordo della portacontainer che li aveva tratti in salvo. Un abbandono ribattezzato la “vergogna d’Europa”. Gli atti d’accusa sono poco chiari. In attesa di avere pieno accesso agli atti, spiega Serena Romano, difensore di Mediterranea Saving Humans, ciò su cui ci si può basare sono dei brogliacci, utilizzati dai pm per contestare un passaggio di denaro che, in teoria, costituirebbe l’aggravante del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ma che in realtà rappresenta il centro dell’accusa. «L’accusa di favoreggiamento spiega Romano al Dubbio – viene affrontata solo nelle pagine finali, dando per scontato il reato, ma non si comprende sulla base di quali elementi, dal momento che l’ingresso dei migranti in Italia è avvenuto sulla base dell’assegnazione del pos ( Place of safety, ndr) da parte delle autorità. Mi chiedo, data questa premessa, come sia configurabile il reato, dal momento che nel decreto di perquisizione e sequestro non viene indicato». Il decreto, infatti, si focalizza interamente sul presunto accordo economico, del quale comunque, spiega ancora Romano, «non c’è prova». La procura di Ragusa, guidata da Fabio D’Anna, si affida infatti ai tabulati telefonici e non alle intercettazioni, che sono successive al salvataggio dei migranti. La procura individua un numero di telefono danese, contattato da Caccia tra l’ 8 e l’ 11 settembre, senza individuarne, però, l’intestatario. L’assunto della procura è che quel numero sia riconducibile alla Etienne Maersk, per una pura questione di bandiera. Ma quel numero, in realtà, è riconducibile alla Danish Shipping, organizzazione che raggruppa oltre 90 armatori e società offshore. Il quadro descritto dalla procura è dunque incerto: il teorema è basato su un presunto profitto legato al salvataggio dei migranti, «che sappiamo essere aggravante del favoreggiamento – spiega ancora Romano -, ma non punto costitutivo. Ma chi ci dice che c’è stato favoreggiamento? Questo dato, nel decreto, non emerge». Così come non vengono affrontate, in nessun passaggio, le condizioni dei migranti salvati dall’ong Mare Jonio. «Si tratta di elementi assolutamente non secondari per contestare il reato – spiega ancora Romano -. Si trattava di persone in condizioni di vulnerabilità estrema, provenienti da Eritrea, Sudan, Ciad, quindi tutti potenziali richiedenti asilo, che avevano attraversato la Libia, dove è noto che i migranti vengono seviziati e torturati in veri e propri campi di concentramento. I segni di violenza sui loro corpi erano evidenti e non si può pensare che abbiano trascorso in condizioni di sicurezza più di un mese sul ponte di una petroliera, senza assistenza medica e dopo un viaggio così traumatico. Ci sono stati ben tre tentativi di suicidio: non si trattava di certo di una crociera». La difesa della ong presenterà, nei prossimi giorni, istanza di Riesame. «Speriamo di avere un quadro più chiaro attraverso una visione completa del fascicolo – ha aggiunto Romano – per poter evidenziare quelli che, già adesso, appaiono come macroscopici errori». La procura, dal canto suo, contesta l’esistenza di un bonifico di 125mila euro da parte della Etienne Maersk a favore della Mediterranea, «una donazione», si legge in una nota a firma di Kis Soegaard, portavoce della compagnia danese di navigazione. «Mesi dopo l’operazione di salvataggio ( a novembre, ndr), Maersk Tankers ha incontrato i rappresentanti di Mediterranea per ringraziarli della loro assistenza umanitaria. In seguito a questo incontro, abbiamo deciso di dare un contributo di 125 mila euro a Mediterranea per coprire alcuni dei costi sostenuti in seguito all’operazione». La compagnia, ad oggi, non è stata contattata dalla procura di Ragusa, un altro punto oscuro dell’intera vicenda, secondo l’avvocato Romano. «Il 5 agosto 2020 l’equipaggio della Maersk Etienne – ha spiegato la compagnia danese – ha salvato 27 persone in difficoltà in mare su richiesta delle autorità maltesi. Una volta tratti in salvo, migranti ed equipaggio sono stati lasciati in situazione di stand- off per un periodo senza precedenti: 38 giorni, senza che nessuna autorità fosse disposta a permettere alla nave di fare scalo né autorizzasse lo sbarco sicuro delle persone salvate. Dopo diverse richieste di assistenza rimaste senza risposta, la situazione è diventata terribile dal punto di vista umanitario». Mediterranea, dopo una valutazione sanitaria effettuata dal proprio team medico, ha quindi trasferito le persone a bordo della propria nave. «Era una situazione umanitaria – continua la nota di Soegaard – e vogliamo chiarire che in nessun momento prima o durante l’operazione è stato discusso o concordato un compenso o un sostegno finanziario». Il contributo di 125 mila euro, da parte della società danese, è stato versato alla ong «mesi dopo». Ma quella della Mare Jonio non è l’unica vicenda giudiziaria che riguarda l’accoglienza. L’avvocato Romano non vuole sbilanciarsi. «Ma non posso fare a meno di osservare una serie di notizie simili, in questi giorni, relative a procedimenti aperti, a vario titolo, in diverse città d’italia sull’accoglienza», commenta. Mercoledì, Medici senza frontiere ha ricevuto un avviso di conclusione delle indagini per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina insieme ad altre navi umanitarie, e dal gup di Catania la decisione di rinvio a giudizio per traffico illecito di rifiuti. «Si apre un altro lungo periodo di fango e di sospetti sull’operato delle organizzazioni in mare, insieme all’ennesimo inaccettabile attacco al diritto al soccorso», ha commentato Msf. «Le decisioni della magistratura, arrivate a poche ore di distanza, allungano l’elenco dei numerosi tentativi di criminalizzare il soccorso in mare, che a oggi non hanno confermato alcuna accusa, ma che insieme alle ciniche politiche dell’Italia e dell’Europa hanno pericolosamente indebolito la capacità di soccorso nel Mediterraneo centrale, al drammatico costo di migliaia di vite umane».

Immigrazione, la procura di Ragusa indaga sulla Ong Mare Jonio: "Soldi in cambio del trasbordo di migranti". Libero Quotidiano l'01 marzo 2021. Soldi in cambio del trasbordo. È questa l'accusa ipotizzata alla Mare Jonio, la nave operante per conto della ong Mediterranea saving humans. I fatti risalgono all'12 settembre scorso quando 27 migranti, dalla nave danese Maersk Etienne che li aveva soccorsi 37 giorni prima, sono saliti sulla Mare Jonio. Secondo la Procura di Ragusa il trasbordo sarebbe avvenuto "dopo la conclusione di un accordo di natura commerciale tra le società armatrici delle due navi, in virtù del quale" quella "della Mare Jonio ha percepito un'ingente somma quale corrispettivo". Al momento sono quattro le persone indagate, tra soci, dipendenti o amministratori, di fatto o di diritto, della società proprietaria ed armatrice del rimorchiatore Mare Jonio. Nell'inchiesta che ipotizza i reati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e di violazione alle norme del codice della navigazione, la Procura ha disposto perquisizioni a Trieste, Venezia, Palermo, Bologna, Lapedona (FM), Mazara Del Vallo (TP), Montedinove (Ap) e Augusta (SR). L'obiettivo è quello di "ricercare ed acquisire ogni elemento documentale e/o su supporto elettronico utile a comprovare i rapporti tra gli indagati e tra essi e la società danese armatrice della Maersk Etienne, nonché di eventuali altre società armatoriali". Fino ad ora le indagini hanno fatto "emergere che il trasbordo dei migranti effettuato dall’equipaggio della Mere Jonio" sarebbe avvenuto "senza nessun preventivo raccordo con le autorità maltesi, competenti per l’evento Sar, o con quelle italiane ed apparentemente giustificato da una situazione emergenziale di natura sanitaria, "documentata" da un report medico stilato dal team di soccorritori imbarcatosi illegittimamente a bordo del rimorchiatore". La motonave danese era infatti in attesa di un porto sicuro dopo un evento Sar disposto da Malta. Tutti dettagli che generano sospetti su come siano andate davvero le cose.

Val. Err. per "il Messaggero" il 2 marzo 2021. L' accusa è gravissima e a supportarla, secondo la procura di Ragusa, ci sarebbero intercettazioni e verifiche finanziarie: soldi per prendere a bordo migranti. La vicenda riguarda i 27 naufraghi soccorsi in mare lo scorso agosto dal cargo danese Maersk Etienne. Dopo 37 giorni, l' armatore avrebbe pagato «un'ingente somma» per cedere il carico e riprendere l' attività commerciale. Dall' altra parte a incassare ci sarebbero stati quelli della Nave Jonio, il rimorchiatore che operava soccorsi in mare per conto della Mediterranea saving humans. È l'accusa mossa dalla Procura di Ragusa che vede indagati, per favoreggiamento dell' immigrazione clandestina e violazione del codice della navigazione l'ex disobbediente Luca Casarini, capo missione durante il salvataggio, l'ex assessore comunale di Venezia Beppe Caccia, il regista Alessandro Metz e il comandante Pietro Marrone, al timone durante l' episodio contestato. Sono coinvolti per il loro ruolo con la Mare Jonio, gestita dalla compagnia armatoriale Idra social shipping. La Ong, che è estranea all' indagine, si difende e parla di un teorema giudiziario, ma intanto il procuratore Fabio D' Anna ha disposto le perquisizioni.

LA VICENDA. All' inchiesta lavora un gruppo interforze, composto da personale della guardia di finanza, della squadra mobile e della capitaneria di porto, che ieri mattina ha eseguito perquisizioni e sequestri nei confronti della società armatrice del rimorchiatore e nei confronti dei quattro indagati, a Trieste, Venezia, Palermo, Mazara del Vallo, nel Trapanese, Augusta, nel Siracusano, Bologna, Lapedona e Montedinove, nelle Marche. Obiettivo, «ricercare ed acquisire ogni elemento» che sia «utile a comprovare i rapporti tra gli indagati e la Maersk Etienne, e con eventuali altre società armatoriali». Al centro dell' inchiesta lo sbarco, nel porto di Pozzallo di 27 migranti, avvenuto il 12 settembre del 2020. I profughi arrivati a bordo della Mare Jonio erano stati trasbordati sul rimorchiatore il giorno prima dalla Maersk Etienne, dove si trovavano da 37 giorni, in attesa di assegnazione di un porto sicuro dopo un evento Sar disposto da Malta. La nave aveva atteso a lungo indicazioni senza riceverne e invece, in 24 ore, la Mare Jonio aveva ottenuto il Pos. Durante i controlli di routine, dopo lo sbarco a Pozzallo, la polizia si era insospettita per i contatti avvenuti nei giorni precedenti tra le due navi. Così sono partite le indagini.

LE ACCUSE. Per la Procura di Ragusa, che sottolinea di avere in mano «intercettazioni telefoniche, indagini finanziarie e riscontri documentali», è «emerso che il trasbordo dei migranti» è avvenuto «senza nessun raccordo con le autorità» maltesi e italiane e «apparentemente giustificato da una situazione emergenziale di natura sanitaria, documentata da un report medico stilato dal team di soccorritori imbarcatosi illegittimamente sul rimorchiatore». Non solo: l' accusa più grave mossa dalla Procura, è che il trasbordo sia stato «effettuato solo dopo la conclusione di un accordo di natura commerciale tra le società armatrici delle due navi», con «la Mare Jonio che ha percepito un' ingente somma quale corrispettivo per il servizio reso». Un' inchiesta avviata dopo lo sbarco e che, spiega il procuratore D'Anna, non riguarda la gestione delle Ong nei soccorsi in mare, ma «soltanto un episodio in cui sono coinvolte due società commerciali». Sulla vicenda è intervenuto il leader della Lega, Matteo Salvini, annunciando che chiederà «un incontro urgente al Presidente del Consiglio e al ministro dell' Interno». Sulla stessa linea Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d' Italia.

Felice Cavallaro per il "Corriere della Sera" il 2 marzo 2021. «Ho dovuto procurarmi un nuovo telefono, ma non posso chiamare nessuno perché mi hanno sequestrato pure i computer. Hanno rivoltato casa...». Luca Casarini, 53 anni, lo stesso ciuffo dei suoi vent'anni, radici a Mestre, diplomato a Padova, antagonista svezzato a Porto Marghera, da sempre leader dei disobbedienti e cittadino del mondo, parla dal suo ultimo domicilio, Palermo, dove ha messo radici da tempo. A due passi dalla Cala, il porto vecchio. Di fronte alla Guardia costiera che indaga, come Digos e Finanza, su ordine della Procura di Ragusa.

Hanno attraversato la strada?

«Un blitz interforze», racconta ironico. «Tutti a cercare le prove di una macchinazione, di un teorema applicato al soccorso in mare».

Un teorema? Guardi che l'accusa e di avere intascato quattrini.

«Se avessero trovato i quattrini ci avrebbero arrestati tutti. Non c'è niente. Non hanno niente nelle mani e rivoltano tutto per cercare una cosa che non esiste».

Hanno le intercettazioni.

«Parole. Niente fatti. Arrivano a dire che la compagnia armatoriale è una associazione criminale dedita all'attività per lucro e che per fare questo si è inventata la nostra associazione, la "Mediterranea". È solo un modo per cercare di infangarmi. È un'operazione tipo Mimmo Lucano».

A parte l' ingiusto arresto del sindaco di Riace, qualche dubbio sulla gestione delle Ong nel Mediterraneo è condiviso da altre Procure.

«Ci sono Procure coraggiose come Agrigento e Roma. E ci sono piccoli procuratori come succede a Ragusa. Ma vi rendete conto che presentano quel trasbordo di settembre come una operazione oscura, mentre si fece tutto alla luce del sole dopo la vergogna dei 38 giorni fatti passare ai migranti su una portacontainer perché nessuno li voleva?».

Non li voleva Malta.

«Sì, spettava a Malta accoglierli. Una vergogna. Ma quando è finalmente intervenuta la Mare Jonio è stato il governo italiano a dirci di approdare a Pozzallo».

Lei è certo che non ci sia stata una dazione di denaro e una richiesta da parte della «Idra social shipping», l' armatore della vostra nave?

«È una macchina del fango vista tante volte. La società non ha mai fatto nulla di illegale».

Quale sarebbe l' obiettivo della presunta «macchinazione»?

«La Mare Jonio è a Venezia, in cantiere. Si sa che stiamo preparando un' altra nave. E non dico dove altrimenti la sequestrano. Sanno che stiamo per uscire in mare e vogliono bloccarci».

Salvini ha chiesto a Draghi e Lamorgese un incontro urgente...

«Per difenderci, immagino. A noi interessano i governi. A settembre parlammo di gigantesca violazione delle convenzioni internazionali e non ci curavamo di capire se era Conte uno o Conte due. Per noi non esistono governi amici. Un po' tutti considerano dei pacchi gli esseri umani. I governi mutano, noi facciamo la stessa cosa con tutti».

Cosa risponde a chi sospetta comunque un business?

«Non è la prima insinuazione. Ogni tanto per essere sicuro che non abbiano ragione guardo il mio conto in banca e mi accorgo di essere povero come prima. Se controllassero sarebbe più difficile infangare. Il vero business sta da un' altra parte».

Dove sta?

«Nei 767 milioni elargiti all' autorità libica. Non li usano per salvare i migranti. Potrebbero farlo regolarmente. Attivando canali legali. Ecco, il business è di chi costringe i migranti a imbarcarsi su carrette e gommoni. Con fiumi di denaro che finiscono alle piccole milizie o foraggiano trattative fra Stati per bloccare i migranti nei lager».

Andrea Priante per corriere.it il 3 marzo 2021. Quanto può valere il «favore» di una Ong che si prende carico di una trentina di migranti che, da oltre un mese, bloccano al largo di Malta una nave mercantile? Secondo la procura di Ragusa, 125 mila euro. È quanto avrebbe intascato la Idra Social Shipping Srl, la società armatrice della Mare Jonio, la nave «veneta» specializzata nel salvataggio di profughi nel Mediterraneo. Ed è proprio seguendo i soldi (che per altro nessuno dei protagonisti ha mai tentato di nascondere) che gli investigatori siciliani sono arrivati a ipotizzare il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina aggravato dallo scopo di profitto. Nel registro degli indagati sono finiti, oltre al comandante Pietro Marrone, anche l’ex leader dei Disobbedienti veneti Luca Casarini, e il suo compagno di mille battaglie (ed ex consigliere comunale a Venezia) Beppe Caccia.

La vicenda. La vicenda è quella del trasbordo dei 27 migranti che per 37 giorni erano rimasti bloccati sulla Maersk Etienne, il mercantile danese che li aveva soccorsi in acque maltesi. E proprio Malta negava lo sbarco. Per questo, l’11 settembre 2020 era arrivata in soccorso la Mare Jonio - che fa capo a una Ong, la Mediterranea Saving Humans - la quale prese in consegna i profughi e fece rotta verso la Sicilia, sbarcandoli a Pozzallo il giorno successivo, tra molte polemiche. La procura di Ragusa ha scoperto che all’incirca due mesi dopo, il 30 novembre, su un conto corrente della Idra è arrivato un bonifico di 125 mila euro riconducibile proprio alla società danese. Da qui il sospetto che, pur di sbloccare il proprio mercantile - «impantanato» per ben cinque settimane a causa della linea anti-profughi di Malta - l’armatore abbia accettato di pagare una media di 4.600 euro per ogni migrante consegnato alla Mare Jonio. L’avvocato Serena Romano, che assieme al collega Fabio Lanfranco difende gli indagati, non nega il versamento ma respinge la ricostruzione fatta dagli investigatori: «Quel bonifico non è un corrispettivo per il trasbordo dei migranti né è frutto di alcun accordo economico, ma è stato semplicemente erogato in applicazione della convenzione di Londra, per supportare le attività di salvataggio e soccorso». Insomma, quei 125 mila euro sarebbero un versamento fatto dalla società della Maersk Etienne agli «amici» italiani, così come previsto dalle norme internazionali. Nient’altro. La procura vuole capire che fine abbiano fatto quei soldi e anche per questo lunedì sono scattate le perquisizioni.

L’ordinanza. Nelle oltre quaranta pagine di ordinanza, il procuratore capo di Ragusa, Fabio D’Anna, mette insieme altre prove raccolte nel corso delle indagini. Dalle intercettazioni emergerebbero «intese del tutto probabilmente intercorse ben prima che la Mare Jonio risolvesse di riprendere il mare muovendosi dal porto di Licata per una destinazione (Lampedusa) in modo da poter condursi presso la Maersk Etienne e operare il trasbordo dei migranti che venivano trasportati al porto di Pozzallo». Insomma, si sarebbero accordati prima ancora di accendere i motori e iniziare le operazioni di soccorso. A condurre la presunta trattativa sarebbero stati Casarini e Caccia. Al primo, la procura attribuisce una «posizione apicale nella gestione della Mare Jonio, benché sulla carta figuri quale mero dipendente di Idra». Si sarebbe «costantemente mosso su di un piano paritario rispetto a Beppe Caccia, assieme al quale ha diretto e coordinato tutti i principali processi decisionali, agendo quale amministratore di fatto della ditta armatrice oltre che come principale ispiratore delle politiche perseguite da Mediterranea Saving Humans». Da qui, la magistratura arriva a definire «del tutto plausibile» che Casarini e Caccia «tra l’8 e il 10 settembre 2020 abbiano concordato con i dirigenti della Maersk di provvedere, dietro compenso, all’effettivo trasbordo dei 27 migranti».

Fabio Tonacci per "la Repubblica" il 4 marzo 2021. L'inchiesta della procura di Ragusa che contesta agli armatori della Mare Jonio l'accusa peggiore per chi fa della solidarietà la propria ragione di essere - aver portato illegalmente in Italia 27 migranti, trasbordati dal mercantile Maersk Etienne l'11 settembre scorso, "col fine di trarre un profitto di 125.000 euro" - comincia a svelare le proprie carte. E a suscitare le perplessità non solo degli indagati, ma anche della compagnia danese coinvolta. Il decreto di perquisizione firmato dal procuratore capo Fabio D'Anna e dal sostituto Santo Fornasier, riporta i capi di imputazione a carico di Giuseppe Caccia e Alessandro Metz (soci della Idra social shipping srl, che possiede il rimorchiatore Mare Jonio utilizzato da Mediterranea per i salvataggi), del capomissione Luca Casarini e del capitano Pietro Marrone: favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e violazione del codice della navigazione. L'idea che si sono fatti i pm è che Caccia, Metz e Casarini si siano accordati preventivamente con l'armatore della petroliera Maersk Etienne, bloccata da 37 giorni in mare con i naufraghi a bordo perché le autorità maltesi non la autorizzavano a sbarcare, per effettuare, dietro compenso, il trasbordo e risolvere lo stallo. Il prezzo del favore è arrivato due mesi dopo, il 30 novembre, sul conto della Idra: un bonifico di 125.000 euro corrisposto dalla Maersk Tankers. "Elargito - scrivono i magistrati - a fronte di una richiesta di Caccia di 270.000 euro". A sostegno dell'ipotesi dell'accordo preventivo allegano i tabulati delle utenze di Caccia, che mostrano, tra l'8 e l'11 settembre, 4 chiamate a un numero danese "di cui non è stato identificato l' intestatario", ma per cui hanno "il fondato motivo che riconduca alla Maersk". Il patto verbale si sarebbe perfezionato il 6 ottobre, quando Caccia si è incontrato a Copenhaghen con Tommy Thomassen, direttore tecnico del Reparto Tankers Maersk, "per accelerare la trattativa". E qui, però, nel castello della pubblica accusa si sentono scricchiolii. Intanto perché quel numero sconosciuto non è della Maersk, ma di Maria Skipper Shwenn della Danish Shipping, l'associazione che riunisce gli armatori danesi. «Caccia ci stava parlando - spiega a Repubblica Alessandro Metz - perché il caso della Etienne era diventato la vergogna d'Europa e stavamo cercando di convincere la Danish a fare pressione su Ursula Von Der Leyen». Gli stessi dirigenti della Maersk, che gli inquirenti non hanno ancora sentito, specificano: «Prima e durante l'operazione di settembre, non c'è stato alcun accordo o promessa di compenso finanziario. Era una situazione umanitaria. Mesi dopo abbiamo incontrato delegati di Mediterranea in un meeting (a Copenhagen, ndr) e abbiamo deciso di contribuire con 125.000 euro per coprire in parte i costi che avevano sostenuto». Nel decreto di perquisizione, però, c'è altro. Per giustificare il trasbordo e la successiva richiesta di attracco in Italia (accordato dal Centro di coordinamento soccorsi di Roma), il team della Mare Jonio avrebbe volutamente esagerato le condizioni sanitarie dei 27 naufraghi. Dopo lo sbarco a Pozzallo, infatti, il medico Usmaf del ministero non ha trovato niente di patologico e ha accertato l'insussistenza di una presunta gravidanza. «A fare il report medico è stata una dottoressa seria che ora lavora in ospedale», ribatte Metz. «Solo dei pm in malafede possono sostenere che quelle persone, dopo tutto ciò che avevano passato in Libia e da 37 giorni confinate in uno spazio di 20 metri quadrati sulla prua della petroliera, non fossero in stato di necessità. Stanno criminalizzando la solidarietà».

Alessandra Ziniti per "la Repubblica" il 4 marzo 2021. Nessun passaggio di soldi. Mai. Quei soccorsi, anche se con modalità sospette, furono comunque effettuati per salvare vite umane. E però, i comandanti e i capimissione che tra il 2016 e il 2017 si susseguirono sulle navi di Medici senza frontiere e Save the children, agirono «nell'interesse e a vantaggio delle Ong che così ottenevano maggiore visibilità pubblica e mediatica con conseguente incremento della partecipazione - anche economica - dei propri sostenitori». Sono parole che gettano ombre molto lunghe su due delle più grandi Ong quelle delle pm Brunella Sardoni e Giulia Mucaria che, coordinate dal procuratore Maurizio Agnello, hanno chiuso la prima inchiesta sui soccorsi nel Mediterraneo aperta nell'estate 2017 con il sequestro della Iuventa della tedesca Jugend Rettet. Tre anni e mezzo dopo, con la nave ancora bloccata a Trapani, 24 avvisi di garanzia, due dei quali raggiungono Msf e Save the children, annunciano l'imminente richiesta di rinvio a giudizio. Soccorsi concordati con i trafficanti, scafisti portati in Italia mischiati tra i migranti, barconi e persino salvagente restituiti ai criminali, luci per segnalare la posizione, trasponder spenti per evitare la localizzazione, interventi non comunicati alle autorità marittime italiane e una serie di falsi per trasformare in eventi Sar quelli che - secondo l'accusa - sarebbero state delle vere e proprie consegne. Accuse pesantissime che le due Ong respingono. «Si apre un altro lungo periodo di fango e di sospetti sull'operato delle organizzazioni in mare. Ribadiamo la piena legittimità della nostra azione, che abbiamo sempre svolto in modo trasparente, sotto il coordinamento delle autorità competenti e nel rispetto della legge, con l'unico obiettivo di salvare vite umane», replica Msf. «Siamo certi di aver sempre agito nel pieno rispetto delle legge e del diritto internazionale e in costante coordinamento con la Guardia Costiera Italiana unicamente per salvare vite umane», aggiunge Save the children. Ma le due Ong dovranno misurarsi con accuse, rivolte ai loro uomini, suffragate da foto e filmati realizzati da un agente di polizia sotto copertura fatto imbarcare sulla Vos Hestia di Save the children dopo la singolare denuncia di un contractor incaricato della sicurezza che si premura anche di contattare la Lega. È l'estate 2016, quella in cui la neonata flotta delle navi umanitarie scende in mare. Il codice di autoregolamentazione di Minniti è di là da venire. La Iuventa, piccola nave di giovanissimi volontari tedesca, staziona spesso al limite delle acque libiche, soccorre i migranti e li trasborda sulle più grandi Vos Hestia e Vos Prudence che fanno la spola con la Sicilia. Non si va per il sottile per il primo anno, l'obiettivo è portare via dalla Libia più gente possibile. Il 18 giugno 2017, dopo aver preso a bordo i migranti, i volontari di Iuventa vengono fotografati mentre restituiscono ai trafficanti tre barche legate con una fune. Sono 264, «una vera e propria consegna concordata», scrivono i pm. La Vos Hestia, invece, sarebbe stata informata in tempo reale delle partenze dalle coste libiche: il 4 maggio 2017,«dopo aver appreso nel pomeriggio dell'avvenuta partenza di più imbarcazioni, si dirige verso un preciso tratto di mare senza dare alcuna comunicazione alle autorità competenti», scrivono i pm. Alle 6.45 del giorno dopo prende a bordo 548 migranti. La sera del 22 maggio, le luci del ponte della nave restano accese (cosa vietata), due battelli vengono messi in acqua e prelevano un gruppo di altri 120 migranti. Il 26 giugno, in sole sei ore, la nave carica 1.066 persone da più imbarcazioni. Alcune di loro hanno giubbotti di salvataggio. I volontari di Save the children fanno indossare ai migranti quelli con il loro logo e restituiscono ai trafficanti quelli vecchi. Alcuni degli scafisti vengono fatti salire a bordo. Mischiati tra i profughi anche loro arriveranno in Italia sulle navi umanitarie. Dall'inchiesta sono state stralciate le posizioni di alcuni indagati, tra cui la comandante della Iuventa Pia Kemp e il sacerdote eritreo don Mussie Zerai, punto di riferimento per i migranti che si mettono in viaggio dall'Eritrea.

Migranti, le foto che accusano la ong: “Il capitano proteggeva gli scafisti”. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 7 marzo 2021. Il 26 giugno 2017, lo scafista continua a colpire i migranti con una cintura, davanti ai volontari appena arrivati. L’inchiesta di Trapani. Nel 2017, un agente infiltrato registra il comandante della Vos Hestia: “Sui trafficanti non faccio la spia”. Save the Children: “Noi sempre corretti”. In un’immagine si vede lo scafista mentre picchia i migranti con una cintura, davanti ad alcuni volontari della nave “Vos Hestia”. In un altro scatto, ha in mano un tubo di ferro giallo, un giovane si ripara il volto. Poi, il trafficante di uomini sale pure lui a bordo dell’imbarcazione di “Save the children”. Un’altra immagine lo ritrae mentre cammina tranquillo nel porto di Reggio Calabria: indossa una maglietta bianca (sulla manica il numero tre), nessuno l’ha denunciato. Le foto scattate da un agente sotto copertura, che nel 2017 ha finto di essere un volontario, sono diventate per la procura di Trapani un atto d’accusa contro la Ong. Pesanti le contestazioni, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e falso, mosse anche nei confronti di “Medici senza frontiere” e “Jungend Rettet”. Nell’estate di quattro anni fa, salvarono migliaia di vite umane, come ribadisce oggi “Save the children” per respingere le contestazioni dei pm, ma adesso quelle foto e anche le voci registrate dall’agente “infiltrato” diventano un caso. In quei mesi drammatici, il comandante di “Vos Hestia”, Marco Amato, sbottò con un collaboratore: «Ti ho detto seimila volte che io a bordo ho altri ruoli e non quello di fare la spia o l’investigatore». Il pool coordinato dal procuratore facente funzione Maurizio Agnello contesta al comandante di non aver voluto dare alcuna informazione alla polizia sugli scafisti. Nelle intercettazioni, Amato se la prendeva con chi violava questa linea: «Appena torna lo scemo vedo cosa vuole fare — diceva ancora — altrimenti lo mando a fare in culo dicendogli: “Vedi dove te ne devi andare, vai a mangiare a casa, ti vuoi stare zitto o te ne vai… siamo partiti già male». L’uomo che chiamava lo “scemo” aveva indicato alla polizia due scafisti. Ma perché non segnalare i trafficanti di uomini alla polizia? Amato non fa parte di “Save the children”, era il comandante di un’imbarcazione affittata dalla Ong, però è diventato uno dei protagonisti di quella stagione di salvataggi, fatti spesso in condizioni difficili. «Non si è mai tirato indietro — dice un volontario che ha conosciuto il comandante in mare — la priorità di tutti è stata sempre quella di salvare vite umane». Ma perché non segnalare gli scafisti all’arrivo nei porti? Se lo chiedono adesso i magistrati, che hanno messo agli atti della loro inchiesta anche una relazione dell’agente del Servizio centrale operativo che ha operato sotto copertura. Racconta che al porto di Reggio Calabria, il comandante Amato gli indicò quel giovane con la maglietta bianca e il numero tre: «Ha picchiato i migranti», sussurrò. La polizia commenta nel rapporto alla procura, firmato anche dalla Guardia Costiera: «È evidente che Amato fosse a conoscenza di quanto commesso in pregiudizio dei migranti. Ma nessuna segnalazione è stata fatta alle autorità di polizia presenti allo sbarco, né sui giornali di bordo». Come dire, non fu chiuso solo un occhio, per portare a termine in sicurezza le operazioni di salvataggio. In alcuni casi, si evitò del tutto di denunciare i trafficanti di uomini. Finendo per offrirgli una pericolosa sponda, sostiene l’accusa. Nei giorni scorsi, la procura di Trapani ha chiuso l’indagine nei confronti di 21 persone che operarono fra il 2016 e il 2017 a bordo non solo di “Vos Hestia”, ma anche di “Vos Prudence” e Iuventa. In altre foto, scattate dall’agente sotto copertura il 18 giugno 2017, si vedono tre scafisti mentre si avvicinano ai volontari di “Vos Hestia”, smontano in tutta calma il motore dal gommone dei migranti e vanno via. Lo stesso giorno, un operatore di nave “Iuventa” riporta verso le coste libiche tre barchini. «Al largo c’erano i trafficanti», annota il poliziotto. Un’altra sequenza di immagini. Il 26 giugno, tre uomini su un potente gommone affiancano “Vos Hestia”, sono trafficanti che annunciano l’arrivo di un altro carico di vite umane. L’agente trasmette la foto ai suoi colleghi, che riconoscono subito il più importante del gruppo: è Suleiman Dabbashi, fa parte di una famiglia influente a Sabrata, gestisce numerose safe house, le case di prigionia dei migranti. “Save the children” ribadisce: «Siamo fiduciosi che l’intera vicenda, non appena tutti i fatti saranno stati adeguatamente rappresentati e considerati, potrà essere chiarita confermando la correttezza del nostro operato».

Immigrazione, indagine sulle Ong: "Cercavano visibilità per avere soldi", verso il processo. Libero Quotidiano il 05 marzo 2021. I capimissione che tra il 2016 e il 2017 si guidarano le navi di Medici senza frontiere e Save the children, agirono "nell'interesse e a vantaggio delle Ong che così ottenevano maggiore visibilità pubblica e mediatica con conseguente incremento della partecipazione - anche economica dei propri sostenitori". Lo dicono i pm Brunella Sardoni e Giulia Mucaria che hanno chiuso la prima inchiesta sui soccorsi nel Mediterraneo aperta nell'estate 2017 con il sequestro della Iuventa della tedesca Jugend Rettet. 24 avvisi di garanzia, due dei quali raggiungono Msf e Save the children, in vista di una probabile richiesta di rinvio a giudizio. Soccorsi concordati con i trafficanti, scafisti portati in Italia mischiati tra i migranti, barconi e persino salvagente restituiti ai criminali, interventi non comunicati alle autorità marittime. Queste parti delle accuse pesanti che si imputano alle due Ong, ma che loro respingono: "Si apre un altro lungo periodo di fango e di sospetti sull'operato delle organizzazioni in mare. Ribadiamo la piena legittimità della nostra azione, che abbiamo sempre svolto in modo trasparente, sotto il coordinamento delle autorità competenti e nel rispetto della legge, con l'unico obiettivo di salvare vite umane", replica Msf. "Siamo certi di aver sempre agito nel pieno rispetto delle legge e del diritto internazionale e in costante coordinamento con la Guardia Costiera Italiana unicamente per salvare vite umane", aggiunge Save the children. Per l'accusa però ci sono foto e filmati realizzati da un agente di polizia sotto copertura fatto imbarcare sulla Vos Hestia di Save the children dopo la singolare denuncia di un contractor incaricato della sicurezza. La Vos Hestia sarebbe stata informata in tempo reale delle partenze dalle coste libiche: "dopo aver appreso nel pomeriggio dell'avvenuta partenza di più imbarcazioni, si dirige verso un preciso tratto di mare senza dare alcuna comunicazione alle autorità competenti", scrivono i pm. Mischiati tra i profughi anche scafisti, scrive Repubblica, arriveranno in Italia sulle navi umanitarie. 

Le prove che incastrano Casarini. Un bonifico da 125mila euro erogato a favore della Idro Social Shipping, società proprietaria della Mare Jonio, costituirebbe la prova principale racconta dagli inquirenti nell'ambito dell'indagine che coinvolge anche Luca Casarini. Mauro Indelicato - Mer, 03/03/2021 - su Il Giornale. Per i magistrati di Ragusa sono due le prove principali a sostegno delle indagini rivolte verso Luca Casarini e altre tre persone legate a doppio filo alle attività della Mare Jonio, la nave dell'Ong Mediterranea Saving Humans. Da un lato un bonifico da 125mila euro erogato dalla società danese Maersk Tankers alla Idra Social Shipping, proprietaria della Mare Jonio. Dall'altro una finta gravidanza che ha giustificato un trasferimento in elicottero di una donna risultata poi in un buono stato di salute, tanto da essere dimessa da un ospedale siciliano. Un elemento che, secondo gli inquirenti, sarebbe un emblema delle incongruenze riscontrate sull'intera vicenda. Lunedì la procura di Ragusa ha reso noto di aver avviato un'indagine nei confronti di quattro soggetti: Luca Casarini, ex antagonista e capomissione della Mare Jonio, Beppe Caccia, ex assessore a Venezia nella giunta Cacciari, il regista Alessandro Metz e il comandante Pietro Marrone. Per loro l'accusa è di favoreggiamento e violazione delle norme del codice della navigazione. I fatti risalgono al 12 settembre scorso, quando a Pozzallo sono sbarcati dalla Mare Jonio 27 migranti. Questi ultimi per 38 giorni sono stati a bordo della Maersk Etienne, motonave battente bandiera danese di proprietà della società Maersk Tankers. Soccorsi in acque maltesi, dopo quindi quasi 40 giorni i migranti sono stati trasbordati sulla Mare Jonio e poi fatti sbarcare a Pozzallo. È proprio sul trasbordo che la procura iblea ha voluto puntare i riflettori. Secondo i magistrati, il passaggio dei migranti dalla nave danese a quella italiana è avvenuto dopo accordi economici stipulati tra gli armatori. Così come raccontato da Felice Cavallaro sul Corriere della Sera, i magistrati ragusani sospettano che ci sia stato un accordo segreto tra i protagonisti per dare vita a un vero e proprio scambio: i soldi in cambio del trasferimento dei migranti. E la prova risiederebbe in un bonifico da 125mila euro al vaglio degli inquirenti. Se però per la procura di Ragusa potrebbe essere questo l'elemento decisivo per l'indagine, non è così per i diretti interessati. In una nota la Idra Social Shipping ha fornito la sua versione dei fatti. Quella somma sarebbe stata effettivamente erogata, ma non a seguito di accordi segreti con la società danese: “Non vi è mai stato alcun accordo preventivo, tantomeno di natura economica – si legge – tra amministratori e dipendenti di Idra Social Shipping, da una parte, e la compagnia danese Maersk Tankers”. Il bonifico sarebbe infatti stato erogato dopo un incontro avvenuto tra i membri delle due società a novembre, dunque due mesi dopo lo sbarco a Pozzallo: “I rappresentanti della compagnia danese li abbiamo incontrati nel contesto di riunioni con le organizzazioni di rappresentanza degli armatori europei – si legge ancora nella nota della società proprietaria di Mare Jonio – con i quali stiamo da allora discutendo le problematiche delle navi mercantili che incrociano nel Mediterraneo e la comune richiesta affinché gli Stati rispettino gli obblighi relativi al coordinamento dei soccorsi e allo sbarco delle persone recuperate in mare”. Dopo questi incontri, da parte danese sarebbe stato chiesto in che modo si poteva dare sostegno politico e logistico alla causa portata avanti dall'Ong italiana: “Sulla base della Convenzione di Londra del 1989 sull’assistenza tra navi in acque internazionali – hanno dichiarato Beppe Caccia e il regista Alessandro Metz – Maersk ha così parzialmente riconosciuto le spese aggiuntive sostenute da “Idra Social Shipping” per i servizi svolti in mare, come forma di sostegno”. Quei 125mila Euro sarebbero quindi una sorta di “ristoro” e di sostegno. Non la vedono alla stessa maniera gli inquirenti. Anche perché il procuratore di Ragusa, Fabio D'Anna, e il sostituto Santo Fornarier, rimangono insospettiti da altri aspetti della vicenda. Nei giorni in cui si sono sviluppati i fatti contestati, una donna è stata fatta evacuare dalla motonave danese per via del suo stato di gravidanza. Una volta giunta in un ospedale siciliano però, la procura avrebbe in realtà accertato che la donna stava bene e non esisteva alcuna gravidanza. Da qui, come sottolineato ancora da Felice Cavallaro, l'idea degli inquirenti secondo cui il trasferimento della ragazza potrebbe aver rappresentato una messa in scena. Anche perché, sempre secondo la ricostruzione dei magistrati, tutti i migranti sbarcati a Pozzallo hanno trascorso 38 giorni all'interno di apposite cabine e non avrebbero sofferto particolari problemi di salute.

·        Quelli che…Porti Aperti.

Immigrazione, la sentenza politica: cosa si inventano i giudici pur di far invadere l'Italia. Andrea Morigi su Libero Quotidiano il 19 dicembre 2021. Per la giornata dei diritti dei migranti, che ricorreva ieri, i pochi che hanno colto l'occasione di festeggiare hanno preso come spunto la sentenza della sesta sezione penale della suprema corte di Cassazione che, il 16 dicembre scorso, aveva reso noto di aver riconosciuto a due stranieri, i quali il 10 luglio 2018 si erano opposti al rimpatrio in Libia, di aver agito al fine di salvare sé e gli altri naufraghi dal rischio di patire nuove, gravissime lesioni dei diritti alla vita, alla integrità fisica e sessuale, a tutela della loro prerogativa di essere portati in un place of safety e di ottenere protezione internazionale. Questo almeno era il parere del giudice per le indagini preliminari di Trapani, sulla condotta degli imputati, i quali tuttavia, dopo essere stati assolti per i reati di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, violenza e resistenza aggravata a pubblico ufficiale, erano stati riconosciuti colpevoli dalla Corte d'Appello di Palermo, che il 3 giugno del 2020 li aveva condannati a tre anni e sei mesi di reclusione e a 52mila euro di multa, ritenendo l'approccio del giudice di primo grado «ideologico» sul rilievo che «tali problematiche devono trovare adeguata soluzione nell'unica sede a ciò deputata, ossia quella politica del confronto interstatuale».

IL CASO GIUDIZIARIO

Si trattava della vicenda del presunto "dirottamento" di un rimorchiatore battente bandiera italiana, il Vos Thalassa. Nell'occasione erano state mobilitate addirittura le forze speciali della Marina Militare, per evitare rischi all'incolumità dell'equipaggio, dopo che la rotta della nave era stata invertita per tornare verso la Libia. I migranti, refrattari al ritorno verso la costa sud del Mediterraneo erano stati poi trasbordati sulla nave Diciotti della Marina Militare. Se il Sole-24 Ore ritiene che sia il principio giuridico della «legittima difesa» ad aver guidato gli ermellini (presidente Mogini ed estensore Silvestri) nel rispondere in modo affermativo al quesito loro posto, Avvenire considera invece prevalente il «diritto al non respingimento». Il che significherebbe abolire definitivamente ogni possibilità di vietare l'ingresso nelle acque territoriali italiane ai migranti clandestini.

LA SENTENZA POLITICA

Ecco perché per gli avvocati Fabio Lanfranca e Serena Romano, difensori degli imputati, la questione sfugge ormai alle giurisdizioni nazionali, le cui prerogative si vedono così scavalcate dalle scelte degli individui, in quanto «il rispetto dei diritti umani è un tema sottratto alle autorità statali, che trova fondamento nelle norme di diritto internazionale a tutela della vita e della integrità della persona». Perciò i legali esprimono «grande soddisfazione per questa importante pronuncia che, in linea con l'orientamento già espresso nella vicenda della comandante Rackete e, prima ancora, nella sentenza Hirsi Jamaa e altri contro Italia del 23 febbraio 2012, ribadisce, una volta di più, che le operazioni di soccorso in mare che si concludano con il rimpatrio dei naufraghi in Libia costituiscono una violazione di principio del non refoulement e violano il diritto delle persone soccorse ad essere portate in un posto sicuro dove la loro vita non sia più minacciata e sia garantito il rispetto dei loro diritti fondamentali». 

"Ecco le menzogne della ong". Open Arms, l'ammiraglio sotterra grillini e pm: tutta la verità su Matteo Salvini

I magistrati di Area democratica per la giustizia, di orientamento progressista, vanno oltre con una lettura squisitamente politica: se la «resistenza ad un rimpatrio illegittimo non è punibile», è stata sconfessata «la dottrina dei "porti chiusi" adottata dal ministro degli interni dell'epoca, Matteo Salvini». Proprio dalla Lega, il deputato Manfredi Potenti annuncia dalla sua pagina Facebook un provvedimento legislativo «che garantisca allo Stato italiano il diritto di difendere le proprie coste e ad esercitare le proprie ragioni istituzionali a tutela della sicurezza della comunità italiana e per prevenire il rischio di infiltrazione da parte di soggetti che possono avere intenzioni criminali».

Da "il Giornale" il 14 dicembre 2021. Una mossa che il Paese non le ha perdonato. Un tribunale danese speciale per l'impeachment ha condannato la ex ministra dell'immigrazione Inger Stoejberg a 60 giorni di detenzione per l'ordine emanato nel 2016 di separare le coppie di richiedenti asilo con uno dei partner minorenne. Il parlamento danese ha votato per processare Inger Stoejberg dopo che la commissione nominata dal parlamento ha affermato che la separazione delle coppie nei centri di asilo era «chiaramente illegale» e che i membri dello staff del suo ministero l'avevano avvertita di questo. La Corte di Impeachment si è riunita per la prima volta in 26 anni per esaminare le accuse contro Stoejberg, che ha sostenuto la sua innocenza durante il processo iniziato il 2 settembre. Il tribunale l'ha condannata per «aver trascurato intenzionalmente i doveri del suo ufficio e aver fornito al parlamento informazioni errate o fuorvianti» a 60 giorni di detenzione. Al momento non è chiaro se sarà incarcerata o se potrà scontare la pena ai domiciliari. Stoejberg, che ha ricevuto fiori dai sostenitori dopo che la corte ha pronunciato il verdetto, si è detta «molto sorpresa dalla decisione», ma ha precisato che sconterà la pena. 25 giudici su 26 del massimo tribunale di Copenaghen hanno dichiarato colpevole l'ex ministra. Stoejberg è responsabile di varie misure drastiche attuate a livello di immigrazione, ai tempi del governo di centrodestra sostenuto dal Partito popolare danese, fra il 2015 e il 2019. Per scelta di Stoejberg sono stati pubblicati annunci sui giornali libanesi per scoraggiare i rifugiati, mentre le regole sul ricongiungimento familiare sono state inasprite, suscitando critiche da parte dell'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). Il caso di impeachment - deriva da un ordine emesso da Stoejberg nel febbraio 2016, secondo cui i rifugiati sposati di età inferiore ai 18 anni non devono essere ospitati nelle strutte insieme ai rispettivi coniugi. In base a tale normativa, 23 coppie sposate, alcune con figli, erano state separate prima che la politica venisse abbandonata pochi mesi dopo. La sentenza potrebbe compromettere la carriera politica di Stoejberg, che ha 48 anni ed era una delle favorite per essere nominata leader del Venstre, partito di orientamento liberale, ed è arrivata in seguito a un raro e storico processo per la richiesta di rimozione dall'incarico di un funzionario politico danese, il primo negli ultimi trent' anni e il sesto nella storia della Danimarca. Lo scorso febbraio Stojeberg si era dimessa dal ruolo di vice leader del Venstre dopo che alcuni deputati del partito avevano votato in favore del suo impeachment. Aveva comunque respinto le accuse a suo carico, sostenendo che la norma avrebbe protetto le ragazze minorenni dai matrimoni avvenuti prima dell'età adulta.

Saviano: «Ecco perché difendo il modello Riace di Mimmo Lucano». Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 14 dicembre 2021. Quell’esperienza si è dimostrata determinante per creare più posti di lavoro, per riqualificare il territorio e per frenare lo spopolamento e il degrado urbano

Domenico Lucano, sindaco di Riace dal 2004 al 2018

Una volta Ada Colau, la sindaca di Barcellona, disse che la scelta non è tra accogliere e non accogliere. L’unica scelta che abbiamo è tra accogliere bene ed accogliere male. Quando si alzano i muri si costringono le persone a percorrere rotte più pericolose. Quando si nega la libertà di movimento si incoraggia l’industria del traffico di esseri umani. Infine, quando si nega una buona accoglienza a chi rischiando la vita e a qualsiasi costo prova ad avere una nuova vita, si ingrossano le fila degli schiavi alla mercé dell’industria dello sfruttamento: nei campi, nella prostituzione, nella manodopera a nero di ogni forma e specie. Riace ha fatto il contrario, il modello Riace ci ha insegnato che l’accoglienza fa bene non solo a chi è accolto ma anche a chi accoglie. Ha rappresentato per anni l’alternativa ai casermoni, alle palestre, agli hotel affittati in cui disperati vengono stipati speculando sul cibo che poi risulta riso e acqua. Riace ha dimostrato che è possibile accogliere là dove noi emigranti abbiamo lasciato terra abbandonata, qualche volta anche bruciata. Insomma è la prova provata che accogliere può significare rinascita sociale, economica e anche politica.

I termini della sfida demografica e sociale

Aprendo le porte ne guadagniamo tutti, ecco solo qualche esempio. Nella regione Calabria, in cui da decenni lo spopolamento è inarrestabile e il futuro è un deserto demografico (l’Istat prevede che dei circa 1.900.000 abitanti di oggi ne resteranno 1.000.000 nel 2050, in maggioranza over 65), con il modello Riace “a pieno regime” la popolazione del borgo è raddoppiata: da circa 500 abitanti con una media di età altissima a quasi mille abitanti di 26 nazionalità diverse. Tutti riacesi davanti ai diritti. Nella Calabria della disoccupazione al 20%, con il modello Riace sono state create due cooperative per la differenziata, un asilo nido, i progetti d’accoglienza, il turismo solidale e un bene confiscato sulla Marina (che non si è avuto il tempo di avviare).

Le conseguenze sociali di un approccio nuovo

Quando il modello Riace accoglieva “a pieno regime”, in paese lavoravano circa 100 persone, almeno 80 riacesi di nascita: praticamente l’impatto occupazionale della Fiat, in un paese di circa 1.700 abitanti. Nella Riace di Lucano non si pagava l’Irpef comunale e nemmeno l’occupazione del suolo pubblico per le attività commerciali. Lo scuolabus nelle contrade era gratis. La carta d’identità non si pagava (di questo Lucano è stato accusato per danno erariale). I riacesi pagavano solo la tassa dei rifiuti, l’Imu sulle seconde case e l’acqua in misura ridottissima visto che l’autonomia della sorgente aveva sottratto il Comune dai prezzi della Sorical (l’azienda pubblico-privata sanitaria su cui non basterebbero centinaia di pagine per raccontarne le contraddizioni e ambiguità). Ancora un esempio. Nella Calabria del disastro sanitario, il modello Riace ha portato fin li un ambulatorio medico (Jimuel) al servizio non solo dei beneficiari dei progetti ma di tutto l’hinterland scoperto da qualunque servizio pubblico sanitario.

Un modello diverso di cittadinanza

Per tutto questo il modello Riace non lo definirei un modello per migranti; è assai più calzante parlare di “modello di cittadinanza” e non solo quindi di accoglienza. Un modello efficace con cui lo Stato risparmia. Risparmia quando non si pagano affitti esorbitanti per megastrutture in cui depositare la gente, come ville e hotel. Risparmia quando non si ricorre alle banche pagando gli interessi per i ritardi ministeriali. Non solo, i “bonus” adottati a Riace per sopperire ai ritardi del ministero, venivano consegnati direttamente ai beneficiari che erano così liberi di fare la spesa loro stessi sul territorio, eliminando l’orribile meccanismo di dipendenza delle buste della spesa che abitualmente gli operatori consegnano ai rifugiati. I famosi 35 euro al giorno (quelli su cui la destra ha costruito tanta propaganda) a Riace non venivano usati in modo assistenziale e parassitario, ma investiti per creare posti di lavoro, istituire borse di lavoro. E questo ha portato una ricaduta sul territorio. Verrebbe da dire, assecondando un luogo comune che vede il Sud sempre ultimo e sempre inefficiente, che se tutto questo è stato possibile a Riace, nell’entroterra calabrese, è possibile ovunque.

L’utopia della normalità

Questo rendeva il miracolo di Riace così potentemente simbolico, perché riproducibile in moltissime realtà mediterranee. Le case diroccate degli emigranti andati via da Riace hanno trovato nuova vita con l’accoglienza diffusa. Chi ormai vive da decenni dall’altra parte del mondo, o ci è addirittura nato, ha dato ad altre persone la possibilità di trovare un rifugio, un tetto. Le case abbandonate grazie all’accoglienza, quindi, hanno ripreso vivere e a respirare. È tutto qui il punto: in quella “ricaduta sul territorio” che ha portato la Regione Calabria ad approvare quel modello con la legge n. 18 del 2009, un tentativo di estendere ad altri borghi della regione questo modello di rinascita. Riace ha individuato soluzioni che colmavano i vuoti istituzionali (per esempio davanti ai ritardi ministeriali o alla condizione dei lungo permanenti), smantellavano il business dell’accoglienza in un sistema che mette la burocrazia davanti alle persone, la regola scritta davanti alla logica evidente. E lo ha fatto lì, dove regna la ’ndrangheta. «L’“utopia della normalità”, se la fai in Calabria, deve confrontarsi con la criminalità organizzata», ha scritto Tiziana Barillà in “Mimí Capatosta. Mimmo Lucano e il modello Riace” (Fandango, 2017). E oggi l’accusa ha puntato il dito proprio contro la gestione di questo modello.

Le accuse di peculato

Chiariamo subito un equivoco insopportabile: Mimmo Lucano è accusato (anche) di “peculato” ma non si è messo in tasca un euro, è trascritto nei verbali del processo: Mimmo Lucano non è accusato di avere rubato per sé, ma di avere “mal gestito” i fondi dell’accoglienza. Per quanto mi riguarda di averli usati troppo bene! Ma questo il nuovo grado di giudizio spero lo chiarirà. Da virtuoso a criminale, in poco più di dieci anni. Oggi Riace è il luogo della distanza tra legalità e giustizia, ricorda al paese che “legale” non basta, bisogna che sia anche “giusto”. Dopo l’assedio e la chiusura, tornando a Riace non salta agli occhi solo l’assenza di qualche decina di rifugiati, manca proprio il tessuto sociale, il tessuto di vita. È tornato a essere uno dei tanti paesi dell’entroterra calabrese, del meridione. Mimmo Lucano è stato condannato in primo grado a 13 anni e due mesi. «Rompere il presente può costare caro», ma sono certo che il tempo darà ragione a Riace. Del resto, lo scorso aprile 2019 la Corte di Cassazione, ha espressamente dichiarato che l’impianto accusatorio non sta in piedi: mancano i «comportamenti» fraudolenti di Domenico Lucano. Quella sentenza non ha a che vedere con il processo in corso a Locri, ma ci parla dello stesso incriminato. Una voce che non può rimanere inascoltata.

Dagospia il 14 dicembre 2021. Il testo è tratto dall'intervento del professor Giuliano Amato durante l'incontro sul futuro dell'Europa organizzato dall'associazione "Il Mulino" - da "la Stampa". Al Consiglio europeo di giovedì si parlerà della questione immigrazione. Su questo tema bisogna trovare un incontro tra ciò che non può non essere fatto in sede europea e ciò che deve rimanere in sede nazionale. Gli autori del documento "L'Europa che vogliamo: una Europa possibile", frutto del lavoro dell'Associazione Il Mulino, sono stati forse un po' troppo ottimisti nel prefigurare competenze esclusive dell'Unione. Sull'immigrazione, francamente, mi accontenterei di una più robusta e chiara competenza concorrente che concerna le frontiere esterne e un governo dei flussi che non può essere solo nazionale. C'è poco da fare: i flussi non li si governa se non si dà dignità e solidità al governo dei flussi economici, abbandonando l'assurdo principio che ha preso strada negli anni scorsi per il quale se tu sei un rifugiato politico puoi entrare, mentre se sei uno che sta scappando dalla miseria te ne torni alla tua miseria perché sei comunque un irregolare. Quando, prima delle grandi crisi economiche, noi tutti facevamo flussi di ingresso legati ai fabbisogni del mercato del lavoro, ciascuno di noi prevedeva 150-200 mila ingressi regolari per esigenze del mercato del lavoro. A suo tempo un bravo commissario italiano agli Affari Interni, che era Franco Frattini, disse: "È competenza dei singoli Stati stabilire quanti migranti servono, ma mettiamo insieme in termini di aggregazione il mercato del lavoro europeo e creiamo un impatto con la domanda europea di lavoratori esterni". 

Ecco: dovremmo arrivare almeno a questo, a una concertazione tra Commissione e Stati nazionali di flussi di ingresso di immigrati regolari che rispondono a domande del mercato del lavoro. Questo è il vero modo per allentare la pressione fatta di traffici e ingressi clandestini. Tornando al documento sul futuro dell'Unione europea, sono totalmente d'accordo con l'idea centrale dell'ultimo punto che dice di rafforzare gli organi che fanno capo alla rappresentanza elettiva, vale a dire il Parlamento europeo e la Commissione europea, che proprio al Parlamento risponde. 

Io sono d'accordo, ma parliamoci chiaro: ci aspettiamo che tutto ciò vogliamo venga fatto da tutti i 27 oppure - così come si prevede naturalmente di fare per la Sicurezza e la Difesa - non pensiamo che bisognerà prendere la strada delle cooperazioni rafforzate, anche differenziate, purché si vada avanti? 

Non possiamo passare altri vent' anni dicendo: noi 27 dobbiamo deciderci a passare dall'unanimità alla maggioranza. Certo, se ci riuscissimo sarebbe una splendida cosa. Ma per vent' anni diremo che lo dobbiamo fare. Forse, prima che passino vent' anni, sarebbe opportuno avviare su alcuni di questi temi delle cooperazioni rafforzate differenziate. Germania, Francia e Italia sono Paesi confinanti e tra di loro si potrebbero stabilire delle regole comuni che vanno molto al di là di quelle correnti. Certo non bastano tre Paesi per fare una cooperazione rafforzata, ce ne vogliono almeno nove, ma pensate che fondamento sarebbe questo: un fondamento simile a quello su cui nacque la Comunità europea a sei negli Anni Cinquanta. Riflettiamo su questa possibile analogia per una ripresa dell'integrazione europea.

Gian Guido Vecchi per il "Corriere della Sera" il 6 dicembre 2021. Alla fine Francesco si ferma ancora a stringere mani, accarezza i capelli di una bambina ma il sorriso è un po' tirato, lo sguardo interdetto, dei bimbi ripetono «papa, papa». Venire e andare via da questo campo significa provare imbarazzo, prima che pietà. «Sono qui per guardarvi negli occhi. Chi ha paura di voi non ha visto i vostri volti». Sfilano i minibus dei visitatori verso l'aeroporto e due ragazzini restano lì, su un terrapieno, a salutare. «Troviamo il coraggio di vergognarci davanti ai volti dei bambini», dice il Papa, e si rivolge all'Europa e al mondo: «Vi prego, fermiamo questo naufragio di civiltà». Ieri Francesco è tornato a Lesbo, tra i rifugiati del «Reception and Identification Centre» di Mavrovouni che ha sostituito Moria, poco distante, distrutto da un incendio nel settembre 2020. Cinque anni fa ne era tornato sconvolto. Non che ora sia molto meglio. «Dopo tutto questo tempo constatiamo che sulla questione migratoria poco è cambiato. In Europa c'è chi persiste nel trattare il problema come un affare che non lo riguarda. È triste sentire proporre l'impiego di fondi comuni per costruire muri». Ora la tendopoli di Moria è stata sostituita da file di container in riva al mare, giornata un po' nuvolosa ma limpida, tra le barche dei pescatori e le motovedette si vede nitida, a cinque miglia, la costa della Turchia, sono arrivati tutti da là. Medici Senza Frontiere informa che a Lesbo, in base ai dati Onu, ci sono 2.487 rifugiati e richiedenti asilo, 2.144 in questo campo, il 68 per cento in fuga dall'Afghanistan. Si può uscire al massimo due volte la settimana, orari rigidi, sabato e domenica chiuso, niente scuola se non per l'impegno dei volontari. Resta l'attesa, come un limbo. «Non sappiamo nulla dei nostri visti» dice Masa Amini, che sta nell'isola «da due anni e quattro mesi» con il marito Mohammad e la figlia Msoooma, otto anni. È afghana anche Zami Ali, sedicenne, e spera «che il Papa possa fare qualcosa, dire al mondo la nostra situazione, sono a Lesbo da due anni e qui è un po' meglio di Moria ma d'inverno fa freddo, spesso manca l'elettricità, in tenda siamo sette...».  Tetti di lamiera, teloni di plastica a riparare dell'umidità, biancheria stesa ad asciugare su cime da barca tese nei corridoi stretti tra i container, bambini che giocano con i gatti, una signora che ha perso la sua famiglia e piange da sola su una sedia di legno. Alla vigilia hanno ripulito dall'immondizia i canali di scolo, resta qualche tenda lacera come a Moria ma è nascosta a ridosso del muro sormontato dal filo spinato. La polizia sbarra i passaggi tra i container, Francesco parla sotto un tendone poco distante davanti a una rappresentanza dei migranti. Già ad Atene ha richiamato i fondamenti della nostra civiltà. Qui a Lesbo c'erano Saffo e Alceo che cantava «la meraviglia» dei fanciulli di fronte a una conchiglia. Ma il «mare biancheggiante» dei lirici eolici è diventato «un freddo cimitero senza lapidi», dove i bambini affogano. Non può andare avanti così. «È facile trascinare l'opinione pubblica instillando la paura. Vanno affrontate le cause remote, non chi ne paga le conseguenze. Perché non si parla delle guerre dimenticate, del traffico d'armi?». Il Papa cita Elie Wiesel: «Quando la vita e la dignità umana sono in pericolo, i confini diventano irrilevanti». E avverte: «Quando i poveri vengono respinti si respinge la pace. Chiusure e nazionalismi, la storia insegna, portano a conseguenze disastrose. La migrazione è un problema del mondo ed è in gioco il futuro di tutti, che sarà sereno solo se integrato». In questi anni, tramite Sant' Egidio, è riuscito a portare a Roma da Lesbo 220 persone, ne arriveranno ancora 80. E altri 50 da Cipro. La xenía dei greci antichi, il Samaritano: «Non è ideologia religiosa, sono radici cristiane concrete». Altro che filo spinato: « Si offende Dio disprezzando l'uomo creato a sua immagine, lasciandolo in balia delle onde, nello sciabordio dell'indifferenza, talvolta giustificata persino in nome di presunti valori cristiani». Il tono è solenne: «Prego Dio di ridestarci dalla dimenticanza. E prego l'uomo, ogni uomo: superiamo la paralisi della paura, l'indifferenza che uccide, il cinico disinteresse che con guanti di velluto condanna a morte chi sta ai marg 

Paolo Rodari per "la Repubblica" il 5 dicembre 2021. Circa duemila e cinquecento rifugiati, per la maggior parte afghani, qualche siriano. Bambini donne e uomini che sono riusciti ad arrivare in Europa dalla Turchia, ma che non possono lasciare il campo. I cancelli di Kara Tepe, a Lesbo, sono chiusi, per molti addirittura da due anni. Papa Francesco vi arriva questa mattina, dopo essere atterrato da Atene, ultima tappa del suo trentacinquesimo viaggio apostolico. Prima di prendere la parola si intrattiene qualche minuto con i profughi: «Sorelle, fratelli, sono nuovamente qui per incontrarvi. Sono qui per dirvi che vi sono vicino. Sono qui per vedere i vostri volti, per guardarvi negli occhi. Occhi carichi di paura e di attesa, occhi che hanno visto violenza e povertà, occhi solcati da troppe lacrime». Bergoglio arrivò a Lesbo già nel 2016. Con lui c’era il Patriarca Ecumenico Bartolomeo, che disse: «Chi ha paura di voi non vi ha guardato negli occhi. Chi ha paura di voi non ha visto i vostri volti. Chi ha paura di voi non vede i vostri figli. Dimentica che la dignità e la libertà trascendono paura e divisione. Dimentica che la migrazione non è un problema del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale, dell’Europa e della Grecia. È un problema del mondo». Il Papa ricorda oggi queste parole e conferma: «Sì – dice – è un problema del mondo, una crisi umanitaria che riguarda tutti». Ma mentre sui cambiamenti climatici e sulla pandemia qualcosa sembra muoversi, «tutto sembra latitare terribilmente per quanto riguarda le migrazioni». I rifugiati vivono all’interno di container bianchi. A pochi chilometri si vedono le coste turche sulle quali, nel 2015, depositarono il corpo senza vita di Alan Kurdi. Aveva tre anni. L’odore dei bagni chimici è nauseabondo nonostante le autorità locali abbiano dato una ripulita poche ore prima dell’arrivo del Papa: «Quando i poveri vengono respinti – dice Francesco – si respinge la pace». E ancora: «Chiusure e nazionalismi – la storia lo insegna – portano a conseguenze disastrose». Fin dal primo viaggio a Lampedusa, nel luglio del 2013, i migranti sono stati nel cuore del Papa, al centro delle sue preoccupazioni. «È un’illusione pensare – spiega oggi – che basti salvaguardare se stessi, difendendosi dai più deboli che bussano alla porta. Il futuro ci metterà ancora più a contatto gli uni con gli altri. Per volgerlo al bene non servono azioni unilaterali, ma politiche di ampio respiro. La storia, ripeto, lo insegna, ma non lo abbiamo ancora imparato. Non si voltino le spalle alla realtà, finisca il continuo rimbalzo di responsabilità, non si deleghi sempre ad altri la questione migratoria, come se a nessuno importasse e fosse solo un inutile peso che qualcuno è costretto a sobbarcarsi!». Francesco cita Elie Wiesel, testimone della più grande tragedia del secolo passato: «È perché ricordo la nostra comune origine che mi avvicino agli uomini miei fratelli. È perché mi rifiuto di dimenticare che il loro futuro è importante quanto il mio», scrisse. Il Papa fa sue queste parole e prega Dio «di ridestarci dalla dimenticanza per chi soffre, di scuoterci dall’individualismo che esclude, di svegliare i cuori sordi ai bisogni del prossimo». E prega anche «l’uomo, ogni uomo: superiamo la paralisi della paura, l’indifferenza che uccide, il cinico disinteresse che con guanti di velluto condanna a morte chi sta ai margini! Contrastiamo alla radice il pensiero dominante, quello che ruota attorno al proprio io, ai propri egoismi personali e nazionali, che diventano misura e criterio di ogni cosa». Dall’ultima visita a Lesbo sono passati cinque anni. Poco è cambiato da allora. C’è stato e c’è tanto impegno da parte di volontari, ma «dobbiamo amaramente ammettere che questo Paese, come altri, è ancora alle strette e che in Europa c’è chi persiste nel trattare il problema come un affare che non lo riguarda». Dice il Papa: «Quanti hotspot dove migranti e rifugiati vivono in condizioni che sono al limite, senza intravedere soluzioni all’orizzonte!». «È triste sentir proporre – continua – come soluzioni, l’impiego di fondi comuni per costruire muri. Certo, si comprendono timori e insicurezze, difficoltà e pericoli. Si avvertono stanchezza e frustrazione, acuite dalle crisi economica e pandemica, ma non è alzando barriere che si risolvono i problemi e si migliora la convivenza. È invece unendo le forze per prendersi cura degli altri secondo le reali possibilità di ciascuno e nel rispetto della legalità, sempre mettendo al primo posto il valore insopprimibile della vita di ogni uomo». E ricorda ancora Wiesel che il 10 dicembre 1986, nel discorso di accettazione del Premio Nobel per la pace, disse: «Quando le vite umane sono in pericolo, quando la dignità umana è in pericolo, i confini nazionali diventano irrilevanti». E allora perché, domanda Bergoglio, «invece, con lo stesso piglio, non si parla dello sfruttamento dei poveri, delle guerre dimenticate e spesso lautamente finanziate, degli accordi economici fatti sulla pelle della gente, delle manovre occulte per trafficare armi e farne proliferare il commercio?». «Vanno affrontate le cause remote, non le povere persone che ne pagano le conseguenze, venendo pure usate per propaganda politica!», risponde. E ancora: «Per rimuovere le cause profonde, non si possono solo tamponare le emergenze. Occorrono azioni concertate. Occorre approcciare i cambiamenti epocali con grandezza di visione. Perché non ci sono risposte facili a problemi complessi». È sotto gli occhi di tutti: il Mediterraneo, che per millenni ha unito popoli diversi e terre distanti, «sta diventando un freddo cimitero senza lapidi». Questo grande bacino d’acqua, culla di tante civiltà, «sembra ora uno specchio di morte». «Non lasciamo che il mare nostrum si tramuti in un desolante mare mortuum, che questo luogo di incontro diventi teatro di scontro! Non permettiamo che questo ‘mare dei Ricordi’ si trasformi nel “mare della dimenticanza”. Vi prego, fermiamo questo naufragio di civiltà!».

Il Papa tra i migranti di Lesbo. "Stop al naufragio della civiltà". Serena Sartini il 6 Dicembre 2021 su Il Giornale. Il Pontefice nel campo profughi: "Vergogniamoci davanti ai bambini, chiusure e nazionalismi portano a disastri". L'abbraccio ai migranti di Lesbo, l'appello disperato affinché nel Mediterraneo si fermi «il naufragio di civiltà». Cinque anni dopo la sua visita nel 2016 «poco è cambiato» nell'isola dell'Egeo, nel Reception and Identification Centre, dove sono ospitati i rifugiati. Fino a qualche tempo fa era il più grande d'Europa, lo chiamavano l'inferno di Moria. Poi un incendio ha distrutto tutto. Nel cuore del suo viaggio a Cipro e Grecia, Papa Francesco visita l'area attrezzata per l'accoglienza dei rifugiati ma soprattutto incontra loro, gli ultimi, i rifugiati. «Sono nuovamente qui per incontrarvi. Sono qui per vedere i vostri volti - esordisce Francesco - per guardarvi negli occhi. Occhi carichi di paura e di attesa, occhi che hanno visto violenza e povertà, occhi solcati da troppe lacrime». Il Pontefice cammina in mezzo ai profughi, attraversa le baracche e i container che accolgono oltre duemila rifugiati provenienti dalle zone di conflitto dell'Asia e del Medio Oriente fino a quelle dell'Africa. Ascolta attento le loro storie, lo sguardo fisso sui loro occhi. La migrazione «è un problema del mondo, una crisi umanitaria che riguarda tutti», ammonisce. «La pandemia ci ha colpiti globalmente, ci ha fatti sentire tutti sulla stessa barca, ci ha fatto provare che cosa significa avere le stesse paure - sottolinea Francesco -. Abbiamo capito che le grandi questioni vanno affrontate insieme. Ma mentre si stanno faticosamente portando avanti le vaccinazioni a livello planetario e qualcosa, pur tra molti ritardi e incertezze, sembra muoversi nella lotta ai cambiamenti climatici, tutto sembra latitare terribilmente per quanto riguarda le migrazioni. Eppure ci sono in gioco persone, vite umane». Da Lesbo Papa Francesco manda poi un messaggio forte all'Europa, scuotendola dall'indifferenza: «Dobbiamo amaramente ammettere che questo Paese, come altri, è ancora alle strette e che in Europa c'è chi persiste nel trattare il problema come un affare che non lo riguarda. È tragico. E quante condizioni indegne dell'uomo. Quanti hotspot dove migranti e rifugiati vivono in condizioni che sono al limite, senza intravedere soluzioni all'orizzonte. Eppure il rispetto delle persone e dei diritti umani, specialmente nel continente che non manca di promuoverli nel mondo - ammonisce il Papa - dovrebbe essere sempre salvaguardato, e la dignità di ciascuno dovrebbe essere anteposta a tutto». Bergoglio bacchetta l'Europa. «Chiusure e nazionalismi - la storia lo insegna - portano a conseguenze disastrose. Non si voltino le spalle alla realtà, finisca il continuo rimbalzo di responsabilità, non si deleghi sempre ad altri la questione migratoria, come se a nessuno importasse e fosse solo un inutile peso». E poi la condanna nel voler costruire «muri e fili spinati». Certo, «si comprendono timori e insicurezze, difficoltà e pericoli. Si avvertono stanchezza e frustrazione, acuite dalle crisi economica e pandemica, ma non é alzando barriere che si risolvono i problemi e si migliora la convivenza». Infine la supplica di Bergoglio: «Vi prego, fermiamo questo naufragio di civiltà. Questo grande bacino d'acqua, culla di tante civiltà, sembra ora uno specchio di morte. Non lasciamo - conclude Bergoglio - che il mare nostrum si tramuti in un desolante mare mortuum, che questo luogo di incontro diventi teatro di scontro! Non permettiamo che questo mare dei ricordi si trasformi nel mare della dimenticanza. Il Mediterraneo, che per millenni ha unito popoli diversi e terre distanti, sta diventando un freddo cimitero senza lapidi». Serena Sartini

"Neonati e donne incinte morti in mare". Erica Orsini il 26 Novembre 2021 su Il Giornale. In totale le vittime sono 27. Johnson a Macron: la Francia si riprenda tutti i migranti. Londra Ventisette morti, diciassette uomini, sette donne e tre bambini. Si sa ben poco dei migranti affogati ieri nelle acque gelide della Manica mentre a bordo del solito gommone tentavano disperatamente di raggiungere il Regno Unito. Erano partiti dalla spiaggia di Calais, in Francia, sotto gli occhi della polizia francese che ormai li lascia passare indisturbati, come documentano le immagini di altri come loro, pubblicate ieri da molti giornali nazionali inglesi. Del loro gruppo sono sopravvissuti soltanto in due, uno è iracheno, l'altro dovrebbe essere somalo. Sono stati tratti in salvo, in stato di grave ipotermia, dopo che mercoledì pomeriggio un pescatore aveva lanciato l'allarme. Quando si riprenderanno li attende un lungo interrogatorio. Il sindaco di Calais, Natacha Bouchard, ha fatto sapere che una delle tre donne decedute era incinta e si sa che uno dei tre bimbi deceduti era una bambina molto piccola. Gli investigatori forensi sono al lavoro, ma al momento non è stata diffusa l'identità dì nessuno anche perché erano tutti privi di documenti. La Bbc ha però appreso - dopo aver parlato con alcune delle organizzazioni umanitarie - che tra i profughi c'erano dei curdi provenienti dall'Irak e dall'Iran, altri potrebbero essere stati arabi e afghani. Nel frattempo la polizia francese ha arrestato cinque trafficanti ed è stata aperta un'indagine per omicidio colposo. Soltanto ieri più dì una ventina di imbarcazioni di fortuna hanno tentato di attraversare la Manica e almeno altre due che trasportavano circa 40 persone sono riuscite a raggiungere la costa britannica di Dover. Il premier britannico Boris Johnson si è detto «scioccato e profondamente rattristato» dall'incidente e ha nuovamente offerto alla Francia di mandare sul territorio francese un contingente addizionale di agenti in modo da controllare i confini. Johnson, in una lettera al presidente Macron, ha anche chiesto alla Francia di riprendersi indietro tutti i migranti che hanno attraversato il Canale. «Se coloro che raggiungono questo Paese venissero rapidamente rimpatriati, l'incentivo per le persone a mettere la propria vita nelle mani dei trafficanti si ridurrebbe notevolmente». Offerta riproposta anche dal ministro dell'Interno Priti Patel nell'ambito di un colloquio telefonico con la controparte francese, Gerald Darmanin. Così, a fronte di dichiarazioni ufficiali a proposito di «intensificare gli sforzi congiunti», di concretamente congiunto tra Francia e Inghilterra per ora non c'è che il rimpallo delle responsabilità per la tragedia accaduta e le prossime che verranno. «La Francia non fa abbastanza per controllare i migranti» tuona da una parte Johnson. «Stia attento a non strumentalizzare questa disgrazia a fini politici» replica Macron. Ma entrambi sanno bene di stare usando quei poveri disgraziati che sognano una vita libera dalla guerra come arma impropria per risolvere i nodi irrisolti della Brexit. Il principale è quello della pesca e con un drammatico tempismo a ricordarlo agli inglesi sono stati proprio i pescatori francesi che ieri hanno annunciato il blocco del traffico merci agli accessi via mare e via terra (coinvolti i tre porti di Malo, Ouistreham e Calais e il terminale del tunnel sotto la Manica) per chiedere a Londra il rapido rilascio delle licenze post Brexit. Nel frattempo, controlli o meno, i profughi continuano ad arrivare; solo quest'anno in 47mila hanno tentato la traversata. Erica Orsini

Chiara Bruschi per “il Messaggero” il 28 novembre 2021. «Ce la faremo amore, vedrai», ha scritto Maryam Nuri Mohamed Amin al fidanzato Karzan mentre il gommone su cui viaggiava si stava sgonfiando. E mentre lei, insieme ad altri passeggeri di questo viaggio della morte tentava di ributtare l'acqua in mare. Gli aveva anche detto che i soccorsi sarebbero arrivati e prenderli e che sarebbero riusciti a raggiungere la costa inglese. Ma Baran, questo il soprannome della ragazza, non ce l'ha fatta. È suo il primo corpo che le autorità hanno identificato in seguito al naufragio di mercoledì scorso nel Canale della Manica che ha registrato almeno 27 morti: 17 uomini, 7 donne una delle quali incinta, e tre bambini. Un numero che purtroppo sembra destinato a salire: solo due i superstiti che potranno confermare l'ipotesi che circola da ore, ovvero che a bordo del gommone ci fosse una cinquantina di migranti. Il viaggio di Maryam doveva essere una sorpresa per il suo promesso sposo, che non sapeva del suo arrivo. Il giovane del Kurdistan, che ha ottenuto la cittadinanza britannica e lavora come barbiere a Bornemouth, cittadina della costa sud dell'Inghilterra, ha ricordato l'ultimo scambio di messaggi su Snapchat: «Ci stavamo scrivendo prima che il gommone iniziasse a sgonfiarsi ha raccontato alla Bbc - Baran mi diceva che la barca si stava sgonfiando e che stavano cercando di tirare fuori l'acqua». Karzan ha seguito la fidanzata tramite il Gps e quando ha perso il segnale, in mezzo allo stretto della Manica, ha iniziato a temere il peggio. «Non è qui, vuol dire che non ce l'ha fatta aveva detto prima che arrivasse la conferma della morte della fidanzata Sono rimasto in contatto con lei e la stavo seguendo con il Gps. Dopo quattro ore e 18 minuti dal momento in cui è salita su quel gommone, credo in mezzo al mare, l'ho persa». Baran aveva solo 24 anni ed era originaria di Souran, nel Kurdistan iracheno, dove ora la sua famiglia e i suoi amici più cari ne piangono la morte. Era partita il 2 novembre insieme ad altre due donne per raggiungere Karzan, con cui si era fidanzata un anno fa. Aveva tentato per due volte di arrivare nel Regno Unito attraverso le vie legali, ha raccontato la famiglia, ma il processo era stato «ritardato» e Baran si era sentita costretta a intraprendere un'altra strada, quella del mare, con i rischi ad essa connessi. Come ha raccontato il padre Nuri Hamadamin, era arrivata in Germania e infine in Francia, dove è finita «in questo macello», ha aggiunto con una disperazione composta. «Il mondo parla dell'Europa come un posto tranquillo, piacevole. È questa la calma? Quasi trenta persone che muoiono in mezzo al mare?». L'uomo ha definito l'accaduto una «tragedia»: «Non solo per me ma per tutto il Kurdistan e il mondo intero», ha aggiunto parlando dei trafficanti di esseri umani che sono «mafiosi che trattano le persone disperate come animali». Secondo una prima ricostruzione i migranti sono stati costretti a salire minacciati con una pistola. Due le imbarcazioni che sarebbero dovute partire, ma quando un motore non ha funzionato, sono stati spinti con la forza a bordo: «I trafficanti hanno costretto tutti a stringersi nell'unico gommone rimasto», ha raccontato Sanger Hamed, amico di altre due vittime. «Quando (Baran, ndr) ha lasciato il Kurdistan era molto felice, non riusciva a credere che si sarebbe riunita al marito ha raccontato la migliore amica Iman Hassan alla Bbc alla sua festa di fidanzamento mi aveva detto: Comprerò una casa e vivremo vicine. Vivremo insieme. Ha tentato di vivere una vita migliore, ha scelto il Regno Unito, ma è morta. Nessuno deve più fare questo viaggio ha aggiunto poi per tentare di scoraggiare chi vuole tentare la stessa rotta - Nessuno merita di morire così. Era la mia persona speciale, spero sia in paradiso con mio padre». Baran, ha raccontato il cugino Krmanj Ezzat Dargali, non vedeva l'ora di cominciare una nuova vita con il suo compagno, ed era «piena di speranza» per il futuro. «La sua storia è uguale a quella di tanti altri - ha concluso con amarezza una partente della ragazza - Cercava una vita migliore». Chiara Bruschi

Oltre 300 in Calabria, altri 100 a Lampedusa e 200 in Puglia: sbarchi senza sosta. Valentina Dardari il 14 Novembre 2021 su Il Giornale. Al largo di Roccella Jonica recuperato un peschereccio con 303 egiziani e 113 persone a Lampedusa. Proseguono gli arrivi di migranti al largo delle coste italiane. Due gli interventi che sono stati effettuati nelle ultime ore dalle motovedette della Finanza. La rotta del Mediterraneo non accenna quindi a fermarsi. Tra le navi Ong a cui vengono assegnati porti sicuri, sempre in Italia, e i salvataggi di piccole imbarcazioni, sono sempre più i migranti che arrivano nel nostro Paese.

Ancora migranti nella notte

In Calabria, la scorsa notte a essere soccorso è stato un peschereccio che si trovava in difficoltà a causa del mare mosso, e che aveva a bordo 303 migranti, tutti uomini di origine egiziana, tra i quali circa una trentina di minori. Il salvataggio è avvenuto tra le 3 e le 4.30 quando i migranti, una volta che è stato effettuato il trasbordo su alcune motovedette della Guardia Costiera, sono stati portati, prima nella nuova tensostruttura allestita dalla Croce Rossa e poi, divisi in tre gruppi, presso il porto di Roccella Jonica, comune in provincia di Reggio Calabria. Dalla mattinata di oggi, domenica 14 novembre, sono in corso controlli sanitari e tutti gli accertamenti necessari a carico della polizia.

Un secondo intervento si è svolto invece alle prime luce dell’alba a Lampedusa, dove sono in totale 113 i migranti approdati nella notte sulla più grande isola delle Pelagie. Una prima piccola imbarcazione con 14 tunisini a bordo, tra cui anche una donna e una bambina, è stata intercettata a circa 40 miglia a sud dell'isola dagli uomini della Guardia di finanza. Erano circa le 3 quando sono sbarcati al molo Favaloro.

Anche donne e minori

Poco dopo è arrivato invece un gruppo più consistente, costituto da ben 99 persone, tra cui 7 donne e 3 minori. Per tutti i migranti, dopo i primi controlli sanitari, è stato disposto il trasferimento nell'hotspot di contrada Imbriacola. In poco più di 24 ore sono in tutto 215 i migranti approdati sulla più grande delle Pelagie. Mettendo insieme il salvataggio davanti alla Calabria e quelli di Lampedusa, in poco più di 24 ore l’Italia si è fatta carico di altri 518 migranti.

Pochi giorni fa il premier Mario Draghi ha alzato la voce e ha chiesto all’Europa di aiutare l’Italia per far fronte ai continui sbarchi di migranti sulle coste della Penisola. Il presidente del Consiglio ha sottolineato che adesso occorre intervenire per affrontare una situazione diventata ormai insostenibile. Con le sue parole Draghi ha coinvolto tutta l’Europa, facendo ben capire che non è solo un problema italiano ma che riguarda tutti i Paesi.

Intanto nelle ultime ore, un'imbarcazione piena di migranti, il cui numero è stimato in circa 200 tra cui anche donne e minori, è stata intercettata dalle motovedette della guardia di finanza a circa settanta miglia dalle coste del Salento. Subito dopo l'allerta, è stata organizzata la macchina dei soccorsi e dell'accoglienza coordinata dalla Prefettura di Lecce e l'approdo è previsto in tarda serata. I migranti saranno fatti sbarcare nel piccolo porto di Santa Maria di Leuca, la punta meridionale della Puglia, nel Comune di Castrignano del capo. Si tratta del settimo sbarco in circa sette giorni. Tra il 7 e l'8 novembre ce ne sono stati ben 5, con piccole imbarcazioni intercettate dai finanzieri che hanno poi scortato e fatto scendere i migranti ai porti di Santa Maria di Leuca, Gallipoli e Otranto. I centri d'accoglienza sono al collasso. 

Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni. 

Il trucchetto dei migranti per evitare il rimpatrio: rifiutano il tampone e non salgono sull’aereo. Martino Della Costa martedì 9 Novembre 2021 su Il Secolo d'Italia. Fatta la legge, trovato l’inganno. Il vecchio adagio lo suggerisce e i migranti in arrivo nel Belpaese lo fanno loro. Già perché il Covid e l’emergenza sanitaria nel caso degli arrivi sulle nostre coste e dai nostri valichi di confine per gli extracomunitari vale solo in uscita. Possono arrivare in massa nonostante la pandemia (e il flusso massiccio e ininterrotto lo dimostra quotidianamente), ma, al contrario, quando si tratta di rimpatrio le misure del governo giocano incredibilmente a loro favore. Laddove il termine “giocano” non è usato a caso… 

Il trucchetto dei migranti per evitare il rimpatrio

In effetti, sembra proprio una beffa, uno strano scherzo ordito furbescamente in punta di codice, il trucchetto che stanno attuando i migranti approdati in Italia. E che sembra impossibile rimpatriare. A meno di non contravvenire alle nostre stesse norme. Ai nostri specifici protocolli in materia di arrivi, partenze e viaggi in periodo di pandemia. Un raggiro che punta proprio sul Covid e sui relativi controlli: i tamponi. Un’arma a doppio taglio che gli immigrati clandestini stanno usando come una clava rifiutando di sottoporsi al test in modo tale che imbarcarli su un aereo per il rimpatrio diventa praticamente impossibile. Nessuno può obbligarli a un Tso e così il gioco è fatto: il meccanismo del rimpatrio si blocca e nulla si riesce a fare per oliare gli ingranaggi, già di per sé farraginosi.

Migranti, ecco come e perché si inceppa la macchina dell’accoglienza

Così, a fronte di arrivi che nel 2021 denunciano in termini numerici il raddoppio delle cifre rispetto all’anno precedente. E che, sottolinea Il Giornale, equivalgono a «cinque volte il numero di ingressi del 2019, anno in cui il ministro Salvini ha lasciato il Viminale». Stante quanto registrato dalla cronaca degli sbarchi solo nelle ultime ore, quando dalla Ong di Sea Eye sono scesi 847 immigrati recuperati in zona Sar maltese, con La Valletta che insiste a fare spallucce e a non affrontare la situazione. Il flusso si addensa sulle nostre coste e sui nostri territori, appesantendo la macchina dell’accoglienza arrugginendone il volano che dovrebbe garantire i rimpatri di chi non ha le credenziali per restare.

I poliziotti che li accompagnano invece si sottopongono ai test

Una situazione complessa che fa riferimento a norme articolate che arrivano anche ad annullarsi a vicenda. Con il risultato che la maggior parte dei migranti economici che approdano nel nostro Meridione non ottiene il riconoscimento dello status di rifugiato. Altri ancora, raggiunti da decreti di espulsione per svariati motivi, si uniscono alla schiera dei rimpatriabili. Ma poi, nel momento in cui lo Stato dovrebbe farsi carico di riaccompagnarli nei loro Paesi d’origine, non riesce a concludere. In parte per la carenza di accordi bilaterali coi governi locali. E, soprattutto, a causa del Covid e dei suoi protocolli stilati in base a motivi di salute pubblica. Gli stessi a cui vengono sottoposti gli agenti che accompagnano i migranti. Ma che gli stranieri si rifiutano di eseguire, evitando così il rimpatrio.

Il trucchetto dei migranti li lascia liberi di circolare e di ingrossare le schiere della malavita

Un trucchetto ormai rodato che ieri sera, ospite a Quarta Repubblica, Luca Pantanella, sindacalista dell’Fsp Polizia, ha illustrato e commentato. E che si conclude quasi sempre nello stesso modo. Quello riferito nel programma di Nicola Porro e rilanciato da Il Giornale: «Il dramma, o forse la beffa, è che se rifiutano il tampone, gli stranieri vengono riportati nei Cpr dove possono essere trattenuti per 90 giorni. Poi, concluso il tempo massimo previsto dalla legge, vengono tranquillamente rilasciati. Liberi di circolare in Italia. E di ingrossare le truppe delle bande delinquenziali». Vedere il video appena linkato per credere.

Troppo degrado: anche i centri sociali costretti ad andarsene. Francesca Galici il 5 Novembre 2021 su Il Giornale. Il centro sociale Macao interrompe l'attività: troppo pericoloso andare avanti in un quartiere nel quale hanno contribuito al degrado incontrollabile. Dopo 9 anni, il centro sociale Macao che a Milano occupava abusivamente gli spazi delle palazzine liberty di viale Molise ha annunciato la cessazione dell'attività. Una decisione autonoma che non arriva per una volontà, che sarebbe stata sacrosanta, da parte del Comune di chiudere ma perché loro stessi sono stati vittime di un sistema di degrado e disobbedienza che hanno contribuito ad alimentare. L'annuncio è arrivato tramite Facebook, con quella vena vittimistica che da sempre contraddistingue i centri sociali. "Negli ultimi sei mesi, Macao si è trovata a gestire giorno e notte una situazione complessa e delicata; a organizzare la resistenza, spesso fisica, tra discussioni, incendi, violenze e nuove difficoltà create dalla pandemia; a sostenere persone in difficoltà nella ricerca di una casa e condizioni di vita migliori; a difendere la comunità che attraversa lo spazio di viale Molise 68", scrivono nel loro post. Nel manifesto in cui annunciano il ritiro, addirittura rivendicano di aver operato in questi anni "con il sostegno della città, degli spazi sociali e di varie associazioni che ci hanno aiutato, in dialogo con il quartiere con cui abbiamo condiviso rabbia e preoccupazione". Quindi, aggiungono: "Eppure, c’è un limite che non intendiamo superare, che non fa parte della nostra storia né del nostro linguaggio. Non vogliamo usare le nostre energie e il nostro tempo per fare diversamente da ciò che siamo". Alla fine del post specificano che il loro è un arrivederci, e non un addio, a quel quartiere di Milano. "Il centro sociale Macao che da nove anni occupa abusivamente e deturpa le palazzine liberty di viale Molise annuncia la fine della sue attività e di questo ne siamo felicissimi. Certo, avremmo preferito uno sgombero sacrosanto non che fossero cacciati di fatto dai clandestini che hanno trovato rifugio nel vicino ex macello della Borsa", scrive Silvia Sardone, consigliere comunale della Lega a Milano. Il cortocircuito che si è creato in questo quadrante di Milano è ben spiegato da uno degli ultimi fatti accaduti all'interno del Macao: "Qualche settimana fa gli antagonisti hanno addirittura chiamato la polizia dopo che un gruppetto di immigrati irregolari aveva fatto irruzione con spranghe nel centro sociale: una barzelletta…". Questo è uno dei paradossi che, forse, ha convinto gli occupanti ad andare via, sostenendo de facto una delle grandi battaglie portate avanti dalla Lega negli ultimi anni: "Di fatto Macao ammette quanto noi sosteniamo da tempo immemore, ovvero che l’immigrazione di massa così come gestita dalla sinistra è fortemente dannosa. Il fallimento del Comune di Milano è sotto gli occhi di tutti: in viale Molise servono sgomberi e messa in sicurezza degli edifici per evitare nuove occupazioni". Quel che ora si augura Silvia Sardone è che davanti a questo, il Comune di Milano ammetta il fallimento e proceda allo sgombero di tutti gli altir centri sociali abusivi della città.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

I migranti? Sono una risorsa. Crisi e niente ammortizzatori: con loro l’Italia è in debito. Paolo Riva su Il Corriere della Sera il 6 novembre 2021. «Costano» 27,5 miliardi in welfare ma ne portano oltre 28 nelle casse dello Stato. Il report di Fondazione Moressa: «Dannoso averli esclusi dal Reddito di cittadinanza. Combattere il precariato e valorizzare il capitale umano è interesse del Paese». Più 600 milioni di euro. Ancora una volta il conto dei costi e dei benefici legati all’immigrazione in Italia è positivo. Sono anni che la Fondazione Leone Moressa pubblica queste stime e anche le ultime disponibili confermano che i migranti contribuiscono al welfare italiano in maniera maggiore di quanto ne beneficino. Eppure, tra scelte politiche e conseguenze pandemiche, il quadro in futuro potrebbe cambiare. A maggior ragione se la ripresa non riuscirà ad essere inclusiva anche per i cinque milioni di cittadini stranieri residenti nel nostro Paese. «I contribuenti stranieri nel 2020 hanno dichiarato redditi per 30,3 miliardi. Sommando le voci di entrata per le casse pubbliche (Irpef, Iva, imposte locali, contributi previdenziali, sociali e così via) si ottiene un valore di 28,1 miliardi. L’impatto per la spesa pubblica, invece, è stimato in 27,5 miliardi. Il saldo quindi - spiega il ricercatore della Fondazione Moressa, Enrico Di Pasquale - è positivo: più 600 milioni». Da un lato i migranti sono mediamente giovani e incidono poco su pensioni e sanità, le due voci principali del nostro welfare. Dall’altro però fanno lavori poco qualificati e soffrono ancora di una limitata mobilità sociale. «E questo - riprende Di Pasquale - porta a redditi bassi, contributi bassi e tasse basse. È un danno per gli stranieri, ma anche per lo Stato». I dati della Fondazione Moressa sono stati elaborati sulla base delle dichiarazioni dei redditi 2020 e descrivono quindi la situazione relativa al 2019, prima dell’avvento del coronavirus. La pandemia però ha avuto effetti socioeconomici enormi sui migranti.

Migranti, il loro contributo

Il 35 per cento dei 456mila posti di lavoro persi nel 2020 ha riguardato cittadini stranieri, in particolare donne, con contratti precari o impieghi in settori molto colpiti, come turismo e ristorazione. Il reddito di questi lavoratori si è ridotto, ma «non è aumentata in modo proporzionale la loro capacità di usufruire dello stato sociale o delle reti di protezione», spiega Francesco Fasani, professore di economia politica all’Università degli studi di Milano. «Gli stranieri - prosegue - hanno meno supporto dalle famiglie (spesso nel Paese di origine), meno risorse personali (come una casa di proprietà) e nel complesso meno reti di sicurezza, soprattutto se vengono esclusi da alcuni provvedimenti».

Canali irregolari

È il caso del Reddito di cittadinanza, per ottenere il quale è necessario essere residenti in Italia da almeno dieci anni. Come hanno scritto Caritas e Migrantes in un recente documento «i cittadini stranieri già nella situazione pre-pandemia scontavano un doppio svantaggio: la permanenza in condizioni di povertà e un’insufficiente protezione». Con il Covid la situazione non è migliorata. Anzi. «Gli interventi messi in atto - prosegue il rapporto dei due enti - sono diventati un’ulteriore fonte di divaricazione fra la popolazione italiana e quella straniera». Se le misure di lotta alla povertà (e in particolare il Reddito di cittadinanza) non verranno corrette il numero di migranti in difficoltà potrebbe aumentare e la loro capacità di contribuire al welfare diminuire. I motivi di preoccupazione, tuttavia, non sono legati solo alla pandemia. A contare sono anche decenni di politiche che hanno portato a un drastico calo degli ingressi per lavoro. Nel 2020 hanno rappresentato solo il 10 per cento del totale, contro il quasi 60 per cento di quelli per motivi familiari. In maniera più o meno esplicita, quasi tutti i governi degli ultimi anni hanno ridotto i canali regolari di accesso per i lavoratori stranieri, fino a renderli poco rilevanti. E invece, secondo Fasani, «ne servirebbero di più». Le politiche restrittive da un lato spingono i migranti verso altri canali irregolari e dall’altro - continua il professore - «limitano gli arrivi di quei lavoratori, spesso giovani, che portano i maggiori benefici alle casse dello Stato italiano». Da dove cominciare, quindi, per raggiungere risultati positivi sia per i migranti che vivono in Italia sia per l’intero sistema di welfare? Per Di Pasquale di Fondazione Moressa è cruciale «combattere il precariato»: è un problema che riguarda tutti i lavoratori, ma quelli stranieri in particolare. Per Fasani è importante che esista anche per i migranti «una rete che non faccia cadere in povertà non appena si rimane disoccupati».

Ripresa europea

Per il ricercatore Liam Patuzzi, invece, il tema centrale è il capitale umano. «Con la pandemia abbiamo visto segnali che vanno nella direzione dell’investimento sociale in molti Paesi europei: per adeguarsi a un’economia che cambia bisogna investire in capitale umano», spiega Patuzzi, che ha appena pubblicato un rapporto sul tema per il Migration Policy Institute Europe. I migranti però, spesso e per varie ragioni, si ritrovano esclusi da iniziative come le politiche attive per il lavoro, l’apprendimento permanente o i servizi per l’infanzia. «Dobbiamo capire - conclude Patuzzi - come raggiungere con queste azioni anche i cittadini stranieri. Investire nella loro crescita è il modo migliore per rendere i nostri sistemi di welfare sostenibili. E per avere una ripresa europea capace di conciliare coesione sociale e resilienza economica». 

Oriana Fallaci - Storia di un'Italiana. E la risposta idiota "anche noi italiani siamo stati un popolo di migranti" difronte all'invasione odierna, non regge. E non regge per una serie di motivi, che gli ipocriti conoscono benissimo, ma che per convenienza fingono di ignorare o dimenticare.

Motivo numero uno.

L'America è un continente di 9.363.353 chilometri quadrati. Ha regioni che ancora oggi sono completamente disabitate o così scarsamente abitate che in molti casi ci si può vivere per mesi e mesi senza scorgere un essere umano. E specialmente nella seconda metà del milleottocento ossia quando la grossa ondata migratoria ebbe inizio, buona parte delle regioni erano del tutto deserte. Niente città, niente villaggi. Niente strade, niente case. Al massimo, qualche fortino o un corral cioè un recinto per cambiare i cavalli. La stragrande maggioranza della popolazione si concentrava infatti negli Stati dell'est cioè nelle regioni della costa atlantica. Nel Midwest, ossia nella zona centrale, dove non trovavi che cacciatori o avventurieri e le tribù di nativi, cosiddetti indiani o pellerossa. Nel Far West, ossia dalla parte dell'oceano Pacifico, ancor meno: la corsa all'oro era appena cominciata.

L'Italia, eccoci al punto, non è un continente.

È un paese piuttosto piccolo, trentadue volte più piccolo degli Stati Uniti, per niente è caratterizzato da regioni deserte e in più sovrappopolato. 56.300.000 cittadini censiti, (Cifra che esclude gli immigrati in particolare quelli clandestini), contro 286 milioni di americani. Ergo, se 100.000 o anche 50.000 o anche 20.000 figli di Allah si stabiliscono ogni anno in Italia, per noi e come se milioni di messicani si stabilissero ogni anno nel solo Texas o nella sola California.

Motivo numero due.

Per un secolo, vale a dire dalla guerra di indipendenza fino al 1875, l'America fu una frontiera aperta. Le sue coste non erano sorvegliate, i suoi confini nemmeno, e gli stranieri potevano entrare a loro piacimento. Anzi erano desiderati. Per crescere e per fiorire la giovane nazione doveva sfruttare il suo immenso spazio, la sua potenziale ricchezza, e proprio a causa di questo nel 1862 Abramo Lincoln firmò lo Homestead Act. Decreto col quale il governo federale regalava 270 milioni di acri ossia 108 milioni di ettari a chiunque (uomo o donna, cittadino o straniero) avesse non meno di 21 anni e accettasse queste due condizioni. Primo: stabilirsi nel fondo scelto (un fondo di 160 acri ossia di 65 ettari) E nel giro di cinque anni disboscarlo, dissodarlo, trasformarlo in una fattoria o in un allevamento di bestiame. Secondo: costruirvi una casa, creare una famiglia e, se straniero, prendere la cittadinanza americana. Inaugurando lo slogan "American dream" e "America land of opportunities", molti candidati vennero infatti dall'Europa. Dalla Germania, dall'Olanda, dall'Inghilterra, dalla Spagna, dall'Italia. Vennero in tal numero che gli incolti del Montana, del Nebraska, del Colorado, del Kensas, dei due Dakota, dell'Oklahoma finirono con l'essere occupati quasi esclusivamente da loro. E molte tribù pellerossa furono costrette ad andarsene o a lasciarsi chiudere nelle riserve. I Cherokee, ad esempio, i Creek, i Seminole, i Chickasaw, gli Cheyenne... Bè, in Italia non c'è mai stato un Homestead Act Che invitasse gli stranieri a stabilirsi nelle nostre terre. "Venite, figli d'Allah, venite. Se venite, vi regaliamo un bel poderino in Chianti o in Val padana o in Riviera. E per regalarvelo sloggiamo i toscani, i lombardi, i liguri. Li prendiamo a pedate nel culo, li chiudiamo nelle riserve". Come nel resto dell'Europa, in Italia ci sono venuti senza alcun invito o sollecitazione. Sono piombati sulle nostre spiagge con le dannate barche della mafia albanese e a dispetto delle guardie costiere, che non riuscivano a respingerli. Perché noi non siamo un open Frontier, una frontiera aperta. Non abbiamo fondi incoltivati da regalare, regioni disabilitate da popolare. Eppure ci trattate come Cherokee o Creek o Chickasaw o Seminole o Cheyenne da chiudere in campi di concentramento, riserve, per far posto ai figli di Allah.

Motivo numero tre.

Neanche L' America Land of Opportunities, terra di opportunità, continuò ad essere generosa quanto lo era stata fino alla presidenza Lincoln. Allarmato delle proporzioni che stava assumendo il fenomeno, nel 1875 il governo federale capì infatti che bisognava porre un limite all'invasione. Il congresso emise una legge che proibiva l' ingresso a chi era stato in carcere per delinquenza o meretricio. Nel 1882, una che bandiva i pazzi e i vagabondi destinati a gravare sulla spesa pubblica. Nel 1903, una che escludeva i mendicanti di mestiere e le persone afflitte da sifilide o da altre malattie contagiose nonché gli anarchici. La politica migratoria si face insomma restrittiva, E chi entrava clandestinamente veniva subito espulso. Da noi, invece, tutti rientrano al loro piacimento. Ladri, rapinatori, terroristi di Al Qaida. Prostitute, lenoni, delinquenti ultra condannati, commercianti di droga, mendicanti, ammalati di AIDS. E, lungi dal venir respinti, una volta sbarcati vengono accolti con prodigalità. Alloggiati, nutriti, curati a spese dei Cherokee e Creek e Chickasaw e Seminole e Cheyenne cioè dei nativi che pagano le tasse. Sempre a spese dei nativi ricevono addirittura una cifra mensile per le piccole spese. E quando si sono stabiliti nelle nostre città, nei nostri villaggi, magari un sussidio. Anche se hanno l'automobile il telefonino il computer, si beccano il sussidio. Quanto al motivo numero quattro è così semplice che lo capirebbe perfino un bambino. L'America è un paese molto giovane. Se pensi che come nazione nacque alla fine del 1700 ne deduci che ha poco più di 200 anni. È anche un paese composto quasi esclusivamente da emigrati. Essendo un paese composto quasi esclusivamente di emigrati e anche il più incredibile miscuglio di razze, religioni, lingue, che sia mai esistito sul nostro pianeta. Un miscuglio amalgamato dal fatto che qualunque sia il cognome, la religione, il colore della pelle, tutti vi si sentano americani. Di conseguenza la sua identità culturale non è ben definita, e a parer mio è anche molto confusa. L'Italia, invece, è un paese vecchio anzi antico. La sua storia dura, in sostanza, da 3000 anni. E nonostante gli invasori che per secoli l'hanno occupata, smembrata, straziata, non è mai stata un paese di emigrati quindi un miscuglio di razze, di religioni, di lingue. Proprio perché è definita da molti secoli e molto precisa, la nostra identità culturale non può sopportare un'ondata migratoria composta da persone che in un modo o nell'altro vogliono cambiare il nostro sistema di vita. I nostri principii, I nostri valori. Sto dicendo che da noi non c'è posto per i muezzin, per i minareti, per i falsi astemi, per il fottuto chador e l'ancora più fottuto burkah.

E se ci fosse, non glielo darei. Perché equivarrebbe a buttar via Dante Alighieri, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello, il Rinascimento, il Risorgimento, la libertà che abbiamo bene o male conquistato, la democrazia che abbiamo bene o male instaurato, il benessere che abbiamo indubbiamente raggiunto. Equivarrebbe a regalargli la nostra patria, insomma. L'Italia. E l'Italia non gliela regalo. Oriana Fallaci

"Dal mare al carcere": il report di Alarm Phone. Chi sono gli scafisti, i capri espiatori di procure e politica. Giulio Cavalli su Il Riformista il 23 Ottobre 2021. Quante volte li abbiamo sentiti nominare, perfino dai politici più cauti che in questi ultimi anni hanno provato a fingere (male) di essere i “buoni” e di non avercela con gli immigrati ma almeno di potercela avere con gli “scafisti”. Gli scafisti, come molte altre cose nel mondo dell’immigrazione, sono diventati un’etichetta che si appiccica su tutto senza dover fare troppo caso alla complessità. Arrestare gli scafisti è diventato il gesto minimo per non apparire buonisti e per dare una parvenza di “legalità” (quella legalità che fa rima sempre con repressione) e di controllo: arrestare lo scafista è il modo semplice per offrire alla folla un presunto responsabile degli sbarchi, anzi molto spesso l’unico responsabile secondo la semplicistica narrazione. Il circolo Arci Porco Rosso, che si trova nel multietnico quartiere di Ballarò a Palermo, e Alarm Phone (un progetto gestito dall’8 ottobre 2014 da volontari europei, tunisini e marocchini, che si impegna nel soccorso in mare dei rifugiati) hanno deciso di provare a vederci chiaro con un rapporto («Dal mare al carcere») che denuncia la criminalizzazione dei cosiddetti scafisti incrociando i dati delle forze dell’ordine, delle testimonianze dirette raccolte dalle due associazioni e dagli articoli di stampa. «L’Italia, l’Ue e l’Onu – spiegano gli autori del report – hanno sempre sostenuto che arrestare gli scafisti fosse un modo per combattere il traffico di esseri umani, al fine di prevenire le morti in mare. Ma questo report dimostra che la criminalizzazione degli scafisti ha effettivamente contribuito ad alcuni dei peggiori disastri marittimi della storia recente». Si parte dall’analisi del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (l’art. 12 del Testo Unico Immigrazione previsto dall’ordinamento italiano al fine di scoraggiare, punire, reprimere gli ingressi in violazione delle norme che regolano l’ingresso regolare in Italia e, in tal modo, proteggere i confini dello Stato) che «punisce non solo chi promuove, dirige, organizza, finanzia il traffico di esseri umani, ma anche chi materialmente trasporta migranti sprovvisti di visto di ingresso, e, in generale, chiunque con il proprio comportamento faciliti l’ingresso illegale di stranieri in Italia o in altro Stato europeo». Ne consegue che viene posto sullo stesso piano della presunta organizzazione «il membro dell’organizzazione di trafficanti e colui che guida l’imbarcazione, o tiene la rotta, a prescindere dalle circostanze e delle modalità che lo hanno spinto a “contribuire” all’ingresso dei migranti nel territorio italiano». Si capisce così come quello che interessa allo Stato italiano è far di tutto per evitare che persone senza visto di ingresso entrino in Italia e lo fa punendo chiunque contribuisca, volontariamente o no, al viaggio dei migranti verso il suo territorio. Nel report si scopre quindi che lo scafista può essere un “migrante- capitano forzato” «spesso svolto da persone con pochissime, o quasi inesistenti, conoscenze del mare, costrette poco dopo la partenza a guidare l’imbarcazione», come si legge nel report, attraverso la minaccia o l’esercizio di violenza: «i timonieri ci mostrano le cicatrici della violenza subita sulla spiaggia o sulla barca, oppure ci raccontano della violenza a cui hanno assistito quando altri passeggeri hanno rifiutato di svolgere quei ruoli». C’è poi il “migrante-capitano per necessità” che «ha dovuto gestire l’imbarcazione durante momenti di difficoltà e trauma collettivo» oppure «ha dovuto prendere il timone durante i momenti più difficili della traversata, motivo per il quale è poi stato fermato dopo il soccorso». C’è poi il “migrante-capitano retribuito” che viene pagato (in solido o in natura) per il limitato compito di guidare la barca senza avere a che fare con l’organizzazione del viaggio e con il sospetto “business” della migrazione: «nei campi in Libia, – si legge nel report – prima della partenza, ci sono momenti di prova in cui i candidati per il ruolo devono dimostrare di avere le necessarie competenze, usando il motore allestito in un barile. Spesso la prova viene effettuata davanti agli altri passeggeri, una forma di auto-controllo sulla professionalità del capitano. Infine, notiamo che tutti questi capitani sono loro stessi migranti: il loro ruolo è parte del loro stesso progetto migratorio». Tutte figure molto più complesse dello scafista integrato nell’organizzazione eppure spesso parificati con una colpevole semplificazione da parte delle istituzioni. Il report denuncia anche i «processi politicamente condizionati» a cui questi cosiddetti scafisti vengono sottoposti: «nella caccia allo scafista, capro espiatorio a cui addossare ogni responsabilità, le garanzie processuali vengono meno e quei principi su cui dovrebbe fondarsi ogni procedimento penale vengono con leggerezza violati». «Per dare un’idea di quello che spesso diventa un accanimento della Procura contro i presunti scafisti – dice il report – un’avvocatessa ha paragonato questi processi a una guerra che richiede una lucidità estrema perché di fronte si ha un avversario, la Procura, che non concederà niente, che chiederà il massimo possibile della pena e cercherà in tutti i modi di ottenerla». Ci si scontra anche con il paradosso per cui adottare una linea difensiva forte, volta a contrastare le false accuse rivolte nei confronti dei capitani spesso porta ad un prolungato periodo di detenzione cautelare in attesa di un giudizio definitivo. Un altro problema che si pone è quello che per un capitano, e in generale per tutti i detenuti stranieri, la fine della pena non significa necessariamente riappropriarsi della propria libertà. Una mediatrice di Medu infatti spiega: «Ricordo un detenuto che aspettava la fine della condanna per prendere un caffè al bar di fronte al carcere. Durante gli anni dietro le sbarre ce l’ha messa tutta per essere una persona migliore una volta uscito dal carcere. Ha perfino conseguito l’attestato di licenza media. “Fuori ci vuole l’attestato”, diceva. Poi il giorno tanto atteso, camicia stirata, barba fatta e un sorriso sul viso. Ma ad attenderlo non c’era una seconda possibilità, ma una volante che lo accompagnava a un centro per il rimpatrio». Guardando i numeri si scopre che dal 2013 oltre 2500 persone sono state arrestate con l’accusa di essere appunto i famigerati scafisti e la criminalizzazione dei conducenti di barche di migranti in Italia è aumentata costantemente negli ultimi 25 anni, soprattutto dal 2015 e che le conseguenze dell’arresto come scafista hanno un grave impatto sulla vita delle persone, anche se le accuse vengono ritirate. Del resto concentrare le attenzioni sugli scafisti è il modo più semplice per assolvere le vere responsabilità politiche che causano i fenomeni migratori. Trovare “un colpevole” che sia immediatamente riconoscibile (anche se innocente) è il modo migliore per fingere un’idea di sicurezza. Anche se, come dice l’attivista di Alarm Phone Sara Traylor, «mandare le persone in prigione non fermerà la migrazione né la renderà più sicura».

Giulio Cavalli. Milano, 26 giugno 1977 è un attore, drammaturgo, scrittore, regista teatrale e politico italiano.

Lasciati morire in mezzo al mare: per la strage pagano solo marinai e scafisti. Otto anni fa il naufragio di Lampedusa in cui morirono 368 migranti. Il processo di primo grado ha condannato l’equipaggio di un peschereccio e due dei responsabili della tratta. Restano i punti oscuri sui mancati soccorsi. Parla un testimone che aiutò i superstiti. Fabrizio Gatti su L’Espresso l’1 ottobre 2021. La fotografia di quella notte sotto le stelle di Lampedusa è sempre lì nella mente che lampeggia. Sono le ultime due ore di spensieratezza per i testimoni del naufragio del 3 ottobre 2013, Vito Fiorino e i suoi amici. E sono gli ultimi centoventi minuti di speranza per 523 profughi, quasi tutti eritrei, che verranno presto separati dall’acqua: 368 sommersi e 155 salvati, secondo gli atti dell’inchiesta. Da quella tiepida notte d’autunno, l’Europa contemporanea ha definitivamente perso la sua innocenza. La strage di uomini, donne e quattro bambini è infatti così vicina alla costa che da quel giovedì nessuno può più dire di non aver visto o sentito. Dopo otto anni, questo è il primo anniversario che, oltre alle vittime, può elencare i presunti colpevoli. Il 9 dicembre 2020 il Tribunale di Agrigento ha condannato in primo grado il comandante, Matteo Gancitano, 63 anni, e i sei marinai dell’Aristeus, un peschereccio partito dal porto siciliano di Mazara del Vallo. Secondo il giudice monocratico Alessandro Quattrocchi, i sette hanno violato l’articolo 1158 del Codice della navigazione: omissione di assistenza a navi o persone in pericolo. Sei anni di reclusione, la pena per il capitano. Quattro anni, per i membri dell’equipaggio. I tracciati del loro Ais, il sistema di identificazione automatica a bordo del peschereccio, dimostrano che per cinquantasette minuti si sono fermati e hanno girato intorno all’imbarcazione stracarica di profughi che, con il motore fermo, prima di affondare gridavano e chiedevano loro aiuto. Cinquantasette minuti di attesa, per poi andare a scaricare il pesce fresco nel porto di Lampedusa, non sono un po’ troppi per un’omissione di soccorso? Stavano forse aspettando le motovedette, che però non sono intervenute? E come mai la consueta chiamata via radio dell’Aristeus alla capitaneria, prima di entrare nel porto di Lampedusa, proprio quella notte non risulta agli atti? I sopravvissuti, già negli interrogatori e durante l’incontro con l’allora premier Enrico Letta e il presidente della Commissione europea, José Barroso, raccontano di essere stati illuminati dai fari di due imbarcazioni, che poi si sono allontanate senza prestare soccorso. Se una è il peschereccio di Mazara, di chi era l’altra unità senza tracciamento Ais, come accade con le navi militari, tanto da non essere mai stata identificata? Durante il processo, i sette imputati hanno scelto di non fare dichiarazioni, peggiorando la loro posizione. Vedremo se anche in appello accetteranno anni di carcere per mantenere il silenzio concordato con l’armatore, Marco Marrone, intercettato più volte al telefono mentre discute su come comportarsi durante le udienze. L’ottavo condannato di questa tragedia, in un procedimento concluso con sentenza definitiva nel 2017, è lo scafista: Khaled Bensalem, 42 anni, tunisino di Sfax, deve scontare 18 anni per favoreggiamento dell’immigrazione illegale, naufragio e omicidio plurimo e pagare, chissà come, una multa di dieci milioni. Il nono è uno schiavista somalo, sbarcato a Lampedusa qualche giorno dopo la strage e riconosciuto dai sopravvissuti: sempre nel 2017 la Corte di Cassazione ha così confermato la condanna a 30 anni di Mouhamud Elmi Muhidin per traffico di persone e violenza sessuale ai danni di venti ragazze eritree. La storia sembra definita, anche dal punto di vista giudiziario. Ma non è così. La ricostruzione ufficiale dei fatti lascia in sospeso testimonianze che raccontano di ritardi nei soccorsi e presenze mai chiarite. La voce di Vito Fiorino, 72 anni, lombardo di Sesto San Giovanni, si increspa al pensiero di quel buio stellato, due ore prima del disastro, quando il Mediterraneo era per tutti il mare nostrum e non ancora un mare mortis. Eccolo, una mattina di fine settembre, mentre va a imbarcarsi all’aeroporto di Milano Linate per tornare a Lampedusa. Da allora, ogni 3 ottobre, vuole essere lì dove hanno salvato dall’acqua, raccogliendole con le loro mani, quarantasette persone: «Quarantasei uomini e una donna», dice per precisione. «Noi siamo usciti con la Gamar, la mia barca, attorno a mezzanotte, insieme a me c’erano altri sette amici. Abbiamo fatto il nostro bagno, siamo stati tranquilli in compagnia. Ricordo che prima di andare a dormire, intorno alle due e mezzo di notte e io ero seduto a poppa della mia barca con Alessandro Marino, a un certo punto ho visto in mezzo al mare una luce blu, una luce sulle motovedette o su una nave militare. E allora ho detto ad Alessandro: guarda, sicuramente stanno portando in porto qualche imbarcazione di migranti. E però questa barca è rimasta ferma per parecchio tempo. Solo quella luce vedevamo, erano a una distanza di un chilometro al massimo. Però quella luce era ben definita», racconta Vito Fiorino. Sono le stesse parole che Fiorino ripete davanti al Tribunale di Agrigento, nel processo al comandante e ai sei marinai dell’Aristeus, due italiani, tre tunisini e un senegalese. Quella luce che lampeggia in lontananza viene confermata davanti al giudice anche dagli altri amici a bordo della Gamar, Alessandro Marino e Linda Barocci. «La mattina alle sei, dopo aver dormito un po’ di ore, ho sentito che la nostra imbarcazione si metteva in moto. Ma neanche dopo dieci secondi di navigazione il motore si è spento, al che sono andato in cabina di pilotaggio e ho chiesto ad Alessandro cosa fosse successo. Lui mi ha guardato e mi ha detto: stai zitto, ma ‘u senti vuciari? Io non sentivo queste grida. Lui insisteva, gli ho detto: metti in moto e andiamo al largo. Io mi sono messo a prua della barca. A un certo punto davanti a me si è presentato un anfiteatro di teste che urlavano, che gridavano, che volevano aiuto, ho capito che il suo sentir vuciare era verità. Ho chiesto di fermare la barca. Albeggiava, il sole non c’era assolutamente. Erano almeno duecento persone in mare. Immediatamente, ho detto ad Alessandro di avvisare la capitaneria di porto con la radio di bordo. Lui l’ha fatto, ha segnalato che cosa stava accadendo», dice Fiorino al giudice. Ancora oggi il proprietario della Gamar ripete parole che dipingono una Guernica di Picasso sui colori dell’alba: «Ho portato a bordo la prima persona. Era disperata, aveva gli occhi che sembravano palle di fuoco. Poi è arrivato il secondo naufrago, alcuni di loro avevano solo la maglietta, altri solo le mutandine, ma molti erano veramente proprio tutti nudi. Scivolavano dalle mani, avevano il corpo che era tutto sporco di gasolio. Ho saputo l’anno scorso, perché sono andato a trovarli a Stoccolma, e mi hanno detto che quando è successa la tragedia, il primo segnale che si sono dati è stato “spogliatevi”, perché l’acqua appesantiva gli abiti. Ma era anche per una questione di sopravvivenza: non permettere a chi non sapeva nuotare, di attaccarsi alla maglietta e salvare almeno la propria vita. Ci hanno detto che erano circa tre ore che erano in mare». I soccorsi, chiamati via radio sul canale 16 delle emergenze, però non arrivano. La prima chiamata, verso le 6,30. Vi hanno risposto? «Le prime due-tre volte sì. Ci dicevano: state lì, arriviamo. Ma dopo non ci hanno più risposto. Loro sono usciti precisamente alle 7,25», conferma da otto anni Vito Fiorino, visto che l’ultima volta che guarda l’ora su un telefonino sono le 7,20 e ancora non appare nessuno. «Sono stato chiamato dopo quindici giorni in capitaneria di porto», aggiunge Fiorino nella sua deposizione giurata al processo: «Quando sono entrato nella stanza del comandante, mi dava del tu. Mi ha detto: “Ti voglio comunicare che ho già parlato con le alte sfere della capitaneria e della presidenza della Repubblica perché vi verrà assegnata una medaglia d’oro... Guarda Vito, io sono andato a controllare i tabulati e la prima chiamata che hai fatto è alle 7 e un minuto”. Se così fosse, perché non me l’ha portato subito il tabulato? Mi avrebbe convinto e avrei detto: ho sbagliato. Gli ho detto: mi dispiace, ma io non posso accettare di firmare un documento su un orario che sono convinto non sia quello. Allora un militare che è entrato dopo di me mi ha detto: “Guardi signor Fiorino che lei verrà denunciato”. Me ne sono andato. Il comandante mi è venuto dietro subito: “Fiorino fermati, vieni a firmarmi questo documento. Devi capire che io ho una famiglia e ho una bambina piccolina”. Gli ho risposto: sai quante famiglie, mio caro, sono morte e quanti bambini da quella notte non ci sono più, io non ti firmo assolutamente niente, io non vengo a raccontarti o a firmarti cose che ti fanno comodo. Mi ha poi telefonato sul cellulare: “Ci vediamo in ufficio e mi firmi questo documento”. Gli dico: perché devo dichiarare il falso? E così si è chiusa la questione». È tutto scritto nel verbale d’udienza del 3 giugno 2019. Un altro retroscena, mai indagato, lo riferisce sempre Vito Fiorino che, con onestà e precisione, non ha mai censurato i suoi ricordi: «La prima sera dopo la tragedia sono stato avvicinato da un maresciallo della capitaneria di porto, che mi ha detto: “Guarda Vito, sono dispiaciuto per quello che è successo. Vado sempre sul posto di lavoro almeno un’ora prima e quando sono arrivato c’era questo ragazzo nell’ufficio dei telefoni che era disperato, perché non sapeva più come comportarsi e cosa fare e io non ho potuto fare tanto di più, perché gli equipaggi avevano finito alle quattro e mezzo di mattina e si rifiutavano di fare questa missione che andava fatta». Gli equipaggi lavorano su turni di ventiquattro ore durante i quali, se necessario, non è previsto riposo. Il nome del maresciallo è agli atti fin dal 2014. Così come quello del comandante della capitaneria di porto di Lampedusa che, per conto della Procura di Agrigento, ha tra l’altro indagato e testimoniato contro l’equipaggio dell’Aristeus. Le luci in lontananza viste dal gruppo di amici a bordo della Gamar coincidono poi con l’orario di rientro di un pattugliatore classe Zara della Guardia di finanza, che come tutti i mezzi militari non è tracciato dal sistema Ais. Alle due e mezzo di quella notte, i finanzieri portano a Lampedusa 276 profughi tra cui 90 bambini, in un’operazione coordinata dall’agenzia europea Frontex: hanno forse visto i 521 profughi alla deriva e deciso di rinviare il loro recupero alla mattina dopo? Scrive però il giudice Alessandro Quattrocchi nella sentenza: «Del tutto indimostrato è l’assunto secondo cui abbiano avuto un ruolo, o meglio, una responsabilità gli uomini in forze presso la locale capitaneria di porto della guardia costiera». In altre parole, salvo colpi di scena, le uniche prove finora raccolte condannano il comandante del peschereccio e i sei marinai che hanno scelto il silenzio. 

L'aggressione a Rimini. Accoltella cinque persone, ferito alla gola anche bambino: follia su un autobus. Redazione su Il Riformista l'11 Settembre 2021. Ha accoltellato cinque persone, tra cui un bambino ferito alla gola. È l’accusa gravissima nei confronti di un 26enne fermato questa sera dalla polizia a Rimini. La brutale aggressione è avvenuta in serata sull’autobus della linea 11 proveniente da Riccione, dove all’uomo è stato chiesto da due controllori di esibire il biglietto. Di fronte alla richiesta l’aggressore, che secondo l’Ansa è di origini somale, ha estratto un coltello colpendo i due addetti, una in modo superficiale al collo e la seconda alla spalla. L’autista dell’autobus di linea è stato così costretto ad aprire la porta consentendo la fuga dell’uomo dal mezzo. Immediata la segnalazione, con la polizia che lo ha inseguito: nella fuga l’uomo, di 26 anni, ha accoltellato altre tre persone, tra cui una donna e un bambino colpito alla gola, provocando in totale cinque feriti. Le circostanze degli ulteriori tre ferimenti devono ancora essere chiarite. Le due controllori ferite sono state ricoverate al Bufalini di Cesena non in pericolo di vita; sono in corso verifiche sulle condizioni degli altri feriti. Bloccato infine dagli agenti di polizia, nei suoi confronti è stato disposto il fermo dal pm Davide Ercolani, che sta coordinando le indagini. Al momento non è esclusa alcuna pista riguardo il movente dell’aggressione: la procura sta infatti tentato di capire i contorni nei quali è maturata tutta la vicenda. Secondo quanto apprende l’Ansa non ci sarebbero elementi che possano ricondurre il 26enne somalo ad ambienti terroristici o estremistici. Gli investigatori, anche sulla base della reazione dell’uomo, non escludono che fosse sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. Senza precedenti, il giovane era ospitato in una struttura della Croce Rossa e già in passato aveva manifestato una personalità violenta e aggressiva. Il 26enne era arrivato da alcuni anni in Europa ed era stato in altri paesi prima di arrivare in Italia, dove alcuni mesi fa aveva presentato domanda per lo status di rifugiato.

Rimini, somalo senza biglietto sull'autobus accoltella cinque persone: gravissimo un bimbo. Simona Pletto su Libero Quotidiano il 12 settembre 2021. Gli hanno chiesto di esibire il biglietto dell'autobus. E lui, un somalo esagitato, ha reagito fulmineo ed ha accoltellato le due accertatrici sotto gli occhi terrorizzati degli altri passeggeri. Poi, nella fuga, ha accoltellato altre tre persone, tra cui una donna e un bambino. È successo ieri nel tardo pomeriggio, sull'autobus della linea 11 che da Riccione stava procedendo verso Rimini. Tutto si è consumato nell'arco di pochi minuti. Le due donne controllori dell'azienda di trasporti "Start Romagna" hanno sorpreso l'uomo straniero senza il titolo di viaggio ed hanno iniziato a scrivere il verbale per la sanzione. Una normale prassi. All'improvviso il somalo ha estratto un piccolo coltello da cucina ed ha iniziato a colpire le due donne al collo e alla spalla, urlando frasi sconnesse. Il guidatore, appena si è reso conto di quello che stava accadendo, ha bloccato l'autobus alla fermata del Talassoterapico. Nel putiferio l'autista è stato costretto ad aprire le porte all'aggressore che è sceso in strada cercando di bloccare le auto in corsa. Un automobilista è riuscito a inchiodare evitando per un soffio l'esagitato che, a sua volta, ha cercato di entrare nell'abitacolo ma il proprietario del Suv ha fatto scattare il dispositivo che chiude ermeticamente l'auto e l'accoltellatore è fuggito a piedi entrando nell'area dell'ex colonia "Novarese" per poi saltare all'interno del tracciato del Trasporto rapido costiero (metromare) e scappare in direzione di Rimini. Nel frattempo è scattato l'allarme e davanti al Talassoterapico sono accorse due ambulanze con l'auto medicalizzata e le volanti della polizia. I sanitari hanno provveduto a stabilizzare le ferite, rimaste entrambi sempre coscienti, per poi trasportarle d'urgenza al "Bufalini" di Cesena dove una è in pericolo di vita. Il piccolo, 5 anni, ferito alla gola, è stato sottoposto a sutura da parte dei medici dell'ospedale Infermi di Rimini. Recisa la carotide, le sue condizioni sono molto gravi. È scattata subito la caccia all'uomo. Il personale della Questura, invece, dopo aver raccolto le testimonianze dei presenti ha diramato i connotati dell'aggressore facendo scattare una caccia all'uomo mentre arrivavano diverse segnalazioni di un individuo che corrispondeva alla descrizione dell'accoltellatore che era salito su un mezzo del Metromare dove aveva minacciato una donna. Il Trc è stato quindi bloccato ma il fuggitivo è riuscito nuovamente a scappare correndo lungo i binari della ferrovia e, alla fine, è stato rintracciato dalle pattuglie della polizia nei pressi di viale Pascoli, nel cuore di Rimini. Bloccato e portato in Questura, è risultato essere un cittadino somalo di 26 anni. L'uomo si trova in stato di fermo disposto dal pm Davide Ercolani del Tribunale di Rimini. Deve rispondere del reato di tentato omicidio. Nel frattempo gli inquirenti hanno acquisito i filmati delle telecamere a circuito chiuso presenti all'interno dei mezzi pubblici per cercare di ricostruire nei dettagli l'aggressione di cui ancora non sono chiari i motivi. Sembra che il giovane sia andato in escandescenza al momento della richiesta del titolo di viaggio. Nessuna pista è esclusa per quanto riguarda il movente. Gli inquirenti stanno infatti cercando di capire i contorni nei quali è maturata tutta la vicenda e se l'uomo soffrisse o meno di disturbi psichici. Da qualificate fonti investigative si apprende che l'uomo non ha precedenti specifici. Il somalo, secondo quanto ricostruito finora, era ospitato in una struttura della Croce Rossa. Sempre secondo quanto si apprende, il somalo era arrivato da alcuni anni in Europa ed era stato in altri Paesi prima di arrivare in Italia. Qualche mese fa aveva presentato domanda per lo status di rifugiato. 

Già respinto da 4 Stati il somalo che ha accoltellato un bimbo. Lucia Galli il 13 Settembre 2021 su Il Giornale. Ha ammesso l'uso di cocaina l'immigrato che ha accoltellato cinque persone. Negato all'estero lo status di rifugiato per l'indole violenta. Si salverà, ma non potrà scordare. È fuori pericolo, dopo un delicato intervento alla gola, il bambino che, nel tardo pomeriggio di sabato, è stato accoltellato da un uomo di origini somale, Somale Eduula, in fuga da un bus dove gli era stato chiesto di esibire il biglietto. Un 11 settembre che sul calendario di un bimbo di 6 anni doveva significare soltanto l'ultimo sabato di vacanza, vigilia del primo giorno di scuola e che, invece, nella sua memoria avrà per sempre il sapore di un incubo. Miramare, viale regina Margherita, tramonto che si tinge di viola ed arancio: per Rimini l'ora più bella di una sera che profuma ancora d'estate. La mano nella mano alla mamma. Il mondo di quel bimbo è tutto li, nella sicurezza di una famiglia venuta dal lontano Bangladesh, nell'attesa di un futuro che doveva cominciare oggi fra nuovi compagni di classe e i libri. Sabato, però, è spuntato quell'uomo, la mano armata di un coltello, la corsa disperata all'ospedale. Nella notte, mentre le forze dell'ordine fermavano il 26enne somalo e cominciavano ad inquadrare la sua storia di sbando e violenza, il bimbo lotta ancora: la coltellata gli ha reciso la giugulare. Dall'Infermi di Rimini le buone notizie arrivano solo ieri pomeriggio. Il piccolo ce l'ha fatta, è in rianimazione con prognosi riservata, ma non rischia la vita. Fuori dalla sala operatoria e dal reparto, oltre ai familiari, si avvicendano il sindaco ed il vicesindaco della città amata da Tiberio, quel porto di mare da cui si salpava proprio per l'est dell'Impero romano e dove ora pure si sbarca con storie cosi diverse. Di integrazione piena per la famiglia della piccola vittima, di degrado e follia per il 26 enne che si trova in Italia da alcuni mesi, ma che in Europa era arrivato fin dal 2015, vedendosi rifiutate le richieste per lo status di rifugiato in altri 4 Paesi del Nord: Danimarca, Svezia, Germania ed Olanda hanno detto no. Lui ci ha riprovato qui, qualche mese fa. «Il nostro primo dovere ora è assistere le vittime di questa tragedia per cui serve il massimo rigore: come ha potuto un uomo già noto per la sua violenza essere libero di circolare?», si chiede amaro il primo cittadino Andrea Gnassi. Fra Rimini e Riccione, l'aggressore sopravviveva, bighellonando spesso lungo gli 8 km di quella linea 11 su cui viaggiava anche sabato. Era ospite irrequieto e violento di una struttura di volontariato della Croce Rossa di Riccione che lo aveva già segnalato per comportamenti aggressivi. Gli inquirenti, coordinati dal pm Davide Ercolani hanno sentito ieri il somalo. Un interrogatorio di pochi minuti nel quale Eduula ha ammesso di aver fatto uso di cocaina prima del raptus sul bus. L'uomo ha ferito altre 4 persone, tutte donne, pur in modo meno grave rispetto al bimbo che si è trovato più direttamente sulla sua traiettoria di fuga scellerata. Il somalo ha, prima, aggredito le addette al controllo dei biglietti, estraendo un coltello al posto del ticket che non possedeva. Le due donne, dipendenti della ditta Holachek che lavora per i trasporti Start - Romagna, sono state trasportate all'ospedale Bufalini di Cesena: la più grave ha una prognosi di 60 giorni con ferite a torace, viso e collo; la collega ne avrà per 10 giorni. Nel frattempo, quando l'autista dell'autobus ha compreso quello che stava accadendo, ha deciso di arrestare il mezzo lungo la trafficatissima provinciale, all'altezza della fermata del Talassoterapico. A quel punto il somalo si è buttato armato fra i passanti. Prima ha ferito di striscio, entrambe sempre alla gola, una giovane e una anziana. Poi di fronte a un hotel si è imbattuto nel bimbo per mano alla mamma e ha colpito più duro. Oggi dovrà rispondere, nel primo interrogatorio, delle accuse di tentato omicidio, lesioni e tentata rapina, avendo trasformato anche l'infanzia di un bimbo in un 11 settembre personale e dolorosissimo. Lucia Galli

Michela Allegri per "il Messaggero" il 13 settembre 2021. Al suo avvocato e ai poliziotti che lo hanno fermato con l'accusa di tentato omicidio, lesioni e tentata rapina, in un inglese stentato, ha raccontato di non ricordare nulla dell'aggressione folle che lo ha visto protagonista due sere fa. Somane Duula, 26 anni, somalo, a Rimini ha accoltellato 4 persone e un bambino di sei anni, che ha rischiato la vita ed è stato sottoposto a un delicato intervento alla carotide. Lo straniero ha dichiarato che, al momento dell'agguato, era sotto l'effetto di stupefacenti. «Avevo assunto cocaina», avrebbe detto al suo legale, Maria Riveccio. Parole che dovrà decidere se ripetere o meno al gip, nel corso dell'interrogatorio di garanzia che verrà effettuato nelle prossime ore. Ieri Duula non ha potuto rispondere alle domande del pm Davide Ercolani, perché non parla italiano e dovrà essere affiancato da un interprete. Le accuse sono pesantissime. Intanto il piccolo Sunny, il bimbo bengalese ferito dall'indagato, è finalmente fuori pericolo. Duula era in Italia da due mesi, ospite in una struttura della Croce Rossa a Riccione. Aveva fatto richiesta di protezione umanitaria e stava attendendo che la commissione decidesse se concedergli o meno lo status di rifugiato. Prima di arrivare in Romagna, lo straniero era stato in altri Paesi europei: Svezia, Danimarca, Germania e Olanda. Ora le indagini puntano a ricostruire il suo passato e come sia arrivato in Italia. Per il momento sono esclusi legami con ambienti terroristici ed estremisti, ma gli accertamenti sono appena iniziati. Duula non aveva precedenti, alcuni compagni di alloggio hanno raccontato che aveva già avuto atteggiamenti violenti, ma non risultano segnalazioni ufficiali.

LA POLEMICA Gli inquirenti dovranno anche ricostruire se eventuali segnali di pericolo siano stati sottovalutati. È quello che si chiede il sindaco Rimini, Andrea Gnassi: «Perché una persona che aveva già dato segni di alterazione girava liberamente?». Ed è proprio su questo punto che infuria la polemica politica, con la ministra Luciana Lamorgese nel mirino, il duro attacco sferrato nei suoi confronti dal leader della Lega, Matteo Salvini - «se non è capace di fare il suo lavoro, lasci» -, e FdI che ha esplicitamente chiesto le dimissioni. La capa del Viminale ha intanto parlato di «episodio gravissimo» e ha annunciato la sua presenza oggi nel capoluogo romagnolo per partecipare al Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica. Salvini ha però chiesto un faccia a faccia alla presenza di Draghi e Lamorgese ha fatto sapere di aver dato da tempo la disponibilità a un confronto.

L'AGGRESSIONE Intanto gli inquirenti hanno già sequestrato i filmati delle telecamere di sorveglianza a bordo del filobus numero 11, che porta da Riccione a Rimini. I fatti sono avvenuti alle 19 di sabato. Due ispettrici hanno chiesto a Duula di mostrare il biglietto e lui ha reagito tirando fuori dallo zaino un coltello e ferendole. Poi, è sceso dal bus minacciando l'autista, ha cercato di fermare le auto in corsa. Ha anche provato a rubare il portafoglio di un uomo che era in macchina e che si è protetto chiudendo la portiera e mettendo la sicura. Mentre scappava a piedi verso Rimini, ha puntato l'arma contro diversi passanti. Ha colpito altre due donne e il piccolo Sunny, che stava passeggiando insieme alla mamma e al fratellino: lo ha accoltellato alla gola. Il bimbo ha rischiato di morire, ma ieri mattina, dopo una delicata operazione, è stato dichiarato fuori pericolo dai medici dell'Ospedale Infermi. La prognosi, però, resta riservata. Le due controllore dell'azienda di trasporti Start Romagna sono state ferite rispettivamente al volto e a un braccio: la più grave ha una prognosi di 60 giorni, l'altra guarirà in 10 giorni. Vittime della furia del ventiseienne, anche una ragazza residente a Pesaro, colpita in una traversa nei pressi della stazione di Miramare, e una pensionata di 77 anni, aggredita all'altezza del lungomare Regina Elena. Mentre scappava dalla polizia, Duula puntava il coltello alla gola di chiunque intralciasse la sua corsa.

Estratto dell’articolo di Alessio Ribaudo per il "Corriere della Sera" il 13 settembre 2021. (…)  Somane Duula, che non ha precedenti penali, è in carcere a Rimini e, forse già oggi, sarà chiamato a rispondere ai magistrati durante l'interrogatorio di garanzia, assistito da un interprete. Le accuse sono tentato omicidio, lesioni e tentata rapina. Duula aveva già mostrato comportamenti a rischio nei giorni scorsi. «Lo avevamo segnalato alla Prefettura, con due email di posta elettronica certificata, perché aveva manifestato atteggiamenti aggressivi - spiega al Corriere Rita Rolfo, responsabile di Croce Rossa Rimini - durante la sua permanenza in una struttura di Riccione, gestita da noi, dove era arrivato il 25 agosto. Ci era stato affidato per essere ricollocato altrove. Come da prassi, non sarebbe dovuto uscire; ma non possiamo recludere gli ospiti. Aveva seguito qualche corso d'italiano online ma era un po' strano. Spero che adesso non vengano infangati i nostri risultati: con il nostro lavoro abbiamo contribuito a tante storie felici di integrazione e inserimento». Stamattina, a Rimini si riunirà il comitato per l'ordine e la sicurezza, con la ministra dell'Interno, Luciana Lamorgese, contro cui ieri è tornato a scagliarsi il leader leghista Matteo Salvini.

Immigrazione, la lettera della Ong a Luciana Lamorgese: "Sbarcano troppi falsi minori criminali". Luciano Squillaci - Giovanni Mengoli su Libero Quotidiano il 12 settembre 2021. Di seguito, pubblichiamo la nota inviata dalla Fict - Federazione Italiana Comunitä Terapeutiche alla ministra dell'Interno Luciana Lamorgese. «Una situazione ormai divenuta insostenibile», commenta Riccardo De Corato, assessore alla Sicurezza della Regione Lombardia e membro della direzione nazionale di Fratelli d'Italia. La presente nota per segnalare la situazione critica degli ultimi mesi legata all'accoglienza dei msna (minori stranieri non accompagnati), il cui flusso è caratterizzato da un alto numero di minori dalla Tunisia, flusso concentrato nei centri del nord Italia, ove operano anche centri della nostra Federazione. Ciò che preoccupa come operatori sociali, ma anche come cittadini, è l'inerzia istituzionale di tutto il sistema di accoglienza (Enti Locali e rispettivi Servizi Sociali, Questura, Procura e Tribunale per i minorenni), che finisce per scaricare su chi fa l'accoglienza il carico di minori devianti, per nulla interessati a un percorso di integrazione (alfabetizzazione innanzitutto), già orientati in modo evidente e sfacciato a spaccio, furti e/o danneggiamenti, e con un atteggiamento di pretesa verso l'essere accolti e mantenuti nel sistema in quanto minori non accompagnati soggetti a tutela. Situazioni talmente evidenti che risaltano in molti verbali di fermo delle Forze dell'Ordine, e nei colloqui tra i Servizi Sociali territoriali e gli operatori delle strutture sociali di accoglienza.

EMULAZIONE

Purtroppo la ricaduta di queste condotte delinquenziali e devianti coinvolge direttamente anche gli altri minori ospitati nelle medesime strutture che, invece, hanno diritto ad un luogo sicuro, protettivo ed accogliente. Si tratta di un fenomeno noto nel settore dei msna, ma che specialmente in questo tempo, caratterizzato dal fenomeno di msna provenienti dalla Tunisia, sta diventando sempre di più insostenibile, per l'alto numero di minori coinvolti in queste dinamiche. Il fenomeno poi si amplifica perché anche se pochi finiscono per trascinarsi dietro come emulazione connazionali, meno strutturati, che vorrebbero provare a fare un percorso di legalità e integrazione. In particolare nei centri di prima accoglienza sono accompagnati dalle forze dell'ordine sedicenti minori, in alcuni casi anche precedentemente fotosegnalati da maggiorenni ma che ritrattano le generalità quando sono fermati, giovani che all'apparenza sono visibilmente grandi. Segnaliamo che il protocollo per l'accertamento dell'età è ancora troppo macchinoso ed anche poco efficace, perché il più delle volte al termine di tutta la trafila procedurale, il Tribunale Minori o non si esprime, o se lo fa riconosce la minore età, per via dei range di età definiti dalle mappe di raffronto dell'esame auxologico tarati sul mondo occidentale. Questi sedicenti minori approfittano della situazione di incertezza per continuare a delinquere avendo garantito vitto e alloggio. In altri casi i minori tunisini accolti lo sono realmente, ma presentano situazioni di devianza e marginalità, con tutta probabilità già in atto nel paese di provenienza, attuando agiti delinquenziali anche eterodiretti fuori e dentro le comunità, contro gli stessi operatori o altri minori in accoglienza. Praticamente tutte le sere non rientrano all'orario concordato, e quando lo fanno, nel cuore della notte sono aggressivi e pieni di pretese. 

CONDOTTE INTOLLERABILI

All'intervento delle FFOO si atteggiano da impunibili e, non avendo riscontro immediato da parte della giustizia minorile, finiscono per sentirsi onnipotenti, e passano per impuniti agli occhi degli altri msna che vogliono impegnarsi in un progetto di legalità. La risposta dei servizi sociali è debole, perché oltre a spostar lidi comunità, laddove possibile, non hanno strumenti adeguati, in quanto i minori sanno bene che non possono essere allontanati. Anche il ricorso alla sanità pubblica, con i ricoveri in psichiatria, specie se a seguito di agiti violenti verso cose e persone, ha poca presa, in quanto effettivamente trattasi di condotte devianti e antisociali, piuttosto che franche patologie psichiatriche. Segnaliamo infine che sono questi stessi minori che finiscono per gestire l'accoglienza, terrorizzando il nostro personale, che si sente senza strumenti. In alcuni casi sono loro stessi che accompagnando in Que sturai loro coetanei connazionali per autodenunciarsi come senza parenti, dopo averli invitati per via telefonica a salire al Nord d'Italia. Mentre facciamo presente che il fenomeno, non può esse re considerato marginale, perché si presta all'emulazione degli altri msna in accoglienza, e finisce per minare la sicurezza delle città più grandi (Genova, Bologna per fare esempi a noi noti), offriamo alcune proposte concrete alla vostra attenzione: - redigere un'informativa del Ministero dell'Interno ai Questori in cui chiedere di attenzionare l'accesso dei sedicenti msna verificando le generalità, oltre al fotosegnalamento, e dove ci fossero dubbi costruire raccordi con i consolati e le ambasciate dei minori coinvolti in Italia al fine di un riscontro sulle generalità dichiarate; la medesima informativa potrebbe attenzionare sempre le Questure verso le richieste di intervento delle comunità di accoglienza, nelle situazioni in cui viene richiesto il supporto delle FFOO, anche costruendo buone prassi di raccordo con i gestori - in raccordo con il ministero della Giustizia, strutturare collaborazioni con Procura e Tribunale minori delle varie regioni, anche potenziando l'organico dei magistrati preposti all'esercizio; - in accordo con i servizi invianti e le FFOO rintracciare le famiglie di origine per valutare possibili rimpatri assistiti per gli autori di reato o per chi desideri rientrare nel proprio Paese. Alla luce di quanto sopra, chiediamo a codesto Spett.le Ministero un incontro ad hoc, anche in modalità on line, al fine di approfondire la problematica e le proposte di intervento. Tale incontro riteniamo assolutamente necessario al fine di salvaguardare un sistema di accoglienza.

Flavia Amabile per “La Stampa” il 29 agosto 2021. I migranti tornano a dividere le forze di maggioranza. La pressione creata dall'arrivo di chi sta fuggendo dall'Afghanistan insieme con l'aumento degli sbarchi sulle coste ha dato al leader della Lega la possibilità di lanciare un nuovo attacco alla ministra dell'Interno Luciana Lamorgese. «Un ministro dell'Interno difende i confini: io l'ho fatto e per questo sono andato a processo. Spero che il ministro dell'Interno, se c'è si svegli, altrimenti lo faccia fare a qualcun altro», ha avvertito Salvini, aggiungendo di auspicare porte aperte ma solo per donne, bimbi e ragazzi in fuga da «quella guerra» («non possiamo permetterci migliaia di sbarchi di persone che non scappano da nessuna guerra»). La campagna elettorale per le amministrative incalza, si affilano le armi di migrazioni di massa, la disfida col Pd passa da Twitter («Letta dice che la Lamorgese non si tocca, intanto altri 400 clandestini sbarcano a Lampedusa. Pagano Letta e Lamorgese?»). All'interno della Lega la linea del segretario è stata subito condivisa. Il deputato Eugenio Zoffili si è detto «molto preoccupato» per «la crescita esponenziale del traffico di esseri umani che entrano illegalmente in Italia e in Europa attraverso i nostri confini». Nel suo ruolo di presidente del Comitato parlamentare di controllo sull'attuazione dell'accordo di Schengen, di vigilanza sull'attività di Europol e di controllo e vigilanza in materia di immigrazione, Zoffili ha poi reso noto di aver convocato con urgenza la ministra dell'Interno. Attilio Lucia, commissario della Lega a Lampedusa, ha confermato le accuse al Viminale spiegando che nonostante sull'isola regni il caos il segretario del Pd continua a difendere la ministra dell'interno. Un leitmotiv, questo del "dalli alla Lamorgese", lanciato dallo stesso Salvini che replicando all'intervista della ministra per il Sud Mara Carfagna a La Stampa, ne contesta la difesa dell'inquilina del Viminale parlando di uscita «infelice». La proposta della Lega è chiara, tanto più dopo il sacrificio di Durigon. Dimissioni di Lamorgese e del sindaco di Lampedusa. E poi smantellare l'hotspot: «Basta al traffico di carne umana e ai morti nel Mediterraneo. Occorre intervenire nei Paesi di origine, perché l'Italia oggi non può accogliere l'intera Africa». La situazione sta creando preoccupazione anche tra gli esponenti di Forza Italia. La presidente dei senatori Anna Maria Bernini ha chiesto l'intervento dell'Ue perché «l'Italia, che ha appena messo in salvo cinquemila afghani, più di ogni altro Paese Ue, non può continuare a reggere da sola tutto il peso dell'accoglienza umanitaria dei migranti dal Nord Africa». Gasparri, invece, ritiene «indispensabile» un vertice tra governo e maggioranza perché «serve un altro approccio al problema».

Da adnkronos.com il 29 agosto 2021. Finisce in Procura il maxi sbarco avvenuto all'alba di oggi a Lampedusa, con oltre 500 persone a bordo. La Procura della Repubblica di Agrigento, guidata da Luigi Patronaggio, ha aperto un'inchiesta. Gli inquirenti cercano di capire se dietro il viaggio, con le persone stipate a centinaia nella stiva, ci sia una organizzazione. I migranti, quasi tutti uomini, erano stati tenuti per settimane nei lager di detenzione in Libia. E molti hanno subito torture e violenze di ogni tipo. Sulla più grande della Pelagie oggi sono arrivati in tutto oltre 750 migranti. Al maxi sbarco infatti si sono aggiunti altri mini approdi per un totale di 12. Per tutti è stato disposto il trasferimento nell’hotspot di contrada Imbriacola. "Qui è il caos. Mentre la Sicilia da lunedì sarà in zona gialla e ai cittadini si impongono nuovi sacrifici, a Lampedusa da ore si susseguono gli sbarchi. Centinaia e centinaia stipati su barconi e barchini. Una vera e propria invasione in piena pandemia" dice Attilio Lucia, commissario cittadino della Lega a Lampedusa, che ha filmato con il cellulare l'ennesimo approdo. "Solo l'ultimo di oggi, è un continuo via vai con le forze dell'ordine ormai stremate - dice all'Adnkronos -. Da mesi va avanti così. Nel silenzio generale. Il ministro Lamorgese? Ha dimostrato tutta la sua incapacità nella gestione del fenomeno, ma Letta dice che non si tocca. Una vergogna". Torturati con un ferro rovente sulla coscia, bruciati con le sigarette su tutto il corpo, e con una pallottola nello stomaco. Sono solo alcune delle storie, tragiche, raccolte questa mattina dal medico anestesista Alessandro Trainito, che da un mese si trova a Lampedusa, a seguire per Medici senza Frontiere gli sbarchi dei migranti. I migranti del maxi sbarco erano quasi tutti maschi, giovani, provenienti dall'Africa subsahariana e dal Nordafrica, ma anche dal Bangladesh, dallo Yemen, dalla Palestina, dalla Siria. Tutti arrivati dalla Libia. Dove prima di partire sono stati detenuti e hanno subito violenze di ogni genere. "Sono stati recuperati da una grossa imbarcazione e trasbordati al Molo Favaloro - racconta il medico anestesista di Msf - questo gruppo ha raccontato di avere subito dei maltrattamenti, di varia natura. Vere e proprie torture. E c'erano i segni evidenti. Un ragazzo aveva una brutta ferita sulla coscia, e ci ha detto che è stato torturato con un ferro rovente". "La ferita si stava rimarginando - dice Trainito - ma era infetta. Quindi va curata subito. Su altri ragazzi giovani c'erano segni di colpi di arma da fuoco, sia vecchi che nuovi. Uno aveva una pallottola nell'addome, a un altro hanno sparato venti giorni fa". "Poi c'era un gruppetto di ragazzi del Bangladesh che non aveva segni evidenti corporei, ma ci hanno detto di essere stati maltrattati. Alcuni avevano dei segni di bruciatura da sigarette sul corpo". E poi c'è chi aveva il piede gonfio e infetto. "Perché gli hanno infilato nel piede degli oggetti", spiega il medico. Altri avevano delle "cicatrici da bastonate".

Toni Capuozzo attacca Luciana Lamorgese: "In Italia entra chiunque". Ondata di profughi, il rischio dall'Afghanistan. Libero Quotidiano il 28 agosto 2021. L'Afghanistan caduta nelle mani dei talebani, l'attentato dell'Isis a Kabul e il problema dei profughi in arrivo sono temi che tengono banco nei talk show televisivi. Del resto le ricadute di quanto sta accadendo rischiano di essere pericolose e non solo per l'Italia, qualora non si riuscisse nella gestione piena, di tali flussi di profughi. Per Toni Capuozzo, uno dei migliori inviati di guerra degli ultimi 30 anni, riporta Il Tempo, la questione è seria e purtroppo in Italia c'è un problema. "Diciamo pure che in Italia, basta presentarsi all'ingresso per essere accolti", tuona Capuozzo, riferendosi evidentemente al ministro dell'Interno Luciana Lamorgese. "Da mesi diamo asilo politico a chiunque, basta che lo richieda", osserva il giornalista. "Dialogare con i talebani sarebbe loro accreditamento internazionale. Un errore. Preoccupiamoci di affrontare la lotta all'Isis, ora è più forte che mai. Gli Stati Uniti hanno risvegliato anche le cellule dormienti site in Libia". Quindi affonda il presidente degli Stati Uniti: "Biden? Semplicemente, continua a non capirci nulla di niente". Diversamente la pensa Antonio Caprarica, giornalista e volto noto della Rai, secondo il quale la situazione è però, meno grave di quanto ipotizzato: "Parliamo al più, di migliaia e non certo di milioni di profughi". Accentuare uno scenario da esodo biblico, rischia solo di fare il gioco dei sovranisti in Italia: "Il nostro servizio di intelligence è certamente in grado di scongiurare l'eventuale pericolo terroristico in arrivo tramite i profughi".

La superba lezione di Oriana Fallaci sull’immigrazione. Parole illuminanti. Carlo Franza il 28 agosto 2021 su Il Giornale. “Io non vado a rizzare tende alla Mecca. Io non vado a cantar Paternostri e Avemarie dinanzi alla tomba di Maometto. Io non vado a fare pipì sui marmi delle loro moschee, non vado a fare la cacca ai piedi dei loro minareti. Quando mi trovo nei loro paesi (cosa dalla quale non traggo mai diletto) non dimentico mai d’ essere un’ospite e una straniera. Sto attenta a non offenderli con abiti o gesti o comportamenti che per noi sono normali e per loro inammissibili. Li tratto con doveroso rispetto, doverosa cortesia, mi scuso se per sbadatezza o ignoranza infrango qualche loro regola o superstizione. (…) noi italiani non siamo nelle condizioni degli americani: mosaico di gruppi etnici e religiosi, guazzabuglio di mille culture, nel medesimo tempo aperti ad ogni invasione e capaci di respingerla. Sto dicendoti che, proprio perché è definita da molti secoli e molto precisa, la nostra identità culturale non può sopportare un’ondata migratoria composta da persone che in un modo o nell’ altro vogliono cambiare il nostro sistema di vita. I nostri valori. Sto dicendoti che da noi non c’ è posto per i muezzin, per i minareti, per i falsi astemi, per il loro fottuto Medioevo, per il loro fottuto chador. E se ci fosse, non glielo darei. Perché equivarrebbe a buttar via Dante Alighieri, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello, il Rinascimento, il Risorgimento, la libertà che ci siamo bene o male conquistati, la nostra Patria. Significherebbe regalargli l’Italia. E io l’ Italia non gliela regalo.”(Oriana Fallaci). Non aggiungo nessun commento alle parole di Oriana Fallaci, perché parlano da sé, sono stella e guida per gli italiani e gli europei. Carlo Franza

I migranti a Lampedusa, l’isola che non c’è: «Nel nostro Paese devastato non abbiamo più nulla». Il Covid-19 e l’instabilità politica spingono gli arrivi dalla Tunisia. A centinaia sono ammassati sotto il sole impietoso nell’hotspot, prima di ripartire. Elena Testi su L'Espresso il 13 agosto 2021. Aspettano nascosti dal sole. C’è una casupola diroccata a fare da ombra. Saranno dieci, forse dodici. Difficili contarli mentre guardi quella buca in basso da dove arrivano i canti. Guardano anche loro dentro la buca, a decine di passi dall’inferriata, consapevoli che tanto da lì non scappa nessuno. «Non vi potete avvicinare, almeno non oltre i venti metri», dice un militare. La divisa consumata dal sole, il volto cotto, la pelle sfregiata dall’umidità. Lampedusa, primi giorni di agosto. C’è terra e sassi tutto intorno. Ci sono i militari che chiedono i documenti a qualsiasi giornalista che si avvicini all’hotspot perché è necessario per motivi di sicurezza rendere nota la propria identità. Nessuno risponde alle domande: «Se vuole sapere qualcosa di più chieda un’intervista al ministero». E così rimangono fermi ad attendere le ore, ad aspettare che qualcuno arrivi a dargli il cambio in quella terra marziana, mentre dentro, oltre il recinto, dove sono state stipate centinaia di persone, ci sono i canti, i bambini che guardano storditi quell’ammasso di mille teste in cerca di ombra. I materassi sono fuori dagli edifici, ma al di là dell’inferriata. Disposti addosso alle mura, alcuni teli stesi per fare da riparo. Lì dormiranno in duecento, gli altri quasi ottocento tutti fuori all’aria aperta che siano 40 gradi o che ci sia pioggia torrenziale. Che ci sia una crisi sanitaria in corso a livello mondiale. Qui il distanziamento non è previsto, qui la sicurezza sta nel tenerli dentro il recinto. Un ragazzino del Bangladesh si avvicina, avrà vent’anni. Lui dentro, io fuori. Ha in mano una mazzetta di soldi, non parla italiano, non parla inglese e neanche francese. Ride esaltato, felice che ci sia un volto all’esterno della grata. Vuole che qualcuno gli cambi i soldi. E continua con la sua mazzetta a ridere felice. Chiama un amico a fare da traduttore, mentre tiene stretto il rotolino tra le mani. Così stretto che si vede la tensione delle dita. Il militare arriva subito: «Stia lontana almeno venti metri, potrebbero tirarle qualcosa addosso, lo diciamo per la sua sicurezza». Eppure chi arriva all’inferriata più che lanciare oggetti, chiede aiuto. Gli altri ti ignorano, fanno come se non esistessi. Un megafono chiama, sono disposti in fila. Hanno solo una sacchetta di plastica a quadretti tra le mani, dentro ci sono le poche cose che si portano appresso. Il megafono chiama e aspettano. Aspettano ancora, fino a entrare dentro i furgoni che porterà loro al porto commerciale di Lampedusa. Davanti, in prima fila, spuntano due bottoni luminosi. Sono occhi di bambino. Da lontano sembra alto un palmo di mano e un marshmallow. Ti chiedi se sappia dove andrà, se la madre che gli è accanto gli abbia spiegato dove si trova. La stessa che l’ha fatto arrivare da un paese lontano e gli ha fatto attraversare il mar Mediterraneo. «Arrivano stremati, distrutti dalla sete quando va bene», ti spiega chi ogni giorno si trova ad accoglierli. Al porto di Lampedusa arrivano in una ottantina, pronti a partire per la Sicilia dove finiranno in quarantena per quindici giorni. Sono divisi in gruppi senza che nessuno glielo abbia chiesto. Da una parte i tunisini, dall’altra i subsahariani. Diversi nel loro modo di cercare fortuna. «Siamo qui perché il coronavirus ci ha tolto tutto e sta devastando il nostro paese», spiega un ragazzo di 21 anni. Un suo amico si intromette: «Anche la situazione politica tunisina ci sta spingendo a lasciare il nostro Paese». Ogni giorni ci sono oltre cento morti e quasi tremila contagi in una terra che conta dodici milioni di abitanti. Per evitare la catastrofe sanitaria la Cina ha donato per il momento 500mila dosi, 250mila sono arrivate dall’Algeria e dalla Francia un milione. Dall’Italia un milione e cinquecentomila. Un popolo che rincorre l’immunizzazione mentre la politica traballa con il presidente Kais Saied che ha licenziato alla fine di luglio il premier Hichem Mechichi e congelato il Parlamento. C’è chi lo ha definito un golpe chi invece lo ha visto come il tramonto dei Fratelli musulmani. Ma il Covid-19 esplode e insieme agli ospedali che ricevono bombole d’ossigeno dall’estero, l’economia si blocca, spingendo il popolo a fuggire. «Vedi quel posto sono arrivati lì, sono scesi dalla barca mentre la gente faceva l’aperitivo. Nello stesso momento c’erano altre due sbarchi, ci siamo divisi e ci siamo dovuti ricollocare con le varie squadre per riuscire a prestare i primi aiuti e capire le loro condizioni fisiche e psicologiche», dice Alessandro Trainito, medical doctor di Medici senza frontiere agli sbarchi, indicando un foglio di spiaggia vicino a un locale. Alessandro guarda il mare: «Io di guerre ne ho viste, anche di gente morire. Ma il mare è diverso, la gente in mare non la vedi morire, la vedi scomparire...». Parla mentre il caldo ti si appiccica addosso, mentre il sudore ti copre il viso. L’umidità di quest’isola uccide. «Quest’anno arrivano in tanti, in questo momento soprattutto dalla Tunisia, il nostro compito e sapere come stanno fisicamente e psicologicamente. È difficile stabilirci un rapporto appena scendono dalla barca o dalla motovedetta della Guardia costiera o della Guardia di finanza». È stanco, non ha dormito, la notte l’ha passata al porto Favarolo con gli sbarchi che continuavano e le condizioni fisiche da comunicare. Tutti vengono tamponati dalle autorità sanitarie italiane prima di entrare nell’hotspot e prima di ripartire. Chi è positivo finisce nelle navi quarantena, insieme ai negativi, ma comunque separati tra loro. Mentre parliamo ne arriva una a Cala Pisana. Fuori c’è la Croce Rossa pronta ad attendere i furgoncini. Vengono messi dentro alla grande nave. La gente passa con i motorini ignara di un tempo diverso. «Questa è l’isola che non c’è, arriviamo con la speranza di fare del bene, ma sappiamo che nonostante tutto mettiamo delle pezze perché il sistema potrebbe andare molto meglio», dice Alessandro. È notte, arriva la notizia di un nuovo sbarco, il terzo da inizio giornata, anche se le onde del nord Africa facevano pensare che nessuno sarebbe partito. E invece no. La Guardia di finanza sta scortando la barchetta con a borda una sessantina di persona. Le telecamere, due soltanto, aspettano di raccontare quel che accade in quest’isola di cui nessuno parla più, se non pochissimi. Un ciuffo di persone si ferma: «Che succede?», chiedono. «Un nuovo sbarco», rispondiamo. E loro rimangono perché uno sbarco non lo hanno mai visto e hai la sensazione che lo osservino con la stesso entusiasmo di un concerto qualunque, svuotandolo. Mentre i turisti cercano il loro spazietto in prima fila per assistere allo spettacolo, i migranti non sanno dove andare, forse non capiscono le indicazioni, vedono terra ferma e invece di arrivare al porto Favarolo, approdano nel primo scoglio vicino alla riva. Scendono con la foga di chi ha trovato la terra promessa. Scendono con lo stupore. Vengono fatti sedere. Le autorità contano le teste puntando addosso a loro una lampadina. «Altri dieci», si sente urlare. E partono. Poi: «Adesso donne e bambini» e partono anche quelli. I volti, quei volti, li vedi attraverso il sorriso. Li vedi in quella barchetta che galleggia poco lontano e ti chiedi se non sia in fondo al mare grazie a una forza ancestrale che li ha portati fin qui. Ti vengono in mente i racconti di tutti, ti chiedi quale sia la loro storia. Sai cosa li aspetta e sai che alcuni attraverseranno l’Europa in cerca dei fratelli che magari si trovano nella costa di Nord-Pas-de-Calais, così tanti nell’ultimo periodo da spingere la Francia a chiedere aiuto a Frontex. Alcuni tenteranno in pieno inverno di attraversare le montagne di Bardonecchia con il rischio di rimanere congelati in mezzo alla neve alta che scende imperterrita nel cuore della notte, proprio lì, dove la gente l’estate gioca a golf. Altri forse dormiranno per strada, vicino alle stazioni, perché l’accoglienza non sappiamo cosa realmente sia. Altri, pochi, ce la faranno a mantenere il volto del sorriso. Il sorriso della terra promessa finalmente trovata. 

Migranti in cerca di un porto sicuro, la tragedia continua nel silenzio. Bianca Senatore su L'Espresso il 13 agosto 2021. A bordo della Ocean Viking, dove 449 persone sono state salvate in poche ore. Stremate, affamate, in attesa di un sì allo sbarco. I loro racconti: «Veniamo dalla Nigeria, mia sorella è stata uccisa e mia madre stuprata. In Libia l’hanno violentata ancora. E adesso non parla più». Test Covid, zaino in spalla e via in direzione porto di Augusta. A prima vista la Ocean Viking mi sembra quasi piccola ma quel mezzo metro di passerella tra la banchina e la nave sembrano separare due dimensioni parallele. Una volta a bordo, il mondo si racchiude in 70 metri di lunghezza e l’equipaggio di Sos Méditerranée mi accoglie nella sua quotidianità. Dopo dieci giorni di quarantena, la Ocean Viking salpa verso il Mediterraneo Centrale, pronta a salvare quante più vite possibile grazie al lavoro di tutto l’equipaggio. Un lavoro duro. Ci vuole tanta forza fisica e mentale per affrontare un naufragio, ma soprattutto ci vuole preparazione. Una volta in mare aperto, scopro che tutto l’equipaggio si prepara a una simulazione e io vengo coinvolta. Giubbotto salvagente, caschetto, guanti e scarpe antiscivolo per poi scendere nei rhib (il gommone di salvataggio, ndr) e provare ogni tipo di situazione. «Non c’è mai un caso uguale all’altro, per questo è necessario simulare, per capire come ottimizzare i tempi, quali errori non commettere, quali possibili opzioni migliori possono eventualmente esserci», mi spiega Rocco, un membro dell’equipaggio. Un secondo vale una vita. Non c’è improvvisazione su nulla e dietro quell’etichetta di “buonisti” che spesso i soccorritori si sentono appicciare addosso ci sono, invece, professionalità, sacrificio e amore.

L’ATTESA. Durante i primi giorni di navigazione si susseguono alcune segnalazioni di Alarm Phone e la Ocean Viking, per due volte, inverte la rotta da sud verso nord per provare a soccorrere le imbarcazioni in pericolo. Entrambe le volte, però, la guardia costiera libica arriva prima. È il gioco del gatto col topo. Le motovedette libiche (anzi, italiane ma usate dai libici) si mettono sulla scia della Ocean Viking perché sanno che stiamo andando verso un possibile target e non appena ci avviciniamo, azionano i motori al massimo per superarci. Uno scherzo, dal momento che la nostra nave può andare al massimo a 12 nodi, mentre loro a 30/35. Per i naufraghi non c’è scampo. «Li hanno ripresi, fanno sempre così ma noi non possiamo fare niente», commenta Ryad. Il barcone di legno è fermo tra due piattaforme petrolifere e la motovedetta è affiancata. Pur volendo, la Ocean Viking non avrebbe comunque potuto avvicinarsi, perché le piattaforme sono protette e la guardia costiera libica lo sa, quindi spesso spinge i barconi in quella direzione proprio per sbarrare la strada alle ong. Altre volte sono le imbarcazioni stesse dei migranti a trovarsi nelle loro vicinanze. «La chiamano la rotta delle petroliere, è una sorta di guida per non perdersi», mi spiegherà in seguito uno dei naufraghi. Non sanno che è proprio lì che scatta la trappola che li riporta nell’inferno libico. Qualche ora dopo, Alarm Phone conferma che 120 persone sono state intercettate e rimandate indietro. Intanto, sono passati pochi giorni dal rifinanziamento che il governo italiano ha elargito alla Libia e si fa largo il sospetto che per dimostrare di meritarlo, le motovedette abbiano bloccato in partenza decine e decine di barche. Per due-tre giorni, infatti, il Mediterraneo sembra vuoto. Non ci sono avvistamenti, se non di relitti che chissà chi trasportavano, né arrivano alert da Alarm Phone o da Seabird, il drone di Sea Watch. Tutto tace. A bordo si continuano a studiare i possibili scenari sia in mare che sul ponte, con il medical team che allena tutti alla rianimazione cardio-polmonare. Mi ritrovo a fare trenta pulsazioni su un manichino pregando che nessun naufrago si trovi in tali condizioni disperate. «Può capitare e noi dobbiamo essere pronti a intervenire», spiega Caterina, medico a bordo.

I SALVATAGGI. «Guys, ready for rescue, ready for rescue». Alle 7 del 31 luglio ci svegliamo tutti così. Dal bridge, il punto più alto della nave, col binocolo è stato avvistato un gommone in pericolo. A bordo ci sono 57 persone tra cui 8 donne e 11 minori, due sono bimbi con meno di 5 anni. In pochi secondi i due rhib sono in acqua, l’equipaggio sul ponte è pronto a ricevere i naufraghi e i protocolli anti-Covid sono attivati. Il soccorso è lento. I migranti sul gommone si agitano, urlano ed è necessario calmarli prima di poter accostare per dare loro i giubbotti di salvataggio. Basta un movimento violento per capovolgere l’imbarcazione. Quando tutti sono in sicurezza, le donne e i bambini vengono portati per primi sul rhib di salvataggio, poi arrivano gli uomini. Hanno lo sguardo allucinato, le gambe tremanti. Qualcuno prega e ringrazia Dio. La ragazza che si siede accanto a me comincia a cantare un inno con il sorriso sulle labbra mentre la donna accanto la guarda male, infastidita. Ci sono 42 gradi ma ho i brividi. Succede davvero. Ne scriviamo, lo raccontiamo ma a starci dentro, l’assurdità, la tragedia e l’ingiustizia colpiscono come una sferzata. Il ritorno verso la nave madre è veloce e a tirar su 57 persone ci vuole poco. Sulla Ocean Viking arrivano i primi ospiti. Sono stati ore e ore in acqua senza bere, sono stanchi e sono spaventati, perché il terrore è sempre quello di essere rimandati indietro. «Welcome on board the Ocean Viking, now you are safe, we will never comeback to Lybia», li rassicura Sanad, il mediatore culturare. Scoppia un applauso, qualcuno si commuove. Pochi minuti di pausa e la squadra dei soccorsi è chiamata per un nuovo salvataggio, ancora un gommone. A bordo i naufraghi diventano 175, un numero destinato a crescere molto velocemente. Nel corso delle 30 ore successive, infatti, si susseguono altri quattro salvataggi, tutti molto difficili. Uno, in particolare, impegna la Ocean Viking e la Sea Watch 3. Su un barcone di legno ci sono accalcate 400 persone, un numero mai visto. Sono state mandate a morire dai trafficanti di uomini. Il motore del barcone era esploso poco dopo la partenza e avevano iniziato a imbarcare acqua mentre la stiva era colma di benzina. Le due ong cooperano per salvare tutti in una condizione di estrema difficoltà, perché è notte e ci sono anche un centinaio di persone finite in mare. I fari provano a illuminare l’acqua scura, le onde non aiutano, le grida attirano l’attenzione dei soccorritori che tirano su uno alla volta tutti quelli che annaspano e cercano aiuto, in qualunque lingua. Respira, sei viva. Dopo quasi sei ore, a bordo della Ocean Viking ci sono 449 migranti. Infreddoliti, disidratati, malconci: a ognuno di loro viene dato un vestito pulito, una bottiglia d’acqua, qualcosa da mangiare e una coperta. «Don’t worry, come in and change your clothes». Mimo ogni movimento perché non tutti capiscono l’inglese. Stare a guardare, fotografare, osservare in certi momenti non basta, è necessario agire e così divento parte dell’equipaggio di Sos Méditerranée, aiuto come posso a distribuire le coperte, a mettere i braccialetti identificativi. All’ultimo intervento, sono ormai le 4 del mattino, le squadre sono esauste e a bordo ci sono 555 naufraghi.

PERCHÉ PARTONO. È quasi l’alba di domenica 1 agosto quando la capomissione Luisa Albera fa la richiesta di un porto sicuro alle autorità marittime competenti di Malta e Tunisia, perché i salvataggi sono avvenuti nelle loro regioni di ricerca e salvataggio. La Tunisia non risponde, Malta nega la responsabilità e il porto e la richiesta, dunque, passa alle autorità marittime italiane. Comincia l’attesa. Il mattino successivo sono tutti ancora intontiti e stanchi per il viaggio, sono distesi sulle loro coperte in ogni angolino del ponte centrale della Ocean Viking, c’è giusto uno stretto corridoio centrale per far passare l’equipaggio. Guardano, sorridono, salutano, si mettono la mano sul cuore per ringraziare. Hanno tutti la mascherina sulla bocca e c’è rumore, si sente poco, ma parlano con gli occhi. Come Malick che inizia a raccontarmi mentre Claire di Sos Méditerranée mi spiega come riempire i distributori di acqua che sono lungo la nave. «Arrivo dalla Nigeria, ho 19 anni. Vivevo in un villaggio nell’area di Ngaia, nello Stato del Borno, studiavo medicina all’università, perché volevo salvare vite, poi un giorno sono arrivati dei terroristi che hanno ucciso mia sorella e stuprato mia madre. Io ero l’unico che avrebbe dovuto proteggerle e non ho potuto fare niente. Allora ho deciso di partire». Da casa sua, Malick e sua madre hanno preso autobus, sfruttato passaggi in auto, persino su un carretto e sono arrivati a Niamey, in Niger per poi raggiungere Agadez. Ed è proprio lì che la loro strada ha incrociato quella dei trafficanti di uomini. Crocevia delle carovane tra Sahara e Sahel, Agadez è diventata la principale piazza di criminali che vendono e comprano armi, droga e esseri umani, perché poi ad arrivare in Libia ci vuole poco: il confine è a pochi chilometri. Malick ha un sorriso aperto anche se parla di cose terribili. «Mia madre è stata violentata ancora in Libia, adesso non parla più», dice e non non sa se riuscirà di nuovo a sentire la sua voce. È sicuro che sia stata salvata e che si trovi sulla Sea Watch 3. I naufraghi a bordo arrivano da Egitto, Etiopia, Sudan, Libia, Eritrea, Siria e ci sono anche tre yemeniti. Non accade spesso. Dei tre, solo uno parla abbastanza inglese da spiegare che viaggio pazzesco e terribile hanno fatto per arrivare in Libia. Ibrahim racconta che con la guerra hanno perso tutto: lavoro, soldi, poi pure la casa. Restare a morire, di fame o sotto le bombe? Decidono di partire, almeno di tentare. Attraversano tutto lo Yemen, fermandosi di tappa in tappa per racimolare i soldi che servono per pagare i controlli ai checkpoint e arrivano al Bab el Mandeb, lo stretto che praticamente separa l’Asia dall’Africa, dove li aspetta la prima traversata in mare. Da lì il racconto di Ibrahim diventa faticoso e confuso, perché anche le loro condizioni peggioravano durante il viaggio, quelle fisiche e quelle mentali. Mi dice che vengono spostati nel campo di Marzaki, a Gibuti, prima di cominciare una traversata nel deserto che li porta, dopo quasi cinque mesi, a Zuara, da dove sono partite tutte le imbarcazioni salvate dalla Ocean Viking. Le storie di questi uomini e donne sono differenti ma in comune hanno la violenza, la povertà, le torture e poi c’è un destino comune che li accomuna tutti: quello di aver incrociato la rotta della Ocean Viking che li ha salvati. «Il momento più bello della mia vita è quando quel ragazzo mi ha dato il giubbotto arancione», si commuove Khamisi. Arriva dal Camerun. «Ero sicuro che sarei annegato, non so nuotare». Perché ha rischiato salendo su quel barcone? «Meglio morire in mare che in una prigione libica dove il mio corpo sarebbe sparito e nessuno avrebbe saputo nulla di me. In mare almeno sarei morto insieme agli altri». Si sceglie come è meglio crepare dall’altro lato delle nostre coste. È talmente grato di essere stato salvato che quasi diventa un altro membro dell’equipaggio della Ocean Viking: raccoglie la spazzatura, bacchetta chi non ha su la mascherina, organizza un gruppo per buttare via l’acqua entrata sulla nave a causa delle onde di tre metri. Fa la vedetta e aspetta, pazientemente, che si arrivi da qualche parte. Al quarto giorno senza un porto per sbarcare, le condizioni sanitarie dei migranti cominciano a peggiorare e si rendono necessario tre evacuazioni mediche. Alla fine, a bordo restano 449 naufraghi le cui condizioni non sono tanto migliori. Il morale è basso, il mal di testa aumenta, i ragazzi con le ustioni da carburante, anche per la stanchezza, non riescono più a tollerare il bruciore. Fa molto caldo a bordo, nonostante tendoni e coperte issate per tutta la lunghezza della nave per riparare dal sole. E la rotta cambia in base alle condizioni meteo. La capomissione decide di seguire il sole in modo tale che ci sia sempre almeno un po’ di ombra e che tiri il vento, per rendere le ore meno pesanti, per quanto possibile. Gli unici in piena forma sono i bambini piccoli: una volta idratati e nutriti scorrazzano per la nave saltando le gambe delle persone stese e infilandosi negli spazi vuoti, come un gigantesco tetris umano. Sarà stato molto difficile tenerli buoni per ore su imbarcazioni instabili piene di gente. Il passeggero più piccolo ha tre mesi, ma non piange mai, temprato già da tante avventure. Due famiglie siriane si ritrovano vicine a chiacchierare. Il più adulto degli uomini era già arrivato in Europa, era scappato da solo ma aveva dovuto lasciare la famiglia a Damasco ed è tornato indietro per portarli con sé al sicuro. Anche Taye già abitava in Europa, anzi, viveva a pochi passi dal Parlamento Europeo. «Sono arrivato a Bruxelles per un contratto di lavoro ma poi non me l’hanno rinnovato e l’azienda mi ha tenuto in nero. A un certo punto la polizia mi ha espulso e mi ha fatto lasciare lì mia moglie e il mio bambino piccolo», spiega. Ora cerca di ritornare da loro. Eh sì, l’Europa.

SBARCO. L’Europa che si chiude dentro i suoi confini e il governo italiano che non risponde. Matteo Salvini tuona contro la Ocean Viking e la Sea Watch che trasportano 800 naufraghi infetti mentre gli italiani devono mostrare il green pass per entrare nei ristoranti. Sulla nave, l’eco delle polemiche politiche è talmente vago e appannato che quasi ci si chiede se sia davvero possibile che il dibattito sia questo. Qui dove sono io ci sono anime che soffrono, che non hanno fatto nulla per meritare tanto dolore, che non mangiano da giorni, non riescono ad andare in bagno, che sono traumatizzate e sperano solo in un qualche tipo di salvezza. Al sesto giorno d’attesa, Sos Méditerranée fa appelli frequenti affinché venga dato il porto di sbarco il prima possibile, perché i kit24h di cibo sono terminati e si deve preparare il riso per 449 persone, su una nave dove non c’è spazio per muoversi. Molto complicato ma l’equipaggio è organizzatissimo e la cena almeno è garantita. Poi arriva la comunicazione ufficiale, Pozzallo è il porto sicuro per sbarcare i migranti. La Ocean Viking per fortuna non è molto lontana, perché per tutto il tempo ha navigato a zonzo lungo la parte orientale della Sicilia, in attesa di istruzioni. Mentre la costa si avvicina, la tensione di molti si scioglie in un applauso «Sesilia, Sesilia», gridano con la gioia immensa di chi sta per esaudire il desiderio di una vita. È la meta del loro viaggio tremendo. Le ultime ore a bordo sono concitate: le autorità portuali procedono lentamente con i test Covid facendo scendere solo cinque persone per volta, giusto il tempo del tampone e poi risalgono sulla nave. Si comincia dai minori non accompagnati, poi le donne, poi gli altri. Sul ponte della nave cambiano gli assetti, ci si sposta per gruppi e le file indiane s’intrecciano, tra chi scende e chi risale. Ma dopo 24 ore sono ancora quasi tutti qui, lo sbarco è molto più lento del previsto. In porto, fermi, non c’è aria, fa caldissimo, ci vuole pazienza. Eppure c’è commozione nell’aria, come se in pochi giorni si sia creato un rapporto particolare, come se la vita a bordo fosse rimasta quasi sospesa. E in effetti è proprio così. La passerella tra nave e banchina separa due mondi: quel mezzo metro è la distanza esatta tra il rischio e la salvezza, tra il passato e il futuro, tra quel che è stato e quel che sarà. Per tutti noi.

Immigrazione, l'ammiraglio Fabio Caffio smaschera le Ong: "Ecco perché sono registrate nel Nord Europa". Libero Quotidiano il 10 agosto 2021. Gli sbarchi delle ultime ore tornano di prepotenza al centro del dibattito pubblico italiano: sono migliaia i migranti giunti sulle nostre coste nel corso del 2021. Di conseguenza si parla anche delle Ong e soprattutto degli Stati che danno la loro bandiera alle navi impegnate nel salvataggio in mare. Fabio Caffio, ammiraglio e massimo esperto di diritto marittimo, ha spiegato al Giornale come mai - nella maggior parte dei casi - le Ong sono registrate nel Nord Europa: "Se usano una nave dal Nord Europa è tutto più semplice: tanto non possono arrivarci". E ancora: "E' praticamente impossibile pensare di portare lì via mare queste imbarcazioni". Caffio ha sottolineato che attualmente non c'è obbligo di sbarco nel Paese di bandiera. Tuttavia questi Stati dovrebbero comunque assumersi delle responsabilità: "Lo Stato deve essere coinvolto per il principio del ‘genuine link’, il collegamento tra nave e Paese di cui è parte. Il problema è che la normativa è vaga. Si parla di 'informare lo Stato' ma non dice che deve intervenire e prendersi i migranti". Secondo l'ammiraglio bisognerebbe operare in maniera diversa: "Le autorità dovrebbero obbligare una nave carica di migranti a rimanere in acque internazionali, attendere che vi siano accordi con il Paese di cui batte bandiera e aspettare che questi migranti siano mandati lì". E' curioso comunque il fatto che le Ong puntino quasi sempre sugli Stati del Nord Europa: "Molto spesso lo fanno per questioni burocratiche. Però esistono i cosiddetti Paesi-ombra che di solito non hanno problemi a concedere la loro 'nazionalità'. Certo, fa riflettere che Stati europei concedano così facilmente i loro diritti ma non siano affatto responsabilizzati. Danno la bandiera ma poi se ne lavano le mani, lasciando il compito ai Paesi mediterranei".

Fausto Biloslavo per "il Giornale" il 6 agosto 2021. I furbetti del Nord Europa ci fregano sempre. A cominciare dal governo norvegese restio a intervenire sulle ammiraglie delle Ong, che battono la loro bandiera e sbarcano i migranti in Italia. Il Giornale ha visionato dei documenti che portano alla luce il menefreghismo europeo. La Norvegia non fa parte della Ue, ma è alleata nella Nato. Al largo delle nostre coste ciondola con 553 migranti partiti dalla Libia la Ocean Viking, battente bandiera norvegese, che vuole sbarcarli da noi. La nave è gestita dalla Ong francese, Sos Mediterranee, che certo non si sogna di dirigere la prua su Marsiglia. Il 14 luglio, alla Farnesina, si è svolto un cordiale incontro fra il segretario generale, Ettore Sequi e il suo parigrado a Oslo, Tore Hattrem. Nel dettagliato resoconto della riunione il punto 3 riguardava «l'ambito migratorio». Sequi «ha fatto riferimento alle navi Ocean Viking e Geo Barents, battenti bandiera norvegese, che conducono operazioni di soccorso nel Mediterraneo per conto di Ong». Il segretario generale provava a ricordare all'omologo norvegese «le responsabilità delle autorità di bandiera nella gestione dei soccorsi in mare e nella designazione del porto di sbarco». Hattrem prendeva nota, ma alla fine richiamava «le sensibilità dell'opinione pubblica che renderebbero difficile un'attitudine più proattiva da parte delle autorità norvegesi». In pratica arrangiatevi e tenetevi i migranti. Il risultato è che Ocean Viking alla fine ne sbarcherà altri 553, dopo i 572 del 9 luglio. E lo fa sempre con la solita manfrina: «A bordo il caldo elevato e la mancanza di spazio fanno crescere tensioni e disagio psicologico tra i naufraghi». Non solo: l'altra ammiraglia che batte bandiera norvegese, la Geo Barents di Msf è appostata in acque di soccorso tunisine, dopo una segnalazione su barconi alla deriva di Alarm phone, il centralino dei migranti. Anche per i 257 a bordo della Sea watch 3, in attesa di porto sicuro in Italia, la bandiera tedesca è del tutto ininfluente. Ieri i talebani dell'accoglienza hanno pure mandato «una segnalazione al tribunale di Catania per notificare la presenza di oltre 70 minori a bordo () disidratati, feriti, traumatizzati». Nell'incontro con il segretario generale degli Esteri norvegese, Sequi al punto 6, sottolineava «la centralità della Libia per la stabilità della regione, menzionando che, se le prospettive nel Paese nordafricano dovessero peggiorare, vi sarebbero "700mila potenziali migranti" pronti a partire verso l'Europa». Un altro documento in possesso del Giornale dimostra l'attitudine danese influenzata dagli armatori, dopo che una loro petroliera è rimasta bloccata per un mese, con un notevole aggravio di costi, in seguito a un soccorso di una trentina di migranti. Nessuno li voleva e alla fine «sono stati finalmente trasferiti in sicurezza dalla Maersk Etienne su una nave di una Ong», che li ha ovviamente sbarcati in Italia. Si trattava di Mare Jonio, ma il trasbordo poi pagato 125mila euro è costato l'accusa della procura di Ragusa di favoreggiamento aggravato dell'immigrazione clandestina a Casarini e soci. Il 2 luglio i danesi hanno preparato la bozza di una risoluzione da adottare alla prossima riunione di un importante comitato dell'Organizzazione marittima internazionale. «La Danimarca ritiene prudente che il Comitato - si legge nel documento - ribadisca l'importanza di un coinvolgimento efficace e tempestivo dei governi in tali situazioni» evitando che le navi mercantili siano intrappolate dai soccorsi ai migranti. Giusto, ma i danesi sottolineano «la possibilità di sbarcare le persone soccorse subito dopo l'imbarco». E anche se non lo scrivono espressamente è chiaro che ne farà sempre le spese l'Italia.

Nove clandestini su dieci restano in Italia. Chiara Giannini il 5 Agosto 2021 su Il Giornale. Nel 2020 rimpatriato solo il 9,8%. Il bluff dei ricollocamenti: soltanto il 2%. L'Italia si tiene la maggior parte dei migranti che arrivano. E rimpatri e ricollocamenti non sono che un bluff che grava sulle tasche degli italiani. I dati parlano chiaro: tra ottobre 2019 e marzo 2021, i tanti sbandierati accordi di Malta hanno ricollocato solo 990 persone delle 44.300 sbarcate nello stesso periodo in Italia, pari al 2,2%. E per i rimpatri le cose non vanno meglio. Nel 2020 sono stati rimpatriati solo 3.351 migranti dei 34.133 giunti sulle nostre coste, ovvero appena il 9,8 per cento del totale. Mentre nei primi mesi dell'anno in corso sono stati 1.097. I costi per i rimpatri per il 2020 ammontano a 4,684 milioni di euro e per il 2021 (fino ad aprile) a 2 milioni 89mila euro. La spesa media è di 1.095 euro a immigrato nel 2021 e di 1.398 euro a persona nel 2020 (compresi i costi di trasferta per chi li accompagna). Cifre che gravano ovviamente sul portafoglio dei cittadini italiani che pagano le tasse. «In sostanza - spiega l'eurodeputata della Lega Susanna Ceccardi - sulle spalle dei contribuenti italiani e nella più totale indifferenza delle istituzioni europee, i migranti continuano ad arrivare senza nessuna soluzione che metta una fine definitiva a questo problema». E prosegue: «Noi lo avevamo detto subito che questa politica portata avanti da Bruxelles sarebbe stata fallimentare, ma ci hanno accusato di tutto. I numeri, però, ci danno ragione. Al problema legato alla gestione dei flussi si somma un'altra grave questione: il controllo dei profughi che arrivano sulle nostre coste è gestito infatti in maniera emergenziale e questo non permette di avere una stima precisa dei costi, come evidenziato anche in passato dalla Corte dei conti, visto che si lavora sempre con spese non previste e fuori bilancio». Dei rimpatriati nel corso del 2020, 1.997 sono tunisini (618 nei primi 4 mesi del 2021), 544 albanesi (225 nell'anno in corso), 181 marocchini, 91 egiziani (82 nel 2021), 69 georgiani (20 nell'anno in corso) e 469 di altre nazionalità (130 fino ad aprile scorso). L'anno passato i motivi di rimpatrio erano legati a espulsione per motivi di pubblica sicurezza (1.687 persone), respingimenti del questore (1.185), disposti di Autorità giudiziaria (475) o direttamente dal ministro dell'Interno (4 e di solito legati a motivi connessi con il terrorismo internazionale). Sul sito di Truenumbers si evidenzia anche come «nel 2017, la Germania ha sborsato 104.222.800 euro, ripartiti in poco più di 37 milioni per i rimpatri forzati e 67,2 milioni per i rimpatri volontari. L'Italia, invece, ha affrontato costi molto più contenuti che ammontano a 11.731.250 milioni di euro, dei quali la maggior parte, 9,7 milioni, sono stati destinati ai rimpatri forzati e la restante parte ai rimpatri volontari. La distinzione rimpatri forzati/rimpatri volontari è necessaria non solo per il differente stato giuridico dei migranti, ma soprattutto per la differenza di trattamento economica dei due tipi di procedimenti. Il costo stimato per la procedura dei rimpatri forzati è di 2mila euro a persona sia in Italia che in Germania, mentre l'iter per i rimpatri volontari costa 975 euro nel nostro Paese e 3.200 euro a persona in Germania». Infine, le persone respinte nel 2020 presso i valichi di frontiera sono state 4.319 provenienti per lo più dai Paesi dell'Est.

Chiara Giannini. Livornese, ma nata a Pisa e di adozione romana, classe 1974. Sono convinta che il giornalismo sia una malattia da cui non si può guarire, ma che si aggrava con il passare del tempo. Ho iniziato a scrivere a cinque anni e ho solcato la soglia della prima redazione ben prima della laurea. Inviata di guerra per passione, convinta che i fatti si possano descrivere solo guardandoli dritti negli occhi. Ho raccontato l’Afghanistan in tutte le sue sfumature e nel 2014 ho rischiato di perdere la vita in un attentato sulla Ring Road, tra Herat e Shindand. Alla fine ci sono tornata 13 volte, perché quando fai parte di una storia no

«Ci afferranno il seno e genitali. E ci picchiano selvaggiamente». Le testimonianze delle torture raccolte da MsF. Mentre il governo italiano blocca le Ong con la burocrazia, dalla Tunisia alla Libia la dignità umana viene uccisa nel silenzio della comunità. Elena Testi su L'Espresso il 30 luglio 2021. È il 30 giugno, i corpi dell’ultimo naufragio giacciono sul fondale mentre una ragazza resta con gli occhi chiusi al porto Favarolo. È una loro compagna di viaggio. Il mediatore non capisce il motivo. Lei i suoi occhi proprio non li vuole aprire. Non li apre mentre le parlano, non li apre se sente altre voci. Due fessure serrate, mentre il caos scorre intorno. Alla fine il mediatore le dice: «Puoi aprire gli occhi, sei arrivata in Italia». Lei, una dei 49 sopravvissuti, finalmente li apre. Un’altra arriva in arresto cardiaco. L’elisoccorso si appoggia sull’isola e riparte immediatamente alla volta di Palermo. Dopo una settimana in terapia intensiva, anche lei rientrerà nel conteggio dei 49. Da agosto 2019 le Ong stentano a partire, nonostante le persone continuino a morire e chi non muore in mare è in un centro di detenzione, per l’unica colpa di volere una vita degna. In pochissimi riescono ad arrivare. La politica che decide sulla morte delle persone è cambiata. Prima l’urlato “porti chiusi” dell’allora ministro degli interni Matteo Salvini, che da slogan da campagna elettorale si è trasformato poi in blocchi delle navi soccorso lunghi diversi giorni. Poi l’attuale ministra Luciana Lamorgese che con il suo passato da prefetta conosce bene l’insidia e le tecniche della burocrazia. Ed è così che i porti rimangono aperti, ma le ong sono comunque bloccate a seguito dei continui fermi amministrativi. Dal 2019 a oggi sono 13 i provvedimenti che hanno fermato alle banchine 8 diverse navi di soccorso, per un totale di quasi 1200 giorni di fermo nave. Nessun fermo era mai stato disposto nel periodo 2014-2019, quando la presenza delle navi delle ong era assai più sistematica, fino a un picco di 13 navi contemporaneamente operative nel mar Mediterraneo. Attualmente sono ferme in porto la Sea Watch 4 e la Sea Eye 4. La Geo Barents pronta a ripartire dopo un mese. Marco Bertotto, “responsabile humanitarian affairs” di Medici Senza Frontiere, è in preda a lunghe chiamate mentre organizza la ripartenza della Geo Barents: «Le ong riescono a prendere il mare a intermittenza, quando riescono a respingere gli attacchi del governo. Operano in una situazione di alternanza facendo lunghi blocchi. Questa è di fatto la situazione attuale». Si ferma un attimo e riparte: «In mare non esiste più un’attività di coordinamento con le autorità competenti. Gli interventi avvengono grazie ad Alarm Phone o agli aerei delle organizzazioni non governative. Spesso dobbiamo pregare per attraccare in porto». C’è chi arriva dalla Tunisia, ormai devastata dal virus e da una situazione politica instabile, dove il presidente Saied ha rimosso il premier e sospeso il Parlamento. Chi si trova nei centri di detenzione in Libia e tenta la fuga. Tutti sanno, tutti tacciono. Ragazzi giovani, donne, uomini. Tutti essere umani. I racconti che arrivano dai centri di detenzione, raccolti nei colloqui da Msf, sembrano un processo. Testimonianze che non hanno un giudice, né una corte né inorridiscono l’opinione pubblica. Testimonianze che forse, un giorno, raccoglierà la Storia. C’è la storia di un ragazzo, 19 anni, ghanese, che attualmente si trova in un centro di detenzione in Libia: «Tre giorni fa sono arrivate nuove persone dal mare. Hanno iniziato a fare rumore, bussando alla porta per chiedere alle guardie perché fossero qui, cosa sarebbe successo loro. Noi, i vecchi, abbiamo detto loro di stare zitti, perché sappiamo cosa succede quando facciamo rumore. Ma era troppo tardi, le guardie sono entrate nella cella e hanno picchiato le prime persone che sono riuscite ad afferrare. A loro non interessa trovare i responsabili, ci picchiano tutti ogni volta che succede qualcosa. Una delle guardie mi ha dato un pugno sulla testa e sul petto. Avevo sangue che usciva dall’orecchio e ancora adesso non riesco a sentire molto bene quando le persone parlano. So anche che nessuno può aiutarci. Alcune organizzazioni vengono e fanno promesse, ma non succede nulla. Eppure non mi arrendo. Ho deciso che non voglio morire». Un altro ragazzo di anni ne ha 16 e viene dal Mali: «Le guardie ci danno un piatto pieno di riso, lo mettono per terra e da quel piatto fanno mangiare cinque persone contemporaneamente. Io riesco a mangiare solo lentamente perché ho problemi con la gola e con lo stomaco. Quindi a volte non c’è più cibo per me perché gli altri mangiano tutto. Altre volte, quando rallento le cose - mentre loro vogliono che finiamo l’intero piatto in un paio di minuti - le guardie iniziano a colpirmi, solo perché sto cercando di mangiare, ma lentamente». Nella società dei paradossi, dove le piazze si scatenano per dire no al Green pass, dall’altra parte del Mediterraneo la dignità umana viene uccisa nel silenzio della comunità. Tutta. C’è un gruppo di cinque ragazze camerunensi, tra i 18 e i 35 anni, tutte detenute. Una di loro racconta: «Prima ci hanno portato in una prigione dove ci hanno separato dagli uomini, dai nostri mariti e fratelli. Hanno portato via anche mio figlio quindicenne, non so cosa gli sia successo. Poi le guardie hanno portato le donne e i bambini qui, a Shara Al Zawiya Dc. Quando siamo arrivati abbiamo ricevuto assistenza medica da Medici senza frontiere, ma quando il loro team se ne è andato, le guardie ci hanno perquisito e ci hanno portato via i telefoni. Tutte le guardie sono maschi, e ci hanno afferrato il seno e hanno messo le mani contro il nostro pube e le natiche. Hanno anche toccato le parti intime dei bambini per assicurarsi che nulla fosse nascosto nelle loro mutande». La storia di Kamil, raccontata da un suo compagno di traversata, sopravvissuto al naufragio e soccorso dalla nave Geo Barents il 12 giugno 2021: «Era già notte, quando ho visto un mio amico seduto sul bordo della barca. La barca era sovraccarica, non c’era spazio per nessuno. Lui stava dormendo, ma subito dopo essersi svegliato, si è alzato in piedi. In quel momento è caduto in acqua. Abbiamo provato a cercarlo. Siamo tornati indietro e l’abbiamo cercato, una volta, due volte, tre volte. L’abbiamo chiamato: Kamil! Kamil! Kamil! Kamil! Ma non abbiamo sentito più nulla. Non abbiamo visto più nulla perché era notte. Era notte. Così l’abbiamo lasciato andare. L’abbiamo lasciato andare perché non potevamo fare nulla per lui, non potevamo aiutarlo». Sopravvivono, tentano la fuga, abbandonano gli amici in mare, la maggior parte viene riportata indietro. Un 23enne del Sudan che ha trascorso un mese in un centro di detenzione per migranti a Beni Walid, Libia: «Abbiamo visto un aereo sopra di noi, poi due. Uno bianco, al mattino e uno grigio, la sera. Subito dopo, una barca del governo libico che ci ha riportati indietro. Siamo stati riportati in un campo, non so dove fossimo, forse Tripoli. Ci stavano picchiando. Tutti. Eravamo in una stanza al buio e non ci era permesso di alzare la testa, altrimenti ci picchiavano ancora di più. Ci hanno picchiato la sera. Poi ci hanno portato in una stanza più piccola dove abbiamo dovuto sederci per due giorni. Dopo, ci hanno portato in macchina in un posto più grande ma comunque pieno. Niente finestre, niente. Ti colpivano con tutto quello che trovavano. Sulla testa, sulle braccia, sulle gambe. Le persone sedute accanto a me avevano gambe, braccia e teste rotte a causa delle botte. Dopo 19 giorni al buio, ho chiesto alle guardie di liberarmi. La mia gamba mi faceva male perché era infetta. Mi hanno detto che se non avessi pagato, sarei rimasto lì e sarei morto. La mia famiglia in Sudan è riuscita a mandarmi dei soldi. Quando ero fuori, non sapevo dove andare. Ho soggiornato in casa di un’altra persona sudanese in attesa che la mia famiglia mi mandasse più soldi. A Zuwara, quel venerdì, quando siamo entrati in mare, eravamo in cento». Alcuni riescono a partire e, se non muoiono in mare, arrivano in Italia. Altri vengono ripresi dalla Guardia costiera libica con il consenso dell’Italia, che per regolare il flusso migratorio preferisce le navi e i militari libici ai volontari delle ong. Alida Serracchieri, responsabile sanitario di Medici Senza Frontiere a Lampedusa, ha appena finito il turno in banchina insieme a Nathalie Leiba, psicologa. Entrambe prestano il primo soccorso ai migranti: «Le condizioni di quando arrivano», spiega, «dipendono da quanti giorni sono stati in mare. Tendenzialmente le persone che passano tre o quattro giorni in un gommone sono estremamente provate. Poi bisogna anche aggiungere che se vengono dalla rotta libica molto spesso sono vittime di torture e violenza sessuale». Continua Nathalie Leiba: «Appena sbarcati non capiscono dove sono, alcuni credono di essere in Tunisia. Siamo costretti a dare loro una cartina per orientarsi. Poi chiedono di contattare la famiglia di origine. Alcuni fanno dei viaggi lunghissimi e non sentono le famiglie per anni». Il racconto continua, mentre il bel tempo e il mare calmo aiutano gli sbarchi a Lampedusa. «Spesso capita che non sia il primo viaggio, molti sono stati portati indietro dalla Guardia costiera libica. I racconti sono sempre brutali», dice Nathalie Leiba. «Ricordo una donna siriana riportata indietro tre volte e messa in tre centri di detenzione diversi. Lei ha raccontato che due ore dopo il suo ingresso in uno di questi centri ha visto una scena brutale: colpivano un uomo, lui ha reagito e allora sono arrivate trenta guardie e lo hanno massacrato. Gli hanno spaccato il cranio. Una delle guardie le ha chiesto se ci fossero degli uomini con lei e le ha chiesto chi fossero, poi è andata a picchiarli tutti e avrebbe continuato fino a quando lei non avesse fatto sesso con lui». Le testimonianze si accavallano, i corpi naufragano nel Mar Mediterraneo, l’Italia placidamente blocca le ong con fermi amministrativi, mentre in Libia continua a scorrere il tempo dell’aberrazione.

Leonardo Martinelli per "la Stampa". A Calais e sul litorale francese della Manica sono vent' anni che si accalcano migranti che cercano di passare dall'altra parte, nel Regno Unito: un Eldorado agognato, spesso illusorio. Ma quest' estate i tentativi sono in netto aumento, perlopiù su «small boats», piccole imbarcazioni di fortuna, che sfidano le correnti forti di questo tratto di mare e si fanno largo pericolosamente in un denso traffico marittimo, nonostante i tentativi di Parigi e Londra per frenare il flusso. Secondo i dati ufficiali britannici, sono stati 8.483 i migranti arrivati via mare sulle coste inglesi nel 2020, contro appena 1.905 del 2019. Ebbene, secondo stime diffuse dalla Bbc, dall'inizio del 2021 fino a metà luglio si sono già totalizzati gli arrivi dell'intero 2020. Senza considerare quelli intercettati prima dalle autorità francesi: dal principio del 2021 sarebbero già 8mila, secondo il Times. Solo nella giornata di lunedì 88 migranti, che stavano tentando di attraversare la Manica, sono stati riportati dai francesi nel porto di Boulogne-sur-Mer. Se nel passato i migranti si concentravano soprattutto a Calais (dove, al di là delle «small boats», cercano di infilarsi nei camion che attraversano la Manica a bordo delle navi di linea o sui treni dell'Eurotunnel), ormai si ammassano pure verso Boulogne-sur-Mer e sulla costa a Sud di questa città. La diffusione su uno spazio più ampio rende i controlli più difficili. Si nota anche un'altra tendenza: il ricorso da parte dei «passeur» (che organizzano il traffico illegale, in molti casi sono albanesi) a imbarcazioni più grandi, oggi con una cinquantina di persone in media a bordo contro una trentina fino a pochi mesi fa. Sarebbero ormai 2mila i migranti che vagano su questo tratto di costa, perlopiù eritrei, sudanesi, afghani, iraniani e siriani. Vivono in piccoli accampamenti, che sono evacuati regolarmente dalla polizia francese: si teme l'installazione di un insediamento permanente, come fu la «giungla» a Calais, fino al 2016. D'altra parte, in questa città un abitante su tre vive sotto la soglia della povertà: è una delle zone francesi più in difficoltà economicamente. Lì è venuto sabato il ministro degli Interni Gérald Darmanin e ha chiesto che Frontex, l'Agenzia europea della guardia costiera e di frontiera, si occupi ormai anche di quest' area e non solo del Mediterraneo: dopo la Brexit, qui passa un confine esterno dell'Unione europea. Nei giorni precedenti Parigi e Londra avevano concluso un accordo sulla base del quale il Regno Unito pagherà 62,7 milioni di euro alla Francia tra quest' anno e il 2022 perché rafforzi i controlli sul suo litorale, dopo che una trentina erano già stati sborsati con lo stesso scopo nel 2020.  

 Da leggo.it il 12 agosto 2021. Oltre il doppio rispetto a un anno fa, otto volte in più di due anni fa: i dati sui migranti sbarcati in Italia nei primi sette mesi di quest’anno fotografano quest’anno una realtà decisamente diversa rispetto ai tempi più recenti. Numeri in nettissima risalita, con gli sbarchi effettuati fino al 31 luglio che hanno quasi raggiunto il dato dell’intero 2020. I dati vengono direttamente dal Ministero dell’Interno: nei primi sette mesi del 2019 i migranti sbarcati erano stati 3.867, diventati 14.012 nello stesso periodo del 2020. Ma quest’anno è tornato il boom: alla data dello scorso 31 luglio i migranti arrivati sulle coste italiane sono stati 28.870. Per avere un’idea delle proporzioni, nel 2020 il totale degli sbarchi fu di 34.154, appena cinquemila in più, ma con cinque mesi ancora avanti a noi. L’aumento è singolare perché dopo i decreti Minniti del 2017 e l’accordo con la Libia (dell’allora governo Gentiloni) i dati sugli sbarchi degli anni successivi erano calati drasticamente, e lo stesso era accaduto con il successivo governo "giallo-verde". E questo nuovo aumento è tornato in voga nel dibattito politico, con Fratelli d’Italia e Lega che puntano il dito contro il ministro Lamorgese (al Viminale sia con l’ultimo governo Conte, sia con Draghi), ritenuta responsabile dai due partiti di centrodestra per la veloce risalita dei numeri.

I numeri mese per mese e i dati sui minori. Analizzando i dati mese per mese, ciò che colpisce è il boom di sbarchi di quest’anno nei mesi invernali: a febbraio in particolare il dato passa dai 60 migranti sbarcati nel 2019 ai 1.211 del 2020, ai 3.994 del 2021.

A marzo 262 sbarchi nel 2019, 243 nel 2020, 2.395 quest’anno, ad aprile 255 nel 2019, 671 nel 2020, 1.585 nel 2021: e ancora, a maggio 782 nel 2019, 1.651 nel 2020 e addirittura 5.679 quest’anno. a giugno 1.218 nel 2019, 1.831 nel 2020 e 5.840 nel 2021. Meno marcata la differenza nel mese di luglio: nel 2019 gli sbarchi furono 1.988, nel 2020 ben 7.062, quest’anno 8.338, poco più di mille in più dell’anno prima.

Tra i migranti sbarcati in forte aumento sono i minori: delle 11.471 persone arrivate in Italia nel 2019, i minori furono 1.680 (14,6%), mentre dei 34.154 migranti del 2020 i minori erano 4.687 (13,7%). Quest’anno invece (dato aggiornato al 26 luglio) dei 28.870 migranti arrivati in Italia i minori sono 4.410, una percentuale quindi più alta (15,3%) rispetto al dato dell’anno scorso. La maggior parte dei migranti che arrivano in Italia vengono dalla Tunisia (6.869), seguiti da Bangladesh (4.176), Egitto (2.291) e Costa d’Avorio (2.031).

Valentina Raffa per “il Giornale” il 25 luglio 2021. Sbarchi a pieno regime. È l'estate peggiore degli ultimi tre anni con 25.845 sbarchi, stando ai dati del Viminale aggiornati a venerdì. Basti pensare che l'anno scorso erano sbarcate nello stesso periodo 11.276 persone e nel 2019 solo 3.431. Lampedusa torna dunque ad essere off limits. Non per i migranti, che continuano ad approdare a raffica. In soli tre giorni ne sono arrivati più di 1.400. Per loro niente green pass naturalmente, anzi vengono intercettati in mare dalle nostre forze dell'ordine e, scortati dalle motovedette o trasbordati su quest' ultime, vengono condotti su terraferma. Per tutta la giornata di venerdì si sono susseguiti 27 sbarchi per un totale di 737 migranti, tra cui poco più di 70 donne, 20 minorenni, e tra questi due neonati. Nella notte tra venerdì e ieri gli sbarchi sono stati 14 spalmati da notte fonda alle prime ore del mattino con l'arrivo di 221 migranti. Altri 6 sbarchi si sono registrati nel pomeriggio con 84 migranti. Ci sono stati anche sbarchi autonomi come quello di Pozzolana di Ponente, a Linosa. I carabinieri sono riusciti a rintracciare 12 tunisini. Altro sbarco autonomo è avvenuto vicino al camping La Roccia a Lampedusa, con l'approdo di 27 tunisini rintracciati dalle forze dell'ordine, ma non è stato rinvenuto il barcone, per cui potrebbero essere stati lasciati da una barca che poi ha preso il largo. L'hotspot della maggiore isola delle Pelagie torna a scoppiare con circa 1.400 ospiti a fronte di una capienza di 250 posti. Il piano dei trasferimenti è già stato redatto dalla Prefettura di Agrigento e messo in funzione, ma non si fa in tempo a svuotare la struttura che già è stracolma di nuovo. Venerdì mattina i primi a essere trasferiti col traghetto di linea a Porto Empedocle sono stati 100 tra minori e soggetti vulnerabili, nel pomeriggio 170 migranti sono stati imbarcati su una nave della Guardia costiera diretta a Pozzallo (Ragusa) con destinazione Caltanissetta. In serata 80 sono stati trasferiti a Porto Empedocle per essere destinati a Crotone. Ieri, infine, circa 450 migranti sono stati imbarcati sulle navi quarantena Azzurra e Adriatico. Proseguono le indagini per individuare gli scafisti. Venerdì i carabinieri ne hanno arrestato due, russi, per lo sbarco di 50 migranti avvenuto giovedì a Sant' Ilario dello Ionio.

Enza Cusmai per “il Giornale” il 25 luglio 2021. Hotel a quattro stelle per immigranti positivi al Covid e per tutti i contatti stretti che devono fare la quarantena. Accade in Calabria, sulle cui coste sbarcano quotidianamente almeno un centinaio di extracomunitari di cui circa il 5-10% risultano positivi. E creano un'emergenza nell'emergenza scaricata sulle autorità locali che tentano di barcamenarsi come possono. Perfino alloggiando questa gente in location in cui molti italiani non potrebbero accedere neppure una volta nella vita. Come l'hotel Germaneto, vicino Catanzaro. Basta fare un giro su internet per spalancare gli occhi. Una struttura elegante, dotata di piscina coperta, hall arredata con gusto. Le camere sono spaziose, eleganti, con bagno e aria condizionata, televisione. Questo albergo era generalmente dedicato a professionisti di passaggio che chiedono comfort durante gli spostamenti di lavoro. La pandemia lo ha trasformato in un covid hotel, dove la regione dovrebbe accogliere i calabresi che necessitano di isolamento o i turisti che si beccano il Covid in vacanza. In realtà, dei settanta posti disponibili, solo poche stanze sono destinate alla popolazione locale, il resto delle camere ormai è zona di frontiera. Oggi, per esempio, arriverà un nuovo gruppo di 50 immigrati da isolare che sostituiscono gli altri cinquanta ormai fuori pericolo e trasferiti altrove. C'è solo il tempo di sanificare e le stanze si riempiono di nuovo. È così da giugno. E andrà avanti a luglio e sicuramente ad agosto. Finché il mare sarà calmo e le barche continueranno ad attraccare. Tra i profughi, qualcuno ha il Covid, gli altri sono contatti stretti. Per loro non ci sarà un centro di prima accoglienza, ma un hotel con una super accoglienza. «Gli ospiti» rimarranno almeno dieci giorni coccolati in questa ideale vacanza italiana, poi la permanenza sarà meno piacevole, la location meno pretenziosa. E sicuramente meno costosa per le casse dello Stato, cioè le nostre. Al Germaneto, invece, per ogni extracomunitario si spende giornalmente 65 euro. Le camere doppie 115 euro, quelle a quattro letti, dedicate alle famiglie, 215 euro. Agli ospiti iraniani o iracheni, afgani o egiziani, viene servita colazione, pranzo e cena personalizzata a seconda delle etnie che escludono affettati o carne. Ai costi vivi del pernottamento si devono poi aggiungere quelli sanitari, tamponi, medicinali, presenza delle squadre dei medici e infermieri che quotidianamente si presentano in hotel. Ci sono pure le forze dell'ordine dedicate al servizio di controllo per evitare fughe rischiose. Una storia infinita di impegno e costi fissi, molto gravosa. Alla fine il conto che paga la collettività è ingente. Solo per l'hotel, tra giugno e luglio, verranno spesi almeno 200 mila euro. E manca agosto. Fin qui i fatti. Chi racconta la storia, che chiede di restare nell'anonimato, spiega di strutture locali sature. «È una gestione che va rivista completamente: le navi quarantena sono piene e qui non si sa più dove mettere gli immigrati positivi al Covid». Laggiù al Sud, i drammi scivolano nel silenzio. Compreso la gestione apparentemente dissennata per la gestione degli extracomunitari. È vero che indigna pensare di dedicare hotel a quattro stelle a gente che arriva da noi con i barconi. Ma le prefetture che coordinano l'emergenza si aggrappano a ogni possibile alternativa. Il rischio sanitario è peggio di un buco di bilancio. Se distribuisci gente infetta in altri centri di prima accoglienza zeppe di immigrati può succedere di tutto. Ma il problema della gestione resta nell'indifferenza generale. «È un'estrema ratio - spiega la fonte -. Qui stiamo facendo i salti mortali e ci sentiamo soli, abbandonati. È una gestione fallimentare dell'Europa a cui noi dobbiamo mettere una pezza».

In venti giorni 3mila migranti: "La verità su disordini e rivolte". Sofia Dinolfo il 22 Luglio 2021 su Il Giornale. La procura di Agrigento apre la caccia agli scafisti. Per il segretario generale del Sap Stefano Paoloni "Non si esclude l'arrivo di terroristi. Le proteste? Un'occasione per fuggire". Più di 80 sbarchi e più di 3mila migranti. È questo il bilancio del fenomeno migratorio che ha visto protagonista Lampedusa in questo mese di luglio. Un bilancio che è destinato ancora a crescere nei prossimi giorni grazie alle favorevoli condizioni climatiche che interesseranno l’area del Mediterraneo. Se da una parte risulta difficile riuscire a frenare l’ondata degli sbarchi, dall’altra rimane attiva la lente d’ingrandimento della procura di Agrigento che, unitamente alla Dda di Palermo, indaga per identificare gli organizzatori dei viaggi della speranza dalla Libia e dalla Tunisia. "Con il nuovo aumento degli sbarchi sulle coste di Lampedusa – spiega il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio all’Agi - è aumentata l'attività repressiva". Nonostante il periodo difficile caratterizzato dall’epidemia che non agevola le operazioni di routine, la squadra mobile di Agrigento lavora incessantemente per portare avanti le attività investigative. Proprio nelle ultime ore è stato disposto il fermo per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nei confronti di un 30enne egiziano responsabile dello sbarco di 419 immigrati il 7 luglio scorso a Lampedusa. Stesso provvedimento per un 42enne tunisino che ha fatto sbarcare sull’Isola 48 migranti. Sono 47 in totale le persone arrestate in questo mese per reingresso illegale nel territorio dello Stato dopo essere state espulse o condannate in Italia. A loro si aggiungono i cinque tunisini arrestati questa mattina a Lampedusa: vi hanno fatto ritorno nonostante un decreto di respingimento. Al momento si trovano agli arresti domiciliari nell’hotspot di contrada Imbriacola. Lì dentro, fino a stamattina, si contavano circa 850 migranti dopo la raffica di sbarchi registrati la scorsa notte. Un numero destinato ad aumentare nel corso della giornata dal momento che continuano ad intravedersi altri barchini. “La situazione è sempre la stessa”, afferma a IlGiornale.it il segretario generale del Sap Stefano Paoloni che prosegue: “Sia l’hotspot di Lampedusa che tutti gli altri centri di accoglienza presenti sul territorio siciliano, sono al limite della loro capienza se non addirittura oltre. Questo fa sì che le persone che vi si trovano all’interno per trascorrervi la quarantena, vivono momenti di grande insofferenza. Proprio per questo motivo i loro tentativi di creare disordini per proseguire poi con la fuga, sono all’ordine del giorno”. Le tensioni sono alte e l’episodio delle fiamme appiccate all’hotpsot di Pozzallo gli scorsi giorni è un chiaro esempio di come la situazione stia divenendo sempre più grave. “Per loro- spiega Paoloni- creare disordini, diventa occasione di fuga. Tra l’altro si tratta di persone spesso non ancora identificate e questo rappresenta un serio problema per la sicurezza”. Il segretario generale del Sap chiarisce che la presenza delle Forze dell’ordine dentro i centri di accoglienza rappresenta un modo per disincentivare la fuga degli ospiti, ma che di fatto mancano gli strumenti per tenerli dentro in modo coercitivo. “Si avverte molto il venir meno di alcune navi quarantena – aggiunge Stefano Paoloni - Le società le stanno usando per finalità turistiche e questo fa sì che vengono a mancare ulteriori spazi e condizioni di sicurezza con ripercussioni sui Cpr che straripano di migranti con rischi importanti”. Non solo problemi legati all’abbondante numero di migranti che riempiono le strutture di accoglienza fino all’inverosimile, ma anche rischi legati al terrorismo. “Non è escluso – Afferma Paoloni – che, come accaduto in passato, Lampedusa sia terra di approdo di terroristi”.

Sofia Dinolfo. Sono nata il 30 marzo del 1982 ad Agrigento e sin da piccola ho chiesto ai miei genitori un microfono per avvicinarmi a chi mi stesse vicino e domandare qualsiasi cosa mi passasse per la mente. Guardavo i telegiornali e poi imitavo i giornalisti raccontando a modo mio quello ch…

"Con Salvini meno morti in mare": nei dati la verità sui migranti. Federico Garau il 16 Luglio 2021 su Il Giornale. L'analisi di De Telegraaf: "Come ministro dell'Interno, Salvini ha cambiato radicalmente rotta. Nella prima metà del 2019, erano arrivati solo più di 3000 migranti". Adesso lo dice pure la stampa olandese: quando a capo del Viminale c'era Matteo Salvini il numero di migranti morti in mare era nettamente inferiore rispetto alle cifre di oggi. Numerosi i detrattori del leader del Carroccio, che negli anni ha ricevuto accuse di ogni genere da politici, opinionisti e rappresentanti del mondo dello spettacolo, trovandosi a dover affrontare anche dei processi. Eppure, dati alla mano, i risultati del suo lavoro come ministro dell'Interno superano quelli ottenuti dal suo successore, Luciana Lamorgese. Stando a quanto riferito dall'Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), agenzia Onu incaricata di occuparsi del tema immigrazione, quest'ultimo anno il numero di cittadini stranieri morti durante la traversata del mar Mediterraneo è superiore rispetto ai decessi verificatisi nei primi sei mesi del 2020. Nel report prestantato quest'oggi, Oim parla infatti di 1.146 morti avvenute nell'arco di tempo compreso fra i mesi di gennaio e giugno 2021. Il maggior numero di vittime è stato registrato nella tratta Libia – Italia, con 741 decessi. A seguire vi è il tragitto compiuto per raggiungere le isole Canarie dall' Africa occidentale: nel tratto di Oceano Atlantico si sono verificate almeno 250 morti. 149 migranti, inoltre, avrebbero perso la vita nel tentativo di raggiungere la Spagna seguendo la rotta del Mediterraneo occidentale, mentre 6 sarebbero morti nel Mediterraneo orientale, cercando di arrivare in Grecia. Secondo il quotidiano olandese De Telegraaf, nel periodo di tempo in cui Matteo Salvini aveva ricoperto l'incarico di ministro dell'Interno, il numero di sbarchi e di morti in mare era considerevolmente diminuito. Ben peggiori i dati registrati prima e dopo il segretario del Carroccio, cosa che fa riflettere. A fornire un'analisi completa della situazione attuale è il corrispondente italiano Maarten Van Aalderen, che spiega come nel 2017, quando a governare era la sinistra, "in Italia erano entrati quasi 120mila migranti". "Ci furono anche più di 3mila morti quell’anno, una media di quasi dieci al giorno", sottolinea il quotidiano olandese. Una situazione insostenibile, quella del 2017, tanto che le elezioni del 2018 avevano portato al successo della Lega. "Come ministro dell'Interno, Salvini ha cambiato radicalmente rotta", spiega De Telegraaf, "si è semplicemente rifiutato di permettere ai migranti di mettere piede sul suolo italiano. A volte c'erano casi eccezionali. Ma nella prima metà del 2019, erano arrivati solo più di 3000 migranti". Scoraggiare le partenze aveva avuto come effetto una drastica diminuzione del numero dei morti in mare. Un concetto che i sostenitori dell'accoglienza faticano a comprendere. "Quel numero è aumentato di nuovo dopo che Salvini si è dimesso dal governo nell'agosto di quell'anno, eppure quasi 1.300 migranti sono annegati in tutto il 2019", prosegue il quotidiano olandese. "Ancora troppo. Ma se lo confronti con gli anni precedenti e se consideri che abbiamo già quasi lo stesso numero di vittime a luglio, è una cifra notevolmente bassa”.

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dove mi occupo soprattutto di... 

Il Fact Checking annuale dell’Ispi. Altro che migranti, la vera invasione è quella delle fake news. Giulio Cavalli su Il Riformista il 7 Luglio 2021. La battaglia, come al solito, si giocherà sulla percezione perché l’immigrazione in Italia è un piatto da servire sempre sensazionale per stimolare gli umori fuggendo dalle analisi. Così mentre la cosiddetta Guardia costiera libica spara e sperona i disperati con le nostre motovedette regalate e si prepara a essere rifinanziata dal governo per preservare negli orrori delle sue prigioni come tutte le estati i sovranisti di casa nostra accelerano con gli allarmi. Ma sono reali? No, quasi per niente. Ce lo spiega nel suo Fact Checking annuale sulle migrazioni l’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) che si assume l’onere e l’onore di analizzare i numeri. C’è un’emergenza sbarchi? Dipende, spiega Ispi: ci stiamo stabilizzando intorno ai 50.000 arrivi all’anno mentre nel periodo 2014-2017 se ne registrarono tra i 110.000 e i 180.000. Gli sbarchi sono in aumento rispetto al periodo precedente ma siamo ben lontani dal periodo degli “alti sbarchi” in Italia. E davvero il sistema d’accoglienza italiano sotto pressione? No, per niente. Siamo lontanissimi dal numero massimo di migranti accolti registrato a ottobre 2017 (erano 191.000) con 78.000 presenze. La differenza sta nella (voluta?) mala gestione dell’accoglienza: due migranti su tre sono ospitati nei Cas, centri studiati più per fare fronte ai grandi numeri rispetto alla dimensione attuale e i Decreti Sicurezza hanno di fatto smantellato il sistema di accoglienza diffusa (sono 25.000 del totale). Poi, come sempre, c’è la favola delle navi delle Ong che inciderebbero con l’aumento degli sbarchi: nel periodo della “gestione Lamorgese” gli sbarchi mensili sono quasi triplicati rispetto all’era Salvini, arrivando a 2.600 eppure, il ruolo delle Ong ha continuato a rimanere molto marginale, inferiore al 15% del totale degli sbarchi. Significa che quasi 9 migranti su 10 raggiungono le coste italiane senza l’aiuto delle imbarcazioni delle Ong e che, quindi, anche senza Ong in mare queste persone sarebbero arrivate lo stesso in Italia. E la Libia? Lo Stato che Draghi non ha esitato a ringraziare ha visto impennarsi il numero dei migranti ospitati nei centri di detenzione ufficiali passando dalle 1.000 persone nella seconda metà del 2019 a più di 5.000 persone attualmente. Malgrado costanti appelli della comunità internazionale, e in particolare quelli che provengono dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom) e dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), la Libia continua a trattenere per periodi indefiniti i migranti irregolari esponendoli a minacce, sevizie e abusi. E questo è solo il quadro della detenzione “ufficiale”: i numeri degli irregolari sono un olocausto che nemmeno si prende in considerazione. E quindi il numero di stranieri in Italia sta crescendo? Anche questa è una fantasia smentita dai numeri, nessuna invasione: dal 2014, infatti, il numero di stranieri regolarmente presenti in Italia (che nel decennio precedente era più che raddoppiato, passando da 1,9 a 4,9 milioni di persone) è rimasto praticamente stabile, crescendo solo del 2% (da 4,92 a 5,04 milioni di persone). Anche includendo gli stranieri irregolari, dal 2014 la presenza straniera in Italia è aumentata solo del 6% (da 5,27 a 5,56 milioni di persone). È vero invece che con i Decreti Sicurezza sono aumentati i dinieghi di protezione internazionale: il tasso di protezione è sceso a circa 2 richiedenti asilo su 10 (era il 42% nel 2017) mentre la protezione umanitaria è passata dal 28% che era al 9%. Questi sono i numeri. Il resto è solo propaganda, al solito sulla pelle dei disperati.

Giulio Cavalli. Milano, 26 giugno 1977 è un attore, drammaturgo, scrittore, regista teatrale e politico italiano.

Fabio Amendolara per "la Verità" l'8 luglio 2021. Mentre l'Europa ha lasciato per l'estate l'Italia in braghe di tela, voltandosi, come al solito, dall' altra parte, quella di ieri si conferma una delle giornate più calde sul fronte dell'immigrazione: tra la notte di martedì e ieri mattina a Lampedusa sono approdati in 735, con dieci diversi sbarchi. E l'hotspot di contrada Imbriacola, che ora conta 934 ospiti a fronte di una capienza massima di 250 persone, sta scoppiando. Un piccolo trasferimento, di circa cento persone, è stato disposto dalla Prefettura di Agrigento: saliranno sul traghetto di linea Cossydra, che giungerà oggi a Porto Empedocle. Stipati come sardine rimarranno quindi in oltre 800, con la giornata di oggi che potrebbe riservare ulteriori sorprese. Il primo natante ad affacciarsi nelle acque siciliane è stato un peschereccio con a bordo 420 persone. Al seguito aveva tre piccole imbarcazioni con a bordo sette, 13 e 71 passeggeri. Altri 49 sono arrivati in tarda mattinata, dopo essere stati tirati a bordo da un pattugliatore della Guardia di finanza a poche miglia dal porto. E sempre la Guardia di finanza ha condotto in porto altre due imbarcazioni con a bordo dieci e 58 passeggeri alla deriva. Nel primo pomeriggio, invece, la Guardia costiera ha soccorso una nona imbarcazione con a bordo 66 tunisini. Tutti gli sbarcati sono stati identificati e sottoposti a test anti Covid prima di finire ammassati nell' hotspot. Anche in Calabria la giornata è stata particolarmente impegnativa. Alle prime luci del giorno, a largo di Roccella Jonica, la Guardia di finanza ha intercettato un peschereccio in difficoltà mentre era ancora in acque internazionali. A bordo c' erano una novantina di passeggeri. Il natante è stato trainato fino al porto, dove iracheni e iraniani sono stati soccorsi dal personale della Croce rossa. A Roccella è il terzo sbarco in meno di una settimana: il totale sfiora i 400 migranti. Tra la Sicilia e la Calabria in un sol giorno sono approdati in oltre 800, mentre si profila un nuovo arrivo. La Ocean Viking, con a bordo 572 passeggeri soccorsi in acque libiche, con la solita cantilena del porto sicuro chiede un attracco. E l'Ue richiama all' accoglienza: «Ovviamente ci aspettiamo che i Paesi membri rispettino i diritti umani in tutte le circostanze», dichiara il portavoce della Commissione europea Adalbert Jahnz. «La tensione sta aumentando sul ponte a causa della mancanza di spazio, il calore, e l'incertezza di quando e dove saremo in grado di sbarcare, oltre al loro terribile viaggio in mare e la violenza subita in Libia». Sono gli argomenti usati dalla Ong Sos Mediterranée per il solito pressing. E per preparare il terreno, dalla nave aggiungono: «Entro venerdì finiremo le razioni di cibo preconfezionate, mentre il meteo peggiorerà». Si parla di «onde alte fino a tre metri». E di migranti «bagnati a causa delle condizioni del mare» che «lamentano di dolori alla gola e alle orecchie». Ovviamente Sos Mediterranée sottolinea che alle autorità italiane, con i maltesi in copia, è stata inviata «una quarta richiesta», compresa dell'aggiornamento «sull' urgenza della situazione a bordo». La Ong fa leva anche sui minorenni a bordo: «C' è un bambino di quattro anni che soffre di anemia, due bambini hanno deficit fisici e cognitivi e una donna incinta di nove settimane soffre di un forte mal di mare dal primo luglio». «Chi ancora nega l'emergenza, nega la realtà, perché si sta avverando la previsione di Frontex su un'estate difficile», afferma la presidente dei senatori di Forza Italia Anna Maria Bernini: «Gli arrivi sono più che triplicati rispetto al 2020», aggiunge, «ed è inconcepibile che l'Ue, attivissima su altri fronti, continui a rimanere inerte, lasciando il Mediterraneo ostaggio degli scafisti, responsabili di naufragi e tragedie». E in Libia, infatti, l'ennesima tragedia è stata sventata. Il portavoce dello Stato maggiore della Marina libica, generale Masoud Abdel Samad, ha annunciato il «salvataggio» di 16 persone di diverse nazionalità diretti verso l'Italia a bordo di un gommone. La motovedetta Fezzan 658 della Guardia costiera libica ha raggiunto il natante in difficoltà. E, dopo averli messi in salvo, li ha consegnati all' Agenzia anti immigrazione illegale. Samad ha precisato che la Guardia costiera libica sta portando avanti molte operazioni di salvataggio in un periodo di «grande attività dell'emigrazione clandestina verso i Paesi europei». «Il portavoce della Commissione europea fa sapere che la responsabilità degli Stati membri «dipende dalla posizione della nave» e che «ovviamente» si aspetta «che i Paesi membri rispettino i diritti umani in tutte le circostanze» ma», sottolinea Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera e deputato di Fratelli d' Italia, «l' emergenza sbarchi nel Mediterraneo centrale non può essere un problema circoscritto all' Italia, ed è raccapricciante che l' Europa si volti dall' altra parte e che il governo di Mario Draghi rimanga silente mentre le nostre coste vengono invase da clandestini, mettendo a rischio sicurezza territoriale e sanitaria». Infatti, anche ieri, sono stati riscontrati tamponi positivi tra gli sbarcati: due a Crotone e cinque nel solito Centro d' accoglienza di Trieste che si è trasformato ormai da settimane in un focolaio.

Sbarchi a raffica a Lampedusa: già arrivati 21mila migranti. Fausto Biloslavo il 4 Luglio 2021 su Il Giornale. Dati triplicati rispetto al 2020. Naufragio al largo della Tunisia: 43 dispersi. Bloccata la ong "Geo Barents".  Sbarchi a raffica a Lampedusa, naufragio davanti alla Tunisia, tetto dei 21mila migranti superato con gli arrivi da gennaio e l'ammiraglia di «Medici senza frontiere» fermata dalla Guardia costiera per carenze sulla sicurezza. A Lampedusa sono arrivati 242 migranti in 8 approdi, fino a metà pomeriggio di ieri. Gli sbarchi si sono susseguiti con una maggioranza di tunisini, egiziani e palestinesi. Un naufragio è avvenuto al largo della Tunisia. L'imbarcazione era partita con 127 persone a bordo da Zuwara, hub dei trafficanti libici vicino al confine tunisino. Oltre 80 sudanesi, eritrei, bengalesi ed egiziani sono stati portati in salvo nel porto di Zarzis. Altri 43 sono purtroppo dispersi con poche speranze di trovarli in vita. Sulla spiaggia di Zawia, altro porto di partenza dei trafficanti in Libia, sono stati trovati i corpi di 14 migranti, compresi un bambino e una donna, portati a riva dalla corrente. «Non si possono accettare i morti in mare, ma certamente serve che l'Europa sia ancora più presente» ha dichiarato il ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese. L'obiettivo «è operare con partenariati robusti nei paesi terzi per evitare che ci siano delle condizioni economiche e sociali che poi spingono le persone a fuggire». Grazie agli approdi di ieri a Lampedusa gli sbarchi da gennaio sono 21.096, tre volte tanto lo stesso periodo del 2020 e 7 e mezzo rispetto al 2019. A giugno si è toccato il record mensile di quest'anno con 5.840 arrivi e le stime per luglio e agosto sono pessime. Un altro segnale d'allarme è rappresentato dai 500 arrivi, solo in giugno, dalla rotta del Mediterraneo orientale. La modalità fa pensare ad una sola rete di trafficanti che organizza i viaggi. Fra gli sbarchi recenti anche i 410 migranti recuperati davanti alla Libia dalla nave Geo Barents di Medici senza frontiere approdata ad Augusta. La Guardia costiera, dopo un'ispezione durata 14 ore, «ha evidenziato diverse irregolarità di natura tecnica, tali da compromettere non solo la sicurezza degli equipaggi ma anche delle stesse persone che sono state e che potrebbero, in futuro, essere recuperate a bordo». La nota prosegue rivelando «che i mezzi di salvataggio (zattere, cinture di salvataggio) sono sufficienti per un numero massimo di 83 persone a fronte delle 410 sbarcate nel porto di Augusta». In totale sono state riscontrate «22 carenze di cui 10 che, per la loro gravità, hanno determinato il fermo» amministrativo dell'ammiraglia con bandiera norvegese. Msf protesta: «È la 13ima volta che le autorità italiane bloccano una nave umanitaria negli ultimi 3 anni». Le Ong si sentono, come sempre, al di sopra delle norme. L'impennata si registra da maggio 2020 a oggi con 10 ispezioni e 9 fermi amministrativi di navi delle Ong (4 dall'inizio dell'anno). A dare man forte ai talebani dell'accoglienza ci pensa Oxfam, grande Ong internazionale svergognata da scandali sessuali. In una nota sottolinea che il nuovo decreto missioni prevede un aumento di mezzo milione di euro nel 2021 per l'appoggio alla Guardia costiera libica. Oxfam chiede «ai partiti di maggioranza di interrompere immediatamente gli stanziamenti» con il voto parlamentare previsto a luglio. I libici hanno fermato dall'inizio dell'anno 13mila migranti, che altrimenti sarebbero arrivati tutti da noi, anche con l'aiuto delle Ong.

Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni ottanta copre le guerre dimenticate dall'Afghanistan, all'Africa fino all'Estremo Oriente. Nel 1987 viene catturato e tenuto prigioniero a Kabul per sette mesi. Nell’ex Jugoslavia racconta tutte le guerre dalla Croazia, alla Bosnia, fino all'intervento della Nato in Kosovo.

Riccardo Lo Verso per il “Corriere della Sera” l'1 luglio 2021. L'ennesima tragedia del mare si consuma all'alba di ieri, a cinque miglia dalle coste di Lampedusa. Più di sessanta migranti sono stipati in un barcone di otto metri che si ribalta per le onde, proprio mentre stanno per iniziare le operazioni di soccorso. I morti sono sette. Tutte donne, una incinta di pochi mesi. Ma i numeri sono destinati ad aumentare con il passare delle ore. Stando al racconto dei 46 sopravvissuti salvati dagli uomini della Guardia costiera e della Guardia di finanza, infatti, ci sono una decina di dispersi. Il mare avrebbe inghiottito anche dei bambini. Ai soccorritori si è rivolta una madre in lacrime, che chiede della figlia 15enne dispersa. Un video cristallizza i momenti del salvataggio. Immagini già viste, sempre strazianti. Si sentono le urla delle donne che cercano di aggrapparsi ai salvagente. I sopravvissuti sono sotto choc. Il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio ha aperto un'inchiesta per naufragio. Il fascicolo è a carico di ignoti. «Alla vista delle motovedette i migranti presenti sul barcone si sono sbilanciati - spiega il magistrato -. Tanti sono finiti in mare o perché mal distribuiti sul barcone o perché hanno perso l'equilibrio». Si cerca innanzitutto di scoprire se gli scafisti si nascondessero fra i migranti salvati. Sul barcone viaggiavano persone provenienti da Paesi subsahariani e dai Senegal, partite da Sfax, in Tunisia, dopo essere transitate dalla Libia. Con l'arrivo dell'estate il ritmo degli sbarchi si è fatto serrato a Lampedusa. Nella notte della tragedia ce ne sono stati quattro. Nel centro di accoglienza ci sono più di 650 ospiti. La capienza massima è di 250 persone. «Non si vuole prendere coscienza di quello che succede», dice il sindaco di Lampedusa, Totò Martello. Che chiama in causa il premier Mario Draghi: «Continua il silenzio. Sono passati 15 giorni da quando ho chiesto d'essere convocato per discutere di quello che avviene nel Mediterraneo». Anna Maria Bernini, presidente dei senatori di Forza Italia, bacchetta l'Unione europea «che passa di rinvio in rinvio» senza «stroncare all'origine il traffico criminale». Servono «canali legali e sicuri per chi fugge da guerre e persecuzioni». Laura Boldrini, deputata del Pd, invoca «un programma europeo di ricerca e soccorso nel Mediterraneo».

Migranti morti nel naufragio, sbarchi a raffica e hotspot al collasso: caos Lampedusa. Sofia Dinolfo il 30 Giugno 2021 su Il Giornale. Nella notte più di 305 migranti sbarcati nell'Isola maggiore delle Pelagie. Un naufragio ha causato la morte di diverse persone. Si cercano ancora i dispersi e l'hotspot è già stracolmo. Si fa sempre più tesa la situazione a Lampedusa per via dei continui sbarchi che rendono difficile la gestione dell’emergenza. A tutto questo si è aggiunto anche un naufragio nella notte che ha causato delle vittime. È stato un pomeriggio pieno di arrivi quello registrato ieri sull’Isola maggiore delle Pelagie. Dopo alcuni giorni di calma, per via del forte vento di scirocco che ha reso impossibile la traversata del Mediterraneo centrale, ieri ha preso il via una raffica di sbarchi che tutt’ora non accenna a dare tregua. I primi arrivi sono iniziati intorno alle 16 con diversi barchini che trasportavano dai 40 ai 70 migranti per volta. Da lì non si sono più fermati i viaggi della speranza fino alla notte, quando sono arrivati circa 256 migranti. Poi la tragedia: a cinque miglia dalla costa si è ribaltato un barcone con a bordo una sessantina di stranieri. Le motovedette della Capitaneria di porto sono intervenute per i soccorsi riuscendo a portare in salvo 48 persone. Al momento si contano 7 vittime, fra loro un bambino e una donna in stato di gravidanza avanzato. Le ricerche continuano senza sosta perché secondo la testimonianza dei sopravvissuti ci sarebbero una decina di persone che mancano all’appello. L’arrivo dei migranti continua a mettere in difficoltà la gestione del servizio di accoglienza a Lampedusa. L’hotspot è stracolmo in ogni suo angolo: a fronte di 250 posti disponibili, questa mattina ne ospitava circa 600. Entro il primo pomeriggio si arriverà a quasi quota mille considerando che ci sono circa 250 migranti. Dopo le operazioni di identificazione da parte delle Forze di polizia e dopo i tamponi laringo faringei per accertare che non ci siano positivi al Covid, si procederà al loro trasferimento dentro la struttura di accoglienza. Ma nel frattempo gli sbarchi non sono terminati. A bordo di piccole imbarcazioni, i migranti continuano ad arrivare e a occupare il molo Favarolo. Gli arrivi creano intasamenti e rallentano le procedure di identificazione senza parlare di quello che questo significhi per l’hotspot di contrada Imbriacola. La struttura è al collasso. I migranti lì dentro vivono in condizioni precarie. Gli ospiti sono così tanti che non è possibile rispettare le distanze di sicurezza. Sono tutti ammassati fra loro, dormono su dei materassi che, nelle ore di pranzo, si trasformano anche in tavoli sui quali consumare i pasti. In queste giornate in cui le temperature sono infernali, è difficile garantire loro spazi in cui trovare refrigerio. Una condizione non ideale e che non lascia margini ad un miglioramento dal momento che gli sbarchi non si arrestano. Da un lato arrivano migranti dentro l’hotspot, dall’altro si cercano i dispersi in mare e la procura di Agrigento, nel frattempo, ha aperto un fascicolo d’inchiesta per naufragio e favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Obiettivo, rintracciare gli scafisti, molto probabilmente tunisini, che avrebbero portato la barca poi naufragata davanti l’Isola. Sulla drammatica situazione che sta interessando Lampedusa è intervenuto anche il leader della Lega Matteo Salvini: "Siamo già a più del triplo degli sbarchi rispetto all'anno scorso e nell'estate post Covid non è pensabile. Da ministro - ha sottolineato Salvini - ho l'orgoglio di aver dimezzato il numero dei morti. Più gente metti su barchini e barconi e nelle mani degli scafisti, più gente condanni a morte". Poi, il segretario del Carroccio ha lanciato un messaggio al capo del Viminale Luciana Lamorgese: “Il ministro dell'Interno faccia quello che fanno Francia, Spagna, Grecia, Malta, Slovenia, difenda il diritto e la legalità. Non è pensabile un luglio ed un agosto di sbarchi continui per problemi economici, sociali e sanitari". E dopo l’ennesimo naufragio nel Mediterraneo, ecco che le Ong colgono l’occasione per prendere la palla al balzo. Su Twitter Mediterranea Saving Humans, cavalcando l’onda degli eventi ha scritto: "La notte scorsa un'imbarcazione si è ribaltata a poche miglia dall'isola. Almeno 7 morti e 9 dispersi, mentre 48 persone sono state soccorse. Ancora vittime della politica europea di chiusura delle frontiere". 

Sofia Dinolfo. Sono nata il 30 marzo del 1982 ad Agrigento e sin da piccola ho chiesto ai miei genitori un microfono per avvicinarmi a chi mi stesse vicino e domandare qualsiasi cosa mi passasse per la mente. Guardavo i telegiornali e poi imitavo i giornalisti raccontando a modo mio quello che avevo appena ascoltato. Quella passione non mi ha mai abbandonato pur intraprendendo, una volta cresciuta, gli studi di Giurisprudenza. Appena laureata, non ho pensato di fare l’avvocato ma di andare avanti con il settore del giornalismo che nel frattempo non avevo mai accantonato coltivandolo come hobby. Ed ecco che poi sono arrivate le prime esperienze lavorative effettive: dalla conduzione di una trasmissione di calcio in una tv locale (dal 2006 al 2009), all’approccio con la cronaca tramite il quotidiano cartaceo La Sicilia (dal 2010 al 2012). Poi quella che, a livello personale, ha rappresentato una vera e propria palestra nella mia crescita lavorativa: il giornalismo televisivo. Dal 2011 al 2016, sempre ad Agrigento, mi sono occupata della stesura di servizi televisivi, della conduzione del telegiornale, della realizzazione e conduzione di programmi spaziando fra tutti i colori della cronaca, ma anche nel settore della medicina. Negli anni successivi ho intrapreso l’esperienza giornalistica in radio confrontandomi con una nuova metodologia di approccio al pubblico che mi ha spinto ad amare ancor di più questo lavoro. Scrivo per il Giornale.it assumendo con impegno ed orgoglio il dovere di raccontare ai lettori i fatti di cronaca di principale interesse.

Giornata mondiale del rifugiato, Mattarella: “L’Italia non si è mai sottratta al salvataggio dei profughi”. Jacopo Bongini il 20/06/2021 su Notizie.it. In occasione della Giornata mondiale del rifugiato il presidente Mattarella ha ricordato l'impegno che l'Italia ha sempre profuso nel salvare i profughi. Anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è intervenuto in occasione della Giornata mondiale del rifugiato, ricordando l’impegno che il nostro Paese ha sempre profuso per il salvataggio e l’accoglienza dei profughi: “La protezione della vita umana, il salvataggio dei profughi, il sostegno ai sofferenti nelle crisi umanitarie, l’accoglienza dei più vulnerabili, sono impegni cui la Repubblica Italiana, in collaborazione con l’Unione Europea e le organizzazioni internazionali, non si è mai sottratta, anche nei tempi recenti segnati dalla pandemia”. Nel corso del suo intervento, il capo dello Stato ha in seguito ribadito che: “Il diritto internazionale prevede protezione per coloro che sono costretti ad abbandonare la propria casa e il proprio Paese, in ragione di conflitti, persecuzioni, condizioni climatiche, calamità naturali e carestie. Oltre 80 milioni di persone sono in fuga, secondo l’Alto Commissario delle Nazioni Unite che, ad oggi, si trova a proteggere quasi 100 milioni di individui”. Per Mattarella inoltre, la Giornata mondiale del rifugiato: “Impone una riflessione per rendere effettivo l’esercizio di questa responsabilità internazionale. Storie individuali e di popoli, anche geograficamente vicini, fanno appello al nostro senso di solidarietà, ancorato ad alti doveri morali e giuridici”. Il capo dello Stato ha poi rivolto: “Un sentito ringraziamento alle donne e agli uomini delle varie amministrazioni che, con dedizione e spirito di servizio, assicurano quotidianamente l’operatività della protezione internazionale. Vorrei ricordare altresì la generosità con cui privati cittadini, organizzazioni della società civile e istituzioni religiose si prodigano nel nostro Paese per assistere i rifugiati, anche promuovendo esperienze innovative quali i corridoi umanitari, significativo esempio in materia di accoglienza a livello europeo”. Nelle stesse ore è intervenuta anche la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, che in occasione della ricorrenza ha dichiarato: “A settant’anni dalla sua sottoscrizione, la Convenzione di Ginevra relativa allo statuto dei rifugiati, che questa ricorrenza celebra e ricorda, continua ad essere un documento di fondamentale importanza tanto sotto il profilo giuridico quanto sul piano etico e morale”. La presidente del Senato ha poi proseguito aggiungendo: “La sua sottoscrizione, immediatamente dopo la fine del secondo conflitto mondiale, rappresenta uno dei traguardi più alti nel riconoscimento del valore assoluto della vita e della dignità umana”.

(ANSA il 10 giugno 2021) "Le recenti dichiarazioni del Vicepresidente USA Kamala Harris contro l'immigrazione illegale dimostrano ancora una volta come nel mondo tutti si preoccupino di difendere i propri confini. Solo la sinistra italiana, nella sua foga immigrazionista, continua a tenere spalancati i nostri porti a chiunque. Capiranno mai che bloccare l'immigrazione clandestina è un dovere? Lo ripeterò all'infinito: blocco navale subito per fermare le partenze e la tratta di esseri umani verso l'Italia". Lo scrive su Facebook il presidente di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni.

(ANSA il 10 giugno 2021) "C'è sempre la volontà di speculare su temi complicati, la gestione delle frontiere fa parte degli obblighi dello stato di diritto e una moderna politica di immigrazione deve consentire un'immigrazione legale insieme all'Ue. Abbiamo la fortuna di avere al governo Draghi che è molto ascoltato in Europa e Draghi ha imposto che il consigli Ue del 24 discuta di politiche migratorie e di come non lasciare soli paesi come l'Italia, la Spagna e la Grecia. Il Pd è in sintonia con quello che il governo vuole fare in Europa". Così Enrico Letta a Coffee Break su La 7 reagisce alla leader Fdi Giorgia Meloni che, dopo l'uscita della vice Usa Kamala Harris sui migranti, accusa la sinistra italiana. "Temo - ammette Letta - che l'Europa faccia resistenza perché il tema tocca in modo asimmetrico i paesi europei ma secondo i dati chi ha visto entrare più migranti non sono l'Italia e la Spagna ma i paesi del centro nord Europa. Non dico che il problema va sottovalutato ma va gestito ed è giusta l'impostazione di Draghi di gestirla a livello Ue".

Da quali Paesi vengono i migranti sbarcati in Italia nel 2021. Mauro Indelicato, Sofia Dinolfo su Inside Over il 29 maggio 2021. In questi mesi contrassegnati da un’impennata di sbarchi in Italia, le telecamere sono state puntate quasi esclusivamente lungo le coste libiche. Tuttavia, per comprendere meglio le dinamiche migratorie che interessano il nostro Paese, occorre spingersi nel cuore dell’Africa subsahariana. È da lì infatti che partono le carovane dirette verso le coste del Mediterraneo. Dai numeri forniti dal Viminale, sono emerse non poche sorprese relative ai Paesi di origine dei migranti.

L’allarme che arriva dalla rotta libica. L’ondata migratoria che ha investito l’Italia in questa prima parte del 2021 è stata imponente. I numeri del ministero dell’Interno parlano chiaro e certificano una netta differenza rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Sono infatti 13.875, alla data del 28 maggio, gli stranieri irregolarmente sbarcati lungo le coste italiane, a differenza dei 4.838 dei primi cinque mesi del 2020. Un fenomeno che non ha conosciuto tregua nemmeno durante il momento clou dell’attuale fase pandemica. Ma la differenza rispetto allo scorso anno non riguarda soltanto i numeri. Per la verità le novità hanno a che fare con le rotte seguite dai migranti. Nella passata stagione è stata la rotta tunisina a destare maggiore preoccupazione. Dalla Tunisia si partiva in qualsiasi momento: barchini e gommoni con a bordo cittadini tunisini, si sono resi i protagonisti degli sbarchi a Lampedusa. Quest’anno c’è stata invece un’inversione di tendenza che vede nella rotta libica la principale responsabile del fenomeno migratorio. Che la Libia rappresenti maggiore fonte di preoccupazione non lo dicono solo i dati, ma anche le mosse politiche messe in atto dal presidente del consiglio Mario Draghi. Non a caso il primo viaggio all’estero del capo dell'esecutivo è stato proprio a Tripoli, lì dove ha incontrato il premier Abdul Hamid Mohammed Dbeibah. A questo viaggio ha fatto seguito anche una successiva visita del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. Il dialogo fra i Paesi va avanti ed è destinato a proseguire in modo sempre più concreto, soprattutto a seguito dell’isolamento dell’Italia in ambito Ue sul tema migratorio.

Chi parte dalla Libia. La Libia rappresenta quest’anno per l’Italia l’emblema del fenomeno migratorio. Da qui sono partiti e continuano a partire diverse migliaia di migranti mettendo in crisi il sistema d’accoglienza del governo di Roma. Ma chi parte dalla Libia? Da una lettura superficiale delle notizie, si potrebbe pensare a viaggi della speranza intrapresi da cittadini libici. Invece non è proprio così. Anzi, è tutto il contrario. La Libia non rappresenta altro che il punto di arrivo di tutte quelle persone provenienti dall’Africa subsahariana che vogliono poi proseguire verso le coste meridionali dell'Italia. In primis quelle lampedusane. E qui si arriva a toccare l'altra novità di questa stagione migratoria. Non solo infatti è cambiata la rotta di riferimento, ma sono emersi mutamenti anche in riferimento ai Paesi di origine delle persone che premono per entrare in Libia. Quest’anno infatti emergono in modo preponderante nazioni come la Costa d'Avorio e la Guinea. In entrambi i casi l'aumento dei flussi migratori è sospetto e preoccupante. Basti pensare che, nella classifica stilata dal Viminale riguardante i Paesi da cui arrivano più migranti verso le nostre coste, la Guinea ad esempio si piazza al quinto posto con 911 migranti. Una nazione questa della quale negli anni precedenti, in relazione all'immigrazione, non si è mai sentito parlare. Nello stesso periodo dello scorso anno da qui sono arrivati poco più di 200 e nella stessa fase del 2019 solo 36. Cosa sta accadendo in questi Paesi?

L'impennata di arrivi dalla Costa d'Avorio. Quando nel 1960 la Costa d'Avorio è diventata indipendente dalla Francia, nell'ambito del processo di decolonizzazione portato avanti nel continente africano, il suo fondatore Félix Houphouët-Boigny si è ritrovato davanti a un dilemma: c'erano molte terre incolte e poca manodopera. La soluzione adottata è stata molto semplice: aprire il Paese agli stranieri. Nel giro di appena un decennio la Costa d'Avorio ha iniziato ad essere popolata da cittadini provenienti dalle nazioni vicine. Il Paese si è trasformato in un territorio soggetto all'immigrazione e non all'emigrazione. Oggi il quadro si è ribaltato. Dal 2002 le tensioni interne, sfociate più volte in una latente guerra civile, hanno fatto sprofondare la Costa d'Avorio in un baratro sociale ed economico da cui sempre più persone provano a scappare. I dati che riguardano l'emigrazione ivoriana verso l'Italia appaiono eloquenti. Nel 2018 nel nostro Paese sono arrivati, come segnalato dal Viminale, 1.064 cittadini della Costa d'Avorio, nel 2019 ne sono sbarcati 1.139, mentre sono stati 1.950 i migranti arrivati nel 2020. Una crescita costante confermata anche nell'anno in corso: al 27 maggio 2021, sempre secondo il ministero dell'Interno, sono già 1.379 gli ivoriani giunti lungo le nostre coste tramite la Libia. Buona parte di loro percorre la rotta migratoria dell'Africa centrale: “Spesso – ha spiegato su InsideOver una fonte dell'Oim attiva in Costa d'Avorio – le persone che vogliono andare in Europa raggiungono con normali mezzi di linea il Niger, poi si aggregano alle carovane che risalgono il Sahara”. L'ulteriore impennata già ben ravvisabile in questo 2021 non dovrebbe essere figlia di nuovi sconvolgimenti interni al Paese. Le ultime elezioni presidenziali tenute nell'ottobre scorso hanno sì creato nuove tensioni ma, al contempo, non hanno peggiorato la già grave situazione economica: “Molto probabilmente – ha sottolineato ancora la fonte dell'Oim – l'emigrazione dalla Costa d'Avorio è un fatto oramai da considerarsi contingentale e consolidato”.

L'enigma della Guinea. Il numero di ivoriani approdati nel 2021 ha stupito fino ad oggi per l'incremento ma, di per sé, non ha rappresentato una vera sorpresa. Discorso diverso vale invece per la Guinea. Nella graduatoria del Viminale dove vengono elencate le nazioni di origine dei flussi migratori diretti lungo le nostre coste, la Guinea al momento è al quinto posto, subito dietro a Bangladesh, Tunisia, Costa d'Avorio ed Eritrea: “Stiamo notando – confermano dal Viminale – un incredibile aumento di guineani tra i migranti, negli altri anni le cifre erano ben diverse e quasi esigue”. Difficile capire i motivi dietro questo imprevedibile fenomeno. Il 2020 è stato un anno difficile per il Paese e non solo per il coronavirus. Le elezioni presidenziali tenute in ottobre hanno acuito le tensioni per via delle proteste contro l'attuale presidente Alpha Condé, tuttavia non si è registrata una degenerazione della situazione tale da giustificare l'impennata delle partenze verso l'Italia. A febbraio in Guinea ha fatto nuovamente la sua comparsa l'epidemia di ebola, dopo cinque anni dagli ultimi casi di contagio. Il focolaio però, secondo le ultime indicazioni dell'Oms, dovrebbe essersi già ridimensionato e non costituirebbe un grande pericolo. Le preoccupazioni però non mancano, unito alla certezza che, da qui ai prossimi mesi, occorrerà monitorare molto il fronte guineano.

Maurizio Belpietro per La Verità il 20 maggio 2021. Tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare. Appunto. Infatti, non essendoci diverse miglia marine a separare i due Stati, ieri la Spagna ha rispedito a casa la gran parte dei migranti che due giorni fa hanno provato ad attraversare la frontiera che separa Ceuta, l'enclave di Madrid, dal Marocco. Per fermare gli extracomunitari che hanno scavalcato la rete alta venti metri che fa da confine, o si sono buttati in acqua cercando di raggiungere il territorio spagnolo a nuoto, pare che il premier Pedro Sánchez abbia addirittura schierato l'esercito con i blindati. Qualche profugo non è neppure riuscito a toccare la spiaggia, ma lo hanno tenuto in acqua, per evitare che potesse dire di essere «arrivato» a baciare il suolo del regno dei Borbone. Fosse successo a noi italiani, di tenere a bagnomaria un migrante, come minimo saremmo finiti nel mirino di qualche Procura, con l'accusa di aver violato non so quale legge, nazionale o internazionale. Ma siccome a fermare i migranti non è stato Matteo Salvini e gli extracomunitari non sono stati bloccati su una nave delle Ong, tenuta al largo di un porto italiano per qualche giorno e così facendo rischiare al ministro dell'Interno dell'epoca una condanna per sequestro di persona, l'Europa protesta. Non con la Spagna, per aver mandato le truppe in assetto da guerra a fronteggiare una banda di disperati, ma con il Marocco, che non avrebbe fatto nulla affinché la folla di diseredati (tra i quali anche qualche neonato) fosse dispersa. Sì, avete letto bene: non se la sono presa con il governo di Madrid, ma con quello di Rabat, accusato di aver aperto i cancelli, di non aver fatto intervenire la polizia per fermare l'esodo. A Bruxelles non si è registrato il solito piagnisteo, quello per intenderci che ci tocca ascoltare ogni volta che all'orizzonte si profila la sagoma di un'imbarcazione carica di extracomunitari. Né qualcuno ha sollevato non dico la voce, ma neanche il sopracciglio per il mancato accoglimento dei profughi. A essere sinceri, neppure la fotografia di un neonato salvato in mare da un militare della Guardia civil ha inumidito il ciglio dei funzionari europei, i quali anzi si sono lamentati del comportamento tenuto dal Marocco, che avrebbe messo in difficoltà la Spagna per rappresaglia, cioè per ottenere la consegna del leader del Fronte Polisario, ovvero del capo di una fazione politica che da anni si oppone al governo centrale. Sì, in pratica, come era già accaduto in passato, l'Europa ha usato due pesi e due misure. Nei nostri confronti ha mostrato il volto umanitario, quello che impone l'accoglienza a chiunque e comunque. Con la Spagna ha invece adottato un atteggiamento completamente contrario, schierandosi dalla parte della sovranità violata e non da quella dell'umanità disperata. Vi chiedete quale sia la ragione del voltafaccia? Beh, nessuno è in grado di spiegarlo, perché forse una spiegazione non c'è. Hai voglia a dire che da noi c'è di mezzo il mare e chi arriva non si sa da dove sia partito e dunque sia impossibile rispedirlo a casa visto che la casa non è identificata. Molti di quelli che hanno oltrepassato la frontiera non sono di origine marocchina, dunque Rabat potrebbe fare spallucce, soprattutto se ai migranti è stata concessa la libera uscita per fare pressione sul governo spagnolo. Forse, per comprendere le ragioni della diversità di trattamento, bisogna andare alle politiche di ciascun Paese: c'è chi si fa rispettare e chi no. C'è chi se ne fa un baffo delle lamentazioni dell'Europa e non esita a mostrare i muscoli, mandando al diavolo le buone maniere, e chi invece si genuflette davanti alla prima obiezione. Del resto, che c'è da stupirsi se la Ue ci ignora, anzi ci usa come campo profughi, lasciando che le Ong facciano la spola tra le coste libiche e quelle italiane? I primi a consentirlo siamo noi, comportandoci come Tafazzi. Prendete il caso di Carola Rackete. La ricordate, era la «Capitana» che sfidò Salvini quando quest' ultimo era al Viminale e faceva la guerra alle Ong. A bordo di un traghetto carico di migranti, la signorina ignorò tutte le disposizioni impartite dalla guardia costiera e della Guardia di finanza, arrivando addirittura a entrare a forza nel porto, fino a schiantarsi contro una motovedetta delle Fiamme gialle. Peggio di così non si poteva fare, e se fosse capitato a chiunque di ignorare un posto di blocco e di danneggiare un mezzo militare sarebbe finita male. Non per lei, la quale tra poco riceverà pure una medaglia. Già, il giudice davanti al quale era stata trascinata, l'ha assolta, ritenendo che l'azione di disobbedienza fosse dovuta alla necessità di salvare vite umane. Ma le vite erano già salve a bordo della nave dell'organizzazione. Dunque, la «Capitana» non aveva alcun motivo di violare la legge, se non quello di aver deciso che a qualsiasi costo i migranti li avrebbe fatti sbarcare in Italia. Se perciò noi siamo i primi a ignorare che i confini sono sacri e che chi li difende non può essere speronato, c'è poco da stupirsi poi se l'Europa fa altrettanto. Se, grazie alla legge italiana, respingere un clandestino è impossibile, Bruxelles si accoda ben volentieri. In fondo, a loro che importa: la grana è nostra.

Orlando premia la Sea Eye. Ma i militari la fermano. Chiara Giannini il 6 Giugno 2021 su Il Giornale. La nave Sea Eye 4 è stata posta sotto fermo amministrativo dalla Guardia costiera italiana in seguito a una serie di controlli volti a verificare l'adeguatezza del natante alle norme di sicurezza della navigazione e di tutela ambientale. La nave Sea Eye 4 è stata posta sotto fermo amministrativo dalla Guardia costiera italiana in seguito a una serie di controlli volti a verificare l'adeguatezza del natante alle norme di sicurezza della navigazione e di tutela ambientale. Le verifiche, di routine, hanno messo in luce diverse irregolarità tecniche che avrebbero potuto creare situazioni di rischio per il personale di bordo e i migranti. Nei giorni scorsi la nave della Ong tedesca è approdata al porto di Palermo dopo aver sbarcato 415 clandestini a Pozzallo. Tra i problemi riscontrati anche alcune violazioni delle normative a tutela dell'ambiente marino. Paladini dell'accoglienza, in sostanza, non avevano abbastanza dispositivi di salvataggio. Quelli presenti sarebbero infatti bastati per appena 27 persone. E irregolarità sono state individuate nei contratti del personale di bordo, le dotazioni radio e i dispositivi atti a prevenire l'inquinamento. Insomma, in tutto 23 mancanze che hanno portato la Guardia costiera a imporre il fermo amministrativo, che si potrà risolvere solo con i dovuti adeguamenti. «Troppe persone soccorse - commentano da Sea Eye -, dopo un controllo di 12 ore. Faremo del nostro meglio per tornare all'azione il prima possibile». Il tutto mentre, nonostante le Ong siano rimaste le uniche a portare i migranti in Italia, visto che la Guardia costiera libica sta bloccando i barconi in partenza, l'equipaggio della nave ha ricevuto dal sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, la cittadinanza onoraria. La motivazione? È «un'organizzazione non governativa e senza scopo di lucro che, con le sue navi Alan Kurdi e Sea Eye 4, opera nell'area del Mar Mediterraneo attività di ricerca e salvataggio in mare, avendo tratto in salvo quindicimila e quattrocento persone, testimoniando e documentando quanto accade a rifugiati e migranti e la profonda crisi umanitaria che si consuma in quelle aree». La cosa ha fatto adirare molti cittadini del capoluogo siciliano. Il segretario locale della Lega, Alessandro Anello, non ha risparmiato critiche: «L'ennesima triste provocazione di un primo cittadino dall'ego patologico che utilizza il suo ruolo istituzionale solo e soltanto per farsi pubblicità sfruttando il tema dell'immigrazione nel penoso tentativo di apparire buono e accogliente».

L'Ong tira dritto verso Palermo: "Ci ha invitati Orlando". Francesca Galici il 19 Maggio 2021 su Il Giornale. Sea Eye ha deciso di accogliere l'invito di Leoluca Orlando e sta facendo rotta per Palermo con i 400 migranti a bordo nel silenzio assordante della Germania. Nonostante la presa di posizione di Nicola Molteni, viceministro dell'Interno, nonostante le proteste della Lega e di Matteo Salvini ma, soprattutto, nonostante l'enorme numero di migranti già arrivati nel nostro Paese, Sea Eye 4 sta circumnavigando la Sicilia. A bordo della nave della Ong si trovano oltre 400 migranti, di cui 150 pare siano minori. Sea Eye sta navigando a ridosso delle acque territoriali italiane e sta facendo rotta verso Palermo, il cui sindaco Leoluca Orlando si è detto pronto ad accogliere. "L'equipaggio della Sea Eye 4 ha salvato oltre 400 persone nel Mar Mediterraneo. Occorre adesso un porto sicuro. Palermo con il suo porto e in tutte le sue articolazioni sociali è pronta ad accogliere. Si attendono le decisioni delle autorità competenti", ha scritto su Twitter. Le 400 persone a bordo della Sea Eye sono il frutto di sei recuperi effettuati al largo della Libia da parte dell'equipaggio della Ong tedesca, che prima di dirigersi verso l'Italia ha fatto rotta verso Malta. Una manovra pro forma, che ha non ha avuto risultati: lo Stato di Malta non ha risposto alla chiamata di Sea Eye, come sempre accade con le navi delle Ong. Quindi la nave battente bandiera tedesca ha fatto rotta verso l'Italia nonostante l'appello di Nicola Molteni alla Germania domenica scorsa: "Nessuna responsabilità italiana nel coordinamento degli eventi avvenuti in zona Sar di altri paesi. Ci aspettiamo che l'accoglienza dei migranti e lo sbarco da una nave tedesca, di una Ong tedesca, avvenga in Germania, in ottemperanza allo spirito di solidarietà e condivisione Europea. Per il principio dello Stato di bandiera e della rotazione dei porti la Germania se ne faccia carico". Dalla Germania, che in quanto Stato di bandiera è il primo punto di contatto dei migranti con l'Europa, non c'è stata nessuna risposta. "Fatemi capire. Una nave tedesca raccoglie 400 clandestini in acque libiche e maltesi, Malta rifiuta di assegnare un porto e questi si dirigono verso l'Italia. Difendere i confini non è un reato, è un dovere!", ha tuonato Matteo Salvini su Twitter quando la Sea Eye ha chiesto il coordinamento delle operazioni all'Italia mentre faceva rotta per le coste siciliane. "Sea Eye 4 raggiungerà oggi la sua destinazione originale Palermo. Finora non c'è coordinamento da parte delle autorità europee. Giovedì sera il tempo peggiora. Abbiamo 150 minori a bordo! Noi chiediamo alla guardia costiera coordinamento urgente!", ha scritto Gorden Isler, executive board di Sea Eye. Da Palermo, intanto, si alzano le voci di protesta per l'iniziativa di Leoluca Orlando. Il capogruppo della Lega al Consiglio comunale di Palermo, Igor Gerlarda, si è scagliato contro il sindaco: "Immaginate lo stupore dei 400 migranti che Orlando oggi ha detto di essere pronto ad accogliere a Palermo con l'ennesimo tweet ad effetto, se davvero dovessero arrivare: troverebbero una città piena di immondizia, con mille bare accatastate al cimitero e le strade colabrodo, una città campione d'Italia per traffico". Gelarda continua: "Convinti di partire alla volta della civile e ricca Europa, arriveranno, invece, in una città distrutta e martoriata da quasi dieci anni di governo orlandiano". Igor Gelarda, quindi, affonda il colpo: "La verità è che ormai Orlando vive in una realtà tutta sua che tenta di spacciare ai suoi pochi seguaci, più stranieri che italiani, e tra questi solo radical chic. Una realtà che ben poco ha a che fare con la vera e dura realtà dei palermitani, che delle articolazioni sociali di cui parla il sindaco, anzi di un sindaco che amministri la città, ormai non hanno più traccia. Questa proposta è l'ennesimo schiaffo ai palermitani".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Lo dicono le regole: perché Sea Eye deve portare i migranti in Germania. Sofia Dinolfo il 19 Maggio 2021 su Il Giornale. A ribadirlo è stato l'ammiraglio Nicola De Felice: “Una nave è giuridicamente territorio dello Stato di cui batte bandiera". Le Ong e il fenomeno immigrazione: sono questi gli argomenti che in queste ultime settimane tengono acceso il dibattito nei piani alti dei governi degli Stati appartenenti all’Unione Europea, Italia in primis. Già perché è proprio qui che si concentrano sia gli sbarchi autonomi dei migranti sia quelli favoriti dalle Organizzazioni Non Governative. L'ultimo caso è quello della Sea Eye, nave battente bandiera tedesca che chiede di entrare in Italia con 400 migranti a bordo. Dopo aver effettuato sei trasbordi nel centro del Mediterraneo, lontano dalla zona Sar italiana, l’imbarcazione ha chiesto un porto sicuro a Malta che ha espresso, come sempre, il proprio diniego. Da qui, rotta verso le coste italiane con l’obiettivo di potervi accedere. La nave adesso si trova a circa 20 miglia nautiche dalla acque territoriali lungo le coste della Sicilia in attesa di ricevere il fatidico “si”. L’ ennesima richiesta da parte di una delle tante navi Ong ha fatto aprire la questione relativa alla difesa dei confini territoriali. Più voci all’interno del governo hanno sottolineato che l’Italia non è responsabile nel dover coordinare fatti accaduti in zona Sar di altri Paesi. Al contempo è stata chiamata ad intervenire la Germania, dal momento che la nave che ha eseguito il trasbordo dei migranti è tedesca. A ribadire il perché Sea Eye deve portare i migranti in Germania è stato l’ammiraglio Nicola De Felice il quale su IL Tempo ha detto che “una nave è giuridicamente del territorio dello Stato di cui batte bandiera, quindi Geo Barents e Ocean Viking sono territori norvegesi, Sea Eye 4, Sea Watch 3 e 4 è territorio tedesco, Open Arms Spagna. Sia applicato dunque - ha proseguito De Felice - il regolamento Ue di Dublino che impone agli Stati membri di portarseli a casa loro”. La Norvegia, non fa parte dell’Unione Europea ma ha ratificato l’accordo assieme alla Svizzera. L’ammiraglio ha richiamato gli Stati Ue ad una maggiore responsabilità: “Per fermare le partenze dovute al fattore attrattivo che queste navi oggettivamente mostrano ponendosi di fronte alle coste libiche, bisogna immediatamente e decisamente responsabilizzare gli Stati di Bandiera di fronte ai loro doveri di protezione internazionale e di asilo politico, secondo i canoni sanciti dalle norme internazionali”. L’estate è ormai alle porte e fenomeni come questi saranno a breve alla portata di tutti i giorni. Le navi delle Ong stazionano nei pressi delle coste della Libia, a Zuara e davanti Al Zawiyah, aree trafficate da barchini e barconi carichi di migranti che difficilmente riuscirebbero ad affrontare un viaggio nel pieno centro del Mediterraneo. E così, nel mezzo delle acque di competenza libica, maltese o tunisina, gli stranieri vengono recuperati dalle grandi imbarcazioni delle Ong e, come da copione, portati in Italia. E di navi attive, oltre alla Sea Eye, al momento ce ne sono diverse: le tedesche Sea Watch 3 e 4, la spagnola Open Arms, la norvegese Ocean Viking e, a breve, anche la Geo Barents, noleggiata da Medici Senza Frontiere. Impossibile pensare che l'attività di queste navi si concluda nei porti italiani.

Altri mille migranti "invadono" Lampedusa. Lega in pressing su Draghi. Francesca Galici il 9 Maggio 2021 su Il Giornale. Sono quasi 1000 i migranti sbarcati a Lampedusa nelle ultime ore: si trovano tutti nell'hotspot dell'isola in attesa della nave quarantena, tra loro un neonato. Migliorano le condizioni meteomarine nel mar Mediterraneo e tornano a intensificarsi gli sbarchi nel nostro Paese. Nelle ultime ora a Lampedusa sono arrivati oltre 1000 migranti in cinque diversi momenti, a distanza ravvicinata gli uni dagli altri. La prima imbarcazione ha condotto sulla più grande delle Pelagie 325 persone. Il malandato barcone in legno, lungo circa 20 metri, è stato intercettato a 8 miglia dall'isola. Dopo pochi minuti un secondo barcone, individuato a 5 miglia dalla costa, è stato scortato dalla Guardia di finanza fino al molo Favaloro con a bordo 85 migranti di varie nazionalità. Tra loro c'era anche una bambina di poche settimane. Si sono poi susseguiti altri sbarchi all'alba, due barconi con 98 e 16 migranti a bordo. Il primo trasportava tutti uomini, prevalentemente provenienti dal Bangladesh e il secondo tutti uomini provenienti dalla Tunisia. Nella tarda mattinata è stato intercettato il quinto barcone della giornata a 3 miglia da Lampedusa con a bordo altri 398 migranti, tra i quali 6 bambini. L'imbarcazione si trovava in avaria ed è stata condotta in porto. Sono successivamente arrivate altre due imbarcazioni, una con 97 migranti e un'altra con 38 persone a bordo. Altri due approdi si sono registrati nelle ultime ore: si tratta di un barcone con 109 uomini, tra cui un bimbo, e di una carretta del mare con 20 uomini. L'isola di Lampedusa è così tornata in piena emergenza con l'hotspot al collasso. A tutti i migranti è stato effettuato un primo triage sanitario e sono stati trasportati nella struttura di contrada Imbriacola, dove si trovano alcuni dei migranti giunti nei giorni scorsi. Nell'isola non ci sono più a disposizione le navi quarantena. L'ultima, l'Allegra, ha lasciato le coste lampedusane in settimana con a bordo 446 migranti. Ora Lampedusa è in piena emergenza. Le buone condizioni del tempo hanno probabilmente favorito, e certamente favoriranno, nuove partenze dal Nord Africa. Anche il sindaco dell'isola, Totò Martello, sembra certo che dovranno prepararsi a nuovi sbarchi nelle prossime ore. "Sono stati trasferiti nel centro di accoglienza che era vuoto, dove sono state avviate le procedure di identificazione e di screening per il Covid. Stasera speriamo di potere riuscire a trasferirli a bordo della nave quarantena. Lo avevo annunciato qualche tempo fa, con il bel tempo riprendono gli sbarchi e ritengo bisogna ritornare a parare del fenomeno immigrazione", ha detto il sindaco ai microfoni di RaiNews24. Intanto sono state avvistate altre imbarcazioni in pericolo al largo della Libia, in zona Sar maltese. Una ha 80 persone a bordo e l'altra 55. La nuova raffica di sbarchi è arrivata poco dopo la decisione del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana di ripristinare il fermo amministrativo per la Sea Watch 4. L'imbarcazione della Ong era tornata in mare da poco e si era subito messa all'opera, trasferendo nel porto di Trapani 455 migranti. "È necessario un incontro col presidente Mario Draghi, con milioni di italiani in difficoltà non possiamo pensare a migliaia di clandestini (già 12mila sbarcati da inizio anno", ha dichiarato Matteo Salvini dopo essere venuto a conoscenza della nuova raffica di sbarchi di Lampedusa in poche ore. Anche Fratelli d'Italia, per voce del suo capogruppo al Senato Luca Ciriani, ha detto la sua: "Oggi sono quasi mille i migranti sbarcati a Lampedusa, che si aggiungono agli oltre 10 mila arrivati illegalmente via mare negli ultimi quattro mesi. Siamo ormai al collasso. È evidente l'emergenza in cui sta affondando l'Italia, la cui responsabilità ricade completamente sul ministro Lamorgese, palesemente inadeguata a fronteggiare quella che è una vera invasione. Addirittura, il governo Draghi sta riuscendo a fare peggio di quello immigrazionista di Conte. Bisogna agire subito, non possiamo assistere inermi. Non è più il tempo di riunioni e incontri, il governo deve agire. Fratelli d'Italia continua a ripetere che l'unico strumento per contrastare questa invasione di massa è il blocco navale, che va attuato subito e in accordo con le autorità del Nord Africa". La situazione è allarmante, mai prima d'ora c'erano stati così tanti sbarchi di seguito. Anche il sottosegretario all'Interno Nicola Molteni è intervenuto sulla vicenda: "Oltre mille sbarchi in pochissime ore a Lampedusa, con un rischio di ulteriore peggioramento nei prossimi giorni e nelle prossime settimane. La situazione è allarmante. Senza una risposta europea, oggi totalmente assente, serve un immediato intervento nazionale". Lampedusa è ormai al collasso e Matteo Salvini si è attivato subito per risolvere la situazione che rischia di aggravarsi nelle prossime ore. "Salvini e Lamorgese, con spirito collaborativo, hanno convenuto che faranno il punto al più presto insieme al presidente del Consiglio Mario Draghi", si legge in una nota diramata dalla Lega.

Gli immigrati invadono Lampedusa? Il sindaco se la prende con Salvini e Meloni. Federico Garau il 9 Maggio 2021 su Il Giornale. "Salvini fomenta l'odio sociale. L'idea della Meloni è troppo sciocca per poterla commentare", attacca il primo cittadino di Lampedusa e Linosa. Con l'hotspot di Lampedusa nuovamente al collasso, a causa dell'elevato numero di extracomunitari sbarcati nelle ultime ore, torna l'allarme sovraffollamento: tuttavia, mentre Meloni e Salvini chiedono di cercare delle soluzioni per risolvere il problema una volta per tutte, il sindaco Totò Martello trova invece lo spunto perfetto per accanirsi contro entrambi.

I numeri che preoccupano. Sono oltre 1200, infatti, gli stranieri nella struttura d'accoglienza dell'isola delle Pelagie, a fronte di una capienza massima di appena 250. Una quantità decisamente eccessiva, tanto che la prefettura di Agrigento si trova già al lavoro nel tentativo disperato di alleggerire il carico dell'hotspot. Secondo quanto riferito da AdnKronos, 200 extracomunitari dovrebbero essere imbarcati domattina sul traghetto di linea diretto verso Porto Empedocle, per poi raggiungere successivamente alcuni centri d'accoglienza siti nella provincia di Ragusa. Per quanto riguarda Lampedusa non risulta al momento la presenza di navi quarantena.

L'allarme di Meloni e Salvini. "È necessario un incontro col presidente Draghi", ha dichiarato il segretario del Carroccio commentando la situazione in essere."Con milioni di italiani in difficoltà, non possiamo pensare a migliaia di clandestini (già 12.000 dopo il nuovo consistente arrivo a Lampedusa) sbarcati da inizio anno". Una situazione pericolosamente fuori controllo, ed un'impennata di sbarchi che non può passare sotto traccia. "Non vogliamo abituarci a questo tipo di notizie", commenta su Facebook Giorgia Meloni. "L'immigrazione clandestina va fermata. Vanno fermati gli scafisti e le Ong immigrazioniste che speculano sulle tragedie. Come Fratelli d'Italia continuiamo a chiedere al ministro Lamorgese un immediato blocco navale", conclude il presidente di Fratelli d'Italia.

La replica stizzita del sindaco. "Salvini ha perso il pelo ma non il vizio", attacca il primo cittadino di Lampedusa e Linosa. "È da irresponsabili ricominciare a fomentare odio sociale mettendo gli italiani contro i migranti". Totò Martello si rivolta anche contro la richiesta inoltrata da Fratelli d'Italia: "Quanto all'idea della Meloni di attivare un 'blocco navale', è una sciocchezza talmente evidente che non merita neppure commenti", dichiara il sindaco, che rivolge poi un appello alle istituzioni. "Lo avevo detto il giorno in cui è nato il governo Draghi: l'Italia non può permettersi ambiguità su un tema fondamentale come quello dei flussi migratori, e meno che mai può permettersi di gestire l'arrivo dei migranti con la logica dell'emergenza quotidiana". Martello non pare particolarmente impressionato dai numeri attuali, ma teme che la situazione possa ulteriormente degenerare: "Se in un giorno sbarcano mille migranti sull'isola la macchina dell'accoglienza, anche se tra mille difficoltà, può reggere. Ma se ne arrivano tremila o quattromila che facciamo?". La capienza massima di 250 persone dovrebbe far già riflettere, ma il primo cittadino tira dritto e chiede anche l'aiuto dell'Unione europea. "Servono regole chiare per il soccorso in mare e per il controllo nel Mediterraneo, e servono azioni di tutela dei diritti umani. Al tempo stesso c'è bisogno di meccanismi che salvaguardino Lampedusa e la sua comunità, siamo un territorio di confine non solo italiano ma anche europeo", dichiara in conclusione il sindaco. "Anche Bruxelles deve assumersi le sue responsabilità".

Sulle imbarcazioni donne, bambini e anche una neonata. Il dramma dei migranti, oltre 1.400 sbarchi in un giorno a Lampedusa: “Altri alla deriva senza acqua, cibo e benzina”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 10 Maggio 2021. Lampedusa torna a fare i conti con l’emergenza migranti. Nove sbarchi nel giro di poche ore e hot spot sotto pressione con circa 1.450 persone già all’interno del centro, come confermato dal sindaco, Totò Martello. Un test, precisa il primo cittadino citando fonti del Viminale, sarebbe già risultato positivo facendo scattare l’isolamento. Gli sbarchi potrebbero però non essere terminati. Secondo quanto riferito da Martello, ci sarebbero altre 4 imbarcazioni a 35 miglia dall’isola siciliana, ma ancora non è chiaro dove faranno approdo. “Siamo in attesa della nave da Trapani che, mare permettendo, dovrebbe arrivare qui intorno alle 5 del mattino in modo da alleggerire il centro”, ha spiegato il sindaco. Anche Alarm Phone continua a lanciare l’allarme sui viaggi della speranza. Lo fa a più riprese. “Ci sono 3 imbarcazioni in zona Sar maltese, in posizioni ravvicinate. Una operazione di soccorso può mettere in salvo 231 persone. Le autorità sono informate, devono agire subito!”, segnala in un tweet la rete di attivisti. Poco dopo manda un altro Sos: “97 persone in pericolo vicino Lampedusa! Abbiamo ricevuto una chiamata da una barca in pericolo. Le persone dicono che sono in mare da 2 giorni, sono esauste e hanno finito carburante, cibo e acqua”. Il dossier torna così in cima all’agenda di governo. La ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, ha sentito il presidente del Consiglio, Mario Draghi. Allo studio c’è la formazione di una cabina di regia con gli altri ministeri competenti come Farnesina, Difesa e Trasporti, anche in vista dell’estate. Monta, intanto, la polemica politica. Il leader della Lega, Matteo Salvini, ritiene “necessario” un incontro con il premier, Mario Draghi, e la presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, parla di “blocco navale”. Il sindaco di Lampedusa, Totò Martello, non ci sta: “Il ‘blocco navale’ è una sciocchezza talmente evidente che non merita neppure commenti”. E ancora: “Salvini ha perso il pelo ma non il vizio, è da irresponsabili ricominciare a fomentare odio sociale mettendo ‘gli italiani contro i migranti'”. Pronta la replica del leader leghista, che ha scambiato alcuni messaggi con la titolare del Viminale: “Sbarcano 1.200 clandestini in un giorno, ma per il sindaco è colpa di Salvini. Non sta bene”. Una domenica di sbarchi a ripetizione sull’isola al largo di Agrigento. “Abbiamo avuto tre nuovi sbarchi di migranti a Lampedusa a bordo di barconi, in tutto ci sono all’incirca 500 persone e stanno bene, non ci sono casi disperati”, racconta Martello. A distanza di poche ore, altri arrivi sull’isola con l’approdo di 470 migranti e, a stretto giro, ancora altri fino ad arrivare a nove. Gli ultimi due sono stati rispettivamente di 100 e 29 persone. Si tratta soprattutto di uomini, ma ci sono diverse donne, alcuni bambini e anche una neonata. Tutti coloro che arrivano sull’isola vengono portati nell’hotspot, poi sottoposti a test sul Covid-19, prima del trasferimento sulle navi quarantena. La politica torna a interrogarsi sul tema che torna a essere caldo. “La situazione è allarmante”, dice il sottosegretario leghista all’Interno, Nicola Molteni. Dopo l’intervento di Salvini, secondo cui “è necessario un incontro col presidente Draghi: con milioni di italiani in difficoltà non possiamo pensare a migliaia di clandestini (già 12.000 sbarcati da inizio anno)”. Meloni poi non le manda a dire: “L’immigrazione clandestina va fermata. Come Fratelli d’Italia continuiamo a chiedere al ministro Lamorgese un immediato blocco navale”. Certo è che, secondo il sindaco Martello, “l’Italia non può permettersi ambiguità su un tema fondamentale come quello dei flussi migratori. Servono regole chiare per il soccorso in mare e per il controllo nel Mediterraneo, e servono azioni di tutela dei diritti umani”. Secondo il primo cittadino dell’isola, insomma, “c’è bisogno di meccanismi che salvaguardino Lampedusa e la sua comunità, siamo un territorio di confine non solo italiano ma anche europeo, anche Bruxelles deve assumersi le sue responsabilità”. (Fonte: LaPresse)

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Migrazioni e disuguaglianze: l’incredibile intuizione di Enrico Berlinguer. Il discorso del 1977 “Austerità: occasione per trasformare l’Italia” oggi si rivela attualissimo per il suo guardo verso il futuro. Paolo Aquilanti, Magistrato del Consiglio di Stato, il 6 maggio 2021 su L'Espresso. Nel 1977, un celebre intervento di Enrico Berlinguer al Teatro Eliseo, a conclusione del Convegno degli intellettuali indetto dal Partito Comunista Italiano, fu accolto con molto scetticismo. Nei decenni successivi venne denigrato e indicato come la prova di una cultura politica arretrata, incapace d’interpretare il grande cambiamento in corso, preludio degli splendidi anni Ottanta e anche degli sviluppi successivi più radicali nell’economia e nella società. Il discorso di Berlinguer era intitolato “Austerità: occasione per trasformare l’Italia”. I suoi detrattori ne ricavarono una concezione frugale e pauperista, autoflagellatoria, una critica del capitalismo d’ispirazione etica, prepolitica, incapace d’intendere i bisogni nuovi, il desiderio di benessere, la funzione positiva dei consumi di massa, la necessità di “modernizzare” l’Italia. In tempi più recenti, vi è stato anche chi ha voluto trovare nelle parole di Berlinguer una enunciazione ante litteram delle teorie di decrescita felice. Pochi, però, avevano colto il fondamento profondo dell’analisi di Berlinguer: l’anelito a condizioni di vita migliori di moltitudini afflitte da miseria, malattie endemiche, oppressione, nelle lande desolate, nei villaggi smarriti, in periferie metropolitane da incubo che allora si chiamavano Terzo mondo o, con espressione più gentile, Paesi in via di sviluppo. Di qui la previsione di Berlinguer sui fenomeni migratori di massa, che sarebbero aumentati fino a dimensioni enormi con la liberazione compiuta dal dominio coloniale e a causa degli squilibri tra Sud e Nord del Mondo. Questa era la motivazione della proposta, per politiche che allora si definivano di austerità, dirette a promuovere una diversa distribuzione della ricchezza e un nuovo modo di produrre e di consumare. Ancora, nel 1982, Berlinguer dedicò un’attenzione sorprendente al tema del futuro e invitò i giovani comunisti a dedicarsi anche a quelle riflessioni con un Congresso di futurologia. Qualcuno pensò che il segretario del Pci si fosse ispirato a Stanisław Lem, autore di un libro con lo stesso titolo. Era l’anno di Blade Runner, al 22° Congresso nazionale della Federazione Giovanile Comunista. Un anno dopo, in un’intervista dedicata a “1984”, pubblicata da l’Unità con il titolo “Orwell sbagliava, il computer apre nuove frontiere”, Berlinguer si rammaricava che quell’invito non fosse stato raccolto e spiegava in modo chiaro che non si trattava di una suggestione letteraria o predittiva. Era, invece, un’esortazione a studiare, su basi scientifiche, «le contraddizioni nuove del tempo nostro», per diffondere i risultati degli studi più recenti sui problemi del rapporto tra risorse e popolazione, tra sviluppo e ambiente e così via. Non è molto - ricordava Berlinguer - che scienziati, istituzioni e anche esponenti politici hanno cominciato a studiare questi temi tipici del nostro tempo e che domineranno i prossimi decenni. Si è cominciato a parlarne solo all’inizio degli anni Settanta. Egli si riferiva, in particolare, al Rapporto Meadows sui limiti dello sviluppo, commissionato al Mit di Boston dal Club di Roma nel 1972. «Prima», proseguiva Berlinguer, «e ancora per tutti gli anni Sessanta, imperava il vacuo ottimismo del progresso incessante, del benessere che si sarebbe via via diffuso a tutta la popolazione e a tutte le nazioni. Ma negli ultimi anni, nel corso dei quali la realtà ha richiamato la necessità di una visione più lucida del futuro del mondo, un notevole patrimonio di studi si è già accumulato. Esso non è però ancora sufficientemente conosciuto e discusso». Da qui l’idea di un congresso su varie discipline (scienze fisiche, chimiche, biologiche, antropologiche, demografiche, militari, economiche, sociali, informatiche, mediche), per poter offrire informazioni, valutazioni e proposte alla conoscenza e alla discussione tra i giovani. Parole pronunciate in un contesto del discorso pubblico che all’epoca, e anche dopo, mai avrebbe lasciato intuire una sensibilità a un tema così estraneo alle strategie e alle tattiche politiche. Oggi quei motivi sono intatti, vi si sono aggiunti nomi nuovi per fenomeni già in atto, la globalizzazione, i cambiamenti climatici, e altri fenomeni con tratti imprevedibili di velocità e diffusione, la rivoluzione tecnica, la connessione permanente a distanza tra gli individui. Il tema resta lo stesso: adesso lo chiamiamo sviluppo sostenibile. Però la sostenibilità è tutta interna ai popoli dei paesi industriali avanzati, una sostenibilità G7 o al più G20, ancora una forma miope di egoismo che considera gli altri, i dannati della Terra, come un fastidio lontano o una minaccia vicina. I programmi europei di ripresa, destinati alle prossime generazioni, ignorano le politiche migratorie, gli investimenti in favore dei paesi più derelitti dell’Africa, la necessità di considerare quei poveri non con la compassione ipocrita per i morti in mare ma nella loro dignità di persone vive e nella connessione vitale con gli europei delle nuove generazioni. Alcuni anni fa uno studio mostrava che appena mette piede in Italia o in un altro Paese europeo, un migrante dall’Africa acquista, solo per questo, un’aspettativa di vita maggiore di molti, moltissimi anni. La pandemia ripropone le diseguaglianze, il caso indiano è eloquente, eppure si pensa ancora e sempre, se va bene, alle elemosine degli aiuti o, nei casi peggiori, agli affari predatori. Rileggere Berlinguer induce a comprenderne il pensiero e le azioni senza il pregiudizio che ne ha distorto la figura in forma duplice: icona di una politica sobria e un poco corrucciata ma dall’indiscussa superiorità etica o profeta disarmato di suggestioni millenariste aggrappate a un passato condannato dalla Storia. In quelle parole, invece, si esprimeva tutt’altro. Non un uomo politico romantico e antiquato, non un moralista regressivo, ma un leader impegnato a scrutare i nuovi segni del suo tempo e a esplorarne le cause profonde e le tensioni future, proteso a soluzioni di lungo periodo, con una presa salda sulla questione delle questioni: i modi possibili per portare il potere dai dominanti ai dominati e dunque per dare più consistenza alla democrazia.

«In nome della legge: soccorriamo i migranti!». Parola di Armando Spataro. Simona Musco su Il Dubbio il 3 maggio 2021. L’ex procuratore di Torino: «La solidarietà, come diceva Rodotà, non è un sentimento, ma un diritto. Parole che ripeto ovunque sia possibile». «Soccorrere i migranti è un dovere, lo dice la legge. E la solidarietà, come diceva Rodotà, non è un sentimento, ma un diritto. Parole che ripeto ovunque sia possibile». Armando Spataro, ex procuratore della Repubblica di Torino, ha le idee chiarissime: fermare le navi con migranti che arrivano in Italia poiché tra loro potrebbero nascondersi dei terroristi è giuridicamente insensato. E le norme stesse, interne o sovranazionali, sono chiare sul punto: i porti possono chiudersi solo per precise ragioni di sicurezza, non per ipotesi indimostrate. Proprio per questo, spiega al Dubbio, al di là di tante incriminazioni rivelatesi infondate, voler limitare le attività delle Ong è «un’assurdità».

Dottor Spataro, nel Mediterraneo, pochi giorni fa, sono annegate 130 persone, nonostante i ripetuti allarmi lanciati da Alarm Phone. Ma come funziona il diritto del mare?

La tragedia di cui parla è solo l’ultima in ordine temporale, speriamo lo sia anche in assoluto. La disciplina delle attività di soccorso è abbastanza lineare, ma è anche vero che il coordinamento tra Stati, che l’Europa dovrebbe promuovere, spesso non funziona o non funziona bene. La regola è questa: ogni Stato costiero ha un’area marittima di propria competenza che si chiama Sar – Search And Rescue -, che è più ampia del limite del mare territoriale e deve dotarsi di un centro di coordinamento. Quando si manifesta un pericolo, viene lanciato un allarme e il centro del Paese che lo riceve, deve immediatamente avvertire quello del Paese nella cui area Sar l’evento si è verificato. In questo modo, il centro competente dà istruzioni alla nave che ha compiuto il salvataggio per trasportare i naufraghi, con la massima urgenza, nel porto sicuro, più vicino. E se non vi sono navi in zona, bisogna inviare immediatamente la segnalazione affinché un mezzo di soccorso si rechi sul posto. Nel momento in cui le persone vengono salvate e la nave che le trasporta giunge in un porto sicuro, scatta la normativa dello Stato di approdo, che in genere – come in Italia prevede l’identificazione, le visite sanitarie, il soccorso prioritario a minori, donne, malati, la selezione di coloro che richiedono asilo (per cui dovrà essere avviata la relativa procedura) e di quelli che dovranno eventualmente essere rimpatriati, e così via. Purtroppo questo sistema, che sulla carta sembra abbastanza semplice, per più ragioni non funziona.

Perché non funziona?

Perché manca un coordinamento efficace e spesso entrano in ballo anche questioni politiche. Ad esempio, se le Nazioni Unite e altre istituzioni umanitarie sostengono che la Libia non ha porti sicuri, è ovvio che le navi che soccorrono i naufraghi devono essere indirizzate altrove. Ma questo, politicamente, crea difficoltà. Nell’ultimo caso, stando a quanto riportano le cronache, pare siano trascorse oltre 24 ore tra la segnalazione d’allarme e il verificarsi della tragedia e in questo lasso di tempo sembra che non siano state avviate attività di soccorso. E questo è inaccettabile, perché come si legge in un bellissimo appello delle Ong a Draghi, che personalmente ho sottoscritto, il soccorso in mare non è affatto un optional, è un obbligo degli Stati, un obbligo giuridico che riguarda anche le navi militari. Non è solo una questione di etica.

Lei ha parlato di “selezione”, che ovviamente non può essere fatta prima dell’arrivo. Gli allarmi sul rischio che tra i migranti si nascondano dei terroristi, dunque, non hanno fondamento?

Nulla si può escludere a priori, ma sulla base dell’esperienza, questa è un’affermazione che non ha trovato alcun riscontro, a livello europeo, non solo italiano. Le varie inchieste aperte sono state chiuse con archiviazioni. Peraltro non è corretto, né logicamente né giuridicamente, fermare le barche con i migranti a bordo per il mero sospetto che trasportino terroristi. O la notizia è sicura e riscontrata o non è possibile chiudere i porti solo per un’ipotesi di pericolo.

Se, però, la presenza di terroristi a bordo è sicura, la notizia dovrebbe essere inoltrata immediatamente all’autorità giudiziaria competente affinché venga aperta un’inchiesta. Quindi non tocca ad un ministro bloccare una nave perché “potrebbero esserci a bordo dei terroristi”.

Sono stati diversi i casi in cui in Italia si è ritardato uno sbarco per questioni politiche e sulla base di norme interne in contrasto con quelle sovranazionali. In queste situazioni si può parlare di illegittima detenzione dei migranti a bordo?

Senza entrare nel merito di specifici procedimenti penali in corso, bisogna ricordare che l’Italia è già stata condannata nel dicembre 2016 dalla Corte dei diritti umani di Strasburgo per ingiustificato ritardo nello sbarco: un trattenimento che la Corte qualificò come privazione della libertà personale senza base legale. Sulle opzioni politiche prevalgono dunque i principi affermati dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dalla nostra Costituzione che riconoscono il diritto di lasciare il proprio Paese, di chiedere asilo politico altrove, di mutare a cittadinanza ed altro ancora. Stiamo parlando quindi di diritti umani fondamentali e internazionalmente riconosciuti. L’ eccezione riguarda chi è ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e principi della N.U. E numerose convenzioni internazionali sottoscritte dall’Italia prevedono l’obbligo di soccorso in mare.

Talvolta ci si richiama allo Stato di bandiera per indicare chi ha tale obbligo.

Non funziona così. La nave deve approdare nel porto sicuro più vicino e basta. Poi, che questo sia un problema molto delicato è chiaro: ecco perché serve un intervento dell’Europa. E bisognerà evitare di limitarsi alle belle enunciazioni di principio, si deve agire concretamente. È vero, a mio avviso, che gli obblighi di accoglienza non possono ricadere soltanto sugli Stati costieri. Ma quello del primo intervento, del soccorso, sì. Poi si dovrà in qualche modo disciplinare la distribuzione dei richiedenti asilo in Europa, ma salvare vite umane deve tornare ad essere una priorità e tragedie come quella recente non devono accadere più.

Altro aspetto è la criminalizzazione delle Ong. I decreti sicurezza hanno introdotto sanzioni pesanti e vengono indagate perché impegnate a salvare i migranti in mare, nonostante sia un obbligo. Cosa ne pensa?

Non è accettabile. Le ultime modifiche ai decreti sicurezza, per lo meno, hanno ridotto le sanzioni amministrative, che però sono ugualmente molto alte. Qualcuno afferma che le Ong agirebbero in concorso con i trafficanti di esseri umani, il che significa dividere gli utili e far parte di un’associazione a delinquere. Anche questa ipotesi non è mai stata dimostrata. Con l’ipotesi subordinata, collegata all’infelice e grave espressione “taxi del mare”, si afferma che, siccome i trafficanti conoscono le zone del Mediterraneo ove operano in genere le Ong, si recano proprio in quelle zone, dove abbandonano i naufraghi, sapendo che le Ong poi li prenderanno a bordo. Una sorta di concorso inconsapevole.

È plausibile?

I trafficanti di esseri umani vanno comunque perseguiti con fermezza. Ma una nave, in qualunque posto si trovi, deve assolutamente intervenire se vi sono persone in pericolo. Ed in questo caso si tratta di condotta non punibile poiché il nostro codice penale prevede lo stato di necessità (art. 54) e l’adempimento di un dovere (art.51). Dunque, in presenza di necessità di soccorso ai naufraghi in pericolo e dell’ovvio dovere di salvarli, non vi possono essere equivoci: non sussiste reato e la criminalizzazione delle Ong, non è in tali casi possibile.

Ultimamente si è assistito anche ad un incremento dei fermi amministrativi.

Questo è un problema delicatissimo, perché questo aumento dei fermi amministrativi, che spesso si protraggono troppo a lungo, ha determinato una minore presenza delle navi nel mar Mediterraneo. Non si può pensare che gli standard di sicurezza di una nave in una situazione di normalità possano valere anche in uno stato d’eccezione. Se salvo e porto a bordo centinaia di migranti non si può pretendere che la nave possa avere un numero di salvagenti pari a quello delle persone soccorse. Come ricordato da diverse Corti, il pericolo per i migranti impone certe condotte. E francamente non si può neppure dire che il pericolo inizi solo quando l’imbarcazione in difficoltà è avvistata, mentre basta che arrivi il messaggio con la richiesta di soccorso. Non si può ipotizzare di attendere una conferma visiva.

Come giudica l’attuale normativa italiana?

Va modificata. Ma soprattutto va modificata a livello europeo. Bisogna mettersi attorno ad un tavolo e lavorare senza ambiguità disciplinando modalità di accoglienza, distribuzione negli Stati europei ed eventuali rimpatri. La speranza è che questo sia possibile, altrimenti continuiamo a rimanere fermi sulle enunciazioni di principio.

Sono aumentati i reati d’odio, soprattutto di matrice razzista. Cosa sta accadendo?

Parti del ceto politico e dell’informazione hanno responsabilità nell’enfatizzare ed inventare presunti rischi che correrebbe l’Italia a causa dell’immigrazione. E facendo questo si fomentano ragioni di odio, vere e proprie xenofobie. L’immigrazione è un problema mondiale, non riguarda solo l’Italia. Abbiamo conosciuto recentemente atti di violenza nel foggiano e gravi reati anche altrove. Questi crimini d’odio sono indubbiamente favoriti, nella loro espansione, dall’additare il migrante come il nemico del quale ci si deve sbarazzare nel minor tempo possibile o impedire l’arrivo in Italia. Ma in realtà sono risultate false tante affermazioni, mentre, oltre quelle di Rodotà, devono ricordarsi le parole del Papa sul dovere di solidarietà. Ho apprezzato l’atteggiamento del nuovo segretario del Pd, Enrico Letta, che ha ripetutamente affermato la necessità di attenzione ed interventi in ordine al soccorso in mare, al soccorso ai migranti, oltre che dello jus soli, ciò senza alcuna accondiscendenza con gli umori peggiori del nostro Paese. Questo è importante, perché un partito, qualsiasi partito, deve affermare i suoi principi e andare avanti con coerenza, anche a rischio di perdere consensi. Così come certa stampa deve impegnarsi a dare notizie precise e riscontrate, altrimenti si finisce per alimentare l’odio.

Il delirio di Saviano: "1 milione di migranti al Sud". Federico Garau il 3 Maggio 2021 su Il Giornale. Per lo scrittore campano la soluzione per ovviare al crollo demografico nel Paese è sempre la stessa: "Urgente accogliere un milione di migranti e renderli cittadini italiani". L'ira del centrodestra. L'Italia si trova in piena crisi sanitaria ed economica, col governo Draghi impegnato a varare riforme per cercare di garantire alle famiglie ed alle giovani coppie un minimo di stabilità, eppure per lo scrittore Roberto Saviano la risposta al grave problema del crollo demografico nel nostro Paese deve essere cercata nella massiccia accoglienza di cittadini stranieri. Una soluzione, quella più volte proposta dallo scrittore campano, che ha mandato su tutte le furie la leader di FdI Giorgia Meloni, che non ha tollerato le ultime dichiarazioni rilasciate dall'autore di Gomorra a Libération.

"Servono un milione di migranti". Intervistato dal quotidiano francese, Roberto Saviano ha sparato numeroni. "In Italia è urgente accogliere un milione di migranti e renderli cittadini italiani, di installarli nel sud per far rivivere questa regione che si svuota", ha affermato con sicurezza lo scrittore, che proprio in Francia ha pubblicato il suo libro "In mare non esistono taxi". Insomma, perché intervenire cercando di reinfondere un po' di sicurezza, incoraggiando magari le giovani coppie a mettere su famiglia, quando si può agire in maniera più rapida, aprendo all'immigrazione? Questo pare proprio essere il pensiero dell'autore napoletano. "I migranti possono essere una risorsa di vita", ha infatti spiegato Saviano, prima di sottolineare che questi"raccontano tutte le cattive politiche che l'Europa ha intrapreso con l'Africa". Il Mediterraneo è ormai ridotto ad un cimitero, ha infine ribadito lo scrittore. "Ecco perché sostengo le Ong. Non bisogna lasciare lo spazio pubblico ai cospirazionisti, ai fascisti", ha concluso.

La replica della Meloni. Le affermazioni di Saviano non sono affatto piaciute alla presidente di Fratelli d'Italia, che le ha bollate senza mezzi come un "ennesimo delirio". "Piano nascite? Incentivi per la natalità? Ma no, per l'idolo dei radical chic Saviano per ripopolare il Sud bisogna accogliere un milione di immigrati. Delirante", ha scritto infatti Giorgia Meloni sulla propria pagina Facebook. Sotto il post della presidente di FdI non sono mancati commenti di biasimo nei confronti dello scrittore campano. "Perché il 'grande scrittore' non pensa a trovare occupazione per i moltissimi giovani, tra i quali gran parte laureati, che abbandonano i nostri territori per trovare altrove occupazione? Questa sinistra opportunista e propagandista, vuole l'accoglienza dei migranti, con il massimo rispetto per le persone, ma caccia via intere generazioni dal loro paese", scrive un utente."Si incomincia dal sud e poi ci estendiamo... Così gli italiani emigrano e abbiamo lasciato una terra meravigliosa agli estranei", aggiunge un'altra internauta. E ancora: "Continuano a sbarcare e noi ancora con autocertificazione e coprifuoco. Vergogna!". Incredula anche la rappresentante della Lega Silvia Sardone, che commentando le uscite di Saviano ha affermato: "Le priorità dei “pensatori” di sinistra sono sempre sconcertanti!".

Le reazioni. Non sono mancate le risposte da parte dei rappresentanti politici di alcune zone del Sud, che non hanno affatto apprezzato la trovata di Saviano. "L'idea di Saviano, un milione di immigrati per risolvere il problema demografico del Sud, è un insulto a quelle migliaia di giovani che, purtroppo, nel corso degli anni sono stati costretti a lasciare i territori del Mezzogiorno perché non trovavano opportunità di lavoro e di crescita", ha commentato Annaelsa Tartaglione, vicecapogruppo di Forza Italia alla Camera e coordinatrice azzurra in Molise, come riportato da AdnKronos. "Ragazze e ragazzi che hanno dovuto rinunciare a vivere nei luoghi in cui sono nati, lontani dalle loro famiglie, dalle usanze e tradizioni in cui erano cresciuti. Il Sud non è il laboratorio degli ideologi delle "porte aperte". Duro anche Igor Gelarda, capogruppo della Lega al Consiglio comunale di Palermo. "La frase di Saviano mi sembra assurda e fuori luogo. Noi al Sud non abbiamo bisogno di gente che sostituisca la nostra cultura, la nostra tradizione o i nostri figli, costretti ad andare via. Abbiamo bisogno di investimenti veri, di infrastrutture vere, di una vera politica del lavoro e, soprattutto, di politici competenti che sbattano i pugni per difendere i figli del Meridione", ha dichiarato il leghista ai microfoni di AdnKronos. "Io dico che non abbiamo bisogno di gente come Roberto Saviano che ha una visione del Sud completamente capovolta, direi distorta e antistorica", ha concluso.

Immigrazione, Nicola Porro contro Roberto Saviano: "Sostituire gli italiani con i migranti? Un'idea nazista". Libero Quotidiano il 12 maggio 2021. “Il solito Roberto Saviano che ritiene l’immigrazione una necessità e una benedizione, la sua folle idea è sostituire gli italiani con i migranti”. Così Nicola Porro è andato all’attacco del noto scrittore: lo ha fatto all’interno della sua “Zuppa” quotidiana, in cui ha ripreso le recenti dichiarazioni dell’autore di Gomorra su un’emergenza che molti a sinistra fanno finta di non vedere.  “Negli ultimi giorni sono sbarcate migliaia di persone sull’isola di Lampedusa, ma per loro l’emergenza non esiste”, ha esordito Porro che poi è entrato nel vivo della questione e della contestazione a Saviano: “Stando a come lo pone lui, il problema esiste, l’emergenza c’è ma non è un’emergenza-invasione, bensì un’emergenza umanitaria. Forse tutte e due, ma non si può dire? Non solo, Saviano sostiene che l’immigrazione sia una necessità, addirittura una benedizione per il nostro Paese, che non cresce più demograficamente. Vorrei che Saviano lo andasse a spiegare nelle periferie di Napoli, Roma, Torino”. Addirittura Porro ha definito una “idea nazista” quella di risolvere il problema demografico dell’Italia con l’immigrazione: “Che facciamo, prendiamo grandi navi e li facciamo arrivare tutti qua? Vi suona bene? È incredibile come non si riesca a capire che, oltre che umanitaria, l’emergenza è anche l’invasione perché non siamo in grado di accogliere così tanti migranti, senza averli scelti, così velocemente e per altro con il biglietto pagato ai trafficanti di morte”. 

Immigrazione, il professore Raffaele Simone: "L'Europa diventerà africana e islamica. Ho pena per loro e paura per noi". Libero Quotidiano l'8 maggio 2021. "L’Europa è fortunatamente un continente mite e accogliente: non costruisce muri come gli Usa (anche perché non potrebbe), non spara (come nei Balcani), non bastona (come in Libia). Quindi, è incessantemente attraente. Inoltre, c’è un terzo del mondo che muore di fame, di violenza e soprattutto di sovrappopolazione: questi sono tutti buoni motivi per andar via. Tutto sommato, meglio accattone in Europa che vittima di fame o di violenza in Africa o in Siria". Questo il pensiero di Raffaele Simone, docente emerito di Linguistica dell’Università Roma Tre, saggista, autore di numerosi scritti di forte risonanza sulla modernità, la sua cultura e i suoi problemi, tradotti in più lingue. Una tesi che porta il professore a spiegare che l’Europa diventerà islamica e si africanizzerà. "Faremo la stessa fine dell’Impero romano distrutto dalle invasioni barbariche", scrive Italia Oggi che ha intervistato Simone. "La destra vuol bloccare tutte le immigrazioni (il che è insensato). Ma la sinistra sostiene la folle tesi che gli stati non hanno diritto di decidere chi può varcare i loro confini e chi no. Poi ci sono gli spiriti laici indipendenti, come me, che cercano criteri per distinguere tra chi è compatibile con il paradigma democratico europeo e chi no. Nel frattempo, i cittadini hanno già scelto: la sterzata a destra del paese deriva soprattutto dalla paura dell’immigrazione", spiega sempre il professore Simone. E sulla tesi sostenuta anche da Tito Boeri, quando era presidente dell’Inps, che ad alimentare il nostro sistema pensionistico con i loro contributi potrebbero essere i giovani immigrati, Simone spiega che: "Quelli che vedo in giro non mi pare che siano dentisti o gioiellieri, operai specializzati, elettricisti o idraulici. Li vedo solamente vendere calzini o mendicare col berretto in mano dinanzi ai grandi magazzini. Qualcuno gli ha offerto un lavoro? Ogni tanto un giovane indiano o filippino (meno spesso un arabo, mai un nero) mi porta la spesa a casa. Ho pena per loro, ho paura per noi. Sono queste le persone che contribuiranno al pil europeo?", si chiede Simone. 

La sinistra "raccomanda" i migranti: vaccinare subito 200mila stranieri. Antonella Aldrighetti il 19 Aprile 2021 su Il Giornale. Le associazioni vicine al ministro (Arci & C.) chiedono 400mila dosi per chi vive nei centri d'accoglienza, anche sotto i 50 anni. Dopo i furbetti saltafila, i raccomandati e gli infiltrati a disorientare la campagna vaccinale ci si mettono pure le associazioni pro migranti che premono per avviare un'operazione parallela a quella in corso ma che coinvolga tutti gli ospiti dei centri di accoglienza. Non solo gli operatori sociali che li assistono, ma anche coloro che vivono nei Sai (ex Sprar) e nei Cas. In prima fila tra i promotori le associazioni vicine al ministro della Salute Roberto Speranza come l'Arci e, per le realtà d'oltralpe, l'Unhcr che si stanno impegnando a chiedere la vaccinazione anticovid a tappeto di tutti gli immigrati che, dopo la quarantena nelle aree apposite, hanno presentato alla prefettura la richiesta per il permesso di soggiorno e attendono risposta. A oggi tra prime istanze di asilo e ricorrenti il numero degli stranieri ospitati a vario titolo è di circa 200 mila. Vale a dire che serviranno almeno 400 mila dosi di siero per ottemperare alla vaccinazione di massa. Considerando inoltre che questa popolazione di stranieri ha un'età inferiore di molto alla cinquantina di anni e valutando i vaccini anti sars-cov-2 a oggi in commercio, dovranno essere reperite somministrazioni di Pfizer o Moderna, consigliate per tali fasce d'età. L'impegno alla vaccinazione degli immigrati è stata esplicitata direttamente come richiesta delle reti aderenti al Tavolo Asilo (Associazione Studi Giuridici Immigrazione (ASGI), Caritas Italiana, Centro Astalli, Emergency, Intersos, Médecins du Monde, Medici contro la Tortura, Medici per i Diritti Umani (MEDU), Medici Senza Frontiere (MSF), Sanità di Frontiera e Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (SIMM), che gestiscono anche un grande numero di progetti di accoglienza della rete Sai di cui responsabili sono i comuni e della rete Cas che fa capo invece alle prefetture. Inoltre è stata proprio l'Arci che scrivendo al ministro Speranza si è detta preoccupata «per la salute e la sicurezza di coloro che lavorano nei centri d'accoglienza e dei loro ospiti per questo pensiamo che sia opportuno provvedere al più presto alla loro vaccinazione». Altrettanto una delle maggiori difficoltà segnalate al ministero della Salute è la mancanza di documenti per poter accedere di fatto alle prestazioni offerte dal servizio sanitario pubblico, ma soprattutto in questa fase in cui diventa cruciale la vaccinazione anticovid19. Dal Tis (tavolo immigrazione e salute) si evidenziano le difficoltà per prenotare il vaccino con l'iscrizione su piattaforma regionale tramite il codice fiscale e la tessera sanitaria: «per gli stranieri questo è un ostacolo» scrive il Tis. Certo soprattutto quando si vive in clandestinità, però i prodighi mediatori hanno trovato subito l'escamotage per scavalcare il problema: niente prenotazione, accorciare i tempi usufruendo del ruolo degli assistenti di comunità per favorire la comunicazione, identificare le persone e sottoporle subito a vaccinazione anche prevedendo un'offerta vaccinale attiva in specifici luoghi di aggregazione. Una disparità di trattamento che invece vede, nonni e zii, in paziente attesa.

Le priorità dem anti pandemia? Ius soli e gay. Marco Gervasoni il 19 Aprile 2021 su Il Giornale. Non sono ancora partite le «riaperture» di una piccola parte delle attività economiche che la sinistra chiede qualcosa in cambio. Qualcosa che serva, chessò, al lavoro, visto che il lockdown ha distrutto da noi più posti che in qualsiasi altro paese? Ma certo che no: il Pd vuole qualcosa di ancora più urgente ed indispensabile: lo ius soli. Un modo certo intelligente e pronto per rispondere al grido di dolore di migliaia di italiani finiti sul lastrico che hanno protestato nei giorni scorsi. Maestà, il popolo ha fame: dategli lo ius soli, per parafrasare il celebre passo attribuito (erroneamente) alla regina Maria Antonietta. Ma la sfortunata consorte di Luigi XVI conosceva il suo paese e le sorti del suo popolo molto di più di una Debora Serracchiani, capogruppo Pd alla Camera, che in un'intervista chiede come prima misura, addirittura urgente, lo ius soli. Segue, come seconda urgenza, l'approvazione del ddl Zan. Tutto questo era abbastanza prevedibile. La sinistra, Pd e Leu, e i suoi terminali «intellettuali» e del mondo dello spettacolo, più il «partito dei virologi», stanno infatti già dicendo che le aperture (peraltro a nostro avviso assai minime) sarebbero un cedimento di Draghi a Salvini. Non un cedimento al buon senso e alla protesta (a cui una volta la sinistra era attenta), no proprio un cedimento alla «destra». E il seguito dello pseudo-ragionamento è evidente: se Draghi ha concesso a Salvini, deve ora, secondo la logica di un governo di unità nazionale il cui obiettivo è accontentare tutti i partner della coalizione, restituire qualcosa alla sinistra. Ovviamente se Draghi seguisse questa strada finirebbe assai male, visto che è altamente improbabile che Forza Italia e soprattutto la Lega possano accettare lo ius soli. Inoltre è del tutto assurdo pretendere di scambiare un tema di stretta competenza del governo, le riaperture, con qualcosa, lo ius soli, o anche il ddl Zan, che non erano e non potevano essere nel programma di governo. Si esprimerà come doveroso il parlamento, ma l'esecutivo dovrà restare fuori. L'altro elemento che notiamo è che ormai la sinistra, come raccomanda Domani, il quotidiano di De Benedetti, è davvero «il partito degli immigrati». Quelli regolari ma anche i clandestini. Altrimenti il suo segretario non si sarebbe fatto fotografare in felpa con uno dei boss delle ong che riempiono le nostre coste. Quei pochi lavoratori che in buona fede ancora pensano al Pd come al partito che li difende, sono per l'ennesima volta avvertiti.

La priorità di Letta: riaprire l'Italia... agli immigrati. Andrea Indini il 16 Aprile 2021 su Il Giornale. Prima la battaglia per lo ius soli, poi l'assist all'Ong spagnola Open Arms: il segretario Pd dimentica gli italiani in ginocchio e sposa la crociata dei porti aperti. C'è forse una propensione inconscia al masochismo dietro la strategia politica che porta Enrico Letta a scegliere le priorità del suo Pd. Se non è l'autolesionismo a spingerlo a mettere sempre gli immigrati al primo posto, potremmo pensare che si tratti di un'insana disaffezione nei confronti dell'Italia e degli italiani. Quale che sia la causa che infiamma le nuove pulsioni dem, l'effetto è ugualmente disarmante. Mentre il governo Draghi discute (non senza difficoltà) le regole per ridare respiro a commercianti, ristoratori ed esercenti, il segretario piddì ha deciso di impiegare il proprio pomeriggio per confrontarsi con Oscar Camps. Ai più questo nome non dirà molto, ma si tratta del fondatore della Open Arms, una delle tante organizzazioni non governative battente bandiera internazionale che fanno la spola dalle coste libiche ai porti nostrani per riempirci di clandestini. Non è la prima volta che Letta perde la bussola delle priorità del Belpaese. Appena insediato a capo del Partito democratico ci aveva tenuto a precisare che si batterà per far approvare lo ius soli. Quella della cittadinanza facile ai figli degli immigrati è un pallino della sinistra che negli ultimi anni ha abbandonato le lotte di classe degli anni Settanta, voltando le spalle a disoccupati, operai e lavoratori, per abbracciare gli stranieri che affollano le nostre città. È una scelta di campo, per carità. Ma oggi più di ieri stona con quanto sta accadendo nel nostro Paese. Eh sì che, nonostante i tentativi di farli passare tutti quanti per pericolosi fascisti, le proteste di piazza avrebbero dovuto aprirgli gli occhi. Forse, se non si fosse fermato davanti alla narrazione delle braccia tese contro Montecitorio, avrebbe intravisto disperazione, rabbia, paura. A chiedere di riaprire, perché di elemosina di Stato non si vive, sono ristoratori, baristi, negozianti, proprietari di palestre e piscine, partite Iva. La crisi economica, scatenata da scelte improvvide prese dal precedente esecutivo per contrastare l'emergenza Covid, li ha messi in ginocchio. E, finché il Paese non ripartirà, non potranno rialzarsi. Molti di loro hanno già dato forfait: saracinesca abbassata e attività fallita. Ma c'è qualcuno non si dà per vinto: chi ha messo via un po' di soldi negli anni, sta dando fondo ai propri risparmi pur di non essere sconfitto dal coronavirus. Per questi è una lotta contro il tempo. Per questi, anche un paio di settimane d'anticipo sulla tabella di marcia redatta dal Cts, possono rivelarsi fondamentali per non finire con le gambe all'aria. È mai possibile che Letta non veda tutta questa disperazione? E, se invece la vede ed è pronto a farsene carico in parlamento, non trova sbagliata l'impronta che sta dando alla propria segreteria? Twittare "Bello scambio di idee. Tante preoccupazioni, e anche qualche elemento di speranza", dopo aver ricevuto il fondatore di Open Arms, significa spostare l'attenzione da un problema reale (i commercianti in ginocchio) a un fissa ideologica della sinistra (l'accoglienza indiscriminata degli immigrati). Non a caso Federico Palmaroli, in arte "Le frasi di Osho", è corso subito a stroncarlo rendendo virale l'hashtag #openrestaurants. Ovviamente non è stato l'unico. Per Giorgia Meloni è l'ennesima "dimostrazione di quali siano i loro interessi principali". "Incontrare i rappresentanti delle categorie in ginocchio? Ma no, per il segretario del Pd la priorità è l'incontro con il fondatore dell'Ong Open Arms". Anche Matteo Salvini, che domani sarà a processo proprio per uno (degli innumerevoli) sbarchi organizzati dagli spagnoli della Open Arms, non l'ha presa bene. "Non ho parole", si è limitato a replicare con una punta di desolazione per una sinistra che non impara mai. Quel che più stupisce, però, non sono certo le reazioni del centrodestra (scontate), ma quelle della sinistra che subito ha tracimato entusiasmo per l'abbraccio tra Letta e Camps. "Le Ong vanno ringraziate perché hanno avuto in questi mesi il merito di salvare centinaia di vite umane nel Mediterraneo", ha sentenziato il senatore del Pd Francesco Verducci. Che poi, lanciandosi in un paragone a dir poco eccessivo, ha chiosato: "Lo stesso pensiero che deve aver avuto papa Francesco mesi fa, quando ha voluto incontrare Camps". Letta sulle orme del Santo Padre, insomma. "Non lo ricevo solo io - si è vantato lo stesso segretario piddì a Piazzapulita - normalmente quando viene a Roma va dal Papa". Un azzardo. Anche visto l'allarme lanciato nei giorni scorsi dal direttore di Frontex, Fabrice Leggeri. "Prevediamo che appena le misure restrittive anti Covid saranno allentate e si potrà quindi, circolare più facilmente - ha avvertito - una massa importante di migranti irregolari si rimetterà in viaggio per raggiungere l'Europa". Alcuni disperati si sono messi in movimento già nei mesi scorsi, ma poi sono rimasti bloccati dalle restrizioni sanitarie negli Stati del Nord Africa. Presto, però, quei movimenti verso il Nord si sbloccheranno e riprenderanno gli sbarchi. Ovviamente quelli italiani sono i punti d'attracco prediletti dalle ong. Per questo, nonostante l'amicizia di vecchia data tra i due (quando Letta lavorava a Parigi, aveva invitato Camps in università a fare lezione), abbracciare la crociata dei porti aperti è sbagliato. È sbagliato sempre, ma oggi ancora di più.

Nicola Porro contro Enrico Letta con la felpa Open Arms: "Se lo fa Matteo Salvini è uno schifo". Libero Quotidiano il 16 aprile 2021. “Se le usa Matteo Salvini fanno schifo, se le usa Enrico Letta allora le felpe vanno bene, soprattutto se è quella di Open Arms”. Così Nicola Porro ha commentato la polemica accesa dal segretario del Pd, che ha pubblicato sui social una foto che lo ritrae con la felpa dell’ong del mare assieme al fondatore: “È venuto a trovarmi Oscar Camps. Bello scambio di idee. Tante preoccupazioni e anche qualche elemento di speranza”. Tale scatto ha una valenza politica non indifferente, dato che è arrivato proprio alla vigilia del processo a Salvini per uno degli sbarchi organizzati dagli spagnoli di Open Arms. “E oggi il Pd riceve questi ‘signori’ con tutti gli onori. Non ho parole, lascio a voi ogni commento, il tempo è galantuomo”, ha dichiarato il segretario della Lega. Il quale tra l’altro non ha voluto affondare ulteriormente il colpo, quando invece avrebbe potuto farlo, dato che viene crocifisso ogni volta che indossa una felpa, mentre nessuno ha nulla da ridire se lo fa Letta, tra l’altro coinvolgendo una ong che è toccata da diverse inchieste nell'ultimo periodo. Anche Giorgia Meloni è andata all’attacco dell’ex premier, non digerendo affatto il suo incontro con Oscar Camps: “Incontrare i rappresentanti delle categorie in ginocchio? Ma no, per il segretario del Pd la priorità è l’incontro con il fondatore di Open Arms. Sempre a dimostrazione di quali siano i loro interessi principali”. 

Massimo Franco per il “Corriere della Sera” il 18 aprile 2021. Sul rinvio a processo di Matteo Salvini a Palermo i commenti sul piano giudiziario vanno lasciati ad altri. Ma sul piano politico alcune riflessioni sono opportune, se non doverose: sebbene torni la domanda sui motivi per cui una Procura chiede l'archiviazione, un'altra il contrario su casi che magari non sono ma appaiono simili. Dunque richiesta di proscioglimento per Salvini a Catania, mentre è imputato nel capoluogo siciliano. È verosimile pensare che quanto avviene e succederà renderà più difficile la convivenza nella maggioranza ampia e già molto eterogenea guidata da Mario Draghi. E accentuerà la strategia leghista di muoversi in una zona grigia tra governo e opposizione: un limbo spregiudicato e logorante. Per Salvini il processo sarà un problema personale e insieme un'opportunità politica: quella di ergersi a difensore unico dell'Italia contro l'immigrazione clandestina; e dunque di riprendersi e sventolare un fazzoletto di identità da mesi sgualcito e nascosto dalla pandemia del Covid-19. Il capo del Carroccio potrà dire agli elettori di essere il capro espiatorio di scelte compiute quando era al governo da solo col Movimento Cinque Stelle. Solo che questi ultimi si sono defilati, abbandonandolo per motivi di potere e smarcandosi dalla linea dura in materia di immigrazione. Su questo può riscuotere qualche consenso. Se grillini e leghisti non avessero rotto nell'estate del 2019, il rimpallo delle responsabilità tra l'allora premier Giuseppe Conte e il suo ministro dell'Interno Salvini non sarebbe stato così gridato e strumentale: da parte di tutti. E adesso il tema promette di ripercuotersi nel modo più divisivo e sterile su un governo alle prese con problemi ben più grandi e urgenti. La felpa di Open Arms, l'Ong la cui nave, secondo l'accusa, fu sequestrata con 147 immigrati a bordo per ordine di Salvini, rischia di essere usata come emblema di un'incompatibilità: quella tra il Pd di Enrico Letta, che l'ha indossata per amicizia col capo dell'Ong, facendo infuriare Salvini, e la Lega. Salvini ha fatto sapere che Letta lo ha chiamato successivamente per spiegargli che il gesto non aveva nessun intento polemico nei suoi confronti. Ma col rinvio a giudizio l'episodio aggiungerà veleno a rapporti già tesissimi. Rimane un'ultima considerazione: l'eco relativamente scarsa che la decisione di Palermo ha avuto. È come se l'opinione pubblica avesse derubricato mentalmente l'imputazione, peraltro grave, di un leader politico come qualcosa di normale. Forse dipende dalla priorità del contagio. Forse da un giudizio ormai diffuso e sconfortante sulla classe politica e, si teme, su una parte della magistratura, destinate a interagire, o a scontrarsi, circondate da qualcosa che somiglia all'indifferenza .

I giudici sulle navi respinte. Chi salva e chi affonda Salvini. Palermo lo rinvia a processo, Catania chiede l'archiviazione. Francesco Viviano su Il Quotidiano del Sud il 18 aprile 2021. Siamo in un Paese confuso che non capisce più se può fidarsi della “giustizia” oppure no. Giustizia con latitudini diverse ma con un solo codice che viene interpretato secondo il libero arbitrio di giudici e magistrati. L’esempio? Quello che vede ed ha visto coinvolto l’ ex ministro degli interni Matteo Salvini, leader della Lega che ha fatto parte del precedente Governo ed anche di quello attuale. Prima quello di Giuseppe Conte con i 5 stelle e adesso con il premier Mario Draghi. Per essere chiari non sono un “salviniano”, sono stato protagonista e tra i promotori del movimento “magliette rosse” ed ho sempre creduto e credo che chi sta per morire ed annegare in mezzo al mare, ma anche in montagna, debba essere salvato e non gli può essere negata la possibilità (che sia stato salvato, da pescatori o da una nave delle Ong) di potere sbarcare in un porto vicino che può essere Lampedusa, Pozzallo, Augusta o qualche altro. Detto questo il rinvio a giudizio di ieri disposto dal giudice dell’ udienza preliminare Lorenzo Jannnelli a Palermo che ha disposto il processo nei confronti di Matteo Salvini con l’ accusa di sequestro di persona e rifiuto di atti d’ ufficio per avere bloccato in mezzo al mare, per sei giorni 17 migranti salvati dalla nave dell’ Ong spagnola Open Arms nell’ agosto del 2019, fa a pugni con l’altra decisione delle settimane scorse della Procura di Catania che, per gli stessi reati per la vicenda della nave della Guardia Costiera “Gregoretti” anch’essa bloccata per giorni con migranti a bordo, ne ha chiesto l’archiviazione. Chi ha ragione? Non è certo una partita di pallone quella che si sta giocando tra Palermo e Catania, ma una cosa molto seria che vede ancora una volta una giustizia che gira a velocità diverse se non in modo contrapposto. Qualcuno crede che Matteo Salvini abbia potuto fare e deciso di non fare sbarcare i migranti dalle due navi, “Gregoretti” ed “Open Arms”, da solo? Ma non ci crede nessuno. Erano tutti d’accordo, in quel momento la linea politica era quella di mostrarsi duri contro “l’invasione” dei migranti. Non scordiamoci che proprio il leader del Movimento 5 Stelle, Luigi Di Maio diceva e disse che le navi della “ong” erano “i taxi” del mare e non è possibile che l’ allora presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, fosse estraneo a quella politica che, come detto, non ho mai approvato. Perché dunque rinviare a giudizio soltanto Matteo Salvini?

Due casi, due decisioni quell'ordine del pm che portò allo sbarco. Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 18 aprile 2021. Qui dentro si respirava un'aria più politica che giudiziaria», dice l'imputato Matteo Salvini all'uscita dall'aula bunker che ospitò il maxiprocesso alla mafia, fresco di rinvio a giudizio, in mascherina nera (o blu molto scuro) ornata di tricolore e simbolo della Lega. Ma a parlare di politica, durante l'udienza per il presunto sequestro di 147 migranti trattenuti a bordo della nave Open Arms, sono stati soprattutto lui e il suo difensore, la senatrice leghista avvocata Giulia Bongiorno. Che ha concluso l'arringa chiedendo il proscioglimento dell'ex ministro dell'Interno perché il fatto non sussiste o per insindacabilità di un atto politico. Prima di lei, nella lunga e puntigliosa memoria difensiva sottoscritta dallo stesso Salvini, l'ex ministro aveva ribadito: «L'oggetto della contestazione investe il complesso della politica adottata dal governo Conte 1 e Conte 2 in materia di gestione dei flussi migratori, un nuovo approccio agli sbarchi conforme ad un preciso indirizzo di governo». Considerazioni diametralmente opposte a quelle sottolineate dal procuratore di Palermo Franco Lo Voi mentre chiedeva il processo: «Con l'autorizzazione a procedere il Senato ha affermato che non c'era un preminente interesse pubblico nell'esercizio della funzione di governo; l'ha escluso il Parlamento, non possiamo occuparcene noi, tantomeno in sede di udienza preliminare». Discussione giudiziaria, dunque, non politica. Almeno da parte dell'accusa. Anche perché, aveva ripetuto Lo Voi insieme al procuratore aggiunto Marzia Sabella e al sostituto Geri Ferrara, la mancata concessione del permesso di ai migranti «non fu un atto politico, ma esclusivamente amministrativo». Risulta dall'istruttoria compiuta dal Tribunale dei ministri di Palermo, ma anche dall'istruttoria compiuta durante l'udienza preliminare di Catania per il «caso Gregoretti», dove la Procura ha chiesto il proscioglimento di Salvini per quella vicenda ma si è parlato pure di «Open Arms». Si tratta di «due episodi identici di fronte ai quali due Procure della stessa regione dicono due cose diverse; in una città si dice che ho fatto bene e in un'altra che ho fatto male», protesta l'ex ministro. Traendone la conclusione che «serve una riforma della giustizia». In realtà i due episodi sono tutt' altro che identici. A Catania la Procura sostiene la «infondatezza della notizia di reato» perché considera i pochi giorni di trattenimento a bordo della Gregoretti quasi fisiologici a far scendere i migranti e distribuirli in Europa; qui lo sbarco è seguito al sequestro della nave ordinato da un magistrato, dopo la decisione del Tribunale amministrativo del Lazio di sospendere il divieto d'ingresso firmato dai ministri Salvini, Toninelli (Trasporti) e Trenta (Difesa). Ed è una differenza non da poco, almeno nella prospettazione dell'accusa. Dopo la pronuncia del Tar i colleghi dei Trasporti e della Difesa si rifiutarono di sottoscrivere un nuovo diniego, come ha testimoniato proprio a Catania l'ex ministra Trenta. Di qui la conclusione della Procura palermitana: il divieto di sbarco non fu una decisione condivisa, ma del solo ministro Salvini. «La condivisione era sul principio della redistribuzione dei migranti in Europa, e il famoso contratto di governo non parlava di blocco indiscriminato e generalizzato delle navi», hanno ricordato i pubblici ministeri. Del resto, su Open Arms si consumò uno scontro tra Salvini e l'ex premier Conte attraverso uno scambio di lettere divulgate proprio da quest' ultimo, mentre il leader leghista stava abbandonando il governo. Ed è un'altra differenza con il caso Gregoretti, verificatosi prima della rottura. Proprio sulla lettera di Conte s' è soffermata ieri l'avvocata Bongiorno, per sostenere che l'ex premier aveva già in mente di ribaltare la sua maggioranza: «Scrive a Salvini perché il Pd intenda e capisca. Conte stava cambiando orientamento, e infatti Salvini rispose a Conte "se vuoi farlo, fai tu". Se Conte avesse voluto salvare i migranti, avrebbe alzato il telefono: invece scrisse una lettera aperta a tutti i giornali. Era un segnale al Pd. Una dichiarazione d'amore al Pd con cui Conte si rimangiò tutta la sua politica». Ancora considerazioni politiche da parte della difesa, dunque. Rimaste però estranee alla decisione del giudice Lorenzo Jannelli, che ha condiviso la tesi dei pm anche sulla funzione dell'udienza preliminare: stabilire non la colpevolezza o l'innocenza dell'imputato, bensì l'utilità o inutilità del processo di fronte agli elementi raccolti dall'accusa. E il processo a Salvini, a suo giudizio, non sarà inutile.

Quelle Ong criminali che salvano vite. Michela Murgia su L'Espresso il 15 Marzo 2021. Le inchieste sulle organizzazioni attaccate da Minniti. E la continuità sui migranti del governo Draghi. Indizi di nuova spietatezza politica. Tutte le valanghe cominciano con un fiocco di neve. Questo proverbio andrebbe tenuto bene a mente ogni volta che un fenomeno di grosse proporzioni, non necessariamente naturale, si manifesta improvviso in un modo che appare casuale. Ne è buon esempio la sequenza di procedimenti giudiziari - tre in un giorno solo la scorsa settimana - aperti contro le Ong che fanno soccorso in mare ai migranti. L’accusa delle procure di Ragusa, Catania e Trapani, rivolte a Medici senza frontiere e a Mediterranea, è la stessa per la quale tutti i precedenti tentativi di rinvio a giudizio delle Ong si sono sempre conclusi con un nulla di fatto: favoreggiamento dell’immigrazione illegale, con e senza scopo di lucro. La criminalizzazione del salvataggio umanitario si ripete da anni e non ha colore politico, perché quando si parla di migranti non esistono governi amici. Le norme esplicite contro le Ong sono iniziate infatti col Pd al governo sotto il ministero dell’Interno di Marco Minniti, che da un lato stringeva accordi con la Libia per i respingimenti dei migranti e dall’altro pretendeva dalle organizzazioni umanitarie un codice di comportamento che le trattava di fatto tutte come presunte trafficanti. Nel 2017 l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani ha giudicato “disumano” l’accordo italo-libico per la gestione dei flussi migratori firmato da Minniti, ma per tutta risposta Minniti è stato premiato il mese scorso con la nomina alla presidenza della fondazione di Leonardo spa, ex Finmeccanica specializzata in - così recita il sito - «un nuovo umanesimo tecnologico», curioso modo per dire che ci si occupa di difesa, sicurezza e aerospazio. La lotta al soccorso ha però vissuto il suo apice mediatico durante il primo governo Conte, con Matteo Salvini che aveva fatto dello slogan #portichiusi il suo principale mantra da comizio e spronato le forze dell’ordine a muoversi quotidianamente per rendere difficile la vita a chi salvava la vita. Col Conte bis i più ingenui si erano illusi che avremmo assistito a un cambio di passo, a partire dalla cessazione della criminalizzazione del soccorso e dalla stipula di accordi europei che portassero a un’azione congiunta di accoglienza, non di respingimento, di chi cerca una vita migliore. Sotto il ben più discreto ministero Lamorgese le decisioni sono però andate nella direzione opposta: gli accordi con la Libia sono stati rinnovati tali e quali a dispetto delle denunce di tutte le organizzazioni internazionali, le multe alle navi Ong sono state ridotte, ma non cancellate, e anche se diminuivano gli attacchi giudiziari all’attività di soccorso, aumentavano le pastoie burocratiche che tenevano mesi e mesi i mezzi umanitari in porto per i più vari “controlli”. Nell’era Draghi qualcosa è cambiato. Non il ministro (è sempre la muta Lamorgese) e nemmeno la linea: l’Italia del nuovo premier supporta totalmente l’agenzia europea Frontex, che quest’anno spenderà più di un miliardo di euro per pattugliare con droni, navi e uomini i confini europei whatever it takes. A essere cambiato sembra il clima politico, con un raggelamento della temperatura sociale sufficiente a far cadere quel famoso fiocco di neve da cui poi può partire il resto. Il segnale della valanga imminente non è però caduto in mare, ma a terra, e precisamente sulla testa di un uomo anziano di Trieste, Gian Andrea Franchi, e di sua moglie Lorena Fornasir. I due, 84 anni lui e 67 lei, sono noti da anni nel mondo del soccorso umanitario per essere i samaritani che prestano aiuto ai migranti che arrivano dal confine sloveno dopo essere sopravvissuti alla via gelida della rotta di terra. I due vecchi avrebbero la colpa di aver ospitato «a scopo di lucro» per una notte una famiglia iraniana con due bambini. Come è già accaduto ogni volta che la loro associazione negli anni si è vista rivolgere dalla procura la stessa accusa, è facile prevedere che anche stavolta non ci sarà niente da rimandare a giudizio, ma non è questo il punto. C’è una nuova spietatezza politica nell’aria e qualcuno spera forse che l’emergenza pandemica ci distragga dal vederla.

I 50 anni di Medici senza frontiere, i professionisti dell’altruismo. Gianluca De Feo su La Repubblica il 14 marzo 2021. Fondata in Francia nel 1971, l'ong è diventata un modello internazionale nella gestione delle emergenze. Sono i professionisti dell’altruismo: specialisti nell’assistenza sanitaria ma motivati dalla dedizione umanitaria. Operano nel cuore delle guerre e delle epidemie, quelle lontane e quelle dentro casa nostra. E sono sempre imparziali, senza però chiudere gli occhi perché credono nel dovere della testimonianza. Così da cinquant’anni Medici Senza Frontiere è diventato un modello internazionale nella gestione delle emergenze. Nel 1971 due gruppi di medici francesi, reduci dalle catastrofi belliche del Biafra e del Bangladesh, hanno dato vita a questa nuova realtà. L’obiettivo era portare competenza e cure ovunque; senza confini appunto. Con una convinzione: neutralità non poteva essere più sinonimo di silenzio: «Non siamo sicuri che le parole possano salvare delle vite, ma sappiamo con certezza che il silenzio uccide», ha detto nel 1999 l’allora presidente James Orbinski ritirando il Nobel per la Pace. In mezzo secolo hanno tenuto fede a questo impegno, denunciando il massacro di Sbrenica e gli eccidi nel Darfour, i bombardamenti in Cecenia e le stragi di migranti in Libia. Oggi hanno progetti attivi in 80 Paesi, con 65 mila operatori qualificati: medici, infermieri, ingegneri, architetti, comunicatori che mettono il loro tempo al servizio di chi ha più bisogno. Rischiando, perché intervengono nei focolai di Ebola e degli scontri armati, ma pianificando con cautela qualsiasi azione. Soprattutto ora che in Siria come in Yemen o in Afghanistan gli ospedali sono diventati bersagli privilegiati dei signori della guerra. «Dedicheremo il nostro anniversario alle popolazioni dimenticate, a cui con l’aiuto di tutti, oltre gli ostacoli e l’indifferenza, continueremo a portare le nostre cure», spiega Claudia Lodesani, infettivologa e presidente di Msf. In Italia quando è cominciata la pandemia hanno subito messo a disposizione l’esperienza maturata in Africa. Erano a Codogno; poi nelle Rsa delle Marche e sono ancora a Roma e a Palermo. Senza fondi pubblici: nel nostro Paese si finanziano solo con donazioni private.

I folli sbarchi di Lampedusa: arrivano persino con il gatto. Su un barcone con 20 tunisini anche il micio di casa nel trasportino. E intanto nell'isola è allarme Covid. Chiara Giannini - Lun, 15/03/2021 - su Il Giornale. Sono arrivati in 20, a bordo di un barcone. Anzi, in 21, perché con i tunisini sbarcati sabato a Lampedusa (tra cui tre donne e due bambini) c'era anche un bellissimo gatto simil siamese nel suo trasportino. I «naufraghi», come li chiamerebbe qualche sostenitore dell'accoglienza, in realtà sembravano più turisti fai da te, con valigie e l'occorrente per un soggiorno perfetto. Sono stati recuperati all'imbocco del porto dell'isola dagli uomini della Guardia di Finanza e della Guardia costiera. Gli immigrati (e il gatto), sono stati tutti accompagnati all'hotspot di Contrada Imbriacola, dove saranno ospitati in attesa di essere trasferiti su una delle navi quarantena e quindi in un centro di accoglienza. Non è la prima volta che a Lampedusa arrivano clandestini con animali. Alcuni mesi fa un migrante ebbe la bella idea di portarsi una capra, poi soppressa all'arrivo dal servizio veterinario perché malata. Durante il recupero, i militari della Guardia di Finanza hanno salvato anche una tartaruga marina impigliata nelle reti. «La cosa che ci lascia basiti - spiega il coordinatore locale di Forza Italia Rosario Costanza - è che questa gente arriva con il trasportino con il gatto e le valigie, come se l'Italia fosse un Paese di villeggiatura per i tunisini e poi sull'isola c'è gente che muore di Covid perché viene contagiata da chi arriva ed è già malato. C'è l'ex sindaco di Lampedusa e Linosa, Bernardino De Rubeis, ricoverato all'ospedale Cervello di Palermo perché presenta sintomi respiratori a causa del virus dopo essere entrato in contatto con una persona che lavora all'hotspot di Contrada Imbriacola». E prosegue: «Un altro noto ex esponente locale di Forza Italia sta molto male per il Covid dopo essere stato in contatto con un familiare impiegato nel centro. Il tutto mentre il sindaco Totò Martello nega la situazione. Il limite è ampiamente superato». Della stessa idea il coordinatore della Lega, Attilio Lucia: «Il primo cittadino - racconta - addirittura nega i contagi tra le forze dell'ordine. L'assessore alla Sanità, Alfonso Rizzo, che è responsabile della salute pubblica dei lampedusani, è totalmente assente. Non ci fa sapere niente. Nascondono una situazione che è di fronte agli occhi di tutti. Degli oltre 6mila residenti, una settantina hanno il Covid. Lo hanno preso tutti a causa dei migranti contagiati. Che continuano a entrare nel silenzio più assoluto delle istituzioni. Qualcuno dovrà assumersi le proprie responsabilità». Ieri il maltempo ha dato un po' di tregua, ma è certo che non appena il mare si calmerà gli sbarchi riprenderanno copiosi. Da inizio anno in Italia sono arrivati 5.996 migranti, ovvero più del doppio dello stesso periodo dello scorso anno, quando furono 2.610 e venti volte di più del 2019, quando ne sbarcarono appena 335. Un dato preoccupante e che fa capire che serve un intervento immediato per bloccare le partenze. «Soprattutto - spiegano i residenti di Lampedusa - quelle di tunisini che ormai arrivano qui con il chiaro intento di fare la bella vita. Uno che arriva col gatto da quale guerra sta scappando?».

Immigrazione, la zona rossa vale solo per gli italiani: invasione, quanti sbarcano in Sicilia. Cifre-shock. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 27 gennaio 2021. Sono clandestini e molti sono minori non accompagnati, ci sono donne incinte, neonati, vengono da paesi dove la positività Covid è mediamente più alta del 40 per cento della nostra e vengono a cercare lavoro in un Paese dove il lavoro non c'è (non ora) ma soprattutto vengono fatti sbarcare in cosiddetta zona rossa: beh, almeno - simbolicamente - multateli. Almeno - politicamente - non diteci che un governo che autorizzi tutto questo non dovrebbe cadere e basta. Oh, ma avevamo dimenticato la cronaca. In Sicilia, davanti al porto di Augusta in provincia di Siracusa, è arrivata con 373 clandestini la «Ocean Viking» (gruppo «Sos Mediterranee»). I migranti sono stati «tratti in salvo dopo un naufragio» e sono state seguite le procedure per il trasbordo degli adulti sulla nave quarantena Snav Adriatico, come stabilito nei protocolli per il contenimento del Covid, mentre sono stati subito sbarcati a terra - quanti? - 120 minori non accompagnati, 21 tra neonati e bambini inferiori ai quattro anni, mentre - riferisce l'ong - i minori non accompagnati sono complessivamente 165, e cioè l'80 per cento. Il prefetto, che si chiama Giuseppina Scaduto, ha detto che questa gente sarà sottoposta a tamponi rapidi e trasferita nelle strutture di accoglienza. E che altro poteva dire? Che avrebbero fatto i temponi lenti? Che li avrebbero trasferiti nelle strutture di respingimento? Resta da capire perché lo sbarco dei clandestini sia stato assegnato proprio a una regione «rossa», e perché l'unico porto sicuro del Mediterraneo sembri essere sempre un approdo siciliano. È il governo italiano a decidere, per farla breve: anche perché gli altri rifiutano. Lo sbarco siciliano non è stata una scelta della Ocean Viking (non direttamente, cioè) la quale per due volte si era rivolta ai Centri di coordinamento italiano e maltese prima di ricevere l'assegnazione appunto ad Augusta, Sicilia. Malta se n'è apertamente fregata. Lo sanno tutti come va, e lo sapeva anche l'Ocean Viking che era partita da Marsiglia l'11 gennaio, e pochi giorni dopo già si trovava vicino alle acque libiche che sono la rotta centrale dell'immigrazione: lì basta aspettare. Si intercetta, si procede al salvataggio, parte l'offensiva mediatica per chiedere un porto (in genere si fa presente che il meteo sta peggiorando) e spunta subito la Sicilia. Per questo il presidente della Regione, Nello Musumeci, si è incazzato: «Appare azzardata e non prudente la scelta del governo di autorizzare proprio in Sicilia, zona rossa, l'approdo dell'Ocean Viking con 373 migranti a bordo. Ho sentito il prefetto e il direttore generale dell'azienda sanitaria provinciale che mi hanno assicurato il tampone rapido su tutti, minori e adulti; i minori non accompagnati saranno condotti in provincia di Agrigento, gli adulti saranno trasferiti sulla nave «Mediterranea» ormeggiata in rada ad Augusta per la quarantena. Presto incontrerò il ministro dell'Interno per sollecitare l'avvio delle promesse iniziative sui migranti, finora inattuate. Non si può aspettare l'avvio dell'estate per riportare tensione e contrasti». Anche perché, oltre allo sbarco, è sempre siciliano o italiano anche il luogo di redistribuzione dei migranti: altro che accordi di Malta. Quello di ieri è stato il secondo maxi sbarco del 2021, dopo l'approdo dei 265 a bordo della «Open Arms» (francese, ovvio) a Porto Empedocle (Sicilia, ovvio) con Malta che se n'è fregata (ovvio). Si mormora che la ong italiana «Mediterranea Saving Human» (con promotore l'ex No global Luca Casarini) stia costruendo una supernave da mille posti con droni e visori notturni. Sarebbe una delle poche cose che si sta costruendo in Italia. Intanto la «Sos Mediterranee» ha manifestato «sollievo» per lo sbarco, anche perché il meteo era cattivo. Singolare, in effetti, che al largo del canale di Sicilia non ci sia mare piatto a gennaio. Luisa Albera, coordinatrice dei soccorsi a bordo dell'Ocean Viking, ha detto che sono stati segnalati respingimenti illegali da parte della guardia costiera libica e che i sopravvissuti hanno fatto racconti raccapriccianti circa il trattamento subito in Libia. Ha invocato un coordinamento dei soccorsi a guida statale per il Mediterraneo centrale, aggiungendo che se ne sta occupando solo la «società civile» (loro) mentre gli Stati membri dell'Unione europea dovrebbero trovare una soluzione. Comunque i 373 clandestini sono arrivati da quattro gommoni che sono stati soccorsi in tre diverse operazioni nell'area libica tra giovedì 21 e venerdì 22 gennaio. Le navi sono state segnalate da aerei come Moonbird (gruppo «Sea Watch») e Colibri II («Pilotes Volontaires») mentre un'altra l'hanno avvistata direttamente quelli di «Sos Mediterranee», col binocolo. Sono organizzati. E sfruttano questo momento difficile. A Lampedusa ci sono stati altri due sbarchi in otto ore con 120 migranti: un primo gommone con 45 persone intercettato nottetempo dalla guardia costiera, attorno alle 9 poi ha attraccato una seconda barca con 75 migranti raccolti nel canale di Sicilia da un'altra ong. Nel complesso, non è tanto la Sicilia a essere zona rossa - nella considerazione delle ong - ma è l'Italia a essere zona scema.

Covid, bomba criminalità e crisi economica (ma i porti italiani restano aperti). Giovanni Giacalone su Inside Over l'1 febbraio 2021. La scorsa settimana l’ennesima nave carica di immigrati irregolari è stata fatta sbarcare in Sicilia, al porto di Augusta; sono infatti ben 373 le persone prelevate da gommoni in difficoltà e caricate dalla Ocean Viking della Sos Mediterranee che ha poi chiesto di attraccare in Italia a causa del progressivo peggioramento delle condizioni marittime: “Nel Mediterraneo centrale il meteo sta rapidamente peggiorando. Molte persone hanno il mal di mare. Le onde si stanno alzando e non c’è modo di ripararsi. C’è bisogno urgente di un porto sicuro”. Porto sicuro che il Ministero dell’Interno non ha esitato a fornire, permettendo così lo sbarco. Tutto ciò nonostante il fatto che nel contempo, a causa del Covid, gli italiani sono oggetto di restrizioni di vario tipo a causa del Coronavirus e gli spostamenti tra regioni e anche tra Paesi sono fortemente limitati. Insomma, il governo italiano non ha alcuna intenzione di fermare gli sbarchi di irregolari, nemmeno con l’emergenza sanitaria e la conseguente pesante crisi economica che sta investendo il Paese. L’Italia resta “porto aperto” a prescindere. Nulla di sorprendente considerato che da quando Luciana Lamorgese è ministro dell’Interno, gli sbarchi di immigrati clandestini sono triplicati rispetto al periodo di Salvini: 314.134 contro gli 11.471 del 2019. Lo scorso luglio gli arrivi erano già incrementati del 148%. Secondo gli ultimi dati, nelle strutture di accoglienza sono presenti 80.905 immigrati, più altri 650mila irregolari circa, liberi di circolare per il territorio. Viene inoltre segnalato un incremento degli arrivi dalla Tunisia, Paese in preda a forte crisi economica, ma certamente non in guerra, così come non lo sono la Nigeria, il Gambia, l’Algeria e il Bangladesh. A quasi un anno da inizio pandemia, in Italia non si è ancora trovata una soluzione al sovraffollamento dei trasporti pubblici, i vaccini non sono ancora disponibili in quantità sufficiente, le scuole e le università non riescono a tornare a ritmo normale, si continua a martellare la cittadinanza con l’importanza delle restrizioni, ma non vi è alcun problema a far sbarcare irregolari e a trovare le risorse per le “navi quarantena” e per i centri di accoglienza. Attenzione però, perché persistere in tale direzione significa rischiare di generare pesanti ripercussioni su economia ed ordine pubblico in un momento in cui la situazione è estremamente critica e prevedibilmente in peggioramento nei prossimi mesi.

Crisi economica ed emergenza criminalità. Secondo quanto reso noto dal Ministero dell’Interno, nel 2020 in Italia si sarebbe registrato un calo dei delitti ma un incremento dei reati online. Questi dati vanno però valutati nell’assoluta particolarità della situazione in quanto, tra marzo e l’inizio del periodo estivo, le strade erano praticamente deserte a causa del lock-down totale e dunque i reati per forza di cose sono diminuiti. Questo improvviso calo dovuto a situazione forzata rischia però di generare un effetto opposto, con un notevole incremento dei reati in concomitanza con le progressive (seppur sempre limitate) riaperture e con in arrivo una pesantissima crisi economica causata da lock-down e restrizioni. Un aspetto questo che non sembra cogliere particolare attenzione in questo momento, ma che a partire dai prossimi mesi potrebbe diventare una vera e propria emergenza. Basti pensare che a Milano, città che ha particolarmente sofferto economicamente a causa delle restrizioni, tra il 18 e il 27 gennaio 2021 sono state registrate almeno dieci rapine (praticamente una al giorno), due delle quali nella centralissima via Torino, dove sono stati presi d’assalto un chiosco e una gioielleria. Tra gli arrestati ci sono sia cittadini italiani che stranieri. Numeri che non possono non preoccupare e che lasciano presagire un peggioramento per il 2021. E’ chiaro infatti che con in giro un maggior numero di persone senza lavoro e senza adeguate forme di sostentamento, dunque ai margini, ai quali vanno ad aggiungersi anche un elevato numero di neo-arrivati immigrati irregolari senza fissa dimora in giro per il territorio, alcuni dei quali già dediti ad attività criminali come furti, rapine e spaccio, vi è il rischio concreto di un picco di reati. E’ bene inoltre tener presente che molti degli irregolari giunti in questi mesi in Sicilia e nel nord-est incontreranno non poche difficoltà nel raggiungere gli altri Paesi europei, a causa dei severi controlli ai confini con la Francia, la Svizzera e l’Austria e saranno quindi costretti a restare in Italia. L’emergenza criminalità è fortemente percepita da una cittadinanza che non si sente tutelata dallo Stato e non a caso già lo scorso maggio era emerso un incremento delle vendite di armi da fuoco per la difesa personale, come già riportato dal Sole24 Ore. Una situazione incandescente che rischia di esplodere insomma.

L’infiltrazione di jihadisti. Un altro aspetto noto oramai da anni ma che non è risultato sufficiente a far prendere provvedimenti al governo è l’infiltrazione di jihadisti a bordo di barche e motoscafi provenienti da Libia e Tunisia. Un fenomeno su cui si è ampiamente discusso, con tanto di dati alla mano. L’ultimo di questi è Brahim Aouissaoui, l’attentatore che lo scorso 29 ottobre ha ucciso tre persone, decapitandone una, presso la Cattedrale di Nizza. Il soggetto in questione era arrivato a Lampedusa lo scorso settembre su di un barcone e trasportato a bordo della nave-quarantena “Rhapsody” al porto di Bari dove era stato foto segnalato dalla Polizia e e poi lasciato libero di raggiungere la Francia. Del resto Aouissaoui non è l’unico ad essere transitato per l’Italia; avevano fatto altrettanto Anis Amri (l’attentatore del mercatino di Natale di Berlino del 2016), Zahir Hassan Mahmoud, il pakistano che lo scorso 25 settembre aveva ferito quattro persone fuori dell’ex sede di Charlie Hebdo a Parigi, anch’egli passato per l’Italia e giunto in Francia come “rifugiato”. Ci sono poi i gambiani Sillah Ousman e Alagie Touray, che avevano preso parte a un addestramento militare in un campo mobile jihadista in Libia ed erano pronti a compiere attentati in Europa. Il 13 agosto 2018 le autorità tunisine fermavano poi un gruppo di jihadisti in procinto di imbarcarsi su un gommone, assieme a una decina di irregolari, tutti diretti sulle coste siciliane. Due mesi dopo, un tunisino di 25 anni, arrivato a Lampedusa a luglio e ospite di un hotspot del posto, veniva riconosciuto da un suo connazionale che lo indicava alle autorità come ex combattente dell’Isis in Siria. Nonostante ciò, per lungo tempo esponenti politici come Renzi, Gentiloni, Pinotti ed Alfano hanno sostenuto che i jihadisti non arrivavano via mare, teoria ormai ampiamente confutata, ma le imbarcazioni continuano ad approdare sulle coste siciliane. In sunto, il governo di un Paese in preda a una pandemia e a una conseguente e pesantissima crisi economica e sociale, la prima cosa che dovrebbe fare è chiudere gli ingressi agli irregolari e utilizzare tutte le risorse economiche possibili per la sanità, il trasporto pubblico, il sociale e per il rilancio economico. Curiosamente però per il fenomeno dell’immigrazione irregolare sembrano valere tutt’altre regole e nemmeno pandemie, emergenze socio-economiche e rischio terrorismo sembrano sufficienti a convincere l’esecutivo a chiudere i porti e reindirizzare le risorse economiche. Ovviamente le conseguenze si manifesteranno nei mesi a venire.

Naufragio dei bambini, l'Italia ha ritardato i soccorsi: ecco perché l'Onu ora ci condanna. La decisione del Comitato per i Diritti umani chiama in causa anche Malta. I due Stati dovranno ora risarcire i sopravvissuti. Nella strage dell'11 ottobre 2013 morirono 268 profughi siriani, tra cui sessanta minori. Fabrizio Gatti su L'Espresso il 28 gennaio 2021. L'Italia ha centottanta giorni di tempo per spiegare al Comitato delle Nazioni Unite per i Diritti umani cosa intende fare per ripristinare la verità dei fatti sul naufragio dei bambini. Dall'11 ottobre 2013, dopo oltre sette anni dalla strage in cui morirono 268 profughi siriani e palestinesi, tra i quali 60 bambini quasi tutti dispersi in mare, il processo contro i comandanti delle sale operative della Marina militare e della Guardia costiera è ancora all'inizio. Ed è tuttora in corso l'inchiesta sul ruolo della comandante di Nave Libra, Catia Pellegrino , che su ordine del Comando in capo della squadra navale della Marina si era allontanata dal peschereccio alla deriva e nemmeno aveva lanciato in volo l'elicottero di bordo, per valutare al più presto la situazione. Il pattugliatore della Marina era ad appena un'ora di navigazione: una distanza di diciassette miglia nautiche, percorribili dall'elicottero in una decina di minuti. Per questo il Comitato delle Nazione Unite per i Diritti umani, con una decisione presa in settimana, condanna l'Italia a risarcire i danni subiti dai sopravvissuti al naufragio, in compartecipazione con Malta. Il disastro è infatti avvenuto nell'area di ricerca e soccorso di competenza maltese e il coordinamento delle operazioni era stato assunto dal comando militare della Valletta: anche se dal punto del naufragio l'isola era a 118 miglia (218 chilometri), Lampedusa a 61 miglia (113 chilometri) e la Libra, appunto, a 17 miglia (31 chilometri). Proprio la presenza del pattugliatore italiano sul posto e l'ordine impartito di allontanarsi obbligano quindi l'Italia a una responsabilità maggiore e a rispondere sui gravi ritardi nelle indagini. Nave Libra, il pattugliatore della Marina italiana, è ad appena un'ora e mezzo di navigazione da un barcone carico di famiglie siriane che sta affondando. Ma per cinque ore viene lasciata in attesa senza ordini. Il pomeriggio dell'11 ottobre 2013 i comandi militari italiani sono preoccupati di dover poi trasferire i profughi sulla costa più vicina. Così non mettono a disposizione la loro unità, nonostante le numerose telefonate di soccorso e la formale e ripetuta richiesta delle Forze armate maltesi di poter dare istruzioni alla nave italiana perché intervenga. Il peschereccio, partito dalla Libia con almeno 480 persone, sta imbarcando acqua: era stato colpito dalle raffiche di mitra di miliziani che su una motovedetta volevano rapinare o sequestrare i passeggeri, quasi tutti medici siriani. Quel pomeriggio la Libra è tra le 19 e le 10 miglia dal barcone. Lampedusa è a 61 miglia. Ma la sala operativa di Roma della Guardia costiera ordina ai profughi di rivolgersi a Malta che è molto più lontana, a 118 miglia. Dopo cinque ore di attesa e di inutili solleciti da parte delle autorità maltesi ai colleghi italiani, il barcone si rovescia. Muoiono 268 persone, tra cui 60 bambini. In questo videoracconto "Il naufragio dei bambini", L'Espresso ricostruisce la strage: con immagini inedite, le telefonate mai ascoltate prima tra le Forze armate di Malta e la Guardia costiera italiana, e le strazianti richieste di soccorso partite dal peschereccio. In quattro anni, dopo le denunce dei sopravvissuti, nessuna Procura italiana ha portato a termine le indagini (di Fabrizio Gatti)

Il ricorso alle Nazioni Unite è stato presentato da alcuni sopravvissuti, patrocinati dagli avvocati Andrea Saccucci e Roberta Greco, con la collaborazione della Human Rights & Migration Law Clinic dell’Università di Torino. Ma tutte le prove su cui il comitato ha fondato la sua decisione si basano sulla lunga indagine difensiva svolta dagli avvocati Alessandra Ballerini di Genova e Emiliano Benzi di Roma, che assistono tre dei sopravvissuti. Tra loro, il medico che con un telefono satellitare aveva chiesto soccorso alla Guardia costiera italiana ed era stato invitato a chiamare l'autorità maltese, nonostante la vicinanza di nave Libra. Senza le ricerche approfondite degli avvocati Ballerini e Benzi, che hanno raccolto le testimonianze e le registrazioni delle comunicazioni di quella drammatica giornata, il caso del naufragio sarebbe stato inesorabilmente archiviato, come del resto avevano inizialmente chiesto le procure di Roma e di Agrigento. Lo scaricabarile tra l'Italia e Malta era stato rivelato da una lunga inchiesta de L'Espresso, poi raccontata nel 2017 nel film-documentario “Un Unico Destino” coprodotto con Repubblica e trasmesso in esclusiva da Sky Atlantic. Proprio l'inchiesta giornalistica e il film avevano provocato la riapertura delle indagini. «Siamo molto soddisfatti per le decisioni rese dal Comitato dei Diritti umani, le quali segnano un rilevantissimo punto di svolta nella giurisprudenza internazionale in materia di soccorso in mare», spiega l'avvocato Saccucci: «Per la prima volta, si afferma chiaramente che gli Stati sono responsabili di ciò che accade nella zona Sar di ricerca e soccorso di propria competenza e anche al di fuori di essa, quando vi è la concreta possibilità di intervenire per salvare vite umane. Sono fiducioso che tale principio contribuirà a responsabilizzare gli Stati nelle attività di ricerca e soccorso e nella delimitazione delle proprie aree Sar, evitando qualsiasi vuoto legale di tutela con il pretesto dell’extraterritorialità». Pubblichiamo in esclusiva tutte le comunicazioni mai ascoltate prima con cui il comando in capo della Marina militare impedisce a nave Libra di andare a soccorrere un barcone con 480 profughi siriani a bordo, tra cui cento bambini Durante le cinque ore di inutile attesa, il pattugliatore italiano è ad appena 15 miglia, circa un'ora di navigazione, dal peschereccio che sta affondando per essere stato colpito dalle raffiche di mitra di una motovedetta libica. Ma il Cincnav, la centrale operativa dello Stato maggiore di Roma, ordina al tenente di vascello Catia Pellegrino, comandante della Libra, di allontanarsi e «non farsi vedere». La comandante Pellegrino è tra i quattro ufficiali della Marina e della Guardia costiera indagati per omicidio con dolo eventuale, con provvedimento coatto del Tribunale di Agrigento che pochi giorni fa ha trasmesso l'inchiesta alla Procura di Roma. Da quello che risulta dalle indagini, però, a differenza degli altri ufficiali della sala operativa della Marina e della Guardia costiera, Catia Pellegrino non è stata informata delle reali condizioni di pericolo a bordo del barcone. Su questo naufragio, nel quale l'11 ottobre 2013 sono morte 268 persone tra cui 60 bambini, il 17 maggio scorso la Marina militare ha fornito al ministro della Difesa, Roberta Pinotti, e alla Camera dei deputati una versione dei fatti non corrispondente al vero. La registrazione delle comunicazioni tra i comandanti in servizio quel giorno rivela oggi cosa è realmente successo. (Di Fabrizio Gatti)

«La nostra battaglia non finisce qui», continua l'avvocato Saccucci: «L’Italia dovrà ora risarcire le vittime del naufragio, eventualmente concordando con Malta le quote di rispettiva responsabilità per l’accaduto. Malta dovrebbe anche rivedere la sua pretesa di mantenere una zona Sar così ampia, nella quale essa è di fatto incapace di assicurare un intervento in soccorso efficace e tempestivo». L'Italia rischia ora di dover affrontare altre azioni legali di fronte alla Corte Europea. Mentre la seconda sezione penale del Tribunale di Roma ha avviato proprio oggi il dibattimento nel processo contro l'allora comandante della centrale operativa della Guardia costiera, Leopoldo Manna, e l'ufficiale responsabile quel giorno delle operazioni del Comando in capo della squadra navale della Marina, Luca Licciardi. Il pubblico ministero, Sergio Colaiocco, che aveva ereditato le indagini dopo una prima richiesta di archiviazione, ha contestato loro i reati di rifiuto d'atti d'ufficio e omicidio colposo. Lo Stato italiano, è scritto nella decisione del Comitato delle Nazioni Unite per i Diritti umani, «ha omesso di spiegare il ritardo nell'invio di nave Libra che si trovava solo a un'ora di distanza dall'imbarcazione in pericolo, perfino dopo essere stata formalmente richiesta in tal senso dalla centrale operativa di Malta. Il Comitato rileva che lo Stato non ha chiaramente spiegato o smentito l'affermazione dei ricorrenti, secondo la quale le telefonate intercettate (registrate, NdR) indicano che alla nave Libra venne ordinato di allontanarsi dall'imbarcazione in pericolo. Alla luce di questi fatti, il Comitato ritiene che l'Italia non abbia dimostrato di aver adempiuto ai propri obblighi...». Il comitato ritiene inoltre che lo Stato italiano «non abbia fornito una spiegazione chiara della lunga durata dei procedimenti interni in corso, se non un riferimento generale alla loro complessità... In queste circostanze, il Comitato ritiene che lo Stato non abbia dimostrato di aver adempiuto al proprio dovere di condurre un'indagine tempestiva sulle accuse relative a una violazione del diritto alla vita».

Francesca Santolini per repubblica.it il 24 gennaio 2021. L'Italia apre le porte ai migranti climatici. Potranno anche loro usufruire del trattamento riservato a chi fugge per guerre o carestie, e ha diritto alla protezione umanitaria. La novità è contenuta nei decreti sicurezza approvati il 18 dicembre scorso. Chi sono i migranti climatici? Si tratta di un esercito di essere umani in fuga da catastrofi naturali, dalla perdita di territorio dovuta all'innalzamento del livello del mare, da siccità e desertificazione, da conflitti per l'accaparramento delle risorse idriche o energetiche. Le migrazioni ambientali derivano dalla sovrapposizione di società instabili ed ecosistemi fragili e sono al momento per lo più migrazioni interne (cosiddetti flussi sud-sud). Le persone sono spinte a partire perché non riescono più a sopravvivere nei loro luoghi d'origine, non hanno più accesso a terra, acqua e mezzi di sussistenza. La migrazione è in sostanza una forma estrema di adattamento. L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati stima che, entro il 2050, circa 200-250 milioni di persone si sposteranno per cause legate al cambiamento climatico. Questo significa che in un futuro non troppo remoto, una persona su quarantacinque nel mondo sarà un migrante ambientale. Eppure dal punto di vista del diritto internazionale, i profughi climatici sono una categoria pressoché inesistente. Le persone che migrano per ragioni ambientali o fuggono da eventi climatici estremi, oggi sono fantasmi e vengono presentati come migranti economici: il loro ingresso è dunque soggetto al consenso del Paese che li riceve. Comincia però a farsi strada nel nostro ordinamento, il riconoscimento giuridico di questa categoria. Con i nuovi decreti sicurezza, approvati lo scorso 18 dicembre, oltre ad essere stata reintrodotta la protezione umanitaria, è stato ridisegnato il permesso di soggiorno per calamità naturale. Il presupposto per la concessione del permesso non è più lo stato di calamità "eccezionale e contingente" del paese di origine, ma la semplice esistenza in tale paese di una situazione grave dal punto di vista ambientale e non necessariamente contingente. Secondo Carmelo Miceli, deputato e responsabile sicurezza del Partito Democratico, già relatore del Decreto Immigrazione si tratta di "un adeguamento dell'ordinamento necessario a tenere il passo con i mutamenti delle esigenze della popolazione mondiale. Dovremmo riconoscere sempre di più la questione climatica come un fenomeno geopoliticamente condizionante. Il tema, per esempio, della desertificazione nel Sahel è un tema con il quale ci stiamo già confrontando e ci confronteremo sempre di più". A confermare il ruolo primario delle variazioni climatiche nei flussi migratori che si muovono dal Sahel africano verso l'Italia è un recente studio pubblicato sulla rivista internazionale "Environmental Research Communications" dell'Istituto sull'inquinamento atmosferico del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Iia). Secondo lo studio, già oggi la prima causa di gran parte del flusso migratorio verso l'Italia è causato da fenomeni meteo-climatici che rappresentano uno dei vettori principali degli spostamenti di massa. Dalla fascia del Sahel, che coincide con la fascia della desertificazione, arrivano nove migranti su dieci di quelli che giungono in Italia attraverso la rotta mediterranea. In quell'area l'agricoltura è fortemente dipendente dalle variazioni climatiche e trasforma l'esodo in una vera e propria lotta per la sopravvivenza. Raccolti sempre più poveri, siccità e ondate di calore mettono a dura prova il sistema agricolo, unica fonte di sostentamento, facendo abbassare drasticamente l'offerta di cibo. Ma non è tutto. Anche il flusso migratorio proveniente dal Bangladesh, uno dei paesi più colpiti dalle conseguenze del cambiamento climatico, è notevolmente aumentato negli ultimi anni. Stando ai dati diffusi dal Viminale, i bengalesi sono il terzo gruppo più numeroso proveniente dalle rotte del Mediterraneo, mentre fino a qualche anno fa non comparivano neanche tra i primi dieci nel nostro Paese. Per anni abbiamo parlato di emergenza migranti ignorandone la principale causa, riconoscerla è un primo passo alla ricerca di soluzioni tanto complesse quanto indispensabili.

Come viene creato lo storytelling pro-migranti. Circolano sui media le foto dei profughi abbandonati nella neve nei campi profughi in Bosnia. È la creazione dell'ennesima narrazione sul tema migranti. Roberto Vivaldelli, Sabato 16/01/2021 su Il Giornale. Le Ong tornano alla carica sui migranti. Come riporta l'agenzia Adnkronos, in una dichiarazione congiunta, Amnesty International, Jesuit Refugee Service Europe, Médecins du Monde Belgique e Refugee Rights Europe hanno sollecitato un'azione immediata per risolvere la crisi umanitaria in corso in Bosnia ed Erzegovina e individuare soluzioni istituzionali di lungo periodo per venire incontro alle necessità delle persone che transitano attraverso lo stato balcanico. Amnesty e i partner avvertono che attualmente circa 2500 migranti e richiedenti asilo, tra cui 900 ospiti del campo provvisorio di Lipa, restano senza riparo e al gelo. le autorità della Bosnia ed Erzegovina continuano a non fornire alloggi adeguati e le agenzie dell'Unione europea tendono sempre ad appoggiare soluzioni di corto respiro. Il Corriere della Sera scrive che la "Bosnia abbandona i migranti nella neve", pubblicando una galleria fotografica dei richiedenti asilo ospitati in una tendopoli provvisoria a Bihac. Nessuno nega la grande sofferenza e le precarie condizioni in cui queste persone stiano affrontando l'inverno. Ciò che colpisce, tuttavia, è l'ennesimo storytelling sul tema migranti messo in piedi da media, Ong e forze politiche.

Lo strumento dell'indignazione. "Nessuno mente tanto quanto l'indignato" scriveva il filosofo Friedrich Nietzsche nella sua opera Al di là del bene e del male (1886). Viviamo in una società dello spettacolo, dove le immagini spesso riescono a incanalare l'indignazione degli spettatori a favore di una battaglia politica piuttosto che un'altra attraverso la costruzione di uno storytelling. Nelle più moderne "guerre ibride", la costruzione di una narrazione può radicalmente cambiare le sorti del conflitto a favore di una fazione piuttosto che di un'altra: nella società dello spettacolo, infatti, conquistare l'opinione pubblica è fondamentale. Nulla funziona più dell'indignazione anche quando si parla di migranti e migrazioni. Fenomeno complesso e articolato, dove in ballo ci sono interessi nazionali e sovranazionali, spesso ridotto e banalizzato a poche immagini-simbolo (perlopiù strazianti, che devono colpire al cuore lo spettatore). Come dimenticare quella foto shock del piccolo Alan Kurdi, il profugo siriano fotografato senza vita a faccia in giù, appena lambito dall'acqua, le braccia abbandonate, immobile nella morte, annegato nell'ottobre del 2015 davanti alla spiaggia di Bodrum, paradiso turistico della Turchia, con indosso ancora la maglietta rossa e i pantaloncini scuri, le scarpe allacciate. Quella immagine iconica fece il giro del web e fu rilanciata all'infinito su Twitter, diventato il simbolo della tragedia dei migranti. Una tragedia nella tragedia, che però fu ampiamente strumentalizzata da Ong e da tutto un sistema mediatico per giustificare scellerate politiche migratorie "open borders" che, nella realtà dei fatti, non perseguono il bene né dei migranti stessi né, tantomeno, delle nazioni che li accolgono. Come ricordava qualche tempo fa il professor Marco Gervasoni su IlGiornale, attorno a quell'immagine, un intero trust di Ong, di media internazionali, di forze politiche, orchestrò infatti una campagna per chiedere ancora più immigrazione, e all'Europa di aprirsi totalmente a chi arrivava dal mare. Del resto pochi giorni prima Merkel aveva pronunciato lo slogan Wir schaffen das ("ce la possiamo fare") e necessitava di un supporto emozionale per convincere i tedeschi ad accogliere tutti gli immigrati, anche se venivano dai Balcani.

La foto dell'immigrato morto nel Mediterraneo. La storia si ripete, sempre. Lo scorso luglio ricorda Gervasoni, benché su scala italiana, si era tentata la stessa operazione, con la fotografia di un immigrato morto, incastrato in un canotto alla deriva da giorni nelle acque del Mediterraneo. La Repubblica lanciò la campagna mediatica, subito raccolta da un buon numero di deputati della maggioranza giallo-rossa, capeggiati da Laura Boldrini e Matteo Orfini, favorevoli a rompere gli accordi tra Italia e Libia sull'immigrazione. Lo strumento dell'indignazione a orologeria aveva mostrato ancora una volta la sua efficacia. Il bello, si fa per dire, è che sono le stesse persone che accusano populisti e sovranisti di rivolgersi alla "pancia" del Paese: quando non c'è nulla di più populista e superficiale che discutere di un tema serissimo come l'immigrazione attraverso le narrazioni.

Ora il cavillo spalanca le coste. Perché l'invasione è alle porte. Con il nuovo decreto sicurezza è stato rivisto anche il permesso umanitario da accordare ai migranti che fuggono dalle calamità: la modifica permetterà, da qui in avanti, un più facile e massiccio flusso di profughi verso l'Italia. Mauro Indelicato, Mercoledì, 13/01/2021, su Il Giornale. Nel nuovo decreto sicurezza è stato modificato, tra le altre cose, anche il permesso speciale di ingresso dei migranti per calamità naturale. Una novità sostanziale e che forse ha reso in qualche modo superfluo il termine utilizzato. La calamità è un evento eccezionale, che interrompe improvvisamente le condizioni di sicurezza in un determinato territorio. Si pensi a un terremoto, che lascia migliaia di persone senza casa, oppure a tempeste che distruggono intere città e causano molte vittime o, ancora, a una siccità prolungata che costringe molti cittadini a cercare altrove fonti di cibo e sostentamento. Nel decreto sicurezza invece si parla di una “semplice esistenza in tale Paese di una situazione grave dal punto di vista ambientale e non necessariamente contingente”. Ossia non si parla più di calamità, ma al contrario di situazioni non eccezionali e non improvvise. Vuol dire che per riconoscere il diritto al permesso speciale a un migrante per calamità naturale, basta dimostrare che nel proprio Paese ci sono situazioni oramai “consolidate” e quasi croniche di difficoltà ambientale. Il tutto si traduce con una maggior possibilità di ingresso in Italia per migliaia di persone. Questo perché, come ad esempio sottolineato in uno studio dell'Environmental Research Communications dell'Istituto sull'inquinamento atmosferico del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), ripreso in un articolo de La Stampa, già oggi buona parte dei migranti che si spostano verso l'Italia proviene da territori soggetti alle difficoltà dei cambiamenti climatici.

Quel "capriccio" della sinistra che rende l'Italia meno sicura. Ogni anno il nostro Paese registra migliaia di persone che partono dalla Libia dopo essere risaliti dalla regione del Sahel. Qui, secondo lo studio del Cnr, è in atto oramai da tempo un inesorabile processo di desertificazione che sta rendendo sempre più problematica l'individuazione di nuovi terreni per sviluppare l'agricoltura. Molti dunque emigrerebbero verso il nostro Paese proprio per le difficoltà derivanti dai cambiamenti climatici. Con le modifiche introdotte nel decreto sicurezza approvato alla fine del 2020 dal governo giallorosso, potrebbe essere molto più semplice riconoscere lo status di rifugiato ai migranti provenienti dalle zone dell'Africa sub sahariana. Questo prefigurerebbe l'Italia come una delle mete privilegiate. E, sotto il profilo della gestione dell'accoglienza, in prospettiva non è una buona notizia: l'Alto Commissariato Onu per i Rifugiati infatti, tra le altre cose, ha previsto entro il 2050 qualcosa come 200 – 250 milioni di persone costrette a spostarsi per motivi legati al clima. Il cambiamento di prospettiva italiana attuato dalle modifiche dei decreti sicurezza, dove per calamità non si intende più un evento eccezionale, nel medio e nel lungo periodo produrrà l'effetto di aprire le porte del nostro Paese a un numero sempre più grande di migranti.

IL CASO OPEN ARMS.

L'ammiraglio smaschera le ong e scagiona Salvini. Mauro Indelicato il 17 Dicembre 2021 su Il Giornale. In aula ha deposto l'ammiraglio Sergio Liardo, il quale ha raccontato quanto accaduto in quei giorni frenetici dell'agosto 2019: "Open Arms poteva chiedere Pos alla Spagna e ha rifiutato Pos di Malta". Sono arrivati in aula poco dopo le 9:00 del mattino Matteo Salvini e l'avvocato Giulia Bongiorno. All'interno della sala allestita tra i padiglioni del carcere Pagliarelli di Palermo, il leader della Lega oggi è chiamato a una nuova udienza del processo Open Arms. Poco prima sui social lo stesso Salvini ha postato una foto in cui si è dichiarato “sereno per aver fatto il mio dovere” e ha aggiunto di andare in aula “a testa alta”.

Il processo Open Arms

Il procedimento Open Arms è stato avviato a seguito della mancata autorizzazione di sbarco all'equipaggio della nave dell'omonima Ong spagnola. La vicenda risale all'agosto del 2019, quando al Viminale sedeva proprio Matteo Salvini. È stato l'allora ministro dell'Interno, in virtù sia dei decreti sicurezza da poco approvati che della linea politica attuata in quei mesi, a negare lo sbarco alla nave.

A bordo c'erano 147 migranti, arrivati poi il 20 agosto a Lampedusa a seguito del sequestro del mezzo ordinato dal procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio. Subito dopo lo stesso magistrato ha aperto un fascicolo nei confronti di Salvini per sequestro di persona e abuso di ufficio. Accuse portate avanti anche dal tribunale dei ministri insediato per competenza a Palermo.

Il caso non è così differente da quello relativo alla nave Gregoretti. Anche in quell'occasione c'è stata una mancata autorizzazione allo sbarco da parte di Salvini. Tuttavia, dopo l'inchiesta avviata e l'arrivo delle carte alla procura di Catania, il processo Gregoretti non è mai realmente iniziato. Questo perché nel capoluogo etneo il Gup ha ritenuto di non procedere nei confronti di Salvini.

Ecco perché il caso Gregoretti aveva già un destino segnato

Il mancato rinvio a giudizio nel caso Gregoretti è uno degli elementi più importanti nelle mani della difesa dell'ex ministro. Più volte l'avvocato Bongiorno ha rimarcato la similarità tra i due procedimenti e l'assoluzione di Catania già nelle fasi preliminari potrebbe indicare un analogo risultato anche a Palermo.

Le parole di Oscar Camps

Nel capoluogo siciliano però il processo ha avuto anche un importante richiamo mediatico, come dimostrato dalla richiesta dell'attore Richard Gere di essere ascoltato in qualità di testimone. Open Arms si è costituita parte civile e il suo fondatore Oscar Camps è presente oggi in aula. Prima di entrare ha voluto rilasciare alcune dichiarazioni. "Preferisco rispettare la legge del mare – ha affermato davanti ai giornalisti – che quella degli uomini, perché la legge del mare dice che gli uomini vanno salvati”. 

Alla domanda se il processo Open Arms può essere definito politico, Camps ha risposto in modo sfuggente. “Salvini è Salvini – ha dichiarato – Mi aspetto giustizia per tutte le persone che hanno subito sofferenza”.

In aula i primi testimoni

La prima udienza si è tenuta il 23 ottobre scorso. Difesa e pubblica accusa hanno chiesto l'acquisizione di altre carte, alcune delle quali riguardano le inchieste sul comportamento delle Ong in corso a Trapani.

Oggi a fare l'ingresso in aula sono anche i testimoni. Il primo è stato Sergio Liardo, capo del terzo reparto del Corpo generale delle Capitanerie di porto, il quale davanti al giudice ha spiegato le procedure per il salvataggio in mare e i protocolli applicati. "Il primo agosto del 2019 la nave Open Arms ci comunicò avere fatto un soccorso di 52 persone - ha dichiarato Liardo - che poi sono salite a 55. Trattandosi di una prima comunicazione, stante il fatto che noi come Italia non avevamo coordinato quell'attività abbiamo comunicato al ministero dell'Interno. In seguito al decreto sicurezza bis fu emesso un decreto di interdizione di ingresso in acque territoriali firmato dal Ministero dell'interno con firma anche del Ministero infrastrutture e Ministero Difesa". Dunque, secondo il militare della Guardia Costiera, più ministeri hanno sottoscritto il diniego all'ingresso della Open Arms.

Liardo ha anche aggiunto di non aver in quel momento ricevuto allarmi particolari sulla sicurezza e che in ogni caso la Guardia Costiera ha prestato soccorso tramite evacuazione medica a chi aveva necessità. Il momento cruciale di quei giorni è stato rappresentato dall'annullamento, da parte del Tar del Lazio, dell'interdizione all'ingresso di Open Arms. Liardo ha ricordato il dialogo con funzionari del Viminale per concordare eventuali alternative allo sbarco a Lampedusa. "Si era proposto il porto di Trapani e Taranto - ha spiegato l'ammiraglio - ma le soluzioni erano impraticabili per via delle condizioni meteo".

Liardo è stato interrogato anche dall'avvocato Giulia Bongiorno. Le domande del difensore di Salvini sono state indirizzate sulla possibilità di trovare altri Stati a cui chiedere il Pos. L'ammiraglio ha voluto ricordare il primo diniego da parte di Malta, anche se nei giorni successivi da La Valletta era arrivato un dietrofront e un via libera allo sbarco. Tuttavia sono stati i membri di Open Arms a giudicare, una volta arrivata la nave in prossimità di Lampedusa, pericoloso l'approdo a Malta. Riparare in prossimità di Lampedusa, sempre secondo l'ammiraglio, in quel momento era una necessità per via delle condizioni del mare avverse. Lo Stato di bandiera della nave, ossia la Spagna, ha offerto il Pos subito dopo ferragosto. "La navigazione verso la Spagna - ha aggiunto Liardo - sarebbe durata 4 giorni, c'erano numerose persone a bordo. Ma si poteva chiedere assistenza".

La soddisfazione della difesa

"L'ammiraglio conferma le contraddizioni dell'Ong". É questa la dichiarazione emersa da fonti della difesa di Salvini a proposito della deposizione dell'ammiraglio Sergio Liardo. Il collegio difensivo sembra essere soddisfatto dell'esito delle deposizioni dei testimoni. "Anche l'ammiraglio Nunzio Martello - si legge in un'altra nota della difesa di Salvini - ha confermato che la nave era in sicurezza". Martello è un altro testimone chiamato a rispondere questa mattina a Palermo. Assieme a lui, oltre a Liardo, ha deposto il capitano della Guardia di Finanza, Edoardo Anedda.

A quest'ultimo è stata chiesta una ricostruzione degli eventi dell'agosto 2019. "La nave Open Arms ha fatto pendolamenti nello spazio di acque internazionali compreso tra Malta e Lampedusa in attesa di indicazioni - ha dichiarato Anedda rispondendo alle domande di Giulia Bongiorno - tecnicamente poteva raggiungere il proprio Stato di bandiera. Forse in due giorni di navigazione, ma dipende. Le condizioni meteo erano in netto peggioramento". Anedda ha poi dichiarato di non aver avuto informative circa la possibile presenza di terroristi a bordo di Open Arms.

Anche in merito le dichiarazioni di Anedda la difesa di Salvini ha espresso soddisfazione. "Da quanto dichiarato da Anedda, dopo i primi due interventi di Open Arms in acque libiche, la nave puntò verso l'Italia in modo arbitrario - hanno sottolineato le fonti della difesa - Anedda aveva prodotto una informativa contestando il comportamento della ong, ipotizzando il reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina per il capitano della Open Arms e il capo missione".

In aula anche Leandro Tringali, dell'Ufficio circondariale marittimo di Lampedusa. "I migranti erano molto provati - ha dichiarato - in più di un'occasione in diversi si buttarono in mare per cercare di raggiungere Lampedusa a nuoto ed era anche difficile soccorrerli perchè non volevano tornare a bordo della Open Arms". Tringali ha poi aggiunto altri dettagli sullo stato di salute dei migranti. "I migranti erano tutti a poppa, una donna era a terra svenuta, c'erano casi di scabbia e le condizioni erano molo gravi - si legge nelle sue dichiarazioni - l'imbarcazione aveva una capienza per 19 persone, ma a bordo ce ne erano più di 100".

Salvini: "Avrei dovuto essere ringraziato e invece sono a processo"

"Non ce l'ho con i giudici, ce l'ho con quei politici della sinistra che non riuscendo a sconfiggere la Lega nella cabina elettorale o in parlamento cercano di farlo in tribunale a Palermo". Sono queste le prime dichiarazioni rilasciate da Matteo Salvini all'uscita dell'aula bunker del carcere di Pagliarelli. L'ex ministro ha ribadito la sua posizione rivendicando il proprio operato al Viminale. "Con me al governo - ha rimarcato - erano dimezzati i morti e gli sbarchi. Ho fatto il mio dovere ma invece di essere ringraziato sono a processo".

"Io credo che oggi è emerso in maniera nitida il fatto che c'era una linea condivisa di governo, con un documento firmato da tre ministri, che prevedeva il divieto di sbarco di Open Arms - ha invece dichiarato l'avvocato Giulia Bongiorno - e sono state individuate le ragioni di quel divieto". La prossima udienza è stata fissata per il 21 gennaio.

Mauro Indelicato. Sono nato nel 1989 ad Agrigento, città in cui dirigo il locale quotidiano InfoAgrigento.it. Nel marzo 2017 conseguo la laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali presso l’Università degli Studi di Palermo, città dove sviluppo la mia curiosità per il Mediterraneo, per i suoi popoli e per le sue culture che da secoli arricchiscono una delle aree più suggestive del pianeta. Inizio la mia attività giornalistica nel marzo del 2009 con alcune testate locali, dal gennaio 2013 sono iscritto presso l’Ordine dei Giornalisti di Sicilia nell’albo dei "pubblicisti". Collaboro dal giugno 2016 con IlGiornale.it e Gli Occhi della Guerra, testata per la quale seguo il G7 di Taormina del 2017 ed il vertice di Palermo sulla Libia nel novembre 2018. Nel novembre del 2015 partecipo alla stesura del libro Rinascita di un Impero edito dal Circolo Proudhon, nel 2016 al saggio Italia Nel Mondo della stessa casa editrice. Nel 2019 collaboro alla stesura del libro Bella e perduta, edito da Idrovolante edizioni.

Perché Richard Gere sarà testimone contro Salvini nel processo sul caso Open Arms. Antonio Lamorte su Il Riformista il 25 Ottobre 2021. Richard Gere è un “attore in cerca di visibilità” secondo Giorgia Meloni. La leader di Fratelli d’Italia si riferisce alla partecipazione dell’attore statunitense come testimone al processo sul caso dell’ong spagnola Open Arms. Per quel caso il segretario della Lega e, al tempo dei fatti nel 2019, allora ministro dell’Interno Matteo Salvini è accusato per sequestro di persona e omissione di atti d’ufficio. La prima udienza è prevista per il 17 dicembre. A bordo dell’imbarcazione dell’ong c’erano 147 migranti. L’operazione di salvataggio fu effettuata il primo agosto, il 10 un secondo intervento. Alla nave venne notificato il divieto di ingresso nelle acque territoriali. Il 14 agosto, dopo un pronunciamento del Tar del Lazio, la nave faceva rotta verso Lampedusa pur senza il permesso di entrare in porto. Una trentina di minori e altre persone bisognose di attenzioni mediche vennero fatte sbarcare nei giorni successivi mentre alcuni migranti si buttavano in acqua provando ad arrivare a nuoto sull’isola. Il 20 agosto il Procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio, dopo un’ispezione a bordo della nave, disponeva lo sbarco e il sequestro d’urgenza per il giorno stesso. Tra i testimoni citati nel processo l’ex Presidente del Consiglio Giuseppe Conte e gli ex ministri Luigi Di Maio Elisabetta Trenta e Danilo Toninelli. Lo scorso aprile a Catania per il caso della nave Gregoretti deciso il non luogo a procedere per Salvini. “Mi dispiace per i soldi che si dovranno spendere – ha detto Salvini all’esterno del carcere di Pagliarelli a Palermo alla fine dell’udienza di sabato scorso – per questo processo politico voluto dalla sinistra. Verrà perfino Richard Gere da Hollywood, ditemi voi che cosa c’entra”. L’attore di Hollywood il 9 agosto 2019 salì sulla nave carica di profughi raccolti dall’organizzazione Open Arms. La sua testimonianza è stata chiesta dagli avvocati della ong “per raccontare le condizioni drammatiche in cui si trovavano i migranti trattenuti a bordo” come aveva spiegato l’avvocato Arturo Salerni. Gere oltre a essere un attore famosissimo in tutto il mondo è impegnato in cause umanitarie e benefiche da tempo anche con una fondazione che porta il suo nome, la Gere Foundation. Nei giorni del caso Open Arms era “in vacanza con la famiglia vicino Roma. Quando ho saputo della nave non ci potevo credere, sono corso in aeroporto ed eccomi qua” diceva in conferenza stampa. Prima di imbarcarsi a Lampedusa comprò frutta e acqua per i migranti. “Io non mi occupo di politica ma di persone” disse lui, cresciuto in una famiglia di lavoratori in Pennsylvania, educazione metodista, convertito al buddismo. Si è impegnato negli anni nella lotta all’Aids, in difesa della tribù Jumma, per aprire ospedali in Mali, contro il presidente turco Erdogan e a favore dei curdi. Sono 26 i testimoni nella lista depositata dalla Procura di Palermo alla cancelleria della II sezione del Tribunale di Palermo. 21 le parti civili ammesse dal gup nel corso dell’udienza preliminare conclusa ad aprile scorso con il rinvio a giudizio: con i comuni di Barcellona (Spagna) e Palermo, figurano Emergency, Asgi (Associazione studi giuridici immigrazione), Arci, Ciss, Legambiente, Giuristi Democratici, Cittadinanza Attiva, Open Arms, Mediterranea, AccoglieRete, Oscar Camps (comandante della nave), Ana Isabel Montes Mier (capa missione Open Arms) e diversi migranti. L’accusa punta a dimostrare che il divieto di sbarco imposto dall’allora ministro avrebbe violato gli obblighi previsti dalle leggi italiane e internazionali mantenendo il punto nonostante l’annullamento del Tar. La difesa insiste a equiparare la vicenda a quella archiviata sulla Gregoretti. “Ci sono già tre sentenze in cui è scritto che se l’Italia non coordina le operazioni di salvataggio non c’è obbligo di far sbarcare i profughi in un porto sicuro italiano, qui aspettiamo la quarta”, ha detto l’avvocato e senatrice del Carroccio Giulia Bongiorno. L’accusa – il procuratore Francesco Lo Voi e l’aggiunto Marzia Sabella con i sostituti Geri Ferrara e Giorgia Righi – sostiene che invece l’obbligo c’era eccome. Le dichiarazioni di Giorgia Meloni sul caso, a favore dell’alleato di centrodestra – nonostante le frizioni degli ultimi tempi, emerse anche da un audio segreto nel quale Salvini critica l’opposizione di Fratelli d’Italia con termini molto forti – e contro la partecipazione di Gere al processo sono diventate virali. “Quanto è credibile una Nazione nella quale si consente a un attore in cerca di visibilità di testimoniare contro un ex ministro della Repubblica deridendo le nostre istituzioni? Siamo veramente oltre il limite della decenza”, il tweet di Meloni. 

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli. 

Open Arms, il pm che accusava Matteo Salvini? Ribaltone in procura: toh, che fine fa Patronaggio. Libero Quotidiano il 06 ottobre 2021.  Luigi Patronaggio lascerà la Procura di Agrigento. La prossima destinazione sarà Cagliari, dove la commissione incarichi del Csm l'ha designato come procuratore generale. Proprio dagli uffici guidati da Patronaggio che sono uscite le principali inchieste sul tema immigrazione. Tra tutte quella più importante è il caso Open Arms. Un'indagine avviata nel 2019 confluita poi, dopo un passaggio al tribunale dei ministri di Palermo, nel processo contro Matteo Salvini. Nell'agosto 2019 è stato proprio Patronaggio a salire a bordo della nave dell'Ong spagnola e a sequestrarla, permettendo uno sbarco vietato dal Viminale retto all'epoca dall'attuale segretario della Lega. "Tornato nei suoi uffici, il magistrato ha poi aperto un fascicolo contro Salvini per sequestro di persona e abuso di ufficio. Il resto è storia degli ultimi mesi, con il Gip di Palermo che ha decretato il rinvio a giudizio per l'ex ministro dell'Intern", ricorda il Giornale. Inoltre, da Agrigento, sono passate buona parte delle indagini sulle Ong, come per esempio il caso Diciotti. In quel caso il Senato votò contro il processo nei confronti del leader leghista, grazie anche ai voti del Movimento Cinque Stelle. Patronaggio si è insediato nella città siciliana nel 2016. Proprio Patronaggio nel 2017, nel pieno di un'estate caratterizzata dal fenomeno degli sbarchi fantasma, lanciò l'allarme sulle infiltrazioni terroristiche derivanti dai massicci approdi incontrollati. Più di recente il magistrato ha lanciato un appello affinché siano autorizzate indagini internazionali contro i trafficanti di esseri umani. Ora la commissione incarichi del Csm ha designato Patronaggio a Cagliari con cinque voti a favore su voti. Per ratificare la nomina occorre il voto adesso del plenum del Csm.  Vella è considerato molto vicino al procuratore uscente e dunque, almeno nell'immediato, nell'impostazione della Procura sul fenomeno migratorio non dovrebbero esserci importanti cambiamenti.

Da "Ansa" il 20 marzo 2021. La Procura di Palermo ha chiesto il rinvio a giudizio del capo della Lega Matteo Salvini per i reati di sequestro di persona e rifiuto di atti d'ufficio al termine dell'udienza preliminare che vede imputato, a Palermo, l'ex ministro dell'Interno. Secondo l'accusa il leader del Carroccio, ad agosto del 2019, avrebbe illegittimamente negato lo sbarco a 147 migranti soccorsi a largo di Lampedusa dalla nave della ong Open Arms. "La procura di Palermo ha chiesto il rinvio a giudizio e il processo contro di me per sequestro di persona, 15 anni di carcere la pena prevista. Preoccupato? Proprio no. Sono orgoglioso di aver lavorato per proteggere il mio Paese rispettando la legge, svegliando l'Europa e salvando vite. Se questo deve provocarmi problemi e sofferenze, me ne faccio carico con gioia. Male non fare, paura non avere", commenta il leader della Lega. Salvini questa mattina aveva postato una foto dalla Sicilia sui suoi social, scrivendo: "Buongiorno e buon sabato da Palermo, Amici. Pronto all’udienza in tribunale come “sequestratore di persona”: ieri, oggi e domani sempre a difesa dell’Italia. Grazie di esserci, non si molla mai". L'udienza preliminare a carico del leader della Lega Matteo Salvini, si è svolta nell'aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo, è cominciata con la richiesta del Procuratore di Palermo Francesco Lo Voi di far assistere la stampa al procedimento che per legge si svolge a porte chiuse. Il senatore è imputato di sequestro di persona e rifiuto d'atto d'ufficio per aver vietato lo sbarco a Lampedusa, ad agosto del 2019, di 147 migranti soccorsi in mare dalla nave della ong spagnola Open Arms. Alla scorsa udienza il gup aveva rigettato le istanze dei giornalisti di poter partecipare al procedimento, nonostante la rilevanza pubblica della vicenda.

Open Arms, "Matteo Salvini a processo". Toghe all'assalto, lui si difende in aula: "Ho solo difeso i confini". Libero Quotidiano il 20 marzo 2021. La Procura della Repubblica di Palermo ha chiesto il rinvio a giudizio per Matteo Salvini per il caso Open Arms. Il leader della Lega, all'epoca dei fatti ministro dell'Interno, è accusato di sequestro di persona e rifiuto d’atto d’ufficio. Il caso risale all'agosto del 2019 quando Salvini vietò lo sbarco a Lampedusa di 147 migranti soccorsi in mare dalla nave della ong spagnola. Per questo il capo della Procura di Palermo, Francesco Lo Voi tira dritto e chiede un rinvio a giudizio. Da parte sua il numero uno del Carroccio si è sempre difeso ribadendo di aver agito in linea con le volontà dell'allora governo Conte. "Il comandante della Open Arms - ha spiegato nel corso delle dichiarazioni spontanee rese durante l’udienza preliminare sulla vicenda - rifiutò di trasbordare 39 migranti, in area sar maltese, su un assetto navale de La Valletta. Giorni dopo, il 18 agosto 2019, le autorità spagnole assegnarono a Open Arms un porto di sbarco ad Algeciras. Il comandante rifiutò questa soluzione. La Spagna diede allora disponibilità presso il porto spagnolo più vicino (Palma di Maiorca) e l’Italia si offrì di scortare la Open Arms con una propria nave, dove trasbordare i migranti ancora a bordo. Anche la Spagna comunicò l’invio di una propria nave a supporto. Il comandante rifiutò anche questa soluzione". Così il leghista ha utilizzato le stesse motivazioni per il caso Gregoretti, ovvero la sottolineatura che la la linea dei "porti chiusi" era condivisa: "Si inserisce - ha spiegato - tra i passi di attuazione della linea politica, anche l’adozione dei decreti sicurezza, e in particolare del decreto di sicurezza bis, che approvammo al consiglio dei ministro dell’11 giugno 2019 e che prevedeva il potere di disporre il divieto di ingresso, transito e sosta nel mare territoriale nazionale. Si trattava di provvedimenti adottati dal Ministro dell’Interno, quale autorità nazionale di pubblica sicurezza, di concerto con il ministro della difesa e con il ministro delle infrastrutture e trasporti, secondo le rispettive competenze, informandone il presidente del consiglio dei ministri". Ossia Giuseppe Conte. La Procura - in aula oltre a Lo Voi ci sono l’aggiunto Marzia Sabella e il sostituto Calogero Ferrara - si è opposta all’acquisizione agli atti di tutti i documenti depositati il 16 marzo dalla difesa tranne le deposizioni rese a Catania dal ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, dall’ex premier Giuseppe Conte e dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio. I pm hanno sostenuto che, malgrado nel corso delle deposizioni si sia introdotto l’argomento del procedimento in corso a Palermo, queste abbiano rilevanza a favore della tesi accusatoria. 

Open Arms, Matteo Salvini a processo. Barcellona: "Sostegno morale ed economico alla ong Proactiva". Libero Quotidiano il 20 marzo 2021. Pagati per portare i migranti in Italia e Grecia. Nel processo palermitano su Open Arms, emerge una verità molto importante per comprendere appieno quanto la drammatica vicenda del soccorso dei disperati nel Mediterraneo abbia risvolti spesso nascosti o sottovalutati e che, alla luce di come sono andati i fatti, potrebbero alimentare facilmente (e non senza fondamento) le tesi dei complottisti più scatenati. Nell'aula bunker di Palermo, nell'udienza preliminare della causa che vede l'ex ministro degli Interni Matteo Salvini accusato di abuso d'ufficio e sequestro di persona, l'avvocato di Barcellona ha presentato ufficiale richiesta di iscrizione della città catalana all'elenco delle parti civili. Un elenco che comprende, tra gli altri, la Ong Mediterranea Saving Humans, il Comune di Palermo, l'Arci Sicilia, tutti intenzionati a ricevere un risarcimento danni dall'ex ministro per aver trattenuto per giorni i migranti sulla Open Arms impedendo loro lo sbarco sulla terra ferma. In aula l'avvocato di Barcellona ha sottolineato come il contributo della città alla Ong spagnola Proactiva e alla nave Open Arms "non era soltanto morale ma anche economico". Insomma, tra i tanti sostenitori della causa della Ong che solca le acque del Mediterraneo per trovare i migranti abbandonati dagli scafisti e traghettarli nei porti sicuri di Grecia, Malta e preferibilmente Italia c'è anche una istituzione spagnola come il Comune di Barcellona, a quanto pare interessato sì al soccorso di migranti ma non così tanto, ad esempio, da accoglierli per primo. Lo stesso contorno "politico" emerge anche da una mail che il Centro coordinamento del soccorso di Malta inviò il 14 agosto 2019 alle ore 21.17 alla stessa Ong della Open Arms, con accusa pesante e circostanziata: le autorità marittime maltesi definiscono letteralmente "bighellonare" la permanenza in acqua della nave, con i migranti a bordo, "nonostante gli avvertimenti" delle medesime autorità a dirigersi verso il porto sicuro più vicino. "Avete intenzionalmente continuato a procrastinare per mettere ulteriore pressione su Malta", accusa La Valletta. "Se aveste proceduto verso il vostro porto d’origine sareste già sbarcati", è il richiamo alla Ong. Ma l'unico porto sicuro per i volontari pro-migranti e i loro foraggiatori era uno tra Malta e la Sicilia. Qualsiasi altra opzione non è mai stata presa in considerazione. 

Open Arms, Matteo Salvini a processo. La mail di Malta alla Ong: "Bighellonate intenzionalmente". La prova che ribalta il processo? Libero Quotidiano il 20 marzo 2021. Una mail di Malta potrebbe alla Ong Pro Activa potrebbe rappresentare una svolta nel processo Open Arms in corso a Palermo, in cui l'ex ministro degli Interni Matteo Salvini è accusato di sequestro di persona e abuso d'ufficio. Il documento è emerso nell'udienza preliminare in corso sabato mattina nell'aula palermitana, alla presenza dello stesso leader della Lega. Il messaggio è stato inviato dal Centro coordinamento del soccorso di Malta il 14 agosto 2019 alle ore 21,17 alla ong che organizza i soccorsi ai migranti nel Mediterraneo sulla nave spagnola Open Arms, accusata senza mezzi termini di "bighellonare" in mare e non certo per nobili fini, "nonostante gli avvertimenti" delle autorità marittime. "Avete intenzionalmente continuato a procrastinare per mettere ulteriore pressione su Malta", accusa La Valletta. "Se aveste proceduto verso il vostro porto d’origine sareste già sbarcati", è il richiamo alla Ong che in quei giorni rifiutava di tornare sulle coste libiche con il suo carico di disperati, cercando un approdo a Malta e o in Italia. Il procedimento palermitano è parallelo a quello di Catania per la nave Gregoretti, che vede Salvini imputato per gli stessi reati. E proprio quel processo potrebbe essere "l'architrave" della difesa del leghista su Open Arms, dal momento che è già emerso come i divieti di ingresso alle navi con migranti a bordo emanati dal Viminale seguissero la linea sull'immigrazione dettata dal premier Giuseppe Conte, e non fossero dunque un "colpo di testa" del solo ministro degli Interni. Ancora più esplicita Giulia Bongiorno, avvocato di Salvini: "In realtà - ha spiegato all'agenzia AdnKronos - in Open Arms chi stava gestendo tutto era la Presidenza del Consiglio con una lettera dell'ex premier Giuseppe Conte. E altre carte sul ruolo che avrebbe svolto l'ex ministro dei Trasporti Danilo Toninelli". Nel frattempo, Salvini si dice "pronto" per l'udienza palermitana pubblicando una foto sui social fuori dall'aula bunker: "Ieri, oggi e domani sempre a difesa dell’Italia". Dalla Spagna, la città di Barcellona si è iscritta all'elenco delle parti civili contro Salvini, insieme alla Ong Mediterranea Saving Humans, il Comune di Palermo e l'Arci Sicilia. In aula l'avvocato del comune catalano ha peraltro sottolineato come il contributo della città alla Ong Pro Activa e alla nave Open Arms "non era soltanto morale ma anche economico". La vicenda internazionale, dunque, assume contorni sempre più politici.

Open Arms, contro Matteo Salvini un "processo politico": la lista di 23 nomi. Lorenzo Mottola su Libero Quotidiano il 21 marzo 2021. Raccontiamo le due versioni della storia. Per la Procura di Palermo, che ieri ha chiesto il rinvio a giudizio di Matteo Salvini, nell'agosto del 2019, l'allora ministro dell'Interno avrebbe infidamente costretto 147 profughi a rimanere per 20 lunghi giorni in condizioni estreme in mezzo al mare, a bordo della Open Arms, vietando illegalmente lo sbarco e ignorando gli appelli del resto del governo. Per le autorità maltesi che hanno seguito la vicenda sono tutte favole: i marinaretti della Ong, dopo aver raccolto i clandestini dai barconi, «bighellonavano per il Mediterraneo» rifiutando come punti di approdo sia Malta stessa che la Spagna. Volevano proprio l'Italia. «Se aveste proceduto verso il vostro porto d'origine sareste già attraccati» scrissero le autorità di La Valletta al capitano dell'imbarcazione battente bandiera spagnola in una mail (depositata ieri come prova dall'avvocato del leghista, ovvero Giulia Bongiorno). Come ha raccontato Salvini nel corso dell'udienza di ieri: «Il comandante della Open Arms rifiutò di trasbordare 39 migranti, in area Sar maltese. Giorni dopo le autorità spagnole assegnarono un porto di sbarco ad Algeciras. Il comandante rifiutò questa soluzione. La Spagna diede allora disponibilità presso il porto spagnolo più vicino (Palma di Maiorca) e l'Italia si offrì di scortare l'imbarcazione con una propria nave, dove trasbordare i migranti ancora a bordo. Anche la Spagna comunicò l'invio di una propria nave a supporto. Il comandante rifiutò anche questa soluzione». Insomma, l'equipaggio della nave aveva varie opzioni, ma decise di restare al largo di Lampedusa per sette giorni dopo essere rimasto nei pressi di Malta per due settimane. Cosa ci fa quindi Salvini a processo con l'accusa di sequestro di persona e rifiuto di atti d'ufficio? Ha senso parlare di "rapimento"? Forse ci sono altre spiegazioni.

GLI ACCUSATORI - Che in questo processo ci sia tanta politica si intuisce subito scorrendo l'elenco delle parti civili: ben 23 quelle ammesse dal Gup nel corso delle ultime udienze. Tra gli accusatori, c'è un'infinità di associazioni per i diritti dei migranti e c'è perfino il Comune di Palermo che, come ha sottolineato la Lega, non si era costituito neanche nei processi per mafia. C'è pure il Comune di Barcellona, che evidentemente non aveva di meglio cui pensare. La città catalana è tra i finanziatori della missione Open Arms, la quale però scarica gli extracomunitari che imbarca in Italia. Scorrendo la lista, si trova perfino la Ong Mediterranea, i cui vertici attualmente risultano indagati con l’accusa di aver intascato 125mila euro per trasportare clandestini in Italia. Ci sono infine sette migranti che si trovavano sulla nave al centro del processo: sono trai pochi di quel gruppo di cui non si siano perse le tracce. Già perché di quei 147 profughi almeno una quarantina si sono poi dati alla macchia e ora vivono da irregolari in qualche Paese europeo (sempre che non siano già stati rimpatriati). Per non parlare di Ali Maray e Somar Al Ali, siriani di 26 e 35 anni, finiti in cella rispettivamente ad Agrigento e Ragusa perché coinvolti in una delle organizzazioni che gestiscono il lucroso traffico di uomini tra l’Africa e l’Italia. La stampa non è stata ammessa all’udienza di ieri. Nonostante ciò, le parole di Salvini sono ugualmente state riportate. Secondo il leghista, «il paradosso è che chi ha tentato di determinare una forzata responsabilità dello Stato italiano attraverso un vero e proprio atto di forza indossi oggi le vesti di vittima». In tutto ciò, il capitano della Open Arms, il tedesco Marc Reig Creus all’uscita dall’aula bunker si è giustificato dicendo che non poteva sbarcare a Malta perché «il porto era piccolo».

I DUE CASI - Il politico milanese rischia 15 anni di galera. Nella prossima udienza, il 17 aprile, verrà data parola alla difesa, dopodiché il Gup Lorenzo Jannelli deciderà sul rinvio a giudizio. Nel frattempo, però, dovrebbe arrivare anche la decisione del tribunale di Catania sull’altro caso che vede Salvini imputato, ovvero quello per la Gregoretti, vicenda per la quale la procura ha già chiesto l’archiviazione. Per il leghista, quindi, si profila una decisione favorevole,che potrebbe incidere su entrambi i fronti. Il procuratore palermitano Lo Voi, comunque, non molla e ieri ha citato la deposizione dell’ex premier Conte, secondo il quale il leghista agìin piena autonomia ignorando il resto dell’esecutivo. «Non c’era alcuna condivisione né interesse nazionale da tutelare», ha detto ilmagistrato. Un’affermazione indebolita dalle parole dell’attualeministro dell’Interno Luciana Lamorgese, che in un interrogatorio ha già confermato che la politica del governo non è affatto cambiata dopo il suo arrivo. Tante navi sono state lasciate al largo per giorni prima dello sbarco per una precisa scelta politica, esattamente come succedeva prima. A processo, quindi, ci dovrebbero essere una quarantina tra ministri e sottosegretari, oltre allo stesso Conte.

Il caso. Processare Salvini è roba da matti, la scelta su Open Arms fu collegiale. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 23 Marzo 2021. Matteo Salvini dice di non essere rimasto troppo impressionato dal rinvio a giudizio di Palermo e di tenere spavaldamente botta. Forse l’aveva messo nel conto, anche se ricordiamo con quanta televisiva fiducia commentava le sensazioni provate dopo la sua deposizione in tribunale dicendosi sicuro di aver spiegato per bene tutto e di essere stato altrettanto ben capito e – come impressione a pelle – approvato. Poi è arrivata la tranvata, ovvero la decisione di rinviarlo a processo per sequestro di persona, pena massima prevista 15 anni di galera. Il leader leghista non ha fatto una piega, ma noi sì. Noi utenti. Noi cittadini. Anzi – molto meglio – noi persone (proposta: e se la piantassimo di usare “cittadini” che sa di Robespierre e sostituissimo con “persone” un po’ più vicino a Freud e anche a Woody Allen?). Allora: a noi persone vengono i brividi che però non sono più di moda perché il Covid ha fatto sparire l’influenza normale che portava i brividi, ma ci pensa il meccanismo della giustizia italiana a rinnovellarne la gelida sensazione. Dunque, hanno rinviato Salvini a giudizio per i 147 migranti trattenuti a bordo della Open Arms per una decisione burocratica che secondo Salvini – nella sua qualità e funzione di ministro dell’Interno –era condivisa da tutto il governo cominciando dal gialloverdissimo Conte Avv. Giuseppe, giù giù giù fino all’ex hostess dello stadio Di Maio fuoricorso dr. Giggi e così via. Alla fine lo hanno lasciato solo come un salame, il Matteo di destra, quando anche quello di Italia in Terapia Intensiva gli dava addosso. Noi – come è noto – non amiamo Salvini. Neanche un po’. Ma meno ancora amiamo una giustizia che ha bisogno di un ricovero per essere disintossicata per funzionare come servizio pubblico. Persino qui nella libera repubblica pacatamente rivoluzionaria del Riformista ci permettiamo il lusso di opinioni variate sul come, quanti, quali e in che modo vadano accolti gli emigranti. E quello è un paio di maniche. Ma l’altro paio di maniche che dovrebbe trovare tutte le persone civili d’accordo è che non si può mandare a processo come un delinquente un ministro che agiva nella collegialità costituzionale di un governo che applicava una sua politica – altrettanto collettiva, collegiale e costituzionale – in tema di immigrazione clandestina. L’assurdità di mandare a processo un ministro per atti di governo compiuti nella sua qualità di membro inter pares del Consiglio dei ministri, dovrebbe far infuriare tutti. Ricordiamo che in Italia e solo in Italia il capo del governo non si chiama primo ministro e neanche capo del governo, perché per Costituzione è soltanto il presidente di un organismo collegiale detto “Consiglio dei ministri”. Una collegialità che fu voluta dai padri costituenti proprio per impedire qualsiasi colpo di genio da capatàz o rischio di superomismo. Da noi e soltanto da noi persino la nomina dei ministri non appartiene al capo del governo ma al capo dello Stato, cosa a nostro parere sbagliatissima, ma tant’è. Dunque teoricamente un rinvio a giudizio di un ministro degli Interni per atti di governo collegiale dovrebbe, avrebbe dovuto, far insorgere come un sol uomo tutte le forze politiche parlamentari e non, il che però non è accaduto e non accade perché nella nostra democrazia eternamente in boccio, si è stabilito che le elezioni non debbano necessariamente essere considerate cosa buona, qualora ci sia il rischio che vincano gli altri e che dunque non si debba essere troppo schizzinosi sulle questioni di principio, ché tanto si sa, sono marginali. Ma allora proviamo a chiudere il cerchio di questa botte con un richiamo a Matteo Renzi il quale ha fatto alcune cose ottime, fra cui far cadere il governo del genocidio per incompetenza e arroganza e che adesso reclama – giustamente – la riforma della giustizia come una priorità del governo Draghi. E allora gli chiediamo: ma è lo stesso Renzi che ha votato in Parlamento per il rinvio a giudizio di Salvini. O no? E come fa a trovare che il rinvio a giudizio di Salvini sia un obbrobrio, tanto che chiede – anche per questo – un immediato avvio di umana riforma giudiziaria? Botte piena, va bene. Moglie ubriaca, anche: perché no. Ma ricordiamo che quando Socrate rifiutò l’evasione che gli era stata promessa dallo stesso tribunale che lo aveva ingiustamente condannato a morte, rispose: “Ma che siete matti? Vi immaginate quando morirò e andrò nell’Ade e mi verranno incontro le leggi? Che cosa mi diranno? Ma non eri tu che lodavi la coerenza? E poi? Hai fatto quel che ti tornava più utile personalmente senza vergognarti?”. E fu così che Socrate bevve la cicuta per testardaggine e coerenza, e dicono che è una bevanda pessima, assolutamente da sconsigliare. Ma viene da chiedersi che cosa dirà Matteo Renzi fra cent’anni quando incontrerà nell’Ade dei fiorentini le ombre della coerenza nella giustizia. Che gli diranno? “Bel paraculo, che sei stato, caro Matteo! Forcaiolo per bassa macelleria in aula e poi fai il garantista a chiacchiere. Guarda che noi nell’Ade siamo morti ma mica siamo grulli. E le cose ce le ricordiamo bene, sai, bellino?”. Certo, l’Ade è un po’ off-topic, però rende l’idea.

Da “corriere.it” il 17 aprile 2021. «Passare per sequestratore proprio no, è ridicola proprio l'idea». Così Matteo Salvini commenta il rinvio a giudizio a Palermo per sequestro di persona e rifiuti di atto d'ufficio per il caso Open Arms. «Quanto costerà questo processo politico agli italiani?», ha aggiunto.

Cesare Zapperi per il “Corriere della Sera” il 18 aprile 2021. Segretario, in 24 ore è passato da «liberatore» degli italiani a «sequestratore» degli immigrati. Una bella nemesi.

«In me prevale la soddisfazione per le riaperture - spiega il leader della Lega, Matteo Salvini -. Ma il rinvio a giudizio, detto che non mi toglie il sonno, è frustrante e molto pericoloso perché crea un precedente...».

In che senso?

«Si usa il tribunale per fare politica. Il disegno Palamara ("Salvini è innocente ma va fermato") sta prendendo forma».

Il suo rinvio a giudizio è una «scelta politica»?

«Beh, intanto il giudice di Palermo ha deciso di non decidere delegando il verdetto finale ad altri».

Ha lasciato che decida una giuria dopo un dibattimento.

«Ma qui non ci sono reati. C'è un atto politico preso da un intero governo. Contrastare gli scafisti, difendere i confini non sono reati. Ho difeso gli interessi del mio Paese o il mio interesse personale?».

Chiama in correità un intero governo (il Conte I)?

«Per me, lo ripeto, non c'è alcun reato. Ma se lo si ravvisa, va addebitato a tutti quelli che hanno contribuito ad adottare una certa strategia».

Conte e Toninelli verranno a Palermo come testimoni.

«Sì, ma ci vuol poco a cambiare ruolo...».

Non è che mandandola a processo le hanno fatto un «favore»? Il 15 settembre saremo in piena campagna per le Amministrative. Tutti i riflettori saranno per il «martire» Salvini.

«Non faccio il piangina né intendo strumentalizzare la situazione. Mi dispiace che da settembre in poi dovrò sacrificare tanti altri sabati che avrei dedicato ai miei figli».

Forza Italia sostiene che le stanno applicando il «metodo Berlusconi».

«Silvio ha dovuto affrontare 80 processi, io per ora solo 5-6... Ma è evidente che la sinistra vuole vincere in tribunale le elezioni che perde nelle urne. In nessun Paese al mondo si mandano a processo gli avversari politici».

Si è sentito tradito da Conte e Toninelli?

«Constato solo che hanno cambiato idea per convenienza politica, rinnegando sé stessi e le loro scelte».

Le Sardine, che lei spesso sbeffeggia, dicono che Salvini «va sconfitto nelle piazze, non nei tribunali».

«Hanno ragione, io non mi sognerei mai di portare alla sbarra chi la pensa diversamente da me. Ma in Italia si fanno tante inchieste che poi finiscono nel nulla. Come quelle che hanno riguardato grandi società come Eni e Finmeccanica. Difendere gli interessi dell'Italia significa anche difendere le aziende italiane».

Ma i magistrati quando perseguono i reati non devono difendere gli interessi di nessuno.

«Per carità. Ma ricordo che gli italiani hanno votato per la responsabilità civile dei giudici. Che fine ha fatto?».

Il segretario del Pd Letta indossando la felpa della Open Arms le ha fatto un bello scherzetto.

«Ha mancato di rispetto non a me ma al presidente della Repubblica che aveva chiesto ai partiti umiltà e senso di responsabilità per aiutare gli italiani ad uscire dalla pandemia. Ma a sinistra hanno il riflesso del toro: quando vedono Salvini è come se sventolasse un panno rosso».

Dicono che non sia molto soddisfatto del suo successore, la ministra Lamorgese.

«I numeri parlano chiaro. Quest' anno gli sbarchi sono triplicati. E mentre nei tre episodi che mi sono stati contestati non è mai morto nessuno, con lei ci sono stati morti, incendi, naufragi».

È nel mirino?

«Guardi, in questo momento la priorità assoluta è la campagna di vaccinazione e la ripresa dell'economia. Ma quest' estate, quando spero tutto sarà superato, non saranno più tollerati gli sbarchi di clandestini sulle nostre coste. L'ho già detto a Draghi».

Che cosa esattamente?

«Gli ho chiesto di organizzare un incontro a tre per un chiarimento. Lo dico chiaro: bisogna cambiare registro».

Ha ottenuto le riaperture, ma già chiede altro.

«Chiedo di estendere le riaperture dei locali anche al chiuso e l'eliminazione del coprifuoco alle 22».

Per quando?

«Entro la metà di maggio. Bisogna ritornare alla normalità, con buona pace di alcuni sciagurati del Pd, come l'ex ministro Boccia (che querelerò visto che dice che io nego il Covid)».

Perché continua ad attaccare il ministro Speranza nonostante la difesa di Draghi?

«È una contestazione politica. Da chi riveste il suo incarico mi aspetto scelte scientifiche, tecniche, oggettive. Non valutazioni politiche».

Perché non condivide la mozione di sfiducia presentata da Giorgia Meloni?

«Io sto dentro il governo e cerco di incidere, altri preferiscono stare fuori a protestare e manifestare».

Quindi non la voterà?

«Le mozioni di sfiducia rafforzano chi le subisce. Invito le altre forze di centrodestra a chiedere, d'intesa con Renzi, la commissione d'inchiesta sulla pandemia che ci aiuterà a far luce sulle responsabilità, comprese quelle di Speranza. Su questa i numeri ci sono».

Lorenzo Briotti per "blitzquotidiano.it" il 17 aprile 2021. Open Arms, rinviato a giudizio Matteo Salvini. Il gup di Palermo Lorenzo Jannelli ha rinviato a giudizio il leader della Lega. Il senatore del Carroccio risponde di sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio. L’allora ministro dell’Interno aveva impedito, secondo la Procura illegittimamente, alla nave della ong catalana Open Arms con 147 migranti soccorsi in mare, di attraccare a Lampedusa. Per giorni i profughi rimasero davanti alle coste dell’isola. Il processo comincerà il 15 settembre davanti ai giudici della seconda sezione penale del tribunale di Palermo. La Procura di Palermo aveva chiesto il rinvio a giudizio del senatore. In aula per l’ufficio inquirente c’erano il Procuratore Francesco Lo Voi, l’aggiunto Marzia Sabella e il pm Gery Ferrara. Il caso Open Arms venne sbloccato dall’intervento della Procura di Agrigento che, dopo avere accertato con un ispezione a bordo le gravi condizioni di disagio fisico e psichico dei profughi trattenuti sull’imbarcazione, ne ordinò lo sbarco a Lampedusa. La difesa di Salvini nel corso dell’arringa ha sostenuto che la decisione del senatore, dettata dall’esigenza di tutelare i confini nazionali e che comunque fosse stata presa dall’intero Governo. Inoltre, secondo l’avvocato Giulia Bongiorno, difensore del leader della Lega, alla Open Arms era stata offerta la possibilità di attraccare sia a Malta che in Spagna: la ong avrebbe rifiutato entrambe le opzioni dirigendosi verso Lampedusa. All’udienza preliminare si sono costituite 21 parti civili: oltre a 7 migranti di cui uno minorenne, Asgi (Associazione studi giuridici immigrazione), Arci, Ciss, Legambiente, Giuristi Democratici, Cittadinanza Attiva, Open Arms, Mediterranea, AccoglieRete, Oscar Camps, comandante della nave e Ana Isabel Montes Mier, capo missione Open Arms. L’udienza preliminare non deve valutare se sussiste o meno la responsabilità penale dell’imputato, ma se ci sono elementi sufficienti a sostenere l’accusa in giudizio e non ci sono elementi per decidere un proscioglimento. E secondo il gip gli elementi per un proscioglimento non c’erano. E’ in sintesi la motivazione con cui il gip di Palermo Lorenzo Jannelli ha disposto il rinvio a giudizio per sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio del leader della Lega Matteo Salvini. “‘La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino’. Articolo 52 della Costituzione. Vado a processo per questo, per aver difeso il mio Paese? Ci vado a testa alta, anche a nome vostro. Prima l’Italia. Sempre”. E’ questo il primo commento del leader della Lega Matteo Salvini, in un messaggio sui propri profili social. “#Salvini rinviato a giudizio con l’accusa di sequestro di persona e rifiuto atti d’ufficio. Felici per tutte le persone che abbiamo tratto in salvo durante la #Missione65 e in tutti questi anni. La verità del #Med è una, siamo in mare per raccontarla”. Così commenta invece l’ong Open Arms su Twitter dopo la decisione del Gup di Palermo. “Siamo soddisfatti, il processo a Matteo Salvini segna un passaggio importante per il nostro Paese. La difesa dei diritti umani, dei più sofferenti, dei più deboli non può essere violata per ragioni politiche, di braccio di ferro con l’Europa o per propaganda”. A commentare in questo modo sono gli avvocati di parte civile, in rappresentanza di Legambiente, Daniela Ciancimino e Corrado Giuliano.

Il processo al via il 15 settembre. Salvini rinviato a giudizio per il caso Open Arms: “Vado a processo a testa alta”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 17 Aprile 2021. Il segretario della Lega e senatore Matteo Salvini è stato rinviato a giudizio per sequestro di persona e rifiuto d’atti d’ufficio per la vicenda Open Arms, la nave lasciata per sei giorni in mare con a bordo 147 migranti. Era l’agosto del 2019 e Salvini era vice Primo ministro e ministro dell’Interno del governo Conte 1. L’udienza si è tenuta nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo. Il processo comincerà il 15 settembre davanti ai giudici della seconda sezione del tribunale di Palermo. Il gup Lorenzo Jannelli, al termine dell’udienza preliminare, ha deciso il rinvio a giudizio dell’ex ministro dell’Interno come richiesto dal procuratore Francesco Lo Voi, dall’aggiunto Marzia Sabella e dal sostituto Geri Ferrara. Per il gup non ci sarebbero stati “elementi per il non luogo a procedere di Matteo Salvini”. Il Procuratore capo di Palermo Francesco Lo Voi, nel corso della discussione nell’udienza preliminare, aveva detto come non ci fosse “alcuna condivisione, la decisione era esclusivamente del ministro dell’Interno, il quale come dicono i testi, la prendeva e ne portava a conoscenza, come dice Luigi Di Maio, generalmente con un tweet o altre forme di pubblicazione solo successivamente gli altri componenti del governo”. Immediata la replica al rinvio a giudizio di Salvini, attraverso i profili social: “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino’. Articolo 52 della Costituzione. Vado a processo per questo, per aver difeso il mio Paese? Ci vado a testa alta, anche a nome vostro. Prima l’Italia. Sempre”. Il commento dell’onorevole dopo la lettura del dispositivo del gup: “Sono ancora contento di aver dissequestrato dal Covid milioni di italiani che potranno tornare a fare sport, andare al ristorante al cinema. Passare per un sequestratore proprio no. Mi dispiace soprattutto per i miei figli a cui dovrò dire che il loro papà non finisce domani in galera”. Il riferimento alla lotta all’interno della maggioranza della Lega, per le riaperture, che il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha annunciato ieri: a partire dal 26 aprile, graduali, privilegiando le attività all’aperto. Commento fulmineo o quasi anche di Oscar Camps che all’AdnKronos ha osservato: “Il rinvio a giudizio di Matteo Salvini per sequestro di persona è un piccolo passo avanti. Speriamo che ora cambi anche la politica sui diritti umani”. Un tweet anche dall’account social dell’Ong Open Arms: “Felici per tutte le persone che abbiamo tratto in salvo durante la Missione 65 e in tutti questi anni. La verità del Med è una, siamo in mare per raccontarla”. Il sindaco di Lampedusa Salvatore Martello ricorda che “c’è sempre una presunzione di innocenza e va rispettata, il rinvio a giudizio è la constatazione che anche i giudici di primo grado ritengono che abbia sbagliato, è una ulteriore conferma di quello che è avvenuto nell’anno in cui Salvini era a capo del Viminale”. LA VICENDA – Il caso Open Arms è cominciato quando la Ong spagnola, il primo di agosto del 2019, salvò in due operazioni distinte 124 persone. Alla richiesta di un Pos, porto di sbarco in Italia, venne applicato il decreto sicurezza bis – emanato dall’allora ministro Salvini e co-firmato dai ministri dei trasporti e della difesa Danilo Toninelli e Elisabetta Trenta, entrambi del Movimento 5 Stelle – e quindi il divieto di entrare nelle acque italiane. Il 10 agosto l’imbarcazione effettuò un nuovo salvataggio, 39 persone. Nel frattempo continuavano i trasferimenti per le condizioni di salute di alcuni migranti e i legali dell’Ong facevano ricorso al Tar del Lazio contro il decreto sicurezza bis. Per il Tribunale dei minori di Palermo ipotizzò si stesse invece configurando un reato di respingimento alla frontiera e di espulsione di minori, 32 a bordo. Il decreto sicurezza venne sospeso dopo l’accoglimento del ricorso dell’Ong da parte del Tar del Lazio. Alla Open Arms non fu però indicato un porto di sbarco. Tensione intanto a bordo della nave; mentre alcuni migranti si buttavano in acqua per protestare, altri venivano trasferiti per via delle loro critiche condizioni di salute. Venne quindi depositato un esposto alla Procura di Agrigento per omissione di atti d’ufficio e altri reati. Il Procuratore Luigi Patronaggio allora salì a bordo, ordinò lo sbarco e il sequestro preventivo, ipotizzando il reato di abuso di ufficio. Quando la nave attraccò a Lampedusa a bordo c’erano 83 persone. A novembre partì l’indagine per sequestro di persona e omissione d’atti d’ufficio. Il Senato approvò l’autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini il 30 luglio 2020.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Cesare Zapperi per il "Corriere della Sera" il 19 aprile 2021. «È stata la mia prima domenica da imputato per sequestro di persona. Ma io ritengo di aver fatto il mio lavoro, quello per cui mi pagavano gli italiani». Il rinvio a giudizio se lo aspettava (anche se quando ne ha avuto certezza ci è rimasto male) e per questo il giorno dopo nell' intervista al Tg5 a Matteo Salvini riesce facile ostentare tranquillità pur in una condizione personale scomoda. Perché c' è una ragione precisa. Ed è che il segretario della Lega intende trasformare un problema in un' opportunità. Dal 15 settembre, quando davanti alla Corte d' assise di Palermo andrà in scena il processo a suo carico per sequestro di persona, per aver impedito lo sbarco di 147 immigrati dalla nave della Open Arms nell' agosto del 2019, tutti i riflettori saranno per lui e lui li «userà» per lanciare la sua controffensiva. Da tifoso di calcio, l'ex ministro applicherà una delle regole più note, quella che vuole che la migliore difesa sia l' attacco. Si muoverà su tre fronti. Anzitutto, chiamando a testimoniare tutti i componenti del governo di cui faceva parte, il Conte I, che hanno preso parte alle scelte sulla politica anti-sbarchi. A partire da Giuseppe Conte e Danilo Toninelli. Salvini ripete in tutte le salse che a suo avviso non sono stati commessi reati. «Ma se ne vengono ravvisati - ha detto al Corriere - allora ne deve rispondere tutto il governo». Il suo obiettivo è far finire Conte e Toninelli sul banco degli imputati. In secondo luogo, rimanendo sul tema specifico del processo che si celebrerà a Palermo, l' ex ministro, attraverso la sua agguerrita legale, Giulia Bongiorno, cercherà di fare leva sul diario di bordo della Open Arms, fatto tradurre appositamente, per dimostrare che il comandante della nave in più occasioni fece di tutto per sbarcare per forza in un porto italiano, nonostante avesse altre opportunità. Per la difesa, quel diario è una sorta di «pistola fumante» che fornisce indicazioni incontrovertibili sulle responsabilità di chi non ha favorito il salvataggio dei migranti in tempi celeri, senza attese per giorni in mare aperto. E poi c' è la carta più spettacolare: Luca Palamara. Sì, l' ormai ex magistrato, già componente del Csm, al centro di una clamorosa inchiesta che ha messo scompiglio nel mondo delle toghe, che in una chat intercettata ebbe modo di dire, a proposito delle indagini sull' allora ministro dell' Interno e la sua politica anti-sbarchi, che «Salvini ha ragione ma va fermato». Il leader della Lega vuole che venga chiamato a testimoniare, che si presenti in aula a Palermo per spiegare i contenuti di quello che è già stato ribattezzato «il teorema Palamara» posto a presidio delle scelte delle correnti più politicizzate della magistratura italiana. Ma è da vedere se i giudici del processo Open Arms riterranno congruente una testimonianza di Palamara rispetto all' oggetto della contestazione. Certo è che Salvini nei prossimi mesi, superata l' emergenza pandemia, intende cavalcare il tema giustizia. Lo ha detto anche nell' intervista al Tg5 : «Dove metto la riforma della giustizia? In alto e non per problemi personali perché io non ho fatto nulla, ma per 5 milioni di italiani che aspettano giustizia, soprattutto quella amministrativa e tributaria: aspettare anni per una sentenza è indegno». Il segretario della Lega è consapevole che su questo tema gli è facile trovare convergenza con tutte le anime del centrodestra. Le diverse scelte sulla partecipazione al governo hanno generato tensioni nello schieramento. Ma a settembre si giocherà la partita delle Amministrative. Cavalcare la battaglia sulla giustizia, in solidarietà a Salvini imputato, renderà più facile marciare compatti.

Salvini "sequestratore". Il silenzio di Pd e M5s. Vittorio Macioce il 19 Aprile 2021 su Il Giornale. Neppure i suoi avversari ci credono davvero. Matteo Salvini è accusato di sequestro di persona e tra le sue vittime c'è anche un minorenne. Neppure i suoi avversari ci credono davvero. Matteo Salvini è accusato di sequestro di persona e tra le sue vittime c'è anche un minorenne. Verrà processato e rischia fino a 15 anni di carcere. Il resto non conta. Non importa che tutto questo nasca dalla scelta di un ministro di non far entrare in porto una nave spagnola, la Open Arms, con a bordo 147 clandestini. Non ha alcun peso il comportamento degli altri ministri. Nessuno in quel governo fermò Salvini. Non fu sconfessato con un atto formale. Non fu ripudiato. Non fu cacciato. In quel momento furono tutti ignavi o complici. Tutto questo però ormai è superfluo. La realtà è che un confine è saltato: le scelte politiche possono essere processate. Ora ognuno dovrà farci i conti. Non saranno più gli elettori a giudicare i governi. Toccherà ai tribunali. Cosa rispondono gli avversari politici di Salvini, quelli che comunque ora sono con lui nella stessa maggioranza? Nicchiano, prendono tempo, qualcuno sta zitto, altri se la cavano anticipando la sentenza: tanto non verrà mai condannato. Enrico Letta indossa la felpa griffata Open Arms e poi si scusa. Qualcuno invece si preoccupa di non lasciarsi più invischiare in questa storia. È il caso di Danilo Toninelli. L'allora ministro dei Trasporti avrebbe dovuto avere l'ultima parola sui porti, ma si sfila di lato e lascia la parola ai suoi avvocati: «La difesa di Salvini è un malaccorto scaricabarile». Segue annuncio di querela. Toninelli, Conte e i Cinque Stelle temono soprattutto il contagio. A nessuno venga in mente di associare il loro nome a quello del «presunto sequestratore». Il problema però resta. Viene in mente Canzone del maggio di De André: «Anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti». No, non in tribunale. Questa volta è andata così. La giustizia non ha visto il primo governo Conte. Non ci ha fatto caso. È che il processo Salvini segna un punto di non ritorno. I confini della politica diventano angusti. Ogni azione di governo passa per la discrezionalità dei giudici. Ci sarà uno di qua che può dire sì e uno di là che ti chiama a giudizio. Non c'è una certezza della norma, ma tutto dipende dall'interpretazione. Il risultato è che i governi meno coraggiosi sceglieranno di stare fermi. È da lì che forse viene la strategia del «morto a galla» di Conte durante la pandemia. Se non fai nulla non rischi nulla. Questi rischi sono stati denunciati da Forza Italia, da Renzi e anche dalla Meloni, l'unica che comunque per ora sta all'opposizione, ma cosa ne pensa per esempio il Pd? La sensazione è che nel partito di Letta si preferisca non parlarne troppo. Non è che non sono coscienti di quello che sta accadendo. C'è perfino un po' di imbarazzo, ma ritengono che questo a loro non potrebbe mai accadere. Non hanno neppure tutti i torti. La giustizia spesso è strabica. Il guaio semmai è come porsi adesso di fronte al «presunto sequestratore». Ne hanno parlato con Draghi? No, non sembra. Il rinvio a giudizio di Salvini non sta mettendo a rischio il governo. Non si è alzato ancora nessuno a gridare: non possiamo stare in maggioranza con il bandito. È il segno che nel Pd il sospetto che l'ipotesi di reato non regga in qualche modo resiste. Li soccorre un residuo di garantismo, una libbra di presunzione di innocenza. Meglio prendere tempo. Se ne parlerà a settembre, quando comincia il processo. L'indignazione tornerà con il semestre bianco, quando Draghi perderà lo scudo che finora lo ha protetto dalle risse di partito. Fino ad allora governare con la Lega non sarà peccato.

"Metodo Berlusconi contro il leghista. Una legge per limitare il potere dei pm". Anna Maria Greco il 19 Aprile 2021 su Il Giornale. L'allarme dell'azzurro ed ex membro Csm: "Quando un leader alza la testa sulla giustizia arrivano le inchieste. Ostruzionismo da Pd e 5s". L'avvocato Pierantonio Zanettin è stato membro laico del Consiglio superiore della magistratura e oggi è capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia della Camera.

Lega e Fi sono al governo: realizzeranno la riforma che invocano da anni?

«Faremo di tutto, ma non è scontato perché abbiamo come compagni di viaggio il Partito democratico e il Movimento 5 Stelle. Se c'è un punto su cui questa maggioranza variopinta e composita è divisa, è quello della giustizia».

Come interpreta i primi segnali del governo e del ministro della Giustizia Marta Cartabia?

«Molto positivamente, rispetto all'oscurantismo di Bonafede. Abbiamo fiducia nel Guardasigilli che, con l'autorevolezza di ex presidente della Corte costituzionale, può condurre una mediazione di alto livello».

Il ministro ha annunciato una consultazione con Associazione nazionale magistrati, Camere penali, Consiglio nazionale forense. Il metodo dell'ascolto è giusto?

«Certo e quelle dell'avvocatura coincidono con le nostre posizioni, ma veniamo da 3 anni di controriforma, un incubo con un passo indietro sulla tutela delle garanzie, ed è urgente intervenire. La Cartabia ci ha dato grandi speranze, ma per fare le sue proposte attende le conclusioni delle commissioni ministeriali su processo penale e civile, ordinamento giudiziario e riforma del Csm».

Il quadro parlamentare, invece, com'è?

«Preoccupante, se su una questione che appare scontata come la commissione d'inchiesta sul caso Palamara e l'uso politico della giustizia, c'è l'ostruzionismo di Pd e M5S».

Lo scandalo Palamara che cosa ha rivelato?

«Per noi del centrodestra è stata la scoperta dell'acqua calda. Da vent'anni denunciamo le commistioni tra politica e magistratura, ora almeno chi insisteva a negarle deve arrendersi all'evidenza. Ma è sorprendente che, due anni dopo, la politica sia ancora inerte, fa lo struzzo per debolezza e per resistenze di alcuni partiti».

Per Salvini è stato usato il «metodo Berlusconi»?

«In Italia quando un leader, soprattutto di centrodestra, alza la testa sul tema giustizia arrivano le inchieste per indebolirlo o addirittura levarlo di mezzo, come con Berlusconi. La magistratura non può condizionare le scelte politiche di un Paese, ma da noi è un fenomeno ricorrente. Il caso di Salvini ci insegna due cose: il Parlamento non doveva autorizzare un processo su scelte politiche e la discrezionalità dei pm porta a decisioni opposte su fatti sostanzialmente uguali, come avvenuto a Catania e a Palermo».

Quali priorità allora per la riforma?

«Per limitare lo strapotere dei pm serve una semplificazione con reati chiari, non evanescenti come ad esempio abuso d'ufficio, traffico d'influenze, voto di scambio politico-mafioso nell'ultima versione Bonafede, che lasciano ai magistrati largo spazio discrezionale. Urgentissima è la riforma del Csm, perché l'attuale scade a settembre 2022 e si rischia di eleggere il prossimo con le vecchie regole. Ripristinare la prescrizione, che oggi calpesta il principio della ragionevole durata del processo. Limiti all'uso delle intercettazioni, dei trojan, allargato invece con lo spazzacorrotti».

Niente separazione delle carriere?

«Con questa maggioranza è difficile, ci penserà il centrodestra quando governerà da solo. Ma sul resto, si possono trovare accordi».

Il veleno di Lerner su Salvini dopo il rinvio a giudizio. Gabriele Laganà il 19 Aprile 2021 su Il Giornale. A Gad Lerner non è piaciuto il pensiero sul "sacro dovere di difendere i confini della Patria" espresso da Salvini dopo la notizia del rinvio a giudizio per il caso Open Arms. Avversari, se non nemici, lo sono praticamente da sempre, Gad Lerner e Matteo Salvini. In passato il noto giornalista non ha risparmiato attacchi, anche molto duri, all’indirizzo del leader della Lega. E ancora oggi la firma del Fatto Quotidiano non lesina critiche all’ex ministro dell’Interno che sia per un motivo o per un altro. E così nella giornata di sabato, poco dopo la notizia del rinvio a giudizio del senatore per la vicenda della nave della ong Open Arms, Lerner ha sfruttato l’occasione per lanciare un nuovo affondo contro il suo acerrimo rivale. "Sul caso Open Arms sarà la magistratura a giudicare le eventuali responsabilità penali di Matteo Salvini", ha scritto il giornalista in un post pubblicato sul suo profilo Twitter. Fin qui nulla di nuovo. Questa volta, a sorpresa, nel mirino di Lerner pare che non ci sia tanto la questione giudiziaria quanto un’affermazione fatta dall’ex ministro. "La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino. Articolo 52 della Costituzione. Vado a processo per questo, per aver difeso il mio Paese? Ci vado a testa alta, anche a nome vostro. Prima l’Italia. Sempre", aveva affermato Salvini. Parole che non sono piaciute a Lerner che nel suo "cinguettio" ha scritto: "Ma nel frattempo lui eviti di vantarsi chiamando in causa il "sacro dovere" di difendere i confini della Patria. Almeno per rispetto di chi l'ha fatto davvero". Un pensiero accompagnato da una foto dei militari impegnati sul fronte bellico. Qualcuno, però, potrebbe obiettare che esistono tanti modi per servire e difendere la Patria. Del resto il leader della Lega, all'epoca dei fatti contestati, era ministro dell'Interno e si stava battendo per frenare l’immigrazione clandestina. Non va dimenticato che solo pochi giorni prima della decisione presa dal gup di Palermo Lorenzo Jannelli, il pg ha richiesto al tribunale di Catania il "non luogo a procedere" contro Salvini sul caso Gregoretti. Il leader della Lega comparirà il prossimo 15 settembre davanti ai giudici della seconda sezione penale del tribunale di Palermo per rispondere delle accuse di sequestro di persona e rifiuto di atti d'ufficio per avere impedito, secondo la Procura illegittimamente, alla nave Open Arms, con 147 immigrati a bordo, di attraccare nel porto di Lampedusa. Ma ci andrà consapevole di non essere solo. Nelle scorse ore tantissimi utenti hanno espresso solidarietà al "Capitano" portando #iostoconsalvini primo in tendenza su Twitter. O, ancora, su Facebook non poche persone hanno inserito lo stesso hashtag nella foto del proprio profilo. Un piccolo segnale del sostegno degli italiani al leader della Lega. Non solo cittadini ma anche diversi colleghi del centrodestra hanno voluto mostrare vicinanza al leader della Lega. Tutti hanno spiegato che le scelte politiche si contrastano in Parlamento e non nelle aule dei tribunali. Forza Italia sostiene che stanno applicando a Salvini il "metodo Berlusconi". "Scioccante", è stato il commento della leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni. Maurizio Lupi ha definito quanto accaduto "un precedente gravissimo". "È evidente che la sinistra vuole vincere in tribunale le elezioni che perde nelle urne", ha affermato ieri Salvini in una intervista al Corriere della Sera. "In nessun Paese al mondo si mandano a processo gli avversari politici", ha rimarcato ancora il leader della Lega. Un pensiero nelle prossime ore Salvini lo riserverà anche a Lerner?

Se ora Salvini rinnega di aver chiuso i porti. Giulio Cavalli, Scrittore e giornalista il 19/04/2021 su Notizie.it. Dice Salvini che lasciare i migranti alla deriva in mezzo al mare era un obbligo morale di un patriota vero, solo che specifica di non essere stato lui. È la sua natura, non riesce a scapparne e ogni volta si aggrappa ai suoi slogan. Solo che gli slogan, per fortuna, marciscono in fretta e così regolarmente accade che i fatti si rivelino inadeguati e fotografino perfettamente lo spessore del personaggio. Sia chiaro: che Salvini pensi di volersi rivendere come “difensore dei confini italiani” è legittimo ma che poi nei fatti sia molto distante dal sergente di ferro che vuole apparire è negli atti che lui stesso ha sottoscritto. Accade nel processo Open Arms ma se ci pensate bene è accaduto con le sue posizioni sull’Europa, con la sua finta difesa per i commercianti (che infatti lo accusano tutti di “tradimento” dopo essere stati istigati per mesi) e in decine di altre situazioni. Matteo Salvini è stato rinviato a giudizio dal gap di Palermo Lorenzo Jannelli per sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio perché secondo la Procura avrebbe illegittimamente impedito l’attracco a Lampedusa della nave dell’ong catalana Open Arms con 147 migranti soccorsi in mare nell’agosto 2019 quando era ministro dell’Interno del primo governo Conte. Il tribunale dei ministri aveva chiesto l’’autorizzazione a procedere nel febbraio del 2020 e il 30 luglio era arrivato il via dal Senato. La vicenda ricorda molto da vicino il processo sulla nave Gregoretti, in corso a Catania, ma evidentemente la linea difensiva del leader della Lega è cambiata. In superficie ovviamente la reazione di Salvini è sempre la stessa: “È una decisione dal sapore politico più che giudiziario” dice Salvini che si lancia perfino a citare l’articolo 52 della Costituzione per rivendere la difesa della Patria come sacro dovere del cittadino poi ci sono ovviamente i soliti slogan dei “porti chiusi” e la solita letteratura. Nelle carte invece Salvini è molto diverso dalla proiezione che vorrebbe dare di sé e nelle 110 pagine di memoria difensiva pilatescamente esclude «in radice la possibilità di attribuire al Ministro dell’Interno la responsabilità per non avere autorizzato lo sbarco dei migranti»: in pratica non è stato lui, dice. Capito? Il gesto di cui Salvini va orgoglioso e che si appunta come una medaglia al petto non è farina del suo sacco. Quindi, cari elettori che vedete in Salvini il difensore della patria potete prendere nota: dice Salvini che «l’autorità responsabile dell’esecuzione della convenzione Sar nel Ministro dei Trasporti e della navigazione e indica il Comando generale del Corpo delle Capitanerie di porto quale organismo nazionale che assicura il coordinamento generale dei servizi di soccorso marittimo». Insomma, vi siete affezionati all’uomo sbagliato. Alla fine forse il vero patriota era Toninelli, ci credete? E per quanto riguarda l’accusa di sequestro di persona la difesa di Salvini riconosce che la privazione della libertà «costituisca un comportamento» che si può considerare «oggettivamente illegittimo» ma si dice costretto a farlo per «realizzare l’esercizio del potere» di cui Salvini era investito. Salvini scappa e riversa le sue responsabilità (di cui si fregia in pubblico) sui suoi ex compagni di governo e su altre autorità. Coraggioso, davvero. In compenso dice Salvini che i medici che sono saliti a bordo della nave avrebbero esagerato l’emergenza sanitaria. Ci si aspetterebbe quindi che Salvini abbia denunciato, fatto qualcosa contro quei medici ritenuti in mala fede. E invece niente, niente di niente. Per sintetizzare: dice Salvini che lasciare i migranti alla deriva in mezzo al mare era un obbligo morale di un patriota vero, solo che specifica di non essere stato lui. Buono a sapersi

La strategia di Salvini: a processo come testimoni Conte, Toninelli e Palamara. Francesca Galici il 19 Aprile 2021 su Il Giornale. Matteo Salvini è pronto alla controffensiva: a settembre in tribunale ci saranno come testimoni anche Conte, Toninelli, Di Maio e forse Palamara. Matteo Salvini rinviato a giudizio nel processo Open Arms. A settembre il leader della Lega dovrà presentarsi davanti ai giudici con l'accusa di sequestro di persona perché avrebbe impedito lo sbarco di 147 persone nell'agosto 2019, quando era in carica come ministro dell'Interno. Ma Matteo Salvini non era un uomo solo al comando in quei mesi, era parte di un governo che ora verrà chiamato a testimoniare. Giulia Bongiorno l'ha annunciato subito aver saputo del rinvio a giudizio: gli altri ministri verranno chiamati a testimoniare. Tra i nomi fatti dall'avvocato ci sono quelli di Luigi Di Maio e Giuseppe Conte. Ma non solo. Infatti, l'azione di Matteo Salvini va contestualizzata all'interno di una linea politica assunta dal governo Conte I e non come azione di un singolo. Infatti, già nel processo di Catania il giudice parlò di "lavoro collegiale" dopo aver ascoltato Giuseppe Conte.

La strategia di Matteo Salvini. Saranno mesi caotici per il leader della Lega, che nelle prossime settimane dovrà organizzare il processo del 15 settembre davanti alla Corte d'assise. Matteo Salvini chiamerà sicuramente a testimoniare Giuseppe Conte e Danilo Toninelli in qualità di presidente del Consiglio in carica in quel momento e di ministro dei Trasporti. Conte e Toninelli, infatti, firmarono l'ordinanza contro gli sbarchi. "Se reati sono stati ravvisati allora ne deve rispondere tutto il governo", tuona il leader della Lega dalle colonne del Corriere della sera. Inoltre, Matteo Salvini vuole portare davanti al giudice il diario di bordo di Open Arms per dimostrare in questo modo che, nonostante avesse altre possibilità di sbarco, il comandante fece di tutto per arrivare in un porto italiano. Nella strategia difensiva di Matteo Salvini si vuole così dimostrare che il comandante di Open Arms preferì lasciare in mare le 147 persone per un braccio di ferro con l'Italia piuttosto che far rotta verso un altro porto per lo sbarco.

La testimonianza di Luca Palamara. Tra i testimoni che potrebbero essere chiamati da Matteo Salvini ci potrebbe essere anche Luca Palamara. Il magistrato potrebbe essere l'uomo chiave della strategia di Matteo Salvini. In una delle intercettazioni che sono state rese note, il magistrato in merito proprio all'azione del leader della Lega, disse: "Salvini ha ragione ma va fermato". L'obiettivo di Salvini è far spiegare al magistrato quello che viene definito come "teorema Palamara". Sarà difficile, però, che i giudici accettino la richiesta del leader della Lega.

Perché Conte e Di Maio non possono dormire sonni tranquilli. Mauro Indelicato il 18 Aprile 2021 su Il Giornale. L'avvocato Giulia Bongiorno ha già preannunciato, subito dopo la notizia del rinvio a giudizio di Salvini sul caso Open Arms, che in fase processuale verranno chiamati a testimoniare tra gli altri anche l'ex premier e l'attuale ministro degli Esteri. Il rinvio al processo per Matteo Salvini sul caso Open Arms, secondo l'avvocato Giulia Bongiorno altro non ha rappresentato che un semplice passaggio a un nuovo grado di giudizio, in cui si cercherà di far trapelare la verità portata avanti dalla difesa dell'ex ministro in questi mesi. Il vero perno su cui ruoterà, in fase processuale, lo scontro tra accusa e difesa sarà rappresentato dal valore da assegnare all'atto contestato al segretario del carroccio. In particolare, la scelta di vietare l'ingresso della nave dell'Ong spagnola per la procura è un atto amministrativo. Da qui quindi l'impostazione dell'accusa sostenuta dai magistrati palermitani, secondo cui Salvini avrebbe attuato un abuso di ufficio e un sequestro di persona. Di parere completamente diverso è invece il legale dell'ex ministro, secondo cui quella scelta è da catalogare a un mero ambito politico. Per dimostrarlo, Giulia Bongiorno ha già fatto sapere di voler chiamare al banco dei testimoni personaggi di alto profilo del governo Conte I, l'esecutivo all'interno del quale Salvini ha operato in qualità di vice premier e ministro dell'Interno. “Chiameremo a testimoniare anche l'ex presidente Conte – ha dichiarato Giulia Bongiorno dopo la notizia del rinvio a giudizio nei confronti di Salvini – l'ex ministro Toninelli e il ministro Di Maio. È inutile negare che c'è una valutazione politica: è come mandare a giudizio una linea politica perché le scelte di Salvini sono le scelte di un governo in materia di flussi migratori”. Un passaggio, quello dell'avvocato difensore del segretario leghista, in cui sono stati messi in risalto due elementi: da un lato l'atto firmato dall'allora ministro dell'Interno nei confronti di Open Arms è da contemplare all'interno di una linea politica attuata in quel contesto storico e, dall'altro lato, la scelta è stata dettata da una comune linea governativa. Per questo quindi Giulia Bongiorno ha intenzione di chiamare a testimoniare esponenti chiave di quell'esecutivo. Toninelli, in qualità di ministro dei Trasporti, ha avuto un ruolo importante, secondo la difesa di Salvini, nel concordare quegli atti. Stesso discorso vale per l'attuale ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, che nel primo governo Conte era ministro dello Sviluppo Economico ma anche vice presidente del consiglio. Ovviamente non può sfuggire in questa ottica il ruolo dello stesso ex capo dell'esecutivo, Giuseppe Conte. L'obiettivo dell'avvocato Bongiorno è mostrare un lavoro collegiale all'interno del governo sul fronte dell'immigrazione. Come del resto già dimostrato nell'ambito dell'altro caso processuale che ha riguardato in Sicilia Matteo Salvini, ossia il procedimento Gregoretti. Una vicenda discussa a Catania, per la quale la locale procura ha chiesto il non luogo a procedere per il segretario della Lega. In fase preliminare, il Gup di Catania Nunzio Sarpietro ha ascoltato in diverse udienze proprio i principali esponenti del governo Conte I. “Dalle deposizioni – ha dichiarato lo stesso giudice etneo dopo aver ascoltato Giuseppe Conte a gennaio – è emerso un lavoro collegiale”. Con una testimonianza da parte di vecchi e attuali ministri, la difesa di Salvini mira a dimostrare come le scelte di Salvini siano state politiche e condivise con gli altri esponenti dell'esecutivo. Il processo Open Arms dunque, potrebbe vedere l'ingresso sulla scena di personaggi di spicco della passata compagine gialloverde. All'interno dell'aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo dunque potrebbero mettere piede, tra gli altri, sia l'ex presidente del consiglio che l'attuale titolare della Farnesina.

Dallo schiaffo di Trenta e Toninelli allo scontro Salvini-Conte: le tappe che hanno portato al processo Open Arms. Mauro Indelicato il 17 Aprile 2021 su Il Giornale. Quanto accaduto nelle ultime ore altro non è che un riflesso del braccio di ferro politico sorto nell'agosto del 2019 e che ha portato, tra le altre cose, alla caduta della maggioranza gialloverde. Era l'agosto del 2019, nel Mediterraneo le acque erano calme ma questo ha reso molto agitati gli scenari sotto il fronte politico. Diversi barconi sono potuti partire dalla Libia e il braccio di ferro tra Ong e Matteo Salvini, a capo del Viminale all'interno dell'esecutivo Conte I, è potuto andare avanti per tutta l'estate. L'Ong spagnola Open Arms ai primi di agosto aveva iniziato a premere a largo delle acque italiane con a bordo diversi migranti. La politica aveva già tremato vistosamente nelle settimane precedenti: a inizio luglio ha imperversato il caso Carola Rackete, con la ragazza tedesca a capo della Sea Watch 3 che ha speronato a Lampedusa una motovedetta della Guardia di Finanza. A fine luglio invece è stata la volta del caso Gregoretti, la nave della Guardia Costiera a cui Salvini ha negato lo sbarco ad Augusta dopo il soccorso di alcuni migranti. In mezzo, c'è stata anche la questione dell'approvazione dei decreti sicurezza. Poco prima della chiusura estiva del parlamento, in Senato è stata convertita in legge la norma voluta da Matteo Salvini che prevedeva, tra le altre cose, multe elevate per le Ong. In quell'occasione si è avuto il canto del cigno della maggioranza gialloverde, quella cioè formata da Lega e M5S e che ha messo per la prima volta a Palazzo Chigi Giuseppe Conte. Le elezioni europee con il trionfo del carroccio pochi mesi prima avevano creato i presupposti per la fine prematura dell'alleanza nata dopo il voto del marzo del 2018. Poi è arrivato per l'appunto il caso Open Arms. La nave spagnola più volte ha chiesto di entrare in Italia, nonostante fosse battente bandiera spagnola e Madrid in due occasioni avesse dato disponibilità all'accoglienza. Più volte, dal Viminale, è giunto un secco no. La vicenda, il cui procedimento oggi è arrivato alla chiusura della fase preliminare con il rinvio a giudizio di Matteo Salvini, ha contribuito a dare il colpo di grazia a quella maggioranza. Lo si è visto ad esempio nel ferragosto 2019, quando i ministri Elisabetta Trenta e Danilo Toninelli, entrambi quota M5S e posti rispettivamente alla Difesa e ai Trasporti, non hanno firmato assieme a Salvini il divieto di ingresso alla Open Arms. Sempre il 15 agosto 2019 il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha scritto una lettera aperta al ministro dell'Interno, accusandolo di slealtà nella collaborazione. Lo scontro tra grillini e leghisti era oramai a tutto campo. Non a caso quelli sono stati i giorni della cosiddetta “crisi del Papeete”, contrassegnati cioè dall'annuncio della fine della collaborazione tra i due partiti dato da Salvini poche ore dopo un video girato nel noto locale della movida estiva. Una crisi che il caso Open Arms ha accentuato: “Siamo soli – scriveva il 16 agosto 2019 Salvini in una nota – siamo contro Europa, Ong e ministri impauriti”. Non è forse un caso che entrambe le questioni di quel bollente mese di agosto, Open Arms e crisi di governo, hanno trovato l'epilogo nella stessa giornata, il 20 agosto. Nel pomeriggio in Senato Giuseppe Conte ha annunciato le dimissioni. Poche ore dopo a largo di Lampedusa Luigi Patronaggio, procuratore di Agrigento, è salito a bordo della nave spagnola ordinandone il sequestro. I migranti sono potuti sbarcare e nella città siciliana è stato aperto contro Salvini un fascicolo. Carte poi finite per competenza a Palermo, dove la procura prima e il tribunale dei ministri poi si sono mossi a favore del rinvio a giudizio di Salvini. Le evoluzioni delle ultime ore, sono dunque figlie di quegli scontri politici dell'agosto del 2019. Anche perché per arrivare in tribunale, le carte hanno dovuto percorrere i meandri del parlamento. Il 30 luglio scorso il Senato ha dato via libera, grazie all'accordo nella maggioranza Pd - M5S a sostegno del Conte II, alla richiesta proveniente da Palermo di iniziare il procedimento contro Salvini. Tutto il resto è storia delle ultime ore.

Il fronte rosso gongola: "Finalmente Salvini alla sbarra". Federico Garau il 17 Aprile 2021 su Il Giornale. Dopo il rinvio a giudizio del leader del Carroccio arrivano le parole di giubilo dei suoi detrattori. Dopo il rinvio a giudizio di Matteo Salvini per il caso Open Arms arrivano le parole di giubilo del capo missione di Mediterranea Luca Casarini, che parla di una "buona giornata" visto l'esito processuale odierno.

La vicenda processuale. Il Gup di Palermo ha accolto le motivazioni della procura della Repubblica nel corso dell'ultima udienza preliminare: al termine della camera di consiglio, il giudice ha infatti deliberato il rinvio a giudizio per il leader del Carroccio, che resta quindi indagato per i reati di abuso di ufficio e sequestro di persona. Rigettate le tesi dell'avvocato di Salvini Giulia Bongiorno, la quale aveva sottolineato il fatto che la scelta del porto sicuro (Pos) da assegnare alla nave sarebbe dovuta spettare alla Spagna (Stato di bandiera della Open Arms) e non di certo all'Italia. Eppure era stato lo stesso comandante dell'imbarcazione a rigetare le varie soluzioni proposte: "Ha rifiutato di sbarcare migranti a Malta, ha rifiutato numerosi aiuti da altri natanti, ha rifiutato di essere scortato in qualsiasi porto spagnolo, ha rifiutato di essere accompagnato in porti spagnoli". Secondo la difesa, inoltre, la scelta del Pos non faceva capo al Viminale: "Il divieto di ingresso in acque territoriali fu firmato da Salvini, Trenta e Toninelli ma qui c'è solo Salvini", ha spiegato il legale durante l'udienza. Tesi in contrasto con quanto sostenuto dalla procura, che attribuisce proprio al segretario della Lega tale mancata assegnazione individuando per questo i reati contestati.

L'affondo di Casarini. Ma più che la vicenda processuale nel suo complesso, ad interessare Luca Casarini è il fatto che l'ex vicepremier finisca alla sbarra per la vicenda Open Arms. "Decisione importante. Finalmente ci sarà un processo contro chi ha usato immunità e privilegi in passato per tentare di coprire le proprie responsabilità, che sono gravissime", dichiara infatti all'AdnKronos il capo missione di Mediterranea, indagato dalla Procura di Ragusa per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. "Ed è importante anche che chi abusa del suo potere per fare del male ad altri esseri umani che come unica colpa hanno quella di essere poveri e senza potere", prosegue l'attivista, "finisca oggi sul banco degli imputati". "Di solito", aggiunge ancora Casarini facendo del vittimismo e ricollegando il discorso al fatto di essere accusato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, "ci finisce chi salva vite umane in mare, chi non accetta l'orrore dei campi lager libici finanziati dai nostri governi. Oggi per fortuna non è andata cosi. È una buona giornata per chi lotta per la democrazia e i diritti umani".

Gongola il presidente di Open Arms. "E' un momento importantissimo, che si chiami Matteo Salvini o in un altro modo, poco importa. La cosa importante è che viene in qualche modo ripristinato qualcosa che mai dovrebbe essere violato, il rispetto delle persone", commenta all'AdnKronos il presidente della Ong Open Arms."Non si può utilizzare il potere, l'interesse politico, le azioni prepotenti per proprio beneficio facendo male a persone che come società dovremmo difendere, bisognose, naufraghi". L'esito dell'udienza odierna "ripristina il fatto che proprio chi dovrebbe essere responsabile primo di tutti del benessere delle persone e avere rispetto alto delle istituzioni che rappresenta", aggiunge Riccardo Gatti. "Il comportarsi come abbiamo visto che si è comportato Matteo Salvini non può essere qualcosa che può passare impunito. Fosse stato al contrario, veramente come società dovremmo avere molta molta paura del potere", conclude.

Le parole di Biancalani. "Il processo potrà servire a mettere in luce i risultati delle politiche dei respingimenti che sino ad ora sono state segnate dalla mancanza di umanità nei confronti di decine di migliaia di persone consegnate nelle mani di milizie senza scrupoli", commenta invece il parroco di Vicofaro."Non è più tollerabile che come Paese ci si possa permettere di trattare le persone come animali. Speriamo dunque che il processo possa servire anche a fare maturare le coscienze degli italiani. Per lo meno si abbia la forza e il coraggio di attuare un monitoraggio serio di ciò che accade in Libia e si garantiscano corridoi umani per trarre in salvo bambini e donne". Per il sacerdote dell'accoglienza indiscriminata"non è più tollerabile che siano lasciati in mano ad aguzzini. I problemi oramai sono tutti pandemici, tutti connessi".

Gioisce il fronte rosso. "Salvini non faccia la vittima di un complotto politico giudiziario perchè nessuno può essere al di sopra della legge, nemmeno chi ha avuto il beneficio di rateizzare un debito con lo stato di 49 milioni di euro in comode rate di 80 anni, e che ora dovrà spiegare in un'aula di un tribunale perchè ha sequestrato per settimane 160 migranti di cui 28 erano minori nonostante le ripetute richieste di consentire lo sbarco per motivi umanitari", affonda il coordinatore nazionale dei Verdi Angelo Bonelli."Salvini non ha difeso i confini del nostro Paese, come vorrebbe sostenere, ma non ha rispettato i diritti umani. Di questo si tratta, come stabilito dal Comitato Onu per i diritti umani, che il 29 gennaio ha condannato l'Italia per essere intervenuta in ritardo per soccorrere la nave Open Arms violando anche il diritto internazionale marittimo. Deve essere chiaro, a Salvini in primis, che il ruolo di ministro", aggiunge in conclusione Bonelli, "non può essere utilizzato per una campagna di propaganda elettorale permanente, ma quel ruolo lo si deve esercitate per governare un Paese nel rispetto delle leggi nazionali e internazionali. Nel processo Salvini ci spieghi quale pericolo potevano rappresentare per i confini italiani 142 migranti e 28 minori lasciati in mezzo al mare per settimane". Gongola anche il deputato di Leu Erasmo Palazzotto: "Non so se ci sarà un giudice a Palermo o a Berlino che la condannerà per la sua disumanità il senatore Salvini, quello che so è che per il momento, anche se si da molto da fare nella sua veste di lotta e di Governo, quella stagione illegittima e disumana è archiviata. Ed è questa la cosa importante: che diritti fondamentali delle persone non vengano violati come quando lei era Ministro dell'Interno. Adesso, perché quella stagione non torni, i progressisti hanno il dovere di lavorare ad una nuova agenda sulle migrazioni che si fondi sul diritto e sui diritti. Solo così", conclude Palazzotto, "sconfiggeremo la narrazione xenofoba e nazionalista dei Salvini e degli Orban". Di pesante sconfitta parla invece il presidente di Legambiente Sicilia Gianfranco Zanna: "Non c'è stata nessuna condanna e neppure una assoluzione. Soltanto si farà giustamente un processo per sapere se, dal punto di vista penale, l'ex ministro degli Interni Matteo Salvini ha delle responsabilità perché nessuno è al di sopra della legge. Ma, sicuramente oggi, il senatore Salvini subisce una pesante sconfitta", affonda ancora Zanna, "soprattutto la sua arroganza ed il suo cinismo. Questa responsabilità politica ed umana resterà scolpita per sempre e nessuna sentenza la potrà mai cancellare. Porti aperti, salvare vite, restare umani. Questo è il nostro credo".

Il commento di Emergency. A commentare la notizia del rinvio a giudizio anche l'associazione umanitaria italiana Emergency, che ai microfoni di AdnKronos ha parlato di occasione per riflettere sul tema immigrazione."Il salvataggio e la protezione della vita dei migranti in mare è un diritto fondamentale che non può essere messo in discussione. Soprattutto per ragioni politiche", sono le parole dell'associazione, che ricorda come un team di suoi volontari si fosse trovato a bordo della Open Arms nell'agosto del 2019. Emergency"ha toccato con mano gli effetti delle decisioni politiche di quei giorni sulla già grave condizione di prostrazione e sofferenza delle persone a bordo". E ancora: "Ci auguriamo che questo processo chiarisca quanto è accaduto e che sia l'occasione di giudicare la condotta europea in tema di immigrazione e riflettere sulla necessità di proteggere i diritti fondamentali delle persone, al di là della loro provenienza".

Chi è il giudice che manda Salvini a processo. Ignazio Stagno il 17 Aprile 2021 su Il Giornale. Molto attivo in diversi procedimenti a Palermo, in passato aveva criticato le scelte dei legislatori sul fronte della lotta al terrorismo. Il dado è tratto: Matteo Salvini dovrà affrontare un processo con l'accusa di sequestro di persona per aver tenuto per alcuni giorni 147 migranti a bordo della Open Arms prima di autorizzarne lo sbarco. La vicenda giudiziaria durava da parecchi mesi, ma oggi con la decisione del Gup si è arrivati ad un punto di svolta che avrà anche conseguenze sia sul piano politico che sul piano della gestione dell'emergenza immigrazione. Infatti gli avversari "rossi" del leader della Lega sperano nel capitombolo alla sbarra per sbarazzarsi del leader del Carroccio e i leader delle Ong, Casarini in testa, sognano già di dare il via a nuovi sbarchi senza freni sulle nostre coste. La decisione presa oggi dal giudice Lorenzo Jannelli ha dato fiato nuovamente al fronte buonista. Il giudice ha spiegato così le motivazioni del suo rinvio a giudizio: "Non ci sono gli elementi per il non luogo a procedere di Matteo Salvini". L'udienza preliminare non deve valutare se sussiste o meno la responsabilità penale dell'imputato, ma se ci sono elementi sufficienti a sostenere l'accusa in giudizio e non ci sono elementi per decidere un proscioglimento, sempre secondo la toga. Il magistrato, molto attivo a Palermo in diversi procedimenti, non è nuovo alle cronache e all'attualità. Infatti circa 4 anni fa si ritrovò sul banco degli imputati Khadiga Shabbi, 47enne libica, ricercatrice dell'università di Palermo per propaganda sul web pro Isis e Ansar al Sharia. In quel caso il pm aveva chiesto quattro anni e mezzo. Ma come ha ricordato sul ilGiornale, Luca Fazzo, il giudice Jannelli decise per una condanna ben più leggera: un anno e otto mesi con la condizionale e la scarcerazione dell'imputata. Ma in quella occasione, proprio Jannelli giustificò la sua decisione mettendo nel mirino le scelte del legislatore in materia di lotta al terrorismo: "È solitamente incline ad assecondare gli umori e le paure più diffuse tra la popolazione con il ricorso allo strumento penale "sotto l'avanzare del terrorismo, sull'onda della paura, oggi "ben lontani da un sistema organico, registriamo una serie di interventi alluvionali". Eppure gli interventi sul fronte terrorismo, dalle Torri Gemelle in poi, come ricordava il Giornale, erano stati soltanto quattro in 16 anni. Ma a quanto pare per Jannelli si trattava di un eccessivo intervento a colpi di norme per far fronte ad una emergenza. Lo stesso Jannelli, sempre sul caso della Shabbi, aveva affermato: "Gli attacchi terroristici condotti su scala globale hanno inflitto profonde ferite non solo in termini di vite umane ma anche in termini di dirette conseguenze sugli ordinamenti giuridici dei paesi coinvolti, talvolta degenerate in inquietanti derive autoritarie". Chissà, magari anche in tema di immigrazione avrà ritenuto eccessivi i due decreti Sicurezza varati da Salvini per interrompere l'ondata di sbarchi sulle nostre coste. Bisognerà attendere settembre per capire quale sarà il percorso processuale a cui sarà sottoposto Salvini. Ma una cosa è certa: il verdetto di oggi potrebbe dare il via ad una nuova (pericolosa) ondata di arrivi (grazie alle Ong) proprio mentre il nostro Paese è impegnato nella battaglia più dura: quella contro il Covid.

Open Arms, Luca Palamara sul pm che vuole Salvini a processo: "Francesco Lo Voi non aveva i titoli, ma..." Libero Quotidiano il 21 marzo 2021. La Procura di Palermo ha chiesto per Matteo Salvini il rinvio a giudizio. Il caso è quello della Open Arms e risale all'agosto del 2019 quando il numero uno del Carroccio negò lo sbarco a Lampedusa di 147 migranti soccorsi in mare dalla nave della ong spagnola. A prendere la decisione il pm Francesco Lo Voi, un nome che ad Alessandro Sallusti non suona nuovo. "Va bene - premette nel suo editoriale sulle colonne del Giornale -, facciamo finta che Luca Palamara non abbia raccontato che cosa è successo in quell'estate dentro la magistratura per andare a colpire la Lega". Nella premessa il direttore del quotidiano vuole far finta "di non vedere che la giustizia è nelle mani di una banda di sciagurati che purtroppo fanno capo (spero a sua insaputa) al presidente Mattarella in quanto capo del Csm che, come tale, almeno formalmente, dovrebbe avallare le loro decisioni". Tutto questo però non frena Sallusti dallo svelare all'Italia intera da che "pulpito arriva la richiesta di rinviare a giudizio Salvini per un presunto reato politico". A spiegarlo meglio l'ex membro del Consiglio superiore della magistratura, ormai passato alla ribalta per lo scandalo nomine. Ecco, proprio Palamara nel libro che ha scritto Sallusti rivela: "Mi convoca il procuratore di Roma Pignatone e a sorpresa mi dice: Si va su Lo Voi?. Rimango sorpreso, è il candidato con meno titoli tra quelli in corsa, ma sono uomo di mondo, mi adeguo e studio la pratica. È un'impresa difficile, l'uomo era distaccato fuori sede, all'Eurogest. Ricordo la trattativa come una delle più difficili della vita, faccio un doppio gioco e la vinco: Lo Voi va a Palermo e, dopo il giusto ricorso di un suo avversario, io e Pignatone organizziamo una cena con il magistrato che dovrà decidere sul ricorso che...". E ancora: "Un ingenuo membro del Csm il giorno della nomina di Lo Voi disse davanti a tutti: Lo Voi non aveva i titoli, oggi ho capito che cosa è il potere". Da qui un'amara conclusione, questa volta del giornalista: "Ecco, la politica oggi si fa giudicare da un uomo così, abbassa la testa, non apre commissioni di inchiesta sulla magistratura, tace impaurita".

Il rinvio a giudizio e la partita al buio. Open Arms, ecco perché la Procura ha deciso di processare Salvini. Claudia Fusani su Il Riformista il 20 Aprile 2021. Matteo Salvini è tornato in campagna elettorale. Il processo per sequestro di persona – i 142 migranti della nave Open Arms tenuti alla fonda nell’agosto 2019 – che inizierà il 15 settembre a Palermo è il detonatore di una nuova fuga in avanti del leader della Lega che rischia di pesare sulla tenuta del governo Draghi e della coalizione di centrodestra. L’occasione, soprattutto, per uscire dall’angolo in cui si è infilato entrando nel governo di unità nazionale. Il doppio registro tenuto finora – di lotta e di governo – è uno schema che rischia di logorarsi nel tempo. E di logorare la sua leadership sempre più sotto assedio da parte dell’alleata Giorgia Meloni. E anche da parte dell’asse della Lega del nord che ha i suoi pivot nel governatore Zaia e nel ministro Giorgetti, colui che più di tutti – si dice – sussurri alle orecchie di Draghi. «Non è la Lega di Salvini che è entrata al governo», sottolineano buttando benzina sul fuoco fonti di Fratelli d’Italia. Il processo, quindi. L’ex ministro dell’Interno è indagato/imputato per sequestro di persona in due diversi procedimenti: quello per la nave della ong spagnola Open arms (agosto 2019) e per la motonave Gregoretti (luglio 2019). Due fatti analoghi con due decisioni al momento diverse: per la Open Arms è a processo con l’accusa di sequestro di persona (15 settembre); per la Gregoretti il gup deciderà il 14 maggio ma la procura di Catania ha già detto di non ravvisare il reato. Da sabato, quando il gup di Palermo ha ufficializzato il rinvio a giudizio, le mosse di Salvini hanno preso una direzione precisa. Gli è stato offerto un palcoscenico naturale che lui sfrutterà a pieno nel ruolo della “vittima” di un sistema giudiziario (“quello raccontato da Palamara”) che fa politica e “punta all’eliminazione dell’avversario politico attraverso processi e inchieste”. La battaglia “contro la magistratura politicizzata” andrà di pari passo con quelle delle rivendicazioni rispetto all’azione del governo Draghi. Anche se sarà sempre più difficile alzare bandierine rispetto a un premier che si sta rivelando assai più “politico” del previsto. Le riaperture sono state una decisione di Draghi. Di cui si assume oneri e onori. Salvini può solo alzare continuamente l’asticella: le riaperture sono “finte”, bisogna togliere di mezzo il coprifuoco (“gli italiani vanno a cena alle 22, non si può chiudere”) e fare di più. Il decreto che regolerà le aperture (atteso per mercoledì-giovedì) dovrà essere “scritto con molta attenzione”. La sensazione però è che l’azione del governo Draghi lascerà sempre meno spazio di azione e rivendicazione al leader leghista visto che tre suoi ministri siedono in quell’esecutivo e non alimentano critiche. Anzi. Ecco perché Salvini cercherà ogni occasione per anticipare il voto alla primavera del 2022, subito dopo l’elezione del Capo dello Stato. Non possono essere da meno Fratelli d’Italia e Giorgia Meloni che hanno rifiutato il governo di unità nazionale proprio “per dare la parola al popolo”. E se Salvini venerdì scorso non era nella delegazione che ha incontrato Draghi a palazzo Chigi nel giro di consultazioni avviate dal premier per fare il punto con le forze politiche – assenza tattica, per tenere le mani libere – ieri pomeriggio Giorgia Meloni ha guidato la sua delegazione. Uscendo ha mostrato come uno scalpo il nuovo cavallo di battaglia della sua opposizione: «Il governo non illustra i contenuti del decreto Sostegni e del Recovery plan italiano. Ma Fratelli d’Italia non può votare al buio altro debito per 40 miliardi». Tra Lega e Fratelli d’Italia è ormai guerra aperta e Salvini rischia di restare schiacciato. I sondaggi fotografano la crescita lenta di Meloni (17,5%) e lo stallo di Salvini (22%). Salvini non concederà mai la guida del Copasir a Fratelli d’Italia nonostante sia un loro diritto. Fanno a gara per togliersi argomenti a vicenda. È duello quotidiano tra la conferenza stampa di una e i punti stampa dell’altro. Per non parlare delle interviste tv. Pur di uscire dall’angolo Salvini è arrivato a ipotizzare una nuova casa europea con Orban e il premier polacco (Rinascimento europeo) per sottrarsi alla zavorra letale dei nazionalisti di Identità e cultura (dove sta Le Pen) ed evitare di finire nel gruppo dei Conservatori di cui Meloni è presidente. Un Salvini nervoso vede la trappola. Il processo rischia di essere l’unica via di fuga. Ma anche, se dovesse andare male, un reale impedimento alla sua leadership.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

Open Arms, i complici della persecuzione contro Matteo Salvini: chi censura il leghista per aiutare i magistrati. Renato Farina su Libero Quotidiano il 20 aprile 2021. Morta lì e pure sepolta a ritmi di funerale islamico: 24 ore dopo, la scopa della censura ha spazzato via la realtà di una sentenza. Stava per scapparmi un aggettivo consumato e pure con il punto esclamativo: incredibile! Ma no. Normale in Italia. Da quasi trent' anni l'apparato unico di magistratura-politica-media rotola come un masso sul corpo della nazione e schiaccia il respiro della sovranità popolare. È un Moloch che esibisce una maschera democratica, ma ha la zampa ungulata da regime sudamericano, però fattosi furbo. C'è bisogno di spiegare a cosa ci stiamo riferendo? Forse sì, perché se siete reduci come il sottoscritto dalla visione di qualche Tg o dalle rassegne stampa con le prime pagine degli ex grandi giornali, c'è da togliersi il catrame dagli occhi. In Italia la magistratura ha sferrato sabato un colpo alla schiena del leader del partito che oggi in Italia gode del maggior consenso, ne ha stabilito il processo imputandogli un reato gravissimo per un atto politico compiuto da ministro, con il consenso del governo, eppure la notizia è già sparita. Il fatto esiste, la ferita è uno squarcio nella pancia della democrazia, ma non si trova una protesta, un rigo, una frase sulla prima pagina di Corriere, Repubblica, Stampa, caratteri cubitali della menzogna dominante del Quotidiano-Tg-Unico è senz' altro quello di un romanzo della nostra giovinezza: "Dimenticare Palermo" di Edmonde Charles-Roux, da cui Francesco Rosi trasse un film. Il tema è la mafia della droga. Anche qui la metafora è perfetta. Ma non riusciranno a narcotizzarci. Qui esibisco alcuni temi che dovrebbero indurre a sollevare una polemica civile, e magari spingere qualche Emile Zola ad un J' accuse. Chessò uno di sinistra, una toga di Magistratura democratica, persino in pensione va bene. Occorre qualche inaspettato eroe civile. Oltretutto questo torto non tocca solo il cittadino Matteo Salvini, ma il presente e il destino della nostra democrazia. Esagero? Alcuni temi, senza pretesa di esaurire la gamma degli argomenti, sono una lacerazione della buona fede su cui può reggersi la coesione sociale più che mai oggi necessaria.

QUATTRO DOMANDE -

1) Fatto salvo che la falla all'onesta è stata prodotta dal voto al Senato che ha messo un ministro dell'Interno nell'esercizio delle sue funzioni vocitate dal Parlamento nelle mani della magistratura. Com' è possibile che non si prenda atto, dopo l'uscita del libro "Il sistema" (Palamara-Sallusti), dell'inquinamento pesantissimo da parte delle correnti politiche della magistratura l'indipendenza del giudice naturale Luigi Patronaggio, procuratore ad Agrigento, spingendolo a dare addosso a Salvini a prescindere dai fatti?

2) Come diavolo è possibile che per i medesimi atti, semplicemente decisi a qualche chilometro di distanza, Salvini sia a Catania ampiamente prosciolto dal Procuratore della Repubblica e a Palermo mandato a processo dal Gip su accuse quasi da ergastolo imputate da un procuratore delle medesima (?) Repubblica?

3) L'avvocato Bongiorno ha ampiamente dimostrato la totale collegialità delle scelte riguardo al trattamento riservato alle navi ong da cui il supposto reato. Perché il premier Giuseppe Conte, il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli, la ministra della Difesa Elisabetta Trenta? Com' è possibile una simile trascuratezza della verità?

4) La ministra dell'Interno (Conte 2 e Draghi) Luciana Lamorgese ha praticato, usando circonvoluzioni amministrative, un trattamento di clausura assoluta dei presunti profughi, anche qui come illustrato in Tribunale dalla Bongiorno. Come si spiega non sia oggetto di alcuna indagine? Meglio così. Ma perché l'aggressione a Salini? Come diceva Renzo Arbore: meditate, gente, meditate. Mi fermo. Non servirà a nulla, anche se mi auguro di essere smentito. Pongo un'altra questione. Le citate testate silenti hanno una linea a sostegno del governo Draghi. È evidente che il caso Salvini, come quello Speranza, pongono problemi per la tenuta della maggioranza. Non si fa il bene né del governo né del Paese se si cerca di nascondere gli elefanti sotto un tappeto di silenzio. Senza verità, o almeno la ricerca leale della stessa, non esistono né giustizia né democrazia. Vale per la politica, e per il giornalismo. 

Gian Micalessin per "il Giornale" il 20 aprile 2021. Se al Tribunale di Palermo i fatti venissero prima della politica i giudici dovrebbero prosciogliere Matteo Salvini e rinviare a giudizio per sequestro di persona Marc Reig Creus, comandante della nave Open Arms. Il vero rapitore di migranti in quel caso non fu Salvini ma lui. Fu lui, d'intesa con la Ong spagnola di Oscar Camps, a trasformare 147 migranti in uno strumento politico per colpire le politiche anti-sbarchi del capo della Lega. E fu lui a pretendere di tenerli in mare dal primo al 20 agosto rifiutandosi ripetutamente di far rotta su Malta o sulla Spagna. Per comprendere le responsabilità di Creus basta la cronistoria della mini-odissea della Open Arms. Dal 1 agosto, quando imbarca il primo carico di migranti davanti alle coste libiche, fino al 20 - quando il giudice Luigi Patronaggio ne ordina il sequestro, Creus resta sempre davanti alle coste italiane rifiutando sia l'offerta di approdare a Malta, sia quella di raggiungere un porto spagnolo. Una scelta in linea con le rivendicazioni politiche di una Ong che non si limita a recuperare i migranti in mare, ma ne difende il diritto a violare i confini dell'Italia, ventre molle dell'Europa, e a raggiungere gli altri paesi Ue. La pretesa di sbarcare solo e soltanto in Italia è, nell'ottica di Creus e della Ong, indispensabile per smuovere i media, attivare i magistrati sensibili alla causa dell'accoglienza e dividere un esecutivo gialloverde ormai traballante. Proprio per questo il comandante rifiuta di far rotta come, proposto da Madrid, sui porti spagnoli di Algeciras o di Mahon, sull'isola di Minorca. Due porti che potrebbe raggiungere in soli 5 giorni, un quarto del tempo trascorso intorno a Lampedusa e alla Sicilia. Anche perché in base al diritto marittimo internazionale (sempre ignorato se di mezzo ci sono i migranti e l'Italia) una nave è territorialmente parte dello Stato di cui batte bandiera. Dunque, in base al trattato di Dublino, l'accoglienza e l'assistenza dei migranti della Open Arms non competevano all'Italia, ma a Madrid. Altrettanto sconcertanti sono i perché con cui il comandante spiega il rifiuto di far rotta su Malta. «Perché - sostiene Creus - era un porto piccolo e aveva autorizzato lo sbarco solo per trenta persone... Il resto delle persone che avevamo a bordo non poteva comprendere perché solo in 30 potessero scendere... Perciò abbiamo detto: o tutti o nessuno». Mentre Creus fa carte false per arrogarsi il diritto a entrare in un porto italiano Salvini resta, invece, dalla parte della legalità. La cronistoria parla chiaro. Il 2 agosto, quando viene rifiutata la prima richiesta di un «porto sicuro» l'allora ministro degli Interni agisce al riparo di quel «decreto sicurezza bis», approvato dal governo giallo-verde due mesi prima. E con Salvini stanno i ministri pentastellati Danilo Toninelli ed Elisabetta Trenta firmatari, fin dal 2 agosto, del divieto d'ingresso. Un divieto che resta pienamente legittimo fino al 14 agosto quando il Tar del Lazio accoglie un ricorso della Ong spagnola. E qui sta il punto. Per ben 14 dei 20 giorni della vicenda Open Arms gli unici e soli responsabili della permanenza in mare dei migranti sono il comandante Creus e i capi della Ong. Salvini resta dunque teoricamente imputabile solo per i sei giorni successivi. Ma si tratta di un periodo limitato e confuso in cui il premier Giuseppe Conte, i ministri Toninelli e Trenta e il resto dei Cinque Stelle scelgono di rinnegare la linea precedente non per una resipiscenza umanitaria, ma al solo scopo di isolare un alleato trasformatosi in avversario. Il tutto mentre Creus e la Open Arms ringraziano e scaricano a Lampedusa un carico di migranti usato per venti e passa giorni alla stregua di una potente e dirompente arma politica.

Carola Rackete, nuova archiviazione del caso: “Salvare i migranti in mare è un dovere”. Redazione Notizie.it il 23/12/2021. L'archiviazione riguarda un episodio avvenuto tre giorni prima dei fatti di Lampedusa, quando Carola Rackete passò in acque italiane senza autorizzazioni. Nuovo schiaffo ai detrattori di Carola Rackete, la capitana della nave Sea Watch 3 che nel nel 2019 aveva disobbedito agli ordini impartiti dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini e dei Trasporti Danilo Toninelli e aveva portato in salvo i migranti salvati nel Mediterraneo fino al porto di Lampedusa. Nello stesso 2019 il gip aveva prosciolto la capitana perché con la sua azione “ha salvato vite umane“. Allo stesso modo era stata chiusa l’indagine sullo speronamento della motovedetta della Guardia di Finanza. Questa volta l’archiviazione riguarda un episodio avvenuto in realtà tre giorni prima dei fatti di Lampedusa, quando Rackete passò da acque internazionali ad acque italiane senza autorizzazioni, nonostante lo stop della Guardia di Finanza. Carola, difesa dagli avvocati è stata assolta dall’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e rifiuto di obbedienza a nave da guerra. Secondo Micaela Raimondo, la giudice per le indagini preliminari che si è occupata del caso, Carola Rackete “ha agito nell’adempimento del dovere di salvataggio previsto dal diritto nazionale e internazionale del mare. All’esito delle indagini non sono emersi elementi suscettibili di sorreggere l’ipotesi accusatoria nei confronti” della capitana. “Non potendosi considerare ‘place of safety’ il porto di Tripoli, come anche sottolineato dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati che ha di recente evidenziato, in un rapporto, come alcune migliaia di richiedenti asilo, rifugiati, migranti presenti in Libia versino in condizione di detenzione arbitraria e sono sottoposti a torture e a trattamenti disumani e degradanti in violazione dei diritti umani. La condotta [di Rackete, ndr] risulta scriminata dalla causa di giustificazione“.

Carola, sentenza choc: piena libertà alle Ong di sbarcare in Italia. Fausto Biloslavo il 24 Dicembre 2021 su Il Giornale. Il gip che ha archiviato il procedimento sulla Rackete: "Tripoli non è un porto sicuro". Al timone di una nave dei talebani dell'accoglienza recuperi 53 migranti illegali partiti dalla Libia senza sognarti minimamente di farli sbarcare nella vicina Tunisia oppure in un altro paese europeo, ma solo in Italia. Poi disubbidisci a un ordine del ministro dell'Interno di non entrare nelle acque territoriali italiane. E alla fine, pur di farli sbarcare, te ne freghi della motovedetta della Guardia di Finanza, che cerca di fermarti e la stritoli fra la fiancata della nave e il molo. In un paese normale ti sbatterebbero dietro le sbarre per un bel po'. In Italia non solo diventi un'eroina, ma ti viene garantita l'impunità «umanitaria» grazie ad una sfilza di archiviazioni tese a sancire che non hai compiuto alcun reato.

L'ultimo atto di questa commedia giudiziaria si è consumato ieri ribadendo che Carola Rackete ha fatto bene a violare l'ordine del Viminale di non entrare nelle acque italiane e ovviamente non ha favorito l'immigrazione clandestina.

Il ministro dell'Interno di allora, giugno 2019, era Matteo Salvini e gli sbarchi quell'anno sono stati 11.349. Oggi sono 64.364. Non solo: dopo il proscioglimento pieno della capitana tedesca qualsiasi comandante delle Ong del mare si sentirà libero di entrare in porto senza autorizzazione per sbarcare i migranti illegali.

Il via libera, di fatto, arriva dall'archiviazione della gip del tribunale di Agrigento, Micaela Raimondo, che ha scritto: «Carola Rackete ha agito nell'adempimento del dovere di salvataggio previsto dal diritto nazionale e internazionale del mare». Impunità «umanitaria» per il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Il 12 giugno 2019, Colibrì, un aereo di una ong decollato da Lampedusa, individuò i migranti in mare. «Era un gommone in condizioni precarie e nessuno aveva giubbotto di salvataggio, non avevano benzina per raggiungere alcun posto» testimoniò Carola. In realtà una foto scattata dalla stessa Sea watch dimostrava che i tubolari del gommone blu risultavano gonfi e a bordo c'erano diverse taniche solitamente usate per il carburante. I «soccorsi» spesso sono dei «recuperi» grazie ai trafficanti che individuano le posizioni delle navi e lanciano i gommoni. La procura di Agrigento, dopo due anni, ha deciso che era tutto a posto.

Per di più la gip, accogliendo la richiesta di archiviazione del procuratore aggiunto Salvatore Vella, sostiene che la capitana di Sea Watch 3 «ha agito nell'adempimento del dovere perché non si poteva considerare luogo sicuro il porto di Tripoli». Una volta imbarcati i migranti la nave si trovava più vicina alla Tunisia, 69 miglia, rispetto alle 124 da Lampedusa, ma Carola ha puntato sull'Italia.

Nell'archiviazione di ieri si ribadisce che avere disobbedito al divieto del Viminale è una «condotta (...) scriminata dalla causa di giustificazione». Lo stato e il governo, che con Salvini aveva imposto i decreti sicurezza, di fatto, non hanno poteri per fermare i talebani dell'accoglienza. Il paradosso è che la Sea Watch 3 «non può essere considerata come luogo sicuro - scrive la gip - oltre a essere in balia degli eventi meteorologici avversi, non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse». Se così fosse non si capisce perché può svolgere sistematiche operazioni di «soccorso» nonostante la Guardia costiera avesse ripetutamente chiesto lo stop della nave per mancanza di certificazione e attrezzature necessarie.

Il vero epitaffio giudiziario sul caso Rackete è arrivato nel 2020 dalla Corte di cassazione, che aveva sancito l'illegittimità dell'arresto e lo scorso maggio con una prima archiviazione delle accuse di resistenza a pubblico ufficiale e violenza a nave da guerra per lo «schiacciamento» della motovedetta della Finanza.

Sea Watch canta vittoria e Open arms assieme a Greenpeace, costola ecologica dei talebani dell'accoglienza, puntano il dito contro Salvini auspicando che l'archiviazione diventi «un punto fondamentale per la vicenda che vede l'ex ministro dell'Interno accusato di sequestro di persona» a Palermo.

Nel mondo alla rovescia delle Ong del mare con 788 migranti su tre navi da sbarcare in Italia per Natale il totale proscioglimento di Carola Rackete è un'arma di pressione in più. E se qualcuno osasse opporsi si può sempre forzare impunemente l'ingresso in porto.

Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni ottanta copre le guerre dimenticate dall'Afghanistan, all'Africa fino all'Estremo Oriente. Nel 1987 viene catturato e tenuto prigioniero a Kabul per sette mesi. Nell’ex Jugoslavia racconta tutte le guerre dalla Croazia, alla Bosnia, fino all'intervento della Nato in Kosovo. Biloslavo è il primo giornalista italiano ad entrare a Kabul liberata dai talebani dopo l’11 settembre. Nel 2003 si infila nel deserto al seguito dell'invasione alleata che abbatte Saddam Hussein. Nel 2011 è l'ultimo italiano ad intervistare il colonnello Gheddafi durante la rivolta. Negli ultimi anni ha documentato la nascita e caduta delle tre “capitali” dell’Isis: Sirte (Libia), Mosul (Iraq) e Raqqa (Siria). Dal 2017 realizza inchieste controcorrente sulle Ong e il fenomeno dei migranti. E ha affrontato il Covid 19 come una “guerra” da raccontare contro un nemico invisibile. Biloslavo lavora per Il Giornale e collabora con Panorama e Mediaset. Sui reportage di guerra Biloslavo ha pubblicato “Prigioniero in Afghanistan”, “Le lacrime di Allah”,  il libro fotografico “Gli occhi della guerra”, il libro illustrato “Libia kaputt”, “Guerra, guerra guerra” oltre ai libri di inchiesta giornalistica “I nostri marò” e “Verità infoibate”. In 39 anni sui fronti più caldi del mondo ha scritto quasi 7000 articoli accompagnati da foto e video per le maggiori testate italiane e internazionali. E vissuto tante guerre da apprezzare la fortuna di vivere in pace.

Da huffingtonpost.it il 23 dicembre 2021. “Carola Rackete ha agito nell’adempimento del dovere di salvataggio previsto dal diritto nazionale e internazionale del mare”. Con queste motivazioni il gip del tribunale di Agrigento, Micaela Raimondo, ha archiviato l’inchiesta a carico della comandante di Sea Watch3 che, ad aprile, era stata già definitivamente prosciolta dall’accusa di resistenza a pubblico ufficiale e violenza a nave da guerra. Accuse scaturite dal presunto speronamento della motovedetta della Guardia di finanza il 29 giugno del 2019, giorno dell’arresto. Il nuovo procedimento, adesso archiviato su richiesta del procuratore aggiunto Salvatore Vella e del pm Cecilia Baravelli, riguardava un episodio di tre giorni prima quando la trentatreenne tedesca, difesa dagli avvocati Leonardo Marino e Alessandro Gamberini, decise di entrare senza autorizzazione con la nave, che stazionava davanti Lampedusa ma in acque internazionali, nelle acque territoriali italiane. All’accusa di rifiuto di obbedienza a nave da guerra si era aggiunta quella di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per avere fatto entrare sul territorio italiano 53 immigrati. “Ha agito - scrive il gip - nell’adempimento del dovere perché non si poteva considerare luogo sicuro il porto di Tripoli”. Il giudice cita un rapporto dell’Alto commissario per le Nazioni unite nel quale si sottolinea “che migliaia di richiedenti asilo, rifugiati e migranti in Libia versano in condizione di detenzione arbitraria e sono sottoposti a torture”. Quanto all’averli condotti in Italia, nonostante il divieto, il gip aggiunge: “La condotta risulta scriminata dalla causa di giustificazione”. “Non può essere considerata come luogo sicuro una nave in mare che oltre a essere in balia degli eventi meteorologici avversi non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse”, si legge nel decreto del giudice, che riporta quando già statuito dalla Corte di Cassazione nel confermare l’ordinanza di non convalida dell’arresto di Rackete emesso dallo stesso ufficio del Gip di Agrigento. Nel 2020 la Cassazione, infatti, aveva sancito l’illegittimità dell’arresto di Carola Rackete. Lo scorso maggio un primo provvedimento di archiviazione fece, invece, cadere le accuse di resistenza a pubblico ufficiale e violenza a nave da guerra contro l’ex comandante. Di fatto oggi si chiudono tutte le indagini penali nei confronti dei membri della Sea-Watch. Lo sbarco degli oltre 50 naufraghi a bordo della nave, nel giugno del 2019, a Lampedusa, dunque, “non era pericoloso”. “Rilevato che il provvedimento interministeriale adottato il 15 giugno 2019″, cioè il decreto di sicurezza a firma di Matteo Salvini, “nel vietare l’ingresso, il transito o la sosta dell’imbarcazione nel mare territoriale italiano - scrive la gip - non faceva riferimento a specifiche situazioni di ordine e sicurezza pubblica che avrebbero potuto fare ritenere pericoloso lo sbarco in Italia dei naufraghi”, Dunque, per il Tribunale “non sussistono elementi sufficienti per ritenere che il passaggio della imbarcazione possa definirsi ‘non inoffensivo’”. “Quest’ennesima archiviazione abbatte il pretestuoso muro legislativo eretto da Salvini e, nelle sue motivazioni, conferma quanto già stabilito dalla Corte di Cassazione: soccorrere chi si trova in pericolo in mare e condurlo in un luogo sicuro è un dovere sancito dal diritto internazionale”. Così Sea Watch commenta l’archiviazione dell’indagine.

I giudici assolvono la Rackete (di nuovo). Mauro Indelicato il 23 Dicembre 2021 su Il Giornale. I giudici hanno dato ragione alla capitana della Sea Watch 3 che nel 2019 ha speronato una motovedetta della Guardia di Finanza: "Ha agito per salvare vite umane". Il caso è definitivamente chiuso. Carola Rackete secondo i giudici, nell'andare contro una motovedetta della Guardia di Finanza per attraccare con la sua Sea Watch 3 a Lampedusa, non ha commesso alcun reato.

Era il 29 giugno 2019. Al timone della nave dell'Ong tedesca Sea Watch vi era proprio Carola Rackete, la quale aveva chiesto all'Italia un porto sicuro per entrare e far sbarcare 42 migranti a bordo del mezzo. Il dibattito politico sull'immigrazione in quel momento era molto forte. Da poco il parlamento aveva dato il via libera ai decreti sicurezza, le norme volute soprattutto dall'allora ministro dell'Interno Matteo Salvini.

Decreto sicurezza, il sì è vicino Ecco le misure più importanti

Per questo già dal precedente mese di marzo si era avviato un vero e proprio braccio di ferro tra le Ong e Salvini. In questo contesto, la Sea Watch 3 comandata da Carola Rackete è arrivata a ridosso di Lampedusa negli ultimi giorni di quel mese di giugno. Dal Viminale, come già fatto in altre simili occasioni nelle settimane precedenti, hanno risposto negativamente alla richiesta di un porto sicuro.

Questo alla luce di quanto previsto dai decreti sicurezza e anche dalla linea politica, portata avanti dal governo Conte I, di impedire alle Ong di attraccare in Italia. Da qui si è poi arrivati ai fatti della notte del 29 giugno. Carola Rackete ha forzato quella sera il blocco imposto da una motovedetta, speronando il mezzo.

Dopo due giorni passati ai domiciliari, la ragazza tedesca è stata liberata. E da allora, nonostante un ricorso della procura di Agrigento guidata da Luigi Patronaggio contro la decisione del Gip, l'orientamento dell'inchiesta è andato a favore dell'azione della Rackete.

Già a maggio infatti era arrivata la richiesta di archiviazione da parte della stessa procura agrigentina. Nelle scorse ore la richiesta è stata accolta. Il Gip di Agrigento ha definitivamente scagionato l'attivista di Sea Watch. Per lei sono quindi cadute le due accuse principali: il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e la violazione dell'articolo 1099 del codice di navigazione. “Rackete – ha scritto il Gip di Agrigento – ha agito nell'adempimento del dovere di salvataggio previsto dal diritto nazionale ed internazionale del mare”.

Si può speronare la Gdf in mare: il Gip salva la Rackete

In poche parole, la capitana della Sea Watch 3 secondo i giudici è stata legittimata nella sua azione dal tentativo di portare in un luogo sicuro i migranti che aveva a bordo. Inoltre, il Gip ha ritenuto insufficienti gli elementi per ritenere l'ingresso della nave “non inoffensivo”. “La non inoffensività del passaggio – si legge in una parte della sentenza riportata dall'AdnKronos – non può essere desunta dal solo presupposto che i naufraghi fossero tutti stranieri senza documento”.

Confermato l'orientamento dei giudici sul caso Rackete

Ovviamente ad esultare sono stati nelle scorse ore soprattutto gli attivisti di Sea Watch. “Il decreto di archiviazione sconfessa in tutto e per tutto l'applicabilità del Decreto Sicurezza Bis nel salvataggio dei naufraghi”, hanno scritto in una nota gli attivisti dell'Ong tedesca.

L'archiviazione delle scorse ore, tra le altre cose, è in linea con gli orientamenti emersi nella procura di Agrigento anche sugli altri casi trattati dai magistrati siciliani in ordine alle dispute tra le Ong e il governo Conte I. Nei mesi scorsi è stata archiviata la posizione di Luca Casarini, capomissione della nave Mare Jonio, il primo nel marzo del 2019 a sfidare i decreti sicurezza.

"Non speronò nave da guerra" Così le toghe salvano Carola

Sul caso Rackete, i magistrati agrigentini hanno seguito anche l'orientamento emerso in sede di Corte di Cassazione nel gennaio 2020, in occasione della sentenza sul ricorso della stessa procura siciliana contro la scarcerazione. I giudici della Suprema Corte avevano infatti scritto che l'attivista Ong ha agito per salvare vite umane. 

Mauro Indelicato. Sono nato nel 1989 ad Agrigento, città in cui dirigo il locale quotidiano InfoAgrigento.it. Nel marzo 2017 conseguo la laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali presso l’Università degli Studi di Palermo, città dove sviluppo la mia curiosità per il Mediterraneo, per i suoi popoli e per le sue culture che da secoli arricchiscono una delle aree più suggestive del pianeta. Inizio la mia attività giornalistica nel marzo del 2009 con alcune testate locali, dal gennaio 2013 sono iscritto presso l’Ordine dei Giornalisti di Sicilia nell’albo dei "pubblicisti". Collaboro dal giugno 2016 con IlGiornale.it e Gli Occhi della Guerra, testata per la quale seguo il G7 di Taormina del 2017 ed il vertice di Palermo sulla Libia nel novembre 2018. Nel novembre del 2015 partecipo alla stesura del libro Rinascita di un Impero edito dal Circolo Proudhon, nel 2016 al saggio Italia Nel Mondo della stessa casa editrice. Nel 2019 collaboro alla stesura del libro Bella e perduta, edito da Idrovolante edizioni.

Carola Rackete, archiviata la denuncia contro Salvini: "Sbruffoncella e fuorilegge? Legittimo diritto di critica", così il gip. Libero Quotidiano il 17 maggio 2021. Incassata la vittoria sul caso Gregoretti, Matteo Salvini ottiene anche l'archiviazione della denuncia presentata da Carola Rackete. Il giudice di Milano Sara Cipolla ha infatti rigettato la domanda presentata dall'avvocato della capitana della Sea Watch di istigazione a delinquere ai danni del leader della Lega. L'allora ministro dell'Interno era finito nel mirino della Rackete in seguito ad alcune affermazioni pronunciate in una diretta Facebook e durante un comizio del luglio 2019. Qui il leghista definiva la capitana della ong "sbruffoncella", "fuorilegge", "delinquente" o autrice di un atto "criminale". Il legale della Rackete si era opposto all’archiviazione rispetto all’accusa di istigazione a delinquere sostenendo che "le frasi, pronunciate dall’allora ministro oltre che leader politico, sono lesive e non rappresentano certo un legittimo diritto di critica". Di parere opposto l'avvocato del numero uno del Carroccio. Claudia Eccher, attraverso una memoria consegnata al giudice in occasione della scorsa udienza, ha ribadito "il diritto di critica rispetto ad affermazioni prive di una efficacia istigatoria". Ed ecco che il giudice le ha dato ragione: le espressioni pronunciate sono solo la "manifestazione del pensiero la cui legittimità è oggetto". Una notizia che si aggiunge a quella della nave Gregoretti, per cui il leader leghista era invece accusato di sequestro di persona. "Ho ritenuto non sussistente alcuna violazione della normativa internazionale e nazionale - ha spiegato il gip di Catania, Nunzio Sarpietro, che lo ha scagionato -. Salvini s' è attenuto alle convenzioni disponendo che venissero salvati i migranti in difficoltà e ritardando lo sbarco di due o tre giorni, facoltà concessagli da un provvedimento amministrativo del febbraio 2019". E ancora: "La politica del ricollocamento in Europa è stata un obiettivo di tutti i governi, come ha testimoniato anche la ministra Lamorgese, e com' è dimostrato dall'attività della nostra diplomazia di cui abbiano acquisito ampia documentazione".

Da liberoquotidiano.it il 19 maggio 2021. Evidentemente si possono speronare le motovedette della Guardia di finanza se si tratta di "stato di necessità". E' quanto emerge dalla decisione del gip di Agrigento Alessandra Vella, che ha accolto la richiesta della Procura di archiviare l'inchiesta su Carola Rackete, la comandante della nave Sea Watch che due anni fa venne arrestata per resistenza e violenza contro una nave da guerra. Il Procuratore Luigi Patronaggio aveva chiesto di non processare la comandante tedesca e la gip, la stessa che aveva scarcerato Rackete che era finita agli arresti, ha accolto la richiesta, archiviando l'indagine. Secondo la Procura di Agrigento, insomma, la comandante avrebbe agito per stato di necessità: aveva il "dovere di portare i migranti in un porto sicuro", non potendo più garantire la sicurezza a bordo delle 42 persone soccorse 17 giorni prima, che l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini non voleva far sbarcare. Dopo essere arrivata di notte davanti al porto di Lampedusa, nonostante il divieto dell'allora ministro Salvini, invocò lo stato di necessità e ribadì la richiesta di sbarco immediato. Poi, non ottenendo alcuna risposta, decise di forzare il divieto ed entrò in porto. Nella manovra speronò una motovedetta della Guardia di Finanza. Nessuno si fece male, ma sia i finanzieri che gli stessi migranti a bordo di Sea Watch 3 rischiarono grosso. Ma per la giudice Vella, insomma, è tutto regolare. Tutto normale. "Con l'archiviazione dell'inchiesta su Carola Rackete il gip di Agrigento ha riconosciuto il dovere di salvare vite umane" ha detto l'avvocato Salvatore Tesoriero. "I pm dicono che Carola Rackete non va processata? Lascio giudicare loro", ha commentato il leader della Lega Salvini. "Dico solo che nel 2019, alla data di oggi, sbarcarono 1.200 clandestini. Adesso siamo a quasi 14mila". E il Viminale che dice adesso?

Si può speronare la Gdf in mare: Gip salva la Rackete. Mauro Indelicato il 19 Maggio 2021 su Il Giornale. Archiviazione per Carola Rackete, la comandante della Sea Watch 3 che nel giugno del 2019 ha speronato a Lampedusa una motovedetta della Guardia di Finanza. Tra quelli aperti nell'estate del 2019 ad Agrigento ha rappresentato forse il caso più scottante, capace di richiamare l'attenzione anche della stampa internazionale. Tutto era nato il 29 giugno 2019, notte in cui Carola Rackete, comandante della nave tedesca Sea Watch 3, appartenente all'omonima Ong, ha speronato una motovedetta della Guardia di Finanza. Oggi quel caso è stato definitivamente chiuso: la procura di Agrigento aveva chiesto l'archiviazione, il Gip Alessandra Vella ha accolto la tesi dei magistrati. La ragazza tedesca in quelle ore aveva deciso di far approdare a tutti i costi i 42 migranti a bordo della nave. Da qui la scelta di forzare il blocco delle autorità una volta arrivata dinnanzi le coste di Lampedusa. In quelle settimane la discussione sull'immigrazione era già piuttosto infuocata. Al Viminale Matteo Salvini, all'interno della linea del governo gialloverde, aveva imposto il divieto di ingresso ad altre navi delle Ong. Il tutto anche per far rispettare le nuove disposizioni da lui volute, riassunte all'interno del primo decreto sicurezza. Tra le varie disposizioni, anche quella di vietare l'approdo in Italia dei mezzi delle Ong e multe molto salate nei confronti delle stesse organizzazioni. Per questo più volte il ministero dell'Interno aveva risposto negativamente alle richieste della Sea Watch 3 di entrare a Lampedusa. Ne è nato un ennesimo braccio di ferro tra Ong e governo gialloverde. Proprio come era accaduto in più di un'occasione in quello stesso anno. A marzo per la prima volta era stata la Mare Jonio con capomissione Luca Casarini dare il via al duello con il Viminale. Successivamente è stata la volta di Sea Watch 3, poi di Open Arms. E infine, il 29 giugno per l'appunto, ancora di Sea Watch 3. Carola Rackete, di fronte a un nuovo rifiuto del ministero dell'Interno, ha acceso i motori andando allo scontro fisico con la Guardia di Finanza. Nessuno si è fatto male, ma sia i finanzieri che gli stessi migranti a bordo di Sea Watch 3 hanno rischiato. Per questo Carola Rackete è stata tratta agli arresti domiciliari. Dopo i primi interrogatori ad Agrigento, la misura era stata confermata. Ma ai primi di luglio il Gip della città siciliana, Alessandra Vella, ha revocato tutto. Secondo il giudice, la ragazza tedesca ha agito in stato di necessità. La procura di Agrigento ha promosso contro quella decisione un ricorso in Cassazione. Ma ormai la Rackete era libera di diventare la paladina dei pro Ong e di buona parte della sinistra, arrivando anche a parlare pochi mesi dopo al parlamento di Strasburgo. La Cassazione poi, nel febbraio 2020, ha dato ragione al Gip di Agrigento. Anche in quella sentenza si è parlato di “stato di necessità”. La procura siciliana dal canto suo aveva chiesto e ottenuto sei mesi di proroga per le indagini. Era l'ultima notizia certa su quel caso. Perché poi è arrivato il Covid che ha rallentato anche le attività dei tribunale. Nelle scorse ore il preludio alla parola fine: la procura ha chiesto l'archiviazione per Carola Rackete. Una richiesta accettata sempre nella mattinata di questo mercoledì. La ragazza tedesca, pur avendo messo in pericolo la vita di militari e migranti, non subirà alcun processo: "I pm dicono che Carola Rackete non va processata? Lascio giudicare loro - è stato il primo commento dell'ex ministro Matteo Salvini - Dico solo che nel 2019, alla data di oggi, sbarcarono 1.200 clandestini. Adesso siamo a quasi 14mila". Secondo il Gip, il reato è da definirsi insussistente. Non solo: nelle sue motivazioni, il giudice ha fatto riferimento allo stato di necessità in cui si sarebbe trovata Carola Rackete. Ossia, la capitana secondo questa ricostruzione sarebbe stata spinta ad agire contro il mezzo della Guardia di Finanza per via della situazione a bordo della Sea Watch 3. Infine, il Gip ha motivato la decisione sottolineando come la motovedetta in questione "non è da considerarsi come nave da guerra".

Le reazioni di Sea Watch. "La richiesta di archiviazione per Carola Rackete è stata accolta ed è stato emesso il decreto di archiviazione, quindi possiamo considerare ufficialmente chiusa la vicenda che ha visto Carola indagata per essere entrata in un dichiarato stato di necessità nel porto di Lampedusa nel giugno del 2019". A pronunciare queste parole è stata Giorgia Linardi, portavoce di Sea Watch: "Si tratta di una conclusione logica - ha dichiarato su AdnKronos - e necessaria di una vicenda rispetto alla quale la Corte di Cassazione, responsabile per l'interpretazione dei diritti nel nostro paese si era già espressa sottolineando due importantissimi principi: quello per cui soccorrere chiunque si trovi in pericolo in mare costituisce l'adempimento di un dovere e pertanto non può essere criminalizzato e il principio per cui la nave e che presta soccorso non può essere considerata un porto sicuro e il soccorso stesso si può considerare concluso solo nel momento in cui le persone giungono in un porto salvo".

La procura: "Adeguati alla cassazione, ma perplessi". Nel chiedere l'archiviazione per la ragazza tedesca, la procura di Agrigento ha fatto riferimento alla sentenza della Cassazione sulla scarcerazione dell'ex comandante della Sea Watch 3. Ma, come ha dichiarato lo stesso procuratore Luigi Patronaggio, non sono mancate le perplessità da parte degli stessi magistrati agrigentini: "Ci siamo adeguati alle indicazioni della Corte di Cassazione - ha affermato il procuratore all'AdnKronos - che aveva confermato l'annullamento dell'arresto. Pur avendo qualche perplessità sul bilanciamento dei beni giuridici in gioco". Soddisfazione invece è stata espressa dal collegio difensivo di Carola Rackete: "Queste decisioni hanno un significato giuridico e politico importantissimo perché ristabiliscono la gerarchia dei valori in gioco - ha dichiarato sempre su AdnKronos Salvatore Tesoriero, uno dei legali della Rackete - prima viene la vita umana che deve essere salvata; nel processo, prima viene la libertà di chi ha adempiuto al proprio dovere, che quindi non può essere arrestato".

IL CASO GREGORETTI.

Gregoretti, Matteo Salvini innocente: spunta la lista dei senatori "colpevoli" e "spariti", un caso politico. Antonio Rapisarda su Libero Quotidiano il 15 agosto 2021. Abbiamo atteso 24 ore dalle parole scolpite dal Gup di Catania sul caso Gregoretti, nella vana attesa di un segnale. Quale? Un accenno, una mezza autocritica da parte dei 152 che, votando il 12 febbraio del 2020 al Senato l'autorizzazione al processo a carico di Matteo Salvini, hanno creduto di risolvere il problema politico rappresentato dal leader della Lega appaltando alla magistratura la "pratica". Come previsto, nessuno fra questi - ossia fra i senatori di Pd, Italia Viva e ovviamente fra gli ex alleati del M5S - è intervenuto per esprimere una parola di pentimento a riguardo. Eppure se siamo arrivati a questo punto, a un leader dell'opposizione mandato a processo (come avverrà poi sul caso Open Arms), assecondando la richiesta del Tribunale dei ministri dopo che la stessa accusa aveva chiesto l'archiviazione per il reato di sequestro di persona, è proprio perché gli avversari hanno letteralmente provato ad incastrare Salvini.

LE DICHIARAZIONI

A rileggere le dichiarazioni della vigilia, dopo la valutazione incontrovertibile del Gup sull'innocenza dell'ex ministro, risulta ancora più plastica la volontà di cercare la scorciatoia giudiziaria per mettere a tacere l'avversario. Caso di scuola è Nicola Zingaretti. «Sui processi il Pd non voterà mai sulla base di un giudizio politico, ma solo sulla base della valutazione delle carte processuali», tuonava l'allora segretario del Pd moraleggiando sulla necessità di autorizzare il processo come se si trattasse di una questione di "classe": «Si deve fare così per le persone normali e si deve fare così anche per i potenti». E in obbedienza alla volontà del leader a Palazzo Madama, in nome della truppa dei vari Marcucci, Fedeli e Zanda, interveniva in Aula il semisconosciuto Dario Parrini: «Non fu sulla base di una ragion di Stato che il ministro Salvini agì, ma fu, come al solito, sulla base di una ben più bassa ragion di partito, che è un'altra cosa». Leggano a proposito, Zingaretti e compagni, la sentenza del magistrato che scagiona totalmente Matteo: «L'imputato ha agito non contra ius bensì in aderenza alle previsioni normative». Anche il senatore "semplice" Matteo Renzi, in altre circostanze strenuo difensore dell'autonomia della politica, ai tempi liquidò sbrigativamente la questione: «È una cosa schifosa che Salvini abbia tenuto in mare dei poveri disgraziati. Ma non sono io che devo decidere se ha commesso un reato, io devo decidere se deve andare a processo. E voterei sì». Come ha fatto insieme alla pattuglia di Iv. Anche qui, messaggio per l'ex rottamatore da parte del Gup: «Non può essere addebitata (a Salvini, ndr) alcuna condotta finalizzata a sequestrare i migranti per un lasso di tempo giuridicamente apprezzabile». Stessa lezione vale pure per Emma Bonino e Pietro Grasso. L'ex presidente del Senato non risparmiò strali nei confronti del leghista: «Ricordiamo quei giorni dominati dall'euforia di un ministro che riteneva di essere al di sopra della legge (...). L'unico obiettivo era quello di spaventare l'Europa con un ricatto (...). Per farlo era disposto ancora a negare i diritti fondamentali di 131 esseri umani». Non la pensa così il magistrato secondo il quale l'azione dell'ex ministro, così come - udite udite - «l'azione della ministra Lamorgese, si è snodata sotto una ben definita copertura politica e normativa».

PENTASTELLATI

Ciliegina sulla torta i grillini: fautori del clamoroso voltafaccia in Senato nei confronti dell'ex alleato. Fuori dal Senato Luigi Di Maio teorizzava così la doppia morale: «La vicenda Diciotti (perla quale i grillini votarono contro la richiesta del Tribunale dei ministri, ndr) fu una decisione di governo, quella sulla Gregoretti fu propaganda del ministro Salvini». Non è da meno un altro ex ministro giallo-verde, Danilo Toninelli: «Salvini a parole faceva il duro e diceva agli italiani di difendere i confini. Negli atti giudiziari scarica la responsabilità ad altri ma la legge dice chiaramente che era sua». Parliamo dello stesso Toninelli che qualche mese (e un governo) prima si sbracciava per dire che «non Salvini, ma Salvini assieme al sottoscritto e a Conte abbiamo diminuito, con una cifra veramente enorme, il numero degli sbarchi». Tesi confermata non solo dalla sentenza del Gup ma anche dal famoso video di Giuseppe Conte quando, proprio sul caso Gregoretti, ammetteva il pieno coinvolgimento: «A livello di presidenza, abbiamo sempre lavorato per ricollocare e consentire poi lo sbarco». E se lo dice lui... 

Gregoretti, "Matteo Salvini aveva ragione": perché la sentenza è una condanna per il Pd. Renato Farina su Libero Quotidiano il 14 agosto 2021. Il Gup di Catania ha prosciolto sì, come già era noto, Matteo Salvini dall'imputazione di sequestro di 131 persone confinate per alcuni giorni sulla nave Gregoretti della Guardia Costiera, al largo di Augusta (Siracusa) nel luglio del 2019 . Ma dir così sarebbe minimalismo. Non si è accontentato neppure della formula già amplissima «il fatto non sussiste». Nelle motivazioni pubblicate ieri il giudice Nunzio Sarpietro ha impartito una sorta di benedizione giuridica all'azione dell'allora ministro dell'Interno nel campo dell'immigrazione clandestina. Di certo è una sentenza di marmo tirata sui denti fino a un attimo prima ridanciani della sinistra parlamentare - dal Pd a Leu ai Cinque Stelle - che ha consegnato al tribunale per liquidare con l'onta del processo e della galera il proprio oppositore politico. 

SUCCESSO PIENO

Povero Zingaretti (Letta non era ancora arrivato) ma almeno costui era all'opposizione quando Matteo chiudeva i porti all'invasione. Miserabili soprattutto i Conte e i Toninelli pronti a pugnalare il collega di governo dopo averne assecondate le mosse, rinnegandole davanti al sinedrio per meschina vendetta. I filosofi la chiamerebbero eterogenesi dei fini, la saggezza popolare parla di pifferi di montagna partiti per suonare e alla fine suonati per la loro beffa cosmica. La difesa, magistralmente condotta da Giulia Bongiorno, in sede di udienza preliminare, aveva proposto una doppia strada per il proscioglimento. La principale? Non c'è alcun crimine, punto. Ma, conoscendo le insidie del mondo, e le forzature orrende rivelate dalle chat di Luca Palamara, l'avvocata offriva una scappatoia al Gup. In sintesi: ammesso e non concesso che ci sia materia di reato, gli atti del ministro non erano tesi aun interesse personale, ma sono stati posti in essere per l'alto scopo di garantire la sicurezza nazionale all'interno di competenze e responsabilità che attengono al suo giuramento. Come dire: magari potrà esserci anche stato un sequestro di persona, a voler essere cavillosi, ma lo stato di necessità, il pericolo incombente per la nazione, esigeva queste scelte chiare e nette, sempre salvaguardando la salute dei clandestini, ma senza consentire loro un approdo senza certezza di sistemazione adeguata in Europa. Il giudice di Catania ha sorpassato, mettendo il turbo della ragionevolezza, questo approdo assolutorio sì ma in fondo da sei in pagella. Proscioglie perciò Salvini non perché ha agito in quanto ministro e come tale ha lo scudo della sua funzione, ma avendo egli lavorato arci-bene. Secondo la difesa della Bongiorno ha prodotto documenti talmente convincenti da cancellare ad ogni sguardo onesto qualsiasi margine di dubbio: il titolare a quel tempo del Viminale agendo come ha agito non ha posto in essere alcuna condotta suscettibile di essere considerata criminale. Noi tradurremmo il giuridichese in una valutazione politica pertinentissima al presente: magari la ministra Luciana Lamorgese agisse oggi come fece nel 2019 Matteo Salvini, del quale era allora prima, e dimentica, collaboratrice... 

CHE LEZIONE...

Scrive il dottor Sarpietro: «Gli elementi acquisiti si pongono in termini di assoluta chiarezza e completezza in merito alla insussistenza del delitto ipotizzato a carico dell'imputato, e le fonti di prova non si prestano a soluzioni alternative, non apparendo interpretabili in maniera diversa». Matteo Salvini non è stato mandato a processo insomma perché «il giudizio dibattimentale» sarebbe «del tutto superfluo». In soldoni: il Tribunale dei ministri quando ha chiesto al Senato di far processare Salvini a Catania ha preso una topica gigantesca. E i senatori approvandone le valutazioni hanno dimostrato di non aver studiato e di essersi lasciati guidare dalla voluttà punitiva nei confronti del nemico politico. Ovvio che Salvini abbia ben ragione di ritenersi soddisfatto. La senatrice e avvocata Giulia Bongiorno va più in là e ritiene questa sentenza dirimente riguardo anche al processo che si aprirà a Palermo il 15 settembre per l'analoga vicenda di Open Arms (147 migranti a bordo della nave Ong al largo di Lampedusa, agosto 2019). Sostiene la principessa del foro: «Gli argomenti della sentenza... analizzano globalmente la linea sul controllo dei flussi migratori del governo Conte I, passando in rassegna plurimi sbarchi di migranti sulle nostre coste, avranno inevitabilmente ricadute sul procedimento sul caso Open Arms». In contemporanea a questa sentenza è uscita un'intervista molto interessante di Fabio Martini sulla Stampa al predecessore di Salvini al Viminale, Marco Minniti (Pd). Dice: «Se ti concentri unicamente su sbarchi illegali e incontrollati non riesci a risolvere il problema. È una partita assai più grande che deve essere gestita non dai singoli Stati ma dall'Europa. Devi avere una visione. Purtroppo da questo punto di vista la vicenda del Consiglio europeo di giugno è icastica. Sono state decise due cose: affrontare immediatamente il negoziato con la Turchia per gestire la rotta orientale, che interessa alla Germania, dove si vota a settembre, mentre per il Mediterraneo centrale si è preso tempo, dando mandato alla Commissione di definire un progetto entro l'autunno. Ma il Mediterraneo non può attendere». Giustissimo. Che fare? Due proposte. 1) Il governo Draghi si occupi subito di questa instabilità geopolitica, vista la lentezza dell'Europa, nominando un commissario speciale per Africa e Migrazioni, dando così una scossa a Bruxelles. 2) Il fatto che il problema sia l'Africa e sia necessario risolvere il problema a monte, o meglio alle sorgenti del Nilo, non è un buon motivo per non tappare le falle dell'ultimo miglio. Le statistiche dicono che il 3% di chi prova la traversata muore. Meno traversate meno morti. 

"Un processo che non doveva iniziare nato soltanto per ragioni politiche". Fabrizio De Feo il 13 Agosto 2021 su Il Giornale. L'avvocato Maurizio Paniz: "La riforma Cartabia è solamente un piccolo passo". È il giorno delle motivazioni del non luogo a procedere sul caso Gregoretti. L'avvocato Maurizio Paniz, che con Fi e il Pdl, ha vissuto in prima linea tante battaglie sulla giustizia non è affatto stupito per l'esito della vicenda.

Onorevole Paniz, cosa pensa delle parole del Gup?

«C'è stata una condivisione totale della linea difensiva di Salvini che ha sempre detto di aver operato nel pieno svolgimento dei suoi doveri. Il problema è a monte. È stata avanzata una accusa che non doveva essere mossa. Purtroppo ci troviamo di fronte a iniziative che appaiono più dettate da logiche politiche che dal rispetto del quadro normativo».

Per il Gup il modus operandi di Salvini era condiviso dal governo.

«Non credo fosse in discussione. Mi chiedo: cosa dovrebbe fare un ministro per difendere i confini del proprio Paese? Ma ci si rende conto che nel momento in cui non si agisce, si trasmette il messaggio di una assoluta libertà di accesso che ingolosisce tutti quelli che si trovano in difficoltà economica?».

C'è il rischio che queste iniziative giudiziarie possano influenzare l'azione dei ministri?

«Quando si subisce una iniziativa penale è chiaro che un ministro finisca per pensare: ma chi me lo fa fare? Bisogna avere coraggio e Salvini ha fatto straordinariamente bene, dimostrando di essere disposto a rispettare il mandato avuto dagli italiani. Non ho nulla contro il ministro Lamorgese, ma oggi manca un messaggio che disincentivi gli sbarchi».

Salvini a settembre andrà a processo per il caso Open Arms.

«È un paradosso, è impossibile trovare differenze giuridiche. Parliamo di iniziative che comportano oneri giganteschi e che qualche conseguenza dovrebbero averla. Mi chiedo: davvero la Procura non avrebbe altro su cui concentrare la propria azione?».

Come giudica la riforma della giustizia?

«Oggi non c'è una maggioranza che consenta di agire in profondità, si dà un colpo al cerchio e uno alla botte, la riforma Cartabia è un piccolo passo per riparare a qualche stortura della Bonafede. I referendum invece rappresentano il grido del popolo italiano che ha perso fiducia nella struttura della magistratura e chiede riforme. D'altra parte Palamara ha descritto un sistema che tutti gli addetti ai lavori conoscono perfettamente da 20 anni, da quando la politica ha rinunciato all'immunità e a ogni contrappeso costituzionale».

C'è qualche rimpianto per quanto non siete riusciti a fare durante la stagione di governo?

«Oggi si rivalutano molte iniziative bocciate solo perché provenivano dal governo Berlusconi, penso al divieto di impugnazione a fronte delle assoluzioni, alla legge Pecorella bocciata dalla Consulta sulla spinta emotiva. Oggi il popolo italiano è pronto a recepire ciò che è stato bocciato. C'erano alcune esagerazioni, penso al processo breve senza norma transitoria che io stesso stoppai. Ma oggi la riforma Cartabia introduce il processo breve. I concetti di fondo, insomma, erano assolutamente corretti». Fabrizio De Feo

(ANSA il 14 maggio 2021) Sentenza di non luogo a procedere nei confronti di Matteo Salvini, che era imputato con l'accusa di sequestro di persona. E' la decisione del Gup di Catania, Nunzio Sarpietro, letta nell'aula bunker del carcere di Bicocca, a conclusione dell'udienza preliminare per il caso Gregoretti. Al centro del procedimento nei confronti dell'allora ministro dell'Interno i ritardi nello sbarco, nel luglio del 2019, di 131 migranti dalla nave della Guardia costiera italiana nel porto di Augusta, nel Siracusano.

CASO GREGORETTI. SALVINI PROSCIOLTO PERCHE’ “IL FATTO NON SUSSISTE “. Il Corriere del Giorno il 14 Maggio 2021. “Dedico questa giornata e questa assoluzione ai miei figli, agli italiani e agli stranieri per bene, in particolare alle forze dell’ordine. Questa giustizia dice che un ministro che ha difeso la dignità e i confini dell’Italia è un ministro che ha fatto il suo dovere. Sono contento e ribadisco che farò la stessa cosa qualora il popolo italiano mi darà nuovamente delle responsabilità di governo”. Subito dopo la la lettura della sentenza di “non luogo a procedere” del Gup di Catania Nunzio Sarpietro nel processo del Caso Gregoretti, in cui l’esponente del centrodestra era accusato di sequestro di persona. Le motivazioni complete del Gup, saranno pubblicate entro i prossimi 30 giorni. Per il giudice quindi il ritardo nel far scendere i migranti dalla nave della guardia costiera attraccata al porto di Augusta a fine luglio 2019, non si trattò di sequestro di persona. Esattamente l’opposto a quanto è stato deciso un mese fa a Palermo dove per la vicenda Open Arms, Matteo Salvini è stato rinviato a giudizio sempre per sequestro di persona. Il senatore Giulia Bongiorno, avvocato difensore del leader della Lega, da una parte ha sempre sostenuto l’insindacabilità delle scelte politiche, e dall’altra che queste erano state prese collegialmente dal Governo. Il processo a Palermo inizierà il 15 settembre. “Il Giudice ha studiato lavorato e si è preso le sue responsabilità. – ha commentato Salvini – Mi spiace solo per i denari che sono costati ai cittadini italiani queste giornate. L’Italia è l’unico Paese dell’Ue dove la sinistra politica ha mandato a processo un ministro non per reati corruttivi, ma per scelte di governo. Abbiamo la sinistra più retrograda del Continente europeo che usa la magistratura per vincere le elezioni dove non riesce a vincerle con in cabina. Spero che la sentenza sia utile agli amici del Pd e del M5s, le battaglie si vincono o in Parlamento o nelle campagne elettorale”. “Non penso a fare pressione, l’unica che faremo nelle prossime ore, e ho convocato per domani mattina un vertice fra ministri, governatori, sindaci e amministratori della Lega che presiederò personalmente, è perché lunedì si torni alla libertà con le riaperture di tutte le attività, al chiuso e all’aperto, di giorno e di sera, superando il limite delle 22”. “Dedico questa giornata e questa assoluzione ai miei figli, agli italiani e agli stranieri per bene, in particolare alle forze dell’ordine”, ha dichiarato al termine dell’udienza il leader della Lega, Matteo Salvini, fuori dall’aula bunker del carcere di Bicocca, sede del processo, ha aggiunto. “Questa giustizia dice che un ministro che ha difeso la dignità e i confini dell’Italia è un ministro che ha fatto il suo dovere. Sono contento e ribadisco che farò la stessa cosa qualora il popolo italiano mi darà nuovamente delle responsabilità di governo”.

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 15 maggio 2021. Seconda accusa, secondo verdetto, ma stavolta niente processo. Dopo il rinvio a giudizio di un mese fa a Palermo per il sequestro di 147 migranti a bordo della Open Arms, dall'altra parte della Sicilia Matteo Salvini incassa il proscioglimento per aver trattenuto 131 profughi sulla nave Gregoretti, tra il 27 e il 31 luglio 2019. L'ex ministro dell'Interno è stato prosciolto dal giudice Nunzio Sarpietro «perché il fatto non sussiste», e lui - presente in aula in mascherina tricolore - esulta su Twitter salutando i suoi fans: «Grazie Amici per avermi sostenuto, vi voglio bene», più cuoricino. Nell'aula-bunker del carcere di Bicocca, ai piedi dell'Etna, un magistrato ha stabilito che non ci fu alcun sequestro di persona mentre l'ex inquilino del Viminale e gli altri rappresentanti del governo Conte 1 (quello a maggioranza Lega-Cinque Stelle), tentavano il ricollocamento in Europa dei migranti arrivati dalla Libia. Non fu un'iniziativa personale di Salvini, ma dell'intero esecutivo, in virtù della linea sancita dal famoso «contratto di governo» e una fitta corrispondenza tra ministri. La decisione del giudice è arrivata al termine di una lunga istruttoria, durata molte udienze, compresa la trasferta romana a palazzo Chigi per ascoltare l'ex premier Giuseppe Conte. Dalle testimonianze e dalla documentazione raccolta, Sarpietro s' è convinto che il comportamento dell'ex ministro dell'Interno non fosse altro che l'applicazione di una politica governativa, senza violazioni di legge; politica sancita dai Decreti sicurezza-bis e da un regolamento varato nel febbraio 2019 da un «tavolo tecnico» con tutte le istituzioni competenti, che stabilì la linea di condotta verso le navi italiane (come la Gregoretti) e delle organizzazioni non governative. Una sorta di «assicurazione» che in questo caso - diverso per molti aspetti da quello della Open Arms sotto giudizio a Palermo - ha evitato a Salvini un altro processo. Le deposizioni di Conte e degli ex ministri del suo governo (Di Maio, Toninelli e Trenta) nonché dell'attuale ministra dell'Interno Luciana Lamorgese e degli ambasciato Pietro Benassi e Maurizio Massari, hanno convinto il giudice che la redistribuzione dei migranti fosse un obiettivo di tutto il governo; ma anche che la scelta di non farli scendere dalle navi prima che gli altri Paesi accettassero di accoglierli era legitima perché altrimenti, in base agli accordi di Dublino, quegli stessi profughi sarebbero rimasti in carico all'Italia. Inoltre, nel caso specifico, fino al permesso di sbarco la Gregoretti era nella rada del porto di Augusta, assistita per ogni necessità. In sostanza, secondo Sarpietro, quella sistemazione era già un Place of safety (luogo di approdo sicuro) che l'Italia aveva il dovere di accordare alle persone soccorse in mare. Un'interpretazione che coincide non solo con la difesa di Salvini, sostenuta con vigore dall'avvocata Giulia Bongiorno (senatrice leghista e ministra del governo allora in carica), ma anche della Procura di Catania che per ben due volte aveva chiesto l'archiazione del procedimento per insussistenza del reato. E lo stesso ha fatto in aula. Il giudice ha ritenuto che questa vicenda fosse simile e sovrapponibile al caso Diciotti, dell'estate 2018, per il quale il tribunale dei ministri catanese aveva ugualmente chiesto il rinvio a giudizio di Salvini. Ma in quell'occasione la maggioranza Lega-Cinque stelle, ancora ben salda, aveva negato l'autorizzazione a procedere. Quando s' è trattato di decidere sulla Gregoretti invece (e dopo sulla Open Arms) la coalizione s' era sfaldata e i grillini hanno votato a favore del processo. Un cambiamento di equilibri politici che non ha influito sulla decisione di Sarpietro, il quale ha ritenuto che Salvini abbia continuato a muoversi nella stessa logica di applicazione di un programma politico. E che dunque, dal punto di vista penale e giuridico, «il fatto non sussiste». Per le parti civili che rappresentavano alcuni migranti e le associazioni non governative, uniche a sostenere l'accusa, dopo la vittoria di Palermo è arrivata una secca sconfitta. «È un vulnus per la giustizia di questo Paese - protesta l'avvocato Corrado Giuliano -. Quale affidamento avrà per l'opinione pubblica una magistratura che da una parte rinvia a giudizio e dall'altra proscioglie? E Salvini, su questo, farà la sua propaganda».

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 15 maggio 2021.  «Il rinvio a giudizio del senatore Salvini avrebbe comportato l'incriminazione dell'ex premier Conte e dei ministri dell'epoca Di Maio e Toninelli, perché erano tutti d'accordo sulla redistribuzione dei migranti, invocata allora come adesso», spiega il giudice Nunzio Sarpietro. Dopo la pronuncia della sentenza di non luogo a procedere per l'ex ministro dell'Interno, davanti al fascicolo che raccoglie gli atti di un'istruttoria durata sette mesi, il presidente dell'Ufficio gip-gup illustra a grandi linee i criteri che l'hanno portato a quella decisione: «La politica del ricollocamento in Europa è stata un obiettivo di tutti i governi, come ha testimoniato anche la ministra Lamorgese, e com' è dimostrato dall'attività della nostra diplomazia di cui abbiano acquisito ampia documentazione».

Quindi Salvini non ha commesso alcun reato?

«Io ho ritenuto non sussistente alcuna violazione della normativa internazionale e nazionale. Salvini s' è attenuto alle convenzioni disponendo che venissero salvati i migranti in difficoltà e ritardando lo sbarco di due o tre giorni, facoltà concessagli da un provvedimento amministrativo del febbraio 2019».

 Perché dice che dispose il salvataggio dei migranti?

«Dagli atti risulta che fu il ministero dell'Interno a disporre il soccorso in acque internazionali dal momento che Malta non poteva o non voleva farlo. E sarebbe abbastanza strano che avesse preso questa iniziativa con l'intento di sequestrare quei migranti. Dopodiché il regolamento approvato nel febbraio 2019 gli consentì di trattenere le persone a bordo in attesa di definire il loro ricollocamento».

È quello che lei definisce il lavoro della diplomazia?

«Esattamente. Gli ambasciatori Massari e Benassi si sono subito messi al lavoro chiedendo collaborazione degli altri paesi dell'Unione, anche durante il fine settimana che per gli europei è sacro. Del resto lo stesso Conte l'ha detto chiaramente: appena c'era una nave in arrivo la diplomazia si attivava immediatamente per ottenere questo risultato».

Perché ha deciso di fare un'istruttoria così ampia e approfondita, nonostante la sua fosse soltanto un'udienza preliminare?

«Perché avevo sul mio tavolo la relazione del tribunale dei ministri che portava degli elementi di accusa contro Salvini, ma anche una memoria difensiva molto curata che contraddiceva quella ricostruzione. Lì io ho intravisto delle tracce di non colpevolezza dell'imputato che ho ritenuto necessario approfondire, e così ho fatto. Fino ad arrivare alla mia determinazione».

Ma in questo modo ha quasi celebrato un processo, andando oltre i confini dell'udienza preliminare...

«No, perché l'articolo 422 del codice di procedura penale prevede espressamente la possibilità di integrare l'attività istruttoria quando questa può dimostrare l'estraneità dell'imputato al reato contestato. Ed è esattamente ciò che è accaduto. Gli approfondimenti svolti mi hanno convinto che in un eventuale dibattimento non potesse uscire nulla di più di ciò che è emerso, e dunque ho pronunciato la sentenza di proscioglimento».

 L'ha fatto anche perché era consapevole delle ricadute politiche della sua decisione?

«Quando è arrivato il fascicolo ci siamo riuniti con i giudici della Sezione e abbiamo stabilito che fossi io a condurre l'udienza. Serviva un magistrato di esperienza, con l'autorevolezza derivante dalla carica di presidente della Sezione e con le spalle abbastanza larghe per reggere l'impatto che ci sarebbe stato sull'opinione pubblica e sul sistema politico. È stata una decisione di opportunità condivisa da tutti».

Nel frattempo a Palermo, per il caso Open Arms, Salvini è stato rinviato a giudizio.

«Non entro nel merito delle decisioni altrui, ma mi pare ci siano differenze fattuali che pongono i due episodi su piani diversi».

Caso Gregoretti vs Open Arms, quali sono le differenze. Valentina Mericio il 16/05/2021 su Notizie.it.  Il caso Gregoretti che ha portato al "non luogo a procedere" si distingue dal caso legato alla nave Gregoretti. Il verdetto del GUP di Catania che ha decretato il non luogo a procedere circa il caso legato alla nave Gregoretti, ha fatto emergere una domanda che in molti si saranno posti in questi ultimi giorni: cosa distingue il caso Gregoretti da quello della nave Open Arms? Un recente approfondimento pubblicato sul quotidiano “La Repubblica” ha cercato di fare un sunto su cosa è accaduto in quell’estate del 2019 ovvero quando il leader della Lega Matteo Salvini ricopriva il ruolo di Ministro dell’Interno. Seppure queste due vicende possano presentare delle analogie, si tratta di due casi diversi. 

Caso Gregoretti Open Arms – cambia il contesto storico. Iniziamo dal contesto storico nel quale queste due vicende hanno avuto luogo. Nonostante sia passato circa un mese tra i due casi troviamo un contorno decisamente diverso a cominciare dalla nave Gregoretti il cui sbarco fu impedito a luglio 2019 quando il decreto Sicurezza bis era da poco entrato in vigore. Diverso invece il caso della Open Arms avvenuto ad agosto 2019, quando l’esecutivo del primo Governo Conte era appeso ad un filo. Oltre al già citato contesto storico è necessario prestare particolare attenzione alla tipologia di imbarcazione che è stata coinvolta. La nave Gregoretti nello specifico faceva parte della flotta della Guardia Costiera italiana, pertanto dipendente dallo Stato Italiano. Il GUP di Catania in questo senso si è espresso con un non luogo a procedere in quanto la decisione di non far sbarcare i migranti era condivisa politicamente da tutto l’esecutivo e non dal solo Ministro dell’Interno.  Diverso invece il caso della Open Arms, la cui imbarcazione apparteneva ad una Ong spagnola che ad agosto 2019 ha trasportato 147 persone. Le condizioni fisiche dei passeggeri erano tali da aver portato il comandante a chiedere lo stato di emergenza con successivo ricorso al Tar del Lazio da parte degli stessi avvocati della Ong spagnola ai quali venne dato ragione. A dispetto di quanto sancito dal Tar, l’allora Ministro dell’Interno non concesse il Pos con la nave che rimase in attesa per circa venti giorni. L’imbarcazione Open Arms potè quindi sbarcare solo quando la procura di Agrigento mise la nave sotto sequestro. Oltre a ciò è stato messo nelle mani dell’accusa un documento che proverebbe come la responsabilità sarebbe stata imputabile al solo ex ministro dell’interno.

Gregoretti, il giudice Nunzio Sarpietro: "Rinviare a giudizio Salvini? Incriminati anche Conte, Di Maio e Toninelli". Libero Quotidiano il 15 maggio 2021. Il giudice Nunzio Sarpietro, dopo la sentenza di non luogo a procedere per Matteo Salvini sul caso della nave Gregoretti, spiega le ragioni della sua decisione: "Il rinvio a giudizio del senatore Salvini avrebbe comportato l'incriminazione dell'ex premier Conte e dei ministri dell'epoca Di Maio e Toninelli, perché erano tutti d'accordo sulla redistribuzione dei migranti, invocata allora come adesso", sottolinea il giudice in una intervista a Il Corriere della Sera. "La politica del ricollocamento in Europa è stata un obiettivo di tutti i governi, come ha testimoniato anche la ministra Lamorgese, e com' è dimostrato dall'attività della nostra diplomazia di cui abbiano acquisito ampia documentazione". Insomma l'allora ex ministro dell'Interno non ha commesso reati. "Ho ritenuto non sussistente alcuna violazione della normativa internazionale e nazionale. Salvini s' è attenuto alle convenzioni disponendo che venissero salvati i migranti in difficoltà e ritardando lo sbarco di due o tre giorni, facoltà concessagli da un provvedimento amministrativo del febbraio 2019", precisa Sarpietro. Dagli atti infatti risulta che fu propio il Viminale "a disporre il soccorso in acque internazionali dal momento che Malta non poteva o non voleva farlo. E sarebbe abbastanza strano che avesse preso questa iniziativa con l'intento di sequestrare quei migranti", osserva il giudice. "Dopodiché il regolamento approvato nel febbraio 2019 gli consentì di trattenere le persone a bordo in attesa di definire il loro ricollocamento". Il giudice Sarpietro ha quindi deciso di fare un'istruttoria molto approfondita per un'udienza preliminare perché, spiega, "avevo sul mio tavolo la relazione del tribunale dei ministri che portava degli elementi di accusa contro Salvini, ma anche una memoria difensiva molto curata che contraddiceva quella ricostruzione. Lì io ho intravisto delle tracce di non colpevolezza dell'imputato che ho ritenuto necessario approfondire, e così ho fatto. Fino ad arrivare alla mia determinazione" . E ancora: "Gli approfondimenti svolti mi hanno convinto che in un eventuale dibattimento non potesse uscire nulla di più di ciò che è emerso, e dunque ho pronunciato la sentenza di proscioglimento". Ma attenzione. Perché a Palermo, per il caso Open Arms, Salvini è stato invece rinviato a giudizio. Rischiano quindi di finire nei guai anche Conte, Di Maio e Toninelli? "Non entro nel merito delle decisioni altrui, ma mi pare ci siano differenze fattuali che pongono i due episodi su piani diversi", conclude Sarpietro. 

Delusi gli irriducibili dell'accoglienza. E l'ex sindaco Lucano invoca la giustizia divina. Fausto Biloslavo il 15 Maggio 2021 su Il Giornale. I legali delle parti civili: un vulnus. Open Arms: il nostro caso è molto diverso. L'Ong spagnola, i circoli ricreativi di sinistra, i legali pro migranti, le semi scomparse Sardine e un ex sindaco targato rosicano per il «non luogo a procedere» di Catania a favore di Matteo Salvini quando era ministro dell'Interno. E tifano per il processo che lo attende a Palermo con il sogno di vedere il leader della Lega dietro le sbarre. Pd e grillini hanno il buon gusto di tacere a parte casi isolati come la democratica Lia Quartapelle: «La conclusione della vicenda giudiziaria sulla Gregoretti non oscuri il fatto politico. Salvini è stato il primo ministro della Repubblica a bloccare l'attracco in un porto italiano di una nave della Guardia costiera. Il sonno della ragione genera mostri». Anche il circo dei talebani dell'accoglienza non molla e invoca la «giusta» punizione. Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, estremista pro migranti, invoca addirittura il giudizio divino. «Anche se oggi Salvini l'ha scampata, un giorno dovrà rispondere a qualcuno che sta più in alto di noi - dichiara Lucano in toni apocalittici - perché di fatto ci sono stati essere umani (i migranti bordo di nave Gregoretti, nda) condannati da una politica razzista che li ha segregati mettendo a rischio la loro vita». I pretoriani di sinistra dell'Arci non hanno dubbi. «Il non luogo a procedere per Salvini sul caso Gregoretti è una scelta incomprensibile e a nostro parere sbagliata» sentenzia Filippo Miraglia, responsabile Immigrazione delle Associazioni ricreative e culturali italiane. «Speriamo che la magistratura di Palermo faccia emergere una realtà diversa e non la mistificazione di un rappresentante dello Stato che usa i suoi poteri per ragioni di interesse di partito», ribadisce il talebano delle manette. L'Arci è in prima linea nell'appoggiare le Ong del mare come Mediterranea fondata da Casarini e soci oggi indagati dalla procura di Ragusa per favoreggiamento aggravato dell'immigrazione clandestina. Proprio l'Arci è uno dei soci fondatori di Banca Etica, che ha prestato quasi mezzo milione di euro per comprare Mare Jonio. Anche i legali delle parti civili vanno giù duri sulla decisione di Catania. La sentenza «è un vulnus per la giustizia di questo Paese. La decisione contrasta con quella di Palermo. La magistratura da una parte rinvia a giudizio e dall'altra proscioglie. E Salvini ne farà oggetto della sua propaganda». La dichiarazione è dell'avvocato Corrado Giuliano legale dell'associazione Accoglie Rete dedita ai minori non accompagnati, che si è ovviamente costituita parte civile. Ieri è uscito dal torpore anche uno dei fondatori delle Sardine, Mattia Sartori, chiamato in causa dai leghisti perché i suoi auspicavano fin dall'inizio la condanna di Salvini. E l'Ong spagnola Open arms affila i coltelli. Sull'archiviazione di Catania la portavoce, Veronica Alfonsi, sminuisce sostenendo che «come sentenza era abbastanza annunciata». Poi riferendosi al processo di Palermo, che riguarda la nave dei talebani dell'accoglienza spagnoli, sostiene che «la nostra vicenda ha degli aspetti che sono molto diversi rispetto a quelli della Gregoretti. Ci sono dei passaggi importanti dal punto di vista legale: il pronunciamento del Tar del Lazio con cui veniva sospesa l'interdizione di entrata in acque territoriali, quello del Tribunale dei minori che disponeva lo sbarco, fino alla decisione del procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio di far scendere le persone». Peccato che il giudice delle indagini preliminare di Catania abbia tenuto conto anche del caso Open arms per archiviare il processo a Salvini.

Felice Manti per "il Giornale" il 10 giugno 2021. «Beati i perseguitati dalla giustizia perché di essi è il regno dei cieli». Sarà contento Mimmo Lucano di essersi guadagnato il paradiso, almeno secondo il Vangelo di Matteo (5, 10) per colpa del processo che lo vede alla sbarra per favoreggiamento dell' immigrazione clandestina quando era sindaco di Riace, in Calabria. Al processo il pm Michele Permunian ha chiesto la sua condanna a 7 anni e 11 mesi (4 anni e 4 mesi per la compagna Lemlem Tesfahun) anche per associazione a delinquere, abuso d' ufficio, truffa, concussione, peculato, turbativa d' asta e falsità ideologica per presunti illeciti nella gestione del sistema di accoglienza dei migranti nel centro della Locride. Tutte macchinazioni, dice lo stesso Lucano ai microfoni di KlausCondicio su Youtube, trasmissione condotta dal massmediologo Klaus Davi, che si paragona a una vittima della giustizia: «È una condizione che non vorrei augurare a nessuno, neanche alla peggiore persona». Nemmeno a Silvio Berlusconi, che Lucano - candidato in ticket con Luigi de Magistris a governatore della Calabria - ingaggia nel suo stesso «girone», quello dei perseguitati dalle toghe: «C' è sempre una dimensione umana che bisogna rispettare. Non è giusta la persecuzione, non è mai una giustificazione. Vale anche per Berlusconi come per qualsiasi altro essere umano». Per un Silvio Berlusconi «riabilitato» da sinistra - sulla falsariga di Michele Santoro - e un Matteo Salvini tutto sommato «risparmiato» («I lager di San Ferdinando e la rivolta dei neri non comincia con Matteo Salvini, con il quale non condivido nulla. Devo obiettivamente riconoscere che loro - i leghisti, ndr - non c' entrano nulla») c' è un uomo di sinistra su cui Lucano addensa luci inquietanti. «Le mie disgrazie coincidono con l' avvento di Marco Minniti al ministero dell' Interno - sibila Lucano - la mia percezione da imputato principale a Locri è che c' è stata una sorta di intelligence che stabilisce che sono pericoloso», aggiunge, lanciando una bizzarra ipotesi su fantomatici «apparati del sistema di questa area progressista» nel quale l' ex ministro dell' Interno, calabrese come Lucano, avrebbe «un ruolo centrale». «Una volta mi hanno invitato per parlare in maniera diretta a Reggio Calabria ma Minniti non è venuto», ricorda. Un' altra volta l' allora prefetto Luigi De Sena (poi diventato parlamentare Pd) gli avrebbe detto «attenzione che il vento sta cambiando, e proprio quelli che sono i tuoi amici potrebbero esserne la causa, perché stai facendo delle cose che involontariamente ribaltano i rapporti con i capi clan libici». Insomma, l' esperimento di Riace avrebbe dato fastidio a chi dall' immigrazione clandestina ci lucra. «E non escludo che nel 2018 la 'ndrangheta abbia chiesto alla Rai lo stop alla messa in onda della fiction dedicata a Riace», quella interpretata da Beppe Fiorello. Insomma, è la solita storia: servizi segreti, affari sporchi, 'ndrangheta e malagiustizia. In una parola, la Calabria.

"A bordo due scafisti...". Salvini smonta il teorema dei pm. Mauro Indelicato il 14 Maggio 2021 su Il Giornale. Lo scorso 10 aprile la procura di Catania ha chiesto il non luogo a procedere per l'ex ministro dell'Interno. Adesso c'è attesa per la decisione di domani. Dovrebbe, salvo clamorose novità, essere l'ultimo atto del caso Gregoretti. L'udienza che oggi avrà luogo nell'aula bunker del carcere di Catania potrebbe portare alla definitiva archiviazione per Matteo Salvini. Del resto la richiesta della stessa procura etnea, lo scorso 10 aprile, è stata questa: non luogo a procedere per l'imputato, ossia per l'ex ministro dell'Interno.

Il caso Gregoretti. La vicenda Gregoretti parte da lontano. Nel luglio del 2019 dalle stanze del Viminale, all'epoca retto da Matteo Salvini, è arrivato il diniego allo sbarco della nave della Guardia Costiera Gregoretti, nel frattempo ancorata ad Augusta con diversi migranti a bordo. Per quattro giorni, dal 27 al 31 luglio, il ministero dell'Interno ha mantenuto questa posizione. Lo sbarco è avvenuto dopo le rassicurazioni da parte europea dell'attivazione di una procedura di redistribuzione dei migranti. Il 30 luglio però la procura di Siracusa aveva già aperto un fascicolo nei confronti di Salvini. Le accuse erano quelle di abuso di ufficio e sequestro di persona. Per competenza le carte sono state passate al tribunale dei ministri di Catania, essendo il leader della Lega ancora in carica. Tuttavia la procura retta da Carmelo Zuccaro già a settembre aveva chiesto l'archiviazione. Si è però arrivati alle udienze preliminari per via della richiesta del tribunale dei ministri al Senato, con l'aula di Palazzo Madama che ha dato il disco verde il 12 febbraio 2020. Il debutto nelle aule dell'aula bunker di Catania ha dato però la possibilità a Matteo Salvini di sottolineare la sua tesi. Ossia che in quell'occasione non c'è stato alcun sequestro e che, soprattutto, la sua azione è stata concordata con il resto del governo Conte I.

Le memorie difensive di Salvini. L'ex ministro dell'Interno domani sarà a Catania. Con sé, tra le carte portate nella città siciliana, avrà anche copia delle 51 pagine che compongono le sue memorie difensive depositate alla vigilia dell'ultima udienza di aprile. Si tratta di un documento in cui Salvini, oltre a ripercorrere la vicenda, traccia la sua linea difensiva ricordando alcuni elementi particolari. A partire ad esempio dal fatto che a bordo della Gregoretti vi erano anche due scafisti: “Tutto è confermato – si legge – dall'anomalo ritrovamento di un dispositivo che induceva a ritenere che a bordo fossero presenti degli scafisti”. C'è poi la questione legata alla strategia concordata con il governo: “Cito per la loro nitidezza – ha scritto Salvini nelle memorie – le dichiarazioni del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il quale in data 28 dicembre 2019, in occasione della conferenza stampa di fine anno, affermò: “per quanto riguarda le ricollocazioni abbiamo sempre a livello di Presidenza, anche con l’ausilio del Ministero degli esteri, lavorato noi per ricollocare e quindi consentire poi lo sbarco”. La posizione dell'intero governo è stata esaminata a lungo dal Gip Nunzio Sarpietro durante questa fase pre processuale. Alcune udienze hanno coinvolto ministri chiave del governo Conte I, da Toninelli e Luigi Di Maio, passando anche per l'ex presidente del consiglio. Proprio dopo aver ascoltato a Roma Giuseppe Conte, Sarpietro ha dichiarato di aver ravvisato “un lavoro di squadra”. Le 51 pagine delle memorie depositate da Salvini si concludono poi con la rivendicazione del lavoro svolto: “Concludo ricordando le parole con le quali ho assunto l’incarico di Ministro dell’interno – si legge – ho giurato di essere fedele alla Repubblica, di osservare lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione. È con questo spirito che ho sempre agito da Ministro dell’interno, nel rispetto dei miei doveri e della volontà del popolo sovrano”.

Chiara Giannini per “il Giornale” l'11 gennaio 2021. L'ex ministro dei Trasporti Danilo Toninelli deve avere un nuovo calo di memoria, visto che non ricorda neppure di fronte all' evidenza. Nella trascrizione integrale della sua testimonianza al tribunale di Catania per il caso Gregoretti, che vede imputato l' ex ministro dell' Interno Matteo Salvini per sequestro di persona, sono 42 i «non ricordo», «sono passati 2 anni», «non posso ricordare» pronunciati dal pentastellato. Eppure lui nega la realtà citando addirittura il documento che, se letto, rende l' idea di quanto imbarazzanti siano state le sue risposte. Una continua contraddizione nelle dichiarazioni che ha indotto l' avvocato del leader della Lega, Giulia Bongiorno, a chiedere che nel processo attualmente in corso a Palermo sul caso Open Arms si tenesse conto anche della testimonianza traballante che Toninelli rese a Catania. «Eccovi la verità - ha scritto ieri il senatore a 5 stelle su Facebook mostrando poi in un video, tra le altre, anche la prima pagina del Giornale sulla sua figuraccia - sul non ricordo di cui sono stato ingiustamente accusato a reti unificate. Era tutto falso! Lo potete leggere nella trascrizione integrale della mia testimonianza al Tribunale di Catania. Alla faccia di chi diceva che non ricordassi nulla». E ancora: «Sul caso Open Arms ho risposto sì, ricordo, sia al giudice che all' avvocato Bongiorno (ex ministro del Conte I). Ma a causa delle falsità che sono state dette ovunque sul mio conto ho ricevuto minacce e insulti di ogni tipo». Peccato che a leggere la trascrizione della testimonianza la realtà che appare è tutt'altra. Toninelli, è chiaro, cerca di svicolare da responsabilità, di tramutare la realtà in qualcosa che volga a suo favore, tanto che a un certo punto risponde anche: «Chiedetelo al diretto interessato», ovviamente Salvini. L'ex ministro deve avere la memoria tanto corta che quando il giudice gli chiede se ricorda «qual era l'accordo relativo alla questione dell'immigrazione clandestina, soprattutto dall' Africa verso le coste italiane? Qual era la posizione in questo contratto di governo?», risponde: «Non ricordo perché non fu una parte che mi competeva, era diverso per argomenti quel tavolo e la parte relativa all'immigrazione clandestina non mi competeva». Peccato che del suo ex ministero fa parte anche la Guardia costiera, che da anni si occupa anche di recupero dei migranti. Come è possibile che un ministro non sappia cosa c'è scritto nel contratto che il suo partito ha firmato per andare a governare? Ma è su Open Arms che arrivano le vere sorprese perché, dopo aver risposto al giudice che ricorda l'evento, all' avvocato Bongiorno Toninelli rende dichiarazioni contraddittorie. «Quindi in questo caso c'è anche la sua firma, giusto?», chiede la legale di Salvini. Toninelli: «Ma ovviamente la do per certo, non ricordo quante furono le occasioni in cui io firmai». L'ex ministro non fa che arrampicarsi sugli specchi, di fatto cadendo nel dare ragione a Salvini: «Confermo, se ho contezza, cosa che oggi non posso avere per ovvi motivi di tempo trascorsi, il fatto che io oggi non ho contezza di quali siano gli accadimenti precedenti. Le dico se quel caso di cui lei ha parlato è avvenuto in acque maltesi, che per le convenzioni internazionali debbono imporre a chi ne ha la responsabilità giuridica di intervenire, farsi carico dei migranti, le confermo. Ma siccome oggi non ricordo, le dico non ricordo». Sempre su Open Arms: «Io non posso avere un ricordo preciso, abbia pazienza, è passato ormai un anno e mezzo». E la cosa grave è che non si ricorda neanche se ha votato o meno al Senato per mandare Salvini a processo. Da chiedersi se con la testa fosse lì o altrove.

Il delirio di Toninelli: basta fondi ai giornali che parlano male di lui. Il grillino offeso per i nostri articoli sulla sua testimonianza al processo su Open Arms. Paolo Bracalini, Martedì 12/01/2021 su Il Giornale. Il concetto di libertà di stampa secondo Danilo Toninelli: se i giornali riportano le notizie che lo riguardano in un modo che secondo lui è scorretto, allora «ben vengano i tagli all'editoria» dice in un video sui social l'ex ministro (a sua insaputa) delle Infrastrutture, che poi annuncia non meglio precisate «nuove disposizioni per restituire ai cittadini il sacrosanto diritto di essere informati da una stampa libera e non soggetta a condizionanti interessi di parte». Toninelli, già campione di gaffe e figuracce, ha sempre avuto un rapporto difficile con i giornalisti, peraltro un marchio di fabbrica dei Cinque Stelle che considerano attendibili soltanto i giornalisti schierati dalla loro parte o i direttori da loro piazzati in Rai, non quelli che non eseguono gli ordini di Rocco Casalino. Nel caso specifico all'ex ministro grillino non è piaciuto come i giornali hanno raccontato la sua surreale testimonianza al Tribunale di Catania per il caso Gregoretti, in cui è imputato Salvini per il presunto sequestro di persona degli immigrati a bordo della nave. Toninelli è stato chiamato a rispondere alle domande del giudice e dell'avvocato del leader leghista (collega di governo di Toninelli nel Conte 1), al fine di inquadrare il contesto in cui venivano prese le decisioni sugli sbarchi delle navi Ong cariche di clandestini. In quella testimonianza di due ore, trascritta integralmente, si contano la bellezza di 42 tra «non ricordo», «non so», «non posso ricordare», «sono passati due anni», formule da smemorato seriale dietro a cui Toninelli si è parato durante la sua testimonianza in Tribunale. Ebbene, questi «non ricordo» contati nella trascrizione integrale della sua deposizione sarebbero però una «fake news», accusa il grillino, perchè invece in ben due risposte, sventolate da lui nel video, Toninelli dice «sì, ricordo». E le altre 42 in cui invece non ricorda nulla? Non importano, e comunque non è su quelle che i giornali dovrebbero titolare, spiega Toninelli, nei panni immaginari di ministro dell'Informazione. Fosse per lui la stampa non allineata andrebbe punita, e infatti a quello pensa quando esulta per i «tagli all'editoria» (che tra l'altro non riguardano la stragrande maggioranza di quotidiani nazionali come il Giornale che non ricevono alcun finanziamento pubblico, a differenza di Toninelli che invece da otto anni riceve un lauto stipendio pagato dai contribuenti italiani). Non c'è solo l'astio personale nei confronti di Salvini, a cui lui deve la fine dell'esperienza da ministro delle Infrastrutture, ma anche verso i media che lo dipingono come uno che non ricorda cosa faceva da ministro, a neppure due anni di distanza, solo perchè in una testimonianza dice per 42 volte «non ricordo». Ecco, per Toninelli si tratta di «un caso emblematico di pessima (e scorretta) informazione», un «sovversione della realtà» e un «inganno dell'opinione pubblica in danno delle vere vittime del serio problema degli sbarchi clandestini», perciò «occorre al più presto introdurre nuove disposizioni per restituire ai cittadini il sacrosanto diritto di essere informati da una stampa libera» dice Toninelli, che lamenta anche di essere vittima di insulti e minacce sui social. Sicuramente moltissimi sono quelli, nei commenti, che gli rinfacciano la poca memoria sugli atti da ministro della Repubblica. Amarezze che, confidiamo, dimenticherà presto.

Giorgio Gandola per "La Verità" il 13 gennaio 2021. Danilo dove hai parcheggiato il monopattino? «Non ricordo». È il destino di Danilo Toninelli, forse gli capitava anche da bambino a Soresina, nel Cremonese. Rimuovere ciò che dice, ciò che fa, qualche volta anche ciò che firma è la cifra politica dell’ex ministro grillino. Un parlamentare a sua insaputa che davanti all’accusa di avere sparato una raffica di «non ricordo» (chi dice 42, chi 46) nell’interrogatorio chiave del processo contro Matteo Salvini per il caso della nave Gregoretti (e acquisito per Open Arms), ha deciso di mettere un punto fermo. E di smascherare i giornalisti in malafede inchiodandoli alla legge dello scripta manent, alla carta canta, unica garanzia di democrazia. Toninelli al contrattacco. Lui che non ricordava di avere firmato la lettera uscita dal suo ministero per rinnovare ai Benetton la convenzione dopo la ricostruzione del ponte Morandi («Saranno stati i funzionari, queste interlocuzioni non passano dalla mia scrivania»), ha deciso di zittire i critici con un video su Facebook nel quale sbandiera come uno straccio il frontespizio della sua deposizione al processo di Catania, mostrando un paio di risposte: «Vedete che qui dico sì?». Si tratta della conferma di atti istituzionali e di post difficili da smentire davanti agli screenshot. Un’o p e ra z i o n e decisiva per provare a rabbonire i fans pronti a dimenticarsi di lui alle prossime elezioni, meno per contraddire i giornali. Perché la sua testimonianza è un atto pubblico ed è automatico andare a rileggerla. Per comodità del lettore le domande sono del giudice, del pm o di Giulia Bongiorno (qui in veste di difensore di Salvini). E le risposte sono del nostro eroe smemorato, così marginale nelle vicende da essere casualmente responsabile della Guardia costiera. Qual era la posizione nel contratto di governo rispetto all’immigrazione dall’Af ric a? «Non ricordo perché non fu una parte che mi competeva». Ricorda se si parlò della redistribuzione dei migranti? «Non ricordo». Ricorda come doveva avvenire il superamento del trattato di Dublino? «No, assolutamente no». Ha avuto modo di leggere il codice di condotta Minniti, predecessore di Salvini? «In questo momento non ricordo». Ricorda se la redistribuzione dei migranti deve essere fatta prima o dopo lo sbarco? «Non ricordo». C’è stato un Consiglio dei ministri sul tema? «Non ricordo, abbia pazienza. Sono passati quasi due anni». Si va avanti così (pubblichiamo un ampio stralcio della deposizione), con risposte scritte sulla sabbia, con balbettii che farebbero sembrare Tex Willer persino don Abbondio. L’esercizio più divertente sarebbe leggere la deposizione guardando il video su Facebook in cui Toninelli in primo piano spiega ai suoi elettori perché gli altri mentono. Gli altri ingannano. Gli altri pervicacemente speculano. Ricorda quanto tempo la nave Diciotti stette ferma? «Non ricordo, mi dispiace». La decisione di Salvini di non far sbarcare i migranti era concordata? «Penso che lo dobbiate chiedere al diretto interessato». Risposta da talk show, un giudice americano gli avrebbe tirato il martelletto. Ricorda come ha votato nell’autorizzazione a procedere contro Salvini? «Non ricordo di avere votato, non ricordo cosa ho votato». Però ricorda dove ha parcheggiato il monopattino da bambino: nel tunnel del Brennero.

Da "la Verità" il 13 gennaio 2021. [...] Interviene l'avvocato Giulia Buongiorno.

In quella memoria inoltre lei fa riferimento al fatto che la Diciotti attraccava al porto di Catania e difendeva quanto avevate fatto per tutelare i migranti. Ricorda cosa avevate fatto per tutelare i migranti durante il momento cui la Diciotti era bloccata?

«Ovviamente non posso ricordare quello che è accaduto circa due anni fa, ma le regole di ingaggio sono sempre le medesime, salvare vite umane, garantire loro sostentamento e do per scontato che la guardia costiera abbia adempiuto ai propri obblighi di legge».

Lei ricorda quanto tempo la nave Diciotti stette ferma, se furono parecchi giorni?

«No, non ricordo, mi dispiace».

In particolare, facendo presente che restarono a bordo dal 20 agosto no al 25 agosto, ci fu un post, per post si intende quello che si annota su Facebook, del presidente Conte mentre i migranti erano a bordo, perché è del 22 agosto, e il presidente Conte intitolava così il suo post del 22 agosto 2018: «'Ma l'Europa vuole battere un colpo?». Lei ha avuto modo di condividere questo post o di leggerlo, sa che cosa è o non ricorda?

«No, non ricordo ovviamente».

Le segnalo che lei lo stesso 22 agosto in realtà ha ripostato il post di Conte scrivendo testualmente: «L'Italia non ha mai voltato le spalle ad alcuna vita umana in pericolo. Ora tocca all'Europa dare una risposta forte e chiara».

«Evidentemente l'ho scritto, condivido pienamente quelle parole, come condivido l'indirizzo politico di Conte nel post che lei mi ha appena detto ma che è normale che non ricordo a distanza di due anni».

Passiamo a Sea Watch. Si tratta della Sea Watch 19-31 gennaio 2019, su questo le carte sono state acquisite. C'è un primo suo post su Facebook in cui lei dà atto che il 19 gennaio arriva questa Sea Watch che si è mossa in totale autonomia nel mare Sar Libico senza attendere la guardia costiera di Tripoli e poi lei conclude dicendo: «C'è qualcuno che favorisce la partenza dei barconi della morte? Ma il Governo del cambiamento non è disposto ad accettare questo stato di cose. L'Olanda conosceva sin da subito gli intendimenti della Sea Watch?».

Ricorda questo episodio Sea Watch?

«Signor avvocato, ricordo vagamente ovviamente».

In particolare in quella occasione ci fu un importante, che lei ha commentato, decisione della Corte di Strasburgo che dette ragione al governo e torto a Sea Watch. Ricorda?

«No, non mi ricordo, mi dispiace».

C'è un tweet del senatore Toninelli del 19 gennaio 2019: «Anche la Corte di Strasburgo dà ragione al Governo e torto a Sea Watch. Dobbiamo garantire ai migranti cure e assistenze adeguate ed è quello che stiamo facendo, ma non abbiamo obblighi sullo sbarco e non li faremo sbarcare nché la Ue non batte un colpo. Avanti così». Ricorda il senatore Toninelli che ha affermato: «Non li faremo sbarcare nché la Ue non batte un colpo»?

«Non ricordo ma non ho alcun problema di dire che potrei averlo scritto [...]». [...]

Fin qui abbiamo trattato gli eventi della fase del governo Conte 1 in cui c'era il governo compatto. Poi inizia questa crisi di governo e trattiamo altri due casi. Ad agosto 2019 in particolare c'è un evento che è l'evento Open Arms, 15 agosto 2019. Intanto lei ricorda, se vuole le mostro la sua rma, che lei rmò questo divieto di ingresso e transito e sosta che poi viene annullato dal Tar. Lo ricorda?

«Sì».

Perfetto. Quindi in questo caso c'è anche la sua firma, giusto?

«Chiedo scusa, mi può ripetere?».

C'è anche la sua firma su questo episodio, sul divieto c'è la sua firma, la vuole riconoscere oppure ce lo dà per certo?

«Ma ovviamente la do per certo [...] Ma io non posso avere un ricordo preciso, abbia pazienza, è passato ormai un anno e mezzo [...]».

Io volevo sapere rispetto a questo evento cui lei aveva firmato, e quindi era un protagonista direi, ricorda che in relazione quindi a questo evento, questo, in cui lei aveva dato questa firma, lei sosteneva che non avreste dovuto accogliere i migranti ma solo farvi carico dei minori?

«Non ricordo».[...]

Intendevo dirle che lei il 20 agosto dice di avere avuto proprio un dibattito con gli altri Stati, perché lei dice: «Stiamo lavorando ancora in queste ore per sbloccare al più presto la situazione della Open Arms. Ho avuto proprio poco fa una interlocuzione con la Spagna e attendo che il governo spagnolo risponda alla nostra richiesta».

«Io ho avuto una interlocuzione con il ministro dei Trasporti spagnolo per quanto riguarda dove fare andare la barca, una roba tecnica».

Si, va be', tecnica, però c'erano i migranti a mare.

«Sì, ma lei deve avere la pazienza che io non posso ricordare dei tanti episodi tutti i singoli passaggi. Se mi contestualizza il singolo episodio poi io posso ricostruire i fatti [...]».[...]

Però lei scriveva: «Auspico che lo faccia al più presto, perché la situazione a bordo della Open Arms è insostenibile». Quindi lei lo sapeva.

«Se me lo dice adesso lo sapevo ma avrò ricevuto informazioni da quello che stava accadendo in quel momento».

[...]Comunque lei qui ha avuto sicuramente un ruolo, ha firmato il divieto di accesso, ha avuto queste interlocuzioni. Lei ricorda che ci fu una richiesta di autorizzazione a procedere contro Salvini per la Open Arms?

«Mi pare di sì».

E si ricorda come ha votato?

«Non mi ricordo di avere votato, abbia pazienza. Non ricordo cosa ho votato».

Considerato quello che era stato il suo ruolo lei condivise quello che...?

«Signor avvocato, io devo ricontestualizzare e guardare tutti gli atti per potere rispondere. Mi dispiace ma non ricordo».

A proposito della Gregoretti, lei ricorda che il presidente Conte nella conferenza stampa di ne anno 2019 fece riferimento alla procedura che seguiva il governo dicendo che per il governo, in riferimento alla procedura diceva, le dico testualmente: «Per quanto riguarda le collocazioni abbiamo sempre, a livello di presidenza e con l'ausilio del ministero degli Esteri, lavorato per ricollocare e quindi consentire poi lo sbarco». Era questa la linea del governo?

«Io non ricordo quella conferenza stampa, ma la linea politica del Governo era di cercare in tutti i modi di fare interessare e rispondere alle proprie responsabilità anche gli altri Paesi europei».

Prima degli sbarchi o dopo gli sbarchi?

«Ogni caso è a sé stante, signor avvocato, non le posso dare una risposta univoca Ogni caso è a sé stante».

C'è una sua dichiarazione al Giornale.it in cui dice: «Senza di me Salvini non faceva niente», ovviamente quando i rapporti si erano un po'... Ah, no, nemmeno i rapporti erano così. Lei cosa intende dire quando dice: «Senza di me Salvini non faceva niente»?

«Non mi ricordo, me la dovrebbe contestualizzare. Dubito di avere mai rilasciato una intervista al Giornale.it, signor avvocato».

Toghe sporche: quanti dubbi. Palamaragate, non finiscono i dubbi: anche inchieste e sentenze erano lottizzate? Tiziana Maiolo su Il Riformista il 2 Febbraio 2021. Un po’ lo dice, un po’ lo lascia intendere, il magistrato Luca Palamara, quando, ospite di Massimo Giletti, si trova d’improvviso in un faccia-a-faccia televisivo con Matteo Salvini. Dicendo che i suoi colleghi in toga hanno visioni diverse sul problema dell’immigrazione, intende dire che le divergenze ideologiche potrebbero cambiare i comportamenti nelle inchieste fino a far considerare reato o meno lo stesso atto? Fino a condizionare addirittura anche le sentenze “in nome del popolo italiano”? Il dottor Palamara non può non sapere quanto sia seria la questione. Per due motivi, ambedue piuttosto gravi. Il primo riguarda i cittadini, quegli stessi che oggi non paiono credere più nella giustizia nella misura del 70%, una percentuale pericolosamente vicina quell’83% che nel 1987, dopo il caso Tortora, votò SI al referendum per la responsabilità civile dei magistrati. Può un cittadino presentarsi con una certa serenità davanti al suo giudice naturale sapendolo non libero (e soggetto solo alla legge), ma schiavo di un pre-giudizio che può condizionare la sua decisione? Nel caso del pm la scelta di richiedere o meno una custodia cautelare in carcere? O quella del gip di discostarsi o no dalla richiesta del pm che magari appartiene alla sua corrente sindacale? È evidente che la questione si fa ancora più seria se entriamo nel campo dove agiscono quelli che dovrebbero essere gli unici ad appartenere alla magistratura, cioè i giudici, coloro che detengono il diritto-dovere di Juris dicere. Non è un caso che, pur senza disturbare le sentenze del giudice Corrado Carnevale (che “ammazzava” soprattutto i provvedimenti mal fatti e peggio scritti), troppo spesso il cittadino riesca ad avere giustizia solo al momento della cassazione. Se questi timori ci riguardano tutti, dal momento che nessuno vorrebbe mai trovarsi impigliato in una sorta di roulette russa che può cambiargli la vita, non è secondario neanche l’aspetto più appariscente di questa anomalia della magistratura militante italiana. Quella che riguarda la storia intera del Paese, condizionata sempre più, quanto meno negli ultimi venticinque anni, dalla presenza ingombrante delle toghe nella vita politica. Un esempio del passato. Una domanda da fare ai Palamara che furono prima di lui. Se nel 1993 i magistrati della “roccaforte rossa” di Milano, quelli che si autodefinirono Mani Pulite, non avessero arrestato l’ex presidente dell’Iri Franco Nobili (poi assolto), ma il suo predecessore o il suo successore, sarebbe cambiato qualcosa nella storia d’Italia? Qualcuno si è mai domandato perché a San Vittore non ci fosse quel Romano Prodi che fu predecessore e successore di Nobili all’Iri in quegli anni? Ci fu forse una cesura nella politica dell’ente, tale da far sospettare che solo nel breve periodo della presidenza Nobili ci sia stata la costituzione di fondi neri? Se in carcere ci fosse stato Prodi (che sarebbe poi comunque stato a sua volta assolto), sarebbe cambiata la storia d’Italia. Nessun magistrato milanese, di quelli che ancora indossano la toga come degli altri che sono ormai in pensione (Saverio Borrelli e Gerardo D’Ambrosio non ci sono più) risponderebbe alla domanda. Anche perché dovrebbero prima dare un paio di piccole spiegazioni sull’uso che hanno fatto della custodia cautelare e sulla discutibile applicazione della competenza territoriale, radicata a Milano invece che a Roma. Potrebbe per esempio spiegarci il procuratore milanese Francesco Greco perché in quei giorni, avendo incontrato a Roma il suo antico maestro, come lui di Magistratura Democratica, Francesco Misiani, pm a Roma, gli avesse detto «qui non dobbiamo decidere chi è competente, ma chi può fare o non fare le inchieste». Al che Misiani, che ha raccontato l’episodio nel bellissimo libro scritto con il giornalista Carlo Bonini, La toga rossa, aveva obiettato «…non è che ogni volta possiamo far finta che non esistano il codice e le regole sulla competenza». Non è difficile interpretare, alla luce di quanto scritto da due magistrati nei due libri, quello di Misiani e quello di Palamara, il significato delle parole di Francesco Greco. Lui riteneva che la magistratura romana e quel palazzo di giustizia che un tempo era stato definito “il porto delle nebbie”, non fossero in grado di fare…che cosa, giustizia o pulizia? È tutta lì la differenza. Fare giustizia o fare pulizia. Processare Craxi, e poi Berlusconi, e poi magari Renzi e oggi anche Salvini, per verificare se ciascuno di loro ha commesso un reato, o abbattere il mostro? Ecco perché la vera domanda da porre al magistrato Luca Palamara (ma non solo lui) è se i loro intrighi di palazzo siano stati solo un gioco di scacchi con ogni pedina al posto giusto a conquistare posti di potere e a mangiare quello degli altri. O se invece i loro duelli, gli sgambetti, i veleni mediatici con i complici “magistrati di complemento”, alcuni giornalisti, non abbiano invece anche condizionato i loro comportamenti fino a entrare nei provvedimenti giudiziari e fino alle sentenze. In poche parole, fino a che punto sono state sporcate le toghe? Ogni volta in cui Silvio Berlusconi ha vinto le elezioni, c’è stata una mobilitazione della magistratura militante. Nel 1994 addirittura il procuratore Borrelli, esponente di Magistratura democratica come la gran parte dei magistrati della procura milanese, mise le mani avanti: «Chi ha scheletri nell’armadio non si candidi». Lui si candidò e partirono le indagini. E la scenografia napoletana di un importante convegno internazionale sulla criminalità da lui presieduto fu riempito della merda spalmata sul titolone del Corriere della sera, che diceva al mondo intero che colui che si accingeva a presentare come presidente del consiglio la ricetta per combattere le mafie nel mondo, era una parte di esse. Silvio Berlusconi fu assolto da quell’accusa. Ma per aprire l’indagine era stata usata l’obbligatorietà dell’azione penale o un altro tipo di obbligatorietà? Del processo Ruby si sa tutto. Ma forse non è del tutto chiusa quella che è l’unica condanna definitiva subita dal leader di Forza Italia, quella per frode fiscale. Adesso è il turno di Matteo Salvini, la graticola è tutta per lui. Nel libro di Luca Palamara si parla a lungo dell’agitazione che correva sul filo e sulle chat della magistratura militante quanto il pm agrigentino Patronaggio lo aveva messo sotto inchiesta per la vicenda della nave Diciotti, e tutti avevano solidarizzato con lui. Mentre un collega di Catania, il procuratore Carmelo Zuccaro, la pensava in modo opposto, tanto da chiederne per due volte l’archiviazione per l’episodio della nave Gregoretti. E il giudice dell’udienza preliminare che deve decidere su questa inchiesta, Nunzio Sarpietro, quello che dovrebbe reggere la bilancia della giustizia, ha dichiarato coram populo di tifare per un governo Conte ter, e anche che il presidente del consiglio, il quale aveva reso una testimonianza molto ambigua, dicendo che la politica sugli sbarchi degli immigrati era del governo ma che dei singoli episodi era responsabile il singolo ministro, era stato chiarissimo ed esaustivo. Ora, mentre ogni singolo cittadino dovrà capire di volta in volta che cosa passa per la testa di chi lo dovrà giudicare in un’aula di tribunale, a maggior ragione il segretario di quella che è al momento la forza politica più rilevante del panorama italiano dovrà sapere se la sua sorte sarà legata all’interpretazione della legge o ad altro. Obbligatorietà dell’azione penale o altro tipo di obbligatorietà? E tutti noi, cittadini elettori o politici eletti, abbiamo il diritto di sapere –e non solo dal dottor Palamara– quante notti insonni dovrà passare per esempio il giudice Nunzio Sarpietro per convincerci che la sua toga non è stata sporcata dall’ideologia, dall’appartenenza a una corrente sindacale o dal fatto che, sì, Salvini ha ragione, ma dobbiamo attaccarlo, come disse un giorno Luca Palamara al collega Auriemma mentre vergava il comunicato di solidarietà a Patronaggio. Le notti insonni dovete passare, cari pubblici ministeri e cari giudici, per essere credibili anche agli occhi di quel 70% dei cittadini che non si fidano più di voi.

Il curioso caso del Gip. Sulla crisi irrompe la magistratura: il destino dell’Italia in mano al gup Sarpietro. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 3 Febbraio 2021. Apriamo diligentemente il diario e prendiamo nota di una parola fondamentale che è la vera password del “Sistema” descritto da Luca Palamara. La parola è: “pretermesso”. Pretermesso significa segato da una carriera o un ruolo, a causa dei poteri di interdizione – o viceversa raccomandazione- per cui chiunque può essere pretermesso. Silvio Berlusconi – abbiamo imparato dal libro di Palamara – fu ad esempio accuratamente pretermesso dalla sua carriera politica con una accurata benché contorta applicazione di queste regole appunto. Non che non ce ne fossimo accorti da soli, ma da quando il dottor Luca Palamara ha parlato e poi anche scritto e firmato, possiamo essere sicuri che la nostra è una democrazia pretermessa , specialmente in politica, come in magistratura e sospettiamo che sia pretermessa anche in diversi altri campi fra cui quello mediatico-giornalistico, militare, accademico, dei servizi segreti, senza per questo escludere tutti gli altri settori e gangli della pubblica amministrazione. Come abbiamo scoperto questo termine prezioso? Dalle dichiarazioni giustamente sdegnate di un giudice che si chiama Nunzio Sarpietro, che è quello da cui dipende il futuro politico di Matteo Salvini il quale, se dobbiamo fidarci delle voci che girano, potrebbe essere rapidamente essere pretermesso, ovvero messo fuori combattimento per un bel po’ se il magistrato Sarpietro, presidente dei gip catanesi darà parere favorevole al processo di Matteo Salvini accusato di sequestro di persona nella vicenda della nave Gregoretti. Dipende da lui, Sarpietro, il quale ha appreso dal libro Il Sistema di Luca Palamara intervistato da Alessandro Sallusti, di essere stato fatto fuori proprio da Palamara dall’incarico di presidente del Tribunale di Catania, che andò invece a Bruno di Marco sostenuto da Palamara. C’è una connessione di causa-effetto fra quel che Sarpietro ha appreso dal libro di Palamara e la sua decisione sul rinvio a giudizio di Salvini? No, nessuna. È un caso, anche se come dicono i francesi, tout se tiens, tutto sta insieme. Ma è utile ricordare il testo dell’ex membro del Csm perché è ormai come il manuale Cencelli per la composizione dei governi o il manuale dell’Artusi per la cucina delle nostre nonne. Se non capisci come funziona il sistema, è inutile che ti metti a parlare di presente o di futuro: tutto dipende dalla pretermissione: se ti hanno pretermesso, sei fuori. E se sei fuori, è del tutto fatuo declamare programmi. La facciamo breve: il futuro non soltanto giudiziario ma anche politico di Matteo Salvini è nelle mani del giudice Nunzio Sarpietro, ovvero il Gip del processo contro il leader leghista per il blocco della nave Gregoretti. Le due storie si toccano per caso: questo magistrato deve decidere su Salvini, ma allo stesso tempo scopre, dalla lettura del Sistema di essere stato fatto fuori proprio da Palamara che gli sbarrò la strada di presidente del tribunale di Catania. Sarpietro, comprensibilmente offeso, ha concluso in una sua intervista di essere stato dunque pretermesso e come comprensibile non è affatto contento. Questo non vuol dire che la sua frustrazione per essere stato pretermesso lo renderà colpevolista con Salvini. Non lo sappiamo, ma lo scopriremo presto. Quel che sappiamo ancor prima che Palamara parlasse e scrivesse è che raramente le decisioni giudiziarie su uomini politici sono decisioni puramente giuridiche o banalmente giuste. Hanno un altro corso, seguono un’altra logica che è quella descritta dal Sistema. Ora è un dato di fatto che girino anticipazioni sulla decisione che riguarda Salvini, cosa inevitabile e secondo alcune di queste anticipazioni il pollice sarà verso. Nel senso che Salvini dovrebbe essere rinviato a giudizio e processato. Saranno i fatti a dire se le cose andranno così o no, ma ci sembra importante che Salvini prenda atto di questa pesantissima possibilità e rimetta la barra delle sue decisioni politiche, perché se si trovasse in tribunale a difendersi dall’accusa di sequestro di persona, sarebbe automaticamente “pretermesso” da un incarico da presidente del Consiglio essendo del tutto ovvio che se uno deve rispondere di sequestro di persona non può contemporaneamente fare il primo ministro. Avrà Matteo Salvini ben chiaro nella sua mente che questa purtroppo è l’aria che tira? Se lo mandano a processo, il leader leghista sarà fuori uso istituzionale per uno o forse anche due anni. È ovvio e anche lodevole che nell’attesa delle decisioni del giudice di Catania il leader della Lega si mostri fiducioso e anzi mansueto di fronte ai giudici. Ed è comprensibile, anche se ci sembra un po’ imprudente, che affermi di essersi sentito compreso dal giudice. Tutto secondo copione, ma il copione dice che “ha da passà ‘a nuttata”, devono trascorrere le ore cruciali tra la vita e la morte. Ma, ci chiediamo e lo chiediamo anche a lui, che senso ha durante le ore della nuttata insistere come un sol uomo con tutto il centrodestra sulla linea delle elezioni anticipate? Per far che? Cedere eventualmente la poltrona di capo del governo alla Meloni? Non ha alcun senso, salvo il senso della facciata che in questo gioco è come la faccia di chi gioca a poker. Gli inglesi usano l’espressione “poker face” per nominare quel tipo di faccia che meno è penetrabile, meglio è. Tutto si gioca nelle prossime ore, con il balletto dei nomi e dei contenuti, recitato da tante facce da poker che fingono davvero nel talk e sui telegiornali, di varare un meraviglioso governo, generato per partenogenesi, per impollinazione di costruttori europeisti, e trafficanti di invenzioni ridicole. Sono, come impone di dire il copione, ore decisive per la Repubblica. Ma la Repubblica si regge su un solo assioma: sbarrare la strada a Salvini e dunque diffondere l’idea secondo cui le elezioni sono comunque un atto sovversivo, da cui però sarebbe prudente premunirsi nel caso di un loro arrivo imposto dal fattore umano dei ridicoli eventi e dunque la necessità di pretermettere in anticipo Salvini avrebbe senso. La Luna consiglierebbe a Salvini di attenersi a una ferrea e plastica faccia da poker perché la cosa meno improbabile è che il gioco dell’oca italiana torni alla casella di partenza, square zero, in cui Conte torna a Palazzo, Renzi va alla Farnesina, il convitato di pietra Draghi seguiti ad essere una riserva della Repubblica, just in case. Per ora le cose stanno esattamente come Palamara le ha descritte e certamente la sua descrizione è incompleta. Purtroppo, ha deplorato proprio il Gip Sarpietro deplorando quel che gli è stato inflitto, gli eventi giudiziari dipendono, come la pesca nel mare, dalle correnti. E sarà così finché il Parlamento – chissà quale e chissà quando – non riprenderà il comando della Repubblica. Quanto alla politica, come l’intendance degli eserciti di Napoleone, seguirà, a capo chino.

MA UN GIUDICE CHE INTERROGA UN PRESIDENTE DEL CONSIGLIO PUÒ PARLARE COSÌ? Da corriere.it il 28 gennaio 2021. Il premier Giuseppe Conte «ha risposto a tutte le domande, nessuna titubanza, ha risposto anche a domande estremamente generiche. Era molto tranquillo, credo rappresenti molto bene il Paese, mi ha fatto davvero un'ottima impressione». A dirlo il gup di Catania Nunzio Sarpietro, dopo aver ascoltato come persona informata sui fatti il premier Giuseppe Conte sul caso Gregoretti. Ai giornalisti che davanti a palazzo Chigi gli chiedevano cosa ha detto Conte, il gup ha sostanzialmente detto che l’indirizzo politico nella politica dei respingimenti dei migranti era «condiviso ma a decidere fu Salvini». «Il 19 febbraio sentiremo l’allora vice presidente del Consiglio Di Maio, la Lamorgese e l’ambasciatore Massari nell’Aula bunker di Bicocca a Catania», sottolineando come «la nostra diplomazia abbia fatto un lavoro straordinario».

(ANSA il 28 gennaio 2021) - "La coralità" delle azioni del governo "atteneva alla politica generale, i singoli eventi erano curati dai singoli ministri: il ministro Salvini prima e la ministra Lamorgese dopo". Lo dice il Gup di Catania Nunzio Sarpietro all'uscita da Palazzo Chigi al termine della la deposizione del presidente Giuseppe Conte, come testimone, nell'udienza preliminare del procedimento Gregoretti per la richiesta di rinvio a giudizio di Matteo Salvini. "Conte è stato molto collaborativo, molto profondo nelle risposte", aggiunge Sarpietro. "Non c'è una collaborazione" tra presidente del Consiglio e ministro dell'Interno, "c'è un indirizzo politico che il ministro dell'Interno esegue". Lo sottolinea il gup di Catania Nunzio Sarpietro uscendo da Palazzo Chigi dove si è svolta la deposizione del premier Giuseppe Conte, come testimone, nell'udienza sul caso Gregoretti. "Non parliamo ancora di reati, stiamo parlando di un processo in cui bisogna accertare se c'è un reato", aggiunge Sarpietro.

E lui dovrebbe essere oggettivo? Il gup del caso Diciotti va a Roma a interrogare Conte e in TV dice che fa il tifo per il ter…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 31 Gennaio 2021. Non hanno capito quel che sta succedendo. Sembra tutto normale quando arriva da Catania un giudice a interrogare a Palazzo Chigi il premier Conte, e si mette a parlare in tv di politica e di processi. E si fa finta di niente nella giornata dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, a parte mascherine e distanziamenti, oltre a una certa fretta di fare presto, a causa del pericolo pandemia. Della valanga che sta loro precipitando addosso non mostrano di avere consapevolezza, il giudice “canterino” di Catania così come il presidente della cassazione Pietro Curzio, il procuratore generale Giovanni Salvi, il vice del Csm David Ermini. Tutto come prima, toghe rosse bordate di ermellino, immagine di sfarzo e rassicurazione. E ancora non sanno che la loro storia, quella in cui erano Casta incontrastata, sta entrando nel secondo tempo. Prendiamo questo magistrato di Catania, il dottor Nunzio Sarpietro, che nella sua veste di giudice per l’udienza preliminare è andato a palazzo Chigi a sentire come testimone Giuseppe Conte nell’inchiesta in cui è indagato Matteo Salvini per la vicenda della nave Diciotti. Questo giudice è sicuramente una persona per bene, ma quando si affaccia alle telecamere davanti al palazzo del governo, dovrebbe sapere di essere precipitato in mezzo a una grave crisi politica. Pure, invece di scappare via subito, di dribblare i giornalisti con il pudore di chi sia capitato per caso in mezzo a un litigio di famiglia, si ferma e dice la sua. Blandisce il premier Conte, ammicca a Salvini (non me ne voglia, senatore) e dice tranquillamente che lui, “a livello personale” augura al premier dimissionario di fare presto un bel Conte ter. Poi discetta lungamente sul processo. Impassibile, tranquillo, inconsapevole. Loro non se ne sono ancora resi conto, ma gli italiani cominciano a non sopportarli più. Se non siamo ancora arrivati a quel 70% di cittadini che davano un giudizio negativo sulla magistratura ai tempi dell’arresto di Enzo Tortora, non siamo molto lontani. Secondo una ricerca del sociologo Arnaldo Ferrari Nasi, solo il 37% degli intervistati ha ancora fiducia nelle toghe, mentre il 58% alla domanda risponde decisamente no. Ci sarà ben un motivo, cari ermellini e caro dottor Sarpietro. Inutile far suonare l’orchestra. Rendetevi conto del fatto che la nave sta affondando.

LA LEGGE È UGUALE PER TUTTI. I GIUDICI NO. Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 29 gennaio 2021. Terminata la deposizione - nella Sala verde di Palazzo Chigi trasformata in aula di giustizia -, il testimone Giuseppe Conte viene congedato dal gup, giudice dell'udienza preliminare, Nunzio Sarpietro: «Grazie per il suo contributo». E mentre il premier torna nel suo ufficio aggiunge: «A livello personale le auguro di andare avanti con un governo Conte ter, e non me ne voglia il senatore Salvini». L'imputato sorride sotto la mascherina tricolore, senza commentare. Quello che pensa sui tentativi del premier di restare in sella lo dirà fuori. Dentro, il leader leghista è rimasto in silenzio per tutto il tempo. Rispettoso del rito giudiziario. Il Covid impedisce le strette di mano, e il saluto tra gli ex colleghi di governo - pure l'avvocata-senatrice Giulia Bongiorno, ha fatto parte del Conte 1 - si esaurisce a cenni. Quella del premier è forse la testimonianza più importante per decidere se Matteo Salvini debba essere processato o meno per il sequestro di 131 migranti trattenuti a bordo della nave Gregoretti tra il 27 e il 31 luglio 2019. Perché la versione del capo del governo di allora e di oggi, sia pure per i soli «affari correnti», può essere dirimente per stabilire se il ritardo nello sbarco fosse la naturale e non punibile conseguenza di una decisione politica di tutto l'esecutivo, o invece fu una scelta individuale del ministro dell'Interno, non direttamente e necessariamente connessa all'orientamento generale e collettivo. Ogni parte in causa (la difesa e l'accusa, rappresentata più dagli avvocati di parte civile che dal pm, il quale ha già chiesto il proscioglimento per «infondatezza della notizia di reato) legge e leggerà a modo suo le risposte di Conte. Che di fronte alla domanda diretta del giudice, se riuscisse a individuare una differenza su eventuali responsabilità penali tra il caso Gregoretti e il caso Diciotti (altro presunto sequestro di persona dell'estate 2018, archiviato perché il Senato a maggioranza Lega-Cinque stelle negò l'autorizzazione a procedere) non scende in valutazioni: «Io sono un docente di diritto civile e non mi sono mai occupato di penale. Né voglio esprimere valutazioni sui comportamenti dei miei ministri o ex ministri. Però sotto il profilo politico posso dire che i casi sono abbastanza analoghi». Il premier rivendica il cambio di passo dei suoi governi sulla politica dell'immigrazione: «Abbiamo puntato tutto sulla redistribuzione dei migranti negli altri Paesi europei, e ancora adesso appena c'è una nave in arrivo ci muoviamo subito per organizzare il ricollocamento su tutto il continente. Dopodiché ogni ministro svolge il proprio compito come meglio ritiene». Ma, insistono sia il giudice che l'avvocata Bongiorno, è cambiato qualcosa con i diversi inquilini del Viminale, prima Salvini e dopo Luciana Lamorgese? L'atteggiamento dei due ministri, fa capire Conte: Salvini trasformava il suo operato in propaganda politica, muovendosi come un capopartito; la seconda no, «È una questione di stile», sintetizza il premier: «La politica dei "porti chiusi" non è mai esistita, nessuno ne ha mai parlato fuori dagli slogan; c'era un atteggiamento di alcuni ministri un po' più duro e risoluto rispetto ad altri». Il nodo da sciogliere, a livello giudiziario, è se in quel diverso atteggiamento assunto da Salvini si annida un reato oppure no. Giulia Bongiorno snocciola una quindicina di domande tutte tese a dimostrare che prima e dopo il caso Gregoretti, i profughi sono sempre rimasti a bordo delle navi durante le trattative con gli altri Paesi. Le carte acquisite parlano di «lavoro di squadra», e Conte conferma. Uno degli avvocati di parte civile prova a scindere le posizioni e chiede: «Lei sapeva che su quella nave c'era un solo bagno per oltre cento persone?». Risposta: «Il presidente del Consiglio non può essere aggiornato sulla situazione di ogni nave che transita nel Mediterraneo, anche se mi risulta che la Diciotti fosse meglio attrezzata della Gregoretti per ospitare un numero consistente di persone». Sono valutazioni e considerazioni, prosegue il premier, che rientrano comunque nella sfera di competenze dei singoli ministri. Ma Conte, insiste un altro legale, al posto di Salvini avrebbe fatto scendere i migranti? Il premier-testimone comprende che la domanda è ai limiti dell'ammissibilità, e replica più per educazione che per dovere: «Non voglio sostituirmi ai miei ministri né giudicarli». Salvini e il suo difensore apprezzano la correttezza. Lo scontro politico è rimasto fuori dall'aula giudiziaria improvvisata nel palazzo del governo.

I giudici e l'estate delle trame: così hanno "abbattuto" Salvini. Un ministro di destra, l'immigrato maltrattato, la sinistra che cerca la rivincita. E la magistratura scende in campo: ecco cosa è successo nell'estate del 2018. Alessandro Sallusti, Sabato 30/01/2021 su Il Giornale.  Per gentile concessione dell'editore Rizzoli pubblichiamo uno stralcio del libro Il sistema. Potere, politica affari: storia segreta della magistratura italiana, scritto dal direttore del Giornale, Alessandro Sallusti.

Ci sono vicende in cui l’aspetto giudiziario s’intreccia non solo con quello politico ma anche con quello ideologico?

Sì, ed è un mix esplosivo, come nel caso di Salvini, indagato per sequestro di persona per il blocco dei porti agli sbarchi degli immigrati. Nell’estate del 2018 gli ingredienti ci sono tutti: un ministro degli Interni di destra, il povero immigrato maltrattato, la sinistra che cerca la rivincita dopo la batosta elettorale. Un piatto ghiotto, ovvio che la magistratura scenda in campo. Il culmine lo si tocca l’estate successiva, nel 2019, proprio nelle settimane in cui anche le tensioni nel governo tra Lega e Cinque Stelle sono in rapido crescendo. Io non le so dire se sia più la magistratura che tenta di dare la spallata al "governo delle destre", come veniva chiamato il Conte 1, o se sia Salvini a cercare il martirio per tenere comunque alto il suo consenso su un tema a cui l’opinione pubblica è sensibile, ma sta di fatto che quel governo, come tutti quelli che sfidano i magistrati, cadrà. Sarà una coincidenza, ma cadrà. Tutto inizia all’alba del 16 agosto 2018, quando la nave della Guardia Costiera Ubaldo Diciotti soccorre in mare 190 immigrati. Da Roma Matteo Salvini, ministro degli Interni, ordina il divieto di sbarco. La nave rimane ferma al largo, prima di Lampedusa e poi di Catania, per cinque giorni, aspettando disposizioni. Poi, l’estate successiva, stessa sorte toccherà alle navi Gregoretti e Sea Watch. Il magistrato più attivo di tutti è Luigi Patronaggio, procuratore di Agrigento nominato nel 2017 in quota Magistratura democratica. Indaga Salvini sia per la Diciotti sia per la Gregoretti, la Open Arms e la Sea Watch, per la quale ordina lo sbarco immediato di tutti gli immigrati dopo una visita a bordo in favore di telecamere. Suscitando l’ira del ministro degli Interni, che in tv parla di lui come di uno che stia commettendo il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Che si vada a uno scontro è chiaro fin dal primo avviso di garanzia, quello per la Diciotti. Il più veloce a saltare sul caso è il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, come tutti noi in scadenza di mandato. Il 24 agosto 2018, alle 21:07, mi manda il seguente messaggio: "Luca, dobbiamo dire qualche cosa sulla nota vicenda della nave, Area (corrente di sinistra, N.d.R) è d’accordo a prendere l’iniziativa, Galoppi (Claudio Galoppi, consigliere Csm, N.d.R.) idem, senti loro e fammi sapere domani mattina". E ancora: "Domani mattina dovete produrre una nota, qualche cosa insomma", forse sapendo già che il giorno seguente Salvini riceverà l’avviso di garanzia. Ma c’è qualche cosa che non mi torna.

Cos’è che non torna?

Tanto attivismo non è da lui. In quattro anni di Csm non era mai capitato che ci dovessimo rincorrere sui telefonini da una spiaggia all’altra d’Italia. Perché tanta fretta? Ho il sospetto che Legnini stia giocando una partita personale per ingraziarsi i maggiorenti del Pd. Sono i giorni in cui si discutono le liste per le imminenti elezioni regionali in Abruzzo, e gira voce che lui intenda candidarsi a governatore con la sinistra, cosa che poi in effetti avverrà. Per il dopo Csm in realtà puntava ad andare all’Antitrust, aveva cercato una sponda al Quirinale - come mi confidò - ma gli avevano fatto sapere che non era aria.

Sconfitto alle elezioni in Abruzzo, Legnini non resterà disoccupato, gli trovano un posto come commissario delle zone terremotate. Ma lei in quel momento era l’unico ad avere sospetti di questo genere?

Per nulla. Ecco cosa mi scrive quella stessa sera il consigliere del Csm Nicola Clivio: "Perché lui (Legnini, N.d.R) ci chiede di dire qualcosa sulla storia della nave, e noi lo facciamo volentieri, ma poi non si deve dire che lui comincia così la sua campagna elettorale. Chiaro lo schema? Non dire a nessuno che ti ho detto questo". E io gli rispondo: "Esatto, lo chiede a tutti, anche a noi. Gli ho detto che ci devo riflettere, deve essere una riflessione di tutti coperta anche dai nuovi altrimenti la nostra diventa una cacchetta".

Caso Gregoretti, Conte al gip: "Indirizzo politico condiviso ma a decidere fu Salvini". Alessandra Ziniti su La Repubblica il 29 gennaio 2021. Il premier ha risposto a tutte le domande del giudice Sarpietro e delle parti civili. Il gip: "Responsabilità politica e penale vanno divise". L'indirizzo politico, quello di coinvolgere preventivamente l'Europa nella redistribuzione dei migranti soccorsi nel Mediterraneo, era condiviso dal governo ma le decisioni sugli sbarchi erano di competenza del ministero dell'Interno. E anche nel caso Gregoretti a decidere se e quando far scendere i 131 migranti a bordo della nave della Guardia costiera fu Matteo Salvini. Questa, in sintesi, la deposizione del premier Conte sentito questa mattina a Palazzo Chigi dal giudice di Catania Nunzio Sarpietro davanti al quale si svolge l'udienza preliminare che vede Matteo Salvini accusato di sequestro di persona. Due ore e mezza di deposizione, alla presenza dello stesso Salvini, in cui il premier ha risposto a tutte le domande che gli sono state rivolte dal giudice e dagli avvocati di parte civile. E naturalmente anche a quelle dell'avvocato Giulia Bongiorno, legale di Salvini, che ha insistito per dimostrare l'assoluta condivisione da parte del governo di quello che stava accadendo. "Il premier ha una posizione chiave. E' l'unico che ci possa dare indicazioni fondamentali per l'eventuale rinvio a giudizio di Matteo Salvini". Le parole pronunciate dal giudice Nunzio Sarpietro all'ingresso a Palazzo Chigi che spiegano meglio di ogni altra cosa l'importanza del passaggio romano dell'udienza preliminare del processo Gregoretti a carico del leader della Lega. Ed è stato proprio il giudice, all'uscita da palazzo Chigi, a fare una sintesi della testimonianza di Conte che ha definito "molto collaborativo e profondo nelle risposte. Ottima testimonianza che mi ha chiarito molti elementi sulla politica di governo e sulla ricollocazione dei migranti". Il giudice ha chiarito che, se è vero che dalla documentazione acquisita al processo su richiesta del legale di Salvini, emerge l'indirizzo politico condiviso dal governo, è anche vero che "le responsabilità politiche e penali vanno distinte". E i legali di parte civile hanno aggiunto che "il premier Conte ha chiarito che la decisione di assegnare alla Gregoretti il porto è stata presa esclusivamente da Salvini". In aula, a sentirlo, innanzitutto lui, Matteo Salvini, sul banco degli imputati per sequestro di persona aggravato e abuso d'ufficio, difeso dall'avvocato Giulia Bongiorno che, dopo le domande del giudice e delle parti civili che rappresentano alcuni dei migranti e Legambiente, ha interrogato Conte chiedendogli spiegazioni su una decina di mail partite da Palazzo Chigi in quei giorni, indirizzate agli ambasciatori italiani in Europa e agli altri primi ministri, proprio per sollecitare il meccanismo di solidarietà che l'Italia ha sempre sostenuto. Mail e documentazione, tra cui alcune informative parlamentari, di cui l'avvocato Bongiorno ha ottenuto l'acquisizione e che dimostrano che le trattative per il reinsediamento dei migranti erano in capo a Palazzo Chigi. Oltre a un video, relativo alla conferenza stampa di fine 2019, in cui il premier dice chiaramente: "Prima i ricollocamenti, poi lo sbarco".

Gregoretti, quando Conte a dicembre 2019 diceva: "Sto facendo delle verifiche sul mio coinvolgimento". Secondo la difesa di Salvini "il premier ha confermato di essere stato protagonista nella politica della redistribuzione prima degli sbarchi". Gli avvocati di Salvini si sono basati anche su nuovi documenti ottenuti dopo la precedente udienza di Catania e che - a loro giudizio - confermano che Salvini operò in linea con la politica governativa: il ministro si opponeva in attesa della redistribuzione dei migranti. Una prassi, ricorda la difesa di Salvini, proseguita anche con il governo giallorosso. E infatti, sempre all'uscita, Sarpietro risponde alla domanda se c'è continuità tra la politica migratoria di Salvini prima e quella di Lamorgese poi: "C'era il ministro Salvini prima, la ministra Lamorgese dopo. Non parliamo ancora di reati, stiamo parlando di un processo in cui bisogna accertare se c'è un reato. Ma nella politica generale del governo quella della ricollocazione era una costante, un leitmotiv generale". Nel corso dell'esame di Conte, i legali hanno evidenziato un altro aspetto: il premier aveva scritto a Salvini per sollecitare lo sbarco dei minori a bordo della Open Arms (episodio successivo alla Gregoretti, ma consumato negli ultimi giorni del Conte 1) senza fare cenno ai maggiorenni e senza aver mai preso iniziative simili in precedenza. L'ennesima dimostrazione - secondo la difesa dell'allora ministro - della piena consapevolezza e condivisione del governo. A Conte il giudice Sarpietro ha chiesto innanzitutto del patto di governo del Conte 1, per avere delucidazioni sui contenuti della politica migratoria del governo a cui Salvini fa riferimento per dimostrare che le sue decisioni altro non erano che attuazione di quanto stabilito nel programma di governo e dunque condiviso da tutta la coalizione. Ma il premier sarà chiamato anche a fornire spiegazioni sulla sua posizione, apparentemente diversa, in tre casi che presentano molte similitudini ma verificatisi in momenti politici diversi: il caso Diciotti innanzitutto, nell'estate 2018, vicenda analoga alla Gregoretti ma per la quale il tribunale dei ministri di Catania non ottenne l'autorizzazione a procedere e per la quale Conte espresse pubblico apprezzamento per l'operato di Salvini; il caso Gregoretti, un anno dopo, con l'esecutivo prossimo alla crisi e il premier in silenzio a spingere per far scendere subito i minorenni, e il caso Ocean Viking, due mesi dopo, secondo sbarco con Luciana Lamorgese al Viminale e i migranti ugualmente costretti ad attendere più di una settimana a bordo senza che venisse aperta alcuna inchiesta. Del caso Gregoretti, è la risposta ufficiale fornita da palazzo Chigi agli atti del processo, il consiglio dei ministri non si è mai occupato. Risposta analoga a quella fornita, tra i tanti non ricordo, dall'ex ministro ai Trasporti Danilo Toninelli, già sentito a Catania insieme alla collega Elisabetta Trenta. Ma delle tante mail e atti formali partiti da Palazzo Chigi Conte dovrà dare una spiegazione. E chiarire soprattutto se, a fronte di una inequivocabile attività sua e del suo staff per ottenere il coinvolgimento dell'Europa, la decisione di bloccare i migranti a bordo anche in condizioni fisiche e sanitarie non idonee come stabilito da un'ispezione a bordo, sia stata condivisa o sia stata invece solo di Matteo Salvini. Il processo riprenderà a Catania il 19 febbraio con le testimonianze del ministro dell'Interno Luciana Lamorgese e di quello degli Esteri Luigi Di Maio.

Lo sgambetto a Salvini destinato a fallire: si sgonfia il caso Gregoretti. Dopo il colloquio tra il Gip di Catania e Giuseppe Conte, la vicenda Gregoretti sembra aver preso definitivamente un binario politico. Ecco perché Salvini può dirsi soddisfatto di quanto trapelato da Palazzo Chigi. Mauro Indelicato, Venerdì 29/01/2021 su Il Giornale. L'udienza romana sul caso Gregoretti, ha definitivamente chiarito un punto: la questione è più politica che giudiziaria. E, di per sé, non è una sorpresa: a Catania, da dove l'inchiesta è nata, la procura nel dicembre 2019 aveva già chiesto una prima volta l'archiviazione per Matteo Salvini. È stato poi il tribunale dei ministri a chiedere a Palazzo Madama il disco verde per la procedura processuale. E lì, per l'appunto, la questione ha assunto connotati meramente politici.

Una vicenda più politica che giudiziaria. A certificare che la questione attiene più alle aule parlamentari che a quelle giudiziarie, è stato lo stesso Gip di Catania, Nunzio Sarpietro. Giunto nella capitale per ascoltare Giuseppe Conte, il giudice lo ha lasciato intuire senza usare mezzi termini: “Nella corrispondenza via mail tra il premier Giuseppe Conte e l'allora ministro dell'Interno Matteo Salvini – ha dichiarato ai cronisti – c'è un indirizzo politico che il ministro dell'Interno esegue”. In poche parole, le scelte operate all'epoca sono state di natura politica: “Il premier Conte è stato molto collaborativo, molto profondo nelle risposte – ha proseguito Nunzio Sarpietro – Ha fatto un'ottima testimonianza, che mi ha chiarito tantissimi elementi sulla politica di governo e sulla ricollocazione dei migranti nei vari eventi Sar”. Il termine “politica” è stato usato più volte dal giudice negli incontri con la stampa. E forse non è un caso. Lo stesso Gip, prima di recarsi a Palazzo Chigi, aveva dichiarato che l'incontro con il presidente del consiglio sarebbe stato decisivo per la decisione da prendere circa il possibile rinvio a giudizio di Salvini. I riferimenti alle circostanze politiche fatte da Sarpietro, potrebbero quindi indicare la linea verso cui si orienterà il tribunale etneo. In tal senso l'avvocato difensore di Salvini, Giulia Bongiorno, è sembrata molto ottimista: “Anche il giudice – ha dichiarato uscendo da Palazzo Chigi – sembra aver colto che si tratta di una linea di governo, che può piacere e non piacere”. Un po' come dire, per l'appunto, che ad essere stati illustrati oggi da Giuseppe Conte sono punti meramente politici. I quali potrebbero essere irrilevanti sotto il profilo penale. E quindi far propendere per uno stop al procedimento contro il segretario del carroccio.

Scelta singola o collegiale? L'altro punto importante della vicenda riguarda le responsabilità su quelle scelte politiche da cui è partito il caso Gregoretti. Nel luglio del 2019, quando dal Viminale è arrivato un secco “No” allo sbarco dei migranti a bordo della nave della Guardia Costiera, da chi è partita l'iniziativa? La difesa di Salvini ha sempre sostenuto che la scelta è stata collegiale. Come del resto era già emerso in occasione del caso Diciotti, molto simile alla vicenda in questione ed avvenuto esattamente un anno prima. Anzi, in quel contesto era stato lo stesso premier Conte ad assumersi la responsabilità assieme al governo. Da qui la scelta del Movimento Cinque Stelle, all'epoca alleato di Salvini, di sospendere il procedimento contro l'allora titolare del Viminale votando in Senato contro la richiesta del tribunale dei ministri di processare il leader della Lega. Secondo il leader del carroccio, ci sono sette mail, a cui ha fatto riferimento lo stesso Gip di Catania, a costituire una fondamentale prova secondo cui il governo sapeva delle intenzioni del ministero dell'Interno. In quelle mail infatti, scambiate tra Palazzo Chigi e Farnesina tra luglio ed agosto del 2019, si faceva proprio riferimento al caso Gregoretti e alle azioni da intraprendere. Su questo punto la battaglia è ancora aperta. La presidenza del consiglio punta sulla linea volta a sostenere che in realtà lo stop allo sbarco è stato voluto soltanto da Salvini. Ma le sette mail depositate nelle memorie dell'ex ministro dell'Interno, potrebbero indicare il contrario. Ad ogni modo, il prossimo 19 febbraio il Gip di Catania sentirà a riguardo anche l'attuale ministro degli Esteri, Luigi Di Maio.

Il braccio di ferro politico. A prescindere dalla prospettiva da cui la si guarda, la vicenda Gregoretti ha le sembianze di uno scontro tra due ex alleati. Ed è questo forse l'elemento che sembra dare maggiori garanzie a Salvini. Si è arrivati alle udienze preliminari, soltanto perché nel frattempo, tra il caso in questione e la richiesta del tribunale dei ministri, in parlamento era cambiata la maggioranza. E dal Movimento Cinque Stelle si voleva in qualche modo provare a fare uno sgambetto all'ex ministro, dando il via libera il 12 febbraio scorso al processo. Tra i dati delle memorie difensive di Salvini e gli elementi trapelati dopo l'udienza romana, dagli ambienti della Lega è filtrato un certo ottimismo. L'impressione che ha iniziato a serpeggiare, è che in questa vicenda i dati politici potrebbero essere preminenti rispetto a quelli penali. In tal modo, la strada verso un'archiviazione per il segretario del carroccio potrebbe essere spianata.

Caso Gregoretti, Salvini davanti al giudice che ha pranzato al ristorante in zona arancione. Le Iene News il 19 febbraio 2021. Nuova udienza per il caso Gregoretti: Matteo Salvini compare come indagato davanti al gup di Catania Nunzio Sarpietro. Nell’ultima puntata de Le Iene vi abbiamo mostrato Filippo Roma e Marco Occhipinti che hanno pizzicato proprio Sarpietro a pranzo in un ristorante in zona arancione. Intanto il magistrato è finito nel mirino di una parte civile nel procedimento. Nuova udienza per il caso Gregoretti a Catania. Il leader della Lega Matteo Salvini è comparso oggi nell’aula bunker del carcere di Bicocca davanti al gup Nunzio Sarpietro, il giudice che abbiamo pizzicato il 28 gennaio a pranzo con la figlia e il suo fidanzato in un ristorante chiuso al pubblico per tutti ma non per lui, mentre la capitale era ancora in zona arancione. Qui sopra potete rivedere il servizio di Filippo Roma e Marco Occhipinti andato in onda nell’ultima puntata. Quel giorno Sarpietro era andato a Roma per poter ascoltare come testimone sul caso Gregoretti l’ex premier Giuseppe Conte, in piena crisi di governo. Cliccando qui potete leggere anche la lettera che ci ha inviato il fidanzato della figlia di Sarpietro e la nostra risposta. Per l’ex ministro dell’Interno Salvini, assistito dal suo avvocato Giulia Bongiorno, l’ipotesi di reato nel caso Gregoretti è di sequestro di persona per il ritardo dello sbarco di 131 migranti nel luglio del 2019 dalla nave della Guardia costiera. Il gup deve decidere se il leader della Lega andrà a processo. Oggi sono stati sentiti a Catania come testimoni il suo successore al Viminale Luciana Lamorgese e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, vicepremier nel 2019 ai tempi del primo governo Conte. “Ho sentito una ricostruzione corretta e coerente dei fatti”,  ha commentato Matteo Salvini dopo l’udienza. “Quello che facevamo lo facevamo insieme. Lo decidevamo insieme, lo festeggiavamo insieme”. Nunzio Sarpietro è finito intanto nel mirino dell’associazione AccoglieRete, parte civile nel procedimento a carico di Matteo Salvini: “Alcune esternazioni ci sono sembrate eccessive rispetto alla terzietà. Per questo saremo attenti alla sobrietà del magistrato per tutto quello che voi avete seguito sulla stampa”, ha dichiarato l'avvocato Corrado Giuliano prima dell’udienza preliminare. Chiarendo che non stanno ancora pensando a ricusarlo: “Stiamo attenti perché è una cosa molta delicata”, ha detto l’avvocato Giuliano, che ha anche sottolineato come i loro dubbi si riferiscano "non alla vicenda del ristorante”, ma a “quello che è successo nel procedimento”.

"Agii in continuità con Salvini". Smontato l'assalto delle Ong. Nuova udienza a Catania sul caso Gregoretti, Salvini: "Spero che Di Maio e Lamorgese ricordino, i fatti sono i fatti". Il Gup cercherà di acquisire altri elementi per ricostruire l'accaduto. Mauro Indelicato - Ven, 19/02/2021 - su Il Giornale. Dal 3 ottobre scorso, data della prima udienza, è la terza volta che Matteo Salvini arriva a Catania per una nuova tappa del procedimento che lo vede coinvolto nel caso Gregoretti. Si tratta della vicenda risalente all'estate del 2019, quando Salvini era ministro dell'Interno e non ha autorizzato lo sbarco di alcuni migranti che erano a bordo della nave della Guardia Costiera Gregoretti. Da allora è iniziato un procedimento che ha portato in primis la procura di Siracusa ad indagare, in quanto la Gregoretti si trovava nel momento dei fatti contestati nel porto di Augusta, successivamente il fascicolo è stato trasferito per competenza al tribunale dei ministri di Catania. Qui i giudici hanno chiesto il rinvio a giudizio per Salvini con le accuse di abuso di ufficio e sequestro di persona. Dopo il via libera il 12 febbraio 2020 da parte del Senato, all'interno del tribunale di Catania è iniziato l'iter processuale. Ma già dalla prima udienza il caso Gregoretti è sembrato in qualche modo sgonfiarsi. La procura di Catania ha chiesto l'archiviazione per Salvini, dal canto suo il Gup sta proseguendo con le indagini e nei giorni precedenti ha anche ascoltato l'ex presidente del consiglio, Giuseppe Conte. Perno centrale del caso è infatti rappresentato dal ruolo del governo in cui Salvini era vice presidente del consiglio e titolare del Viminale. Il segretario del carroccio, contrariamente a quanto sostenuto dal tribunale dei ministri, ha sempre dichiarato di aver agito collegialmente e non su propria singola iniziativa. È per questo motivo che il Gup di Catania, Nunzio Sarpietro, ha voluto ascoltare il 29 gennaio Giuseppe Conte quando quest'ultimo era ancora inquilino di Palazzo Chigi. La difesa di Salvini punta sulle sette mail scambiate proprio tra la presidenza del consiglio e il ministero degli Esteri nei giorni in cui la Gregoretti era ancorata ad Augusta. Già da ieri il numero uno della Lega è a Catania. Incontrando i cronisti dopo un colloquio avuto con il presidente della Regione Siciliana, Nello Musumeci, si è detto pronto alla nuova udienza nel capoluogo etneo: “Spero che Di Maio si ricordi e che la Lamorgese racconti quello che successe da quando è entrata in carica – ha dichiarato Salvini – Spero che nessuno cambi atteggiamento per il fatto che la Lega e Salvini potessero essere prima all'opposizione e poi in maggioranza. I fatti sono fatti, la realtà è realtà”.

Alle 9:30, accompagnato dall'avvocato Giulia Bongiorno, Salvini è arrivato nell'aula bunker del carcere Bicocca per l'udienza. Sono attese oggi le deposizioni del ministro degli Esteri Luigi Di Maio e del ministro dell'Interno Luciana Lamorgese. L'attesa principale era tutta sulle affermazioni dell'attuale titolare del Viminale, in carica dal settembre 2019 subentrando con il governo Conte II a Matteo Salvini. Arrivata nell'aula bunker del carcere di Catania poco prima delle 10:00, senza rilasciare dichiarazioni, Luciana Lamorgese ha terminato poi la sua audizione dopo circa due ore. Così come riportato dall'AdnKronos, il Gip Nunzio Sarpietro avrebbe fatto al ministro specifiche domande sulle differenze tra il caso Gregoretti e le azioni poste in essere sul caso Ocean Viking, la prima nave di una Ong con a bordo dei migranti a chiedere di sbarcare dopo l'insediamento del Conte II: "C'è una continuità di azione fra casi Diciotti, Gregoretti e Ocean Viking", è stata la risposta di Luciana Lamorgese. Il punto è uno dei più importanti presi in esame durante le indagini: in particolare, si vuole accertare se sussistono differenze tra l'operato di Matteo Salvini e quello del successore al Viminale.

Alle 13:30 l'ex ministro dell'Interno ha incontrato, assieme all'avvocato Giulia Bongiorno, i cronisti all'esterno dell'aula bunker al termine dell'udienza preliminare. Entrambi si sono dichiarati soddisfatti per quanto emerso durante le testimonianze sia di Luciana Lamorgese che di Luigi Di Maio: "L'udienza odierna - ha dichiarato il legale di Matteo Salvini - rappresenta un altro importante passaggio per la dimostrazione di quello che si è sempre detto, cioè che c'era una linea di governo condivisa che prevedeva che prima venissero redistribuiti i migranti e poi si potesse provvedere allo sbarco". La stessa Giulia Bongiorno ha confermato quanto trapelato sulla deposizione di Luciana Lamorgese: "La difesa come sapete aveva chiesto che venisse sentito il ministro Lamorgese - ha proseguito Giulia Bongiorno - Credo che questa testimonianza sia stata veramente decisiva perché è emerso che tra Conte I e Conte II vi era una continuità nella linea di azione". Un riferimento è stato fatto anche sulla natura delle navi dove sono stati ospitati i migranti: "Il ministro Lamorgese - ha dichiarato infatti l'avvocato Bongiorno - ha fatto presente che trattandosi di navi che hanno come destinazione quella di recuperare migranti, possono effettivamente contenere a bordo persone per vari giorni". Una circostanza quest'ultima che smonterebbe l'accusa di sequestro di persona: "Abbiamo fatto quello che la legge permetteva e gli italiani ci chiedevano - è la ricostruzione fatta ai cronisti da Matteo Salvini - Abbiamo salvato vite, visto che durante questi presunti sequestri nessuno si è fatto male, e abbiamo svegliato l'Europa". Un passaggio, quello sull'Europa, che ha anche natura politica: "Se adesso c'è più possibilità di redistribuire - è il pensiero dell'ex ministro dell'Interno - è grazie alla nostra azione. Anche il premier Draghi ha parlato nel suo primo intervento in aula di una politica europea dei rimpatri. Penso che la linea Draghi sia in perfetta sintonia con la nostra esigenza di accogliere chi merita, ma di considerare le frontiere italiane come frontiere europee. Fino a che io non ero arrivato al governo, non era così". Già prima dell'inizio dell'udienza odierna, erano emerse alcune considerazioni degli avvocati di parte civile sull'operato del Gip Nunzio Sarpietro: "Alcune esternazioni ci sono sembrate eccessive rispetto alla terzietà - ha dichiarato ad esempio Corrado Giuliano, avocato dell'associazione AccoglieRete - Saremo attenti alla sobrietà del magistrato per tutto quello che voi avete seguito sulla stampa. Il ristorante, quello che è accaduto lì è un'altra cosa rispetto a quello che che è stato nel processo. Ha parlato anche di Palamara e di un suo fatto personale non pertinente con il processo. E questo non ci convive". Il nome di Luca Palamara è saltato fuori più volte nella mattinata catanese. C'è chi vorrebbe sentire in audizione lo stesso ex numero uno dell'Anm: "Le parti civili - ha spiegato l'avvocato Viola Sorbello - hanno deciso di formulare la richiesta perchè la difesa di Salvini ha citato il passaggio del libro di Palamara in cui si afferma che il capo dell Lega va fermato". Su questo fronte, la difesa di Salvini si è rimessa al giudice: "A me interessa enormemente capire se per caso gli input di questo procedimento nascono dall'idea che un politico di destra debba essere fatto fuori dal punto di vista giudiziario - ha affermato l'avvocato Giulia Bongiorno - Se si vuole sentire Palamara, noi ci siamo rimessi al giudice. Io dopo le deposizioni di oggi vorrei solo che a marzo si concludesse tutto, non vorrei perdere tempo. Se vogliamo aprire questo capitolo, ok, ma la preoccupazione e che passino altri tre mesi e di fare un processo nel processo. Noi nel frattempo stiamo assumendo iniziative su un tema assai rilevante".

Il gup di Catania silenzia Palamara. Ecco cosa l'ex pm avrebbe rivelato. Respinta la testimonianza nell'udienza su Salvini. L'ex leader Anm ne "Il Sistema" ha rivelato le trame dei magistrati nelle inchieste sui migranti: "Ovvio siano scesi in campo". Pier Francesco Borgia - Sab, 06/03/2021 - su Il Giornale. Rigettando la richiesta di convocazione di Luca Palamara (nella foto) nell'udienza preliminare sul caso Gregoretti, il gup di Catania Nunzio Sarpietro ha rinunciato a immergere la forchetta in un «piatto ghiotto». La stiracchiata metafora la dobbiamo proprio all'ex presidente dell'Anm. E la si può ritrovare nel capitolo dedicato a Salvini del libro-intervista di Alessandro Sallusti Il sistema (Rizzoli). Ed è in quel breve capitoletto che si può trovare quanto avrebbe potuto dire Palamara se, come da richiesta degli avvocati di parte civile, fosse stato convocato sul caso Gregoretti. L'ex togato ha infatti definito quella vicenda giudiziaria un «piatto ghiotto». E lo ha fatto essenzialmente per gli ingredienti che componevano quel piatto. «Estate del 2018. Un ministro degli Interni di destra, il povero immigrato maltrattato, la sinistra che cerca la rivincita dopo la batosta elettorale. Un piatto ghiotto, ovvio che la magistratura scenda in campo». E infatti il primo magistrato che prova a mettere il cappello su questo affaire è, come ricorda lo stesso Palamara nel libro di Sallusti, Luigi Patronaggio, procuratore di Agrigento, nominato proprio da poco in quota Magistratura democratica (la corrente di sinistra della magistratura). Non soltanto indaga Salvini ma ordina anche lo sbarco dei migranti bloccati sulle navi per l'ordine emesso dal ministro. E le premesse di uno scontro tra toghe e politica ci sono tutte. Sembra, ricorda Palamara, di tornare ai tempi degli scontri frontali contro Berlusconi e Renzi. Lo stesso Palamara, incontrando a una cena il capo di gabinetto di Salvini, gli consiglia di suggerire al ministro che attaccare frontalmente la magistratura è il modo migliore per svegliare la coscienza partigiana di qualche giudice. Di questo, insomma, avrebbe potuto parlare Palamara se convocato all'udienza preliminare. Ma anche dell'attivismo inedito, fino ad allora, del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini. Palamara ricorda maliziosamente che il vicepresidente è in scadenza e per ingraziarsi il Pd si mette a difendere il giudice di Agrigento dagli attacchi politici della Lega. Il risultato? Sarà candidato proprio dal Pd alla guida della Regione Abruzzo. Competizione che però perde. Legnini aveva anche provato a chiedere per sé l'Antitrust ma ha trovato tutte le porte sbarrate e si è dovuto accontentare, dopo la sonora sconfitta in Abruzzo, del posto di Commissario per la ricostruzione nelle zone terremotate. Ambizioni politiche a parte, le confidenze di Palamara portano - anche nel caso della Diciotti e della Gregoretti - a pensare che esistano due giustizie. Quella rappresentata dal procuratore di Agrigento e quella incarnata dal procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, che «per ben due volte negli stessi giorni e per gli stessi reati dà parere contrario a indagare Salvini». D'altronde lo stesso ex presidente dell'Anm lo ripete come un refrain: «le leggi non si applicano, le leggi si interpretano in base alla propria sensibilità», e in alcuni casi, aggiunge sempre con malizia, «in base alla propria appartenenza». E la prova di questo è in un messaggio che arriva sul cellulare di Palamara. Lo spedisce il procuratore di Viterbo, Paolo Auriemma, che si dice testualmente: «Non vedo dove Salvini stia sbagliando. Illegittimamente si cerca di entrare in Italia e il ministero dell'Interno interviene perché non avvenga». Ironia della sorte il capitoletto su Salvini finisce proprio con un riferimento al gup che ieri ha respinto la richiesta di convocare Palamara. Sarpietro aveva chiesto al Csm la presidenza del tribunale di Catania ma gli fu preferito un altro magistrato, grazie proprio all'intervento di Palamara. Tanto che subito dopo Sarpietro evitò di rinnovare la tessera di Magistratura democratica. «Detto ciò - conclude Palamara, in questo davvero profetico - sono convinto della sua assoluta autonomia di giudizio». 

L'udienza infinita contro Salvini: pure la diplomazia difende il leghista. Caso Gregoretti, l'ambasciatore Massari conferma: il governo faceva pressioni sull'Ue prima dello sbarco. L'ex ministro ribadisce: "Ho fatto il mio dovere". Il 14 maggio il verdetto. Stefano Zurlo - Sab, 06/03/2021 - su Il Giornale. Esce dall'aula bunker sfoggiando una mascherina tricolore e un sorriso non di circostanza. «L'ambasciatore Massari - riassume Matteo Salvini - ha ricordato che le politiche sull'immigrazione erano le stesse prima, durante e dopo». Altro che sequestro di persona, come si discute davanti al gip di Catania. «Dalla testimonianza di Massari - aggiunge l'avvocato Giulia Bongiorno (nella foto tonda), al fianco del capo della Lega - è emerso un elemento importante: il governo Conte aveva stabilito di fare pressione sull'Europa ex ante, ovvero prima dello sbarco dei profughi». Insomma, l'interminabile udienza preliminare per il caso Gregoretti davanti al giudice Nunzio Sarpietro, quello beccato al ristorante a Roma violando le regole anti Covid, potrebbe pure chiudersi in un sonoro proscioglimento, senza bisogno di spendere anni e anni in un processo. Chissà. Certo, il giudice ha sentito mezzo governo Conte: gli ex ministri Toninelli, Trenta, più Luigi Di Maio e Luciana Lamorgese, ancora in carica, e naturalmente, nella sede di Palazzo Chigi, Giuseppi. Potrebbe pure bastare. Ecco perché la difesa di Salvini snobba la richiesta delle parti civili che, a sorpresa, chiedono di ascoltare pure qua il sempre più evocato Luca Palamara. Le posizioni paiono invertirsi, ma Bongiorno spiega la sua strategia: «Noi riteniamo quello che ha detto Palamara di estrema importanza e prenderemo le nostre iniziative in tal senso. Ma dobbiamo anche essere concreti: questa storia deve finire e non vogliamo fare un processo nel processo». C'è o ci dovrebbe essere materiale sufficiente per decidere e sarebbe inutile mettere in mezzo l'ex potente numero uno dell'Anm che pure ha confessato un pregiudizio del mondo associativo delle toghe nei confronti di Salvini. Sarà per un'altra volta. Il gip boccia comunque l'audizione: gli approfondimenti si faranno, se si faranno, in altra sede. Poi Sarpietro aggiorna il calendario; ci sarà un'ultima udienza e il 14 maggio arriverà il verdetto: rinvio a giudizio oppure no. La Procura di Catania ha già fatto sapere che non crede al capo d'accusa, sostenuto invece in questo complicato procedimento dal tribunale dei ministri, e dunque per i pm di Catania la storia dovrebbe andare in archivio senza trascinarsi fino al dibattimento. Certo, il racconto di Maurizio Massari sembra rafforzare questo convincimento, pure contestato dalle parti civili: c'era una linea politica precisa che non venne improvvisata da Salvini e non fu il frutto avvelenato di un cinico calcolo politico. Per questo bloccare qualche giorno una nave con quei disperati a bordo fu una forzatura ma anche la conseguenza di un atteggiamento dell'esecutivo Conte che si può pure giudicare sbagliato, ma non dovrebbe essere pesato con il pallottoliere dei reati. Senza contare che Il Viminale aveva anche il compito di monitorare i movimenti alle frontiere e prevenire l'infiltrazione di terroristi. «Non faccio pronostici sul mio procedimento ma continuo a ritenere di aver fatto il mio dovere - rimarca Salvini - abbiamo dato una sveglia all'Europa e abbiamo salvato vite. Morti e feriti si sono drasticamente ridotti. Non chiedo medaglie ma rispetto». La stilettata finale è per le Ong oggi nel mirino: la procura di Ragusa ha messo sotto inchiesta l'ex leader dei Disobbedienti Luca Casarini e altre tre persone perché ci sarebbe stato un tariffario dei salvataggi nel Mediterraneo. «C'è Ragusa - è la conclusione - ma ci sono tanti altri fascicoli aperti che parlano di traffico di esseri umani. Siamo solo all'inizio».

Gregoretti, quando Luigi Di Maio a settembre 2019 diceva: "Nessuna discontinuità col governo precedente in materia di immigrazione". Libero Quotidiano il 19 febbraio 2021. Ha già fatto dietrofront nell'aula bunker di Catania, adesso c'è anche una vecchia intervista che lo incastra. Luigi Di Maio, confermato al ministero degli Esteri da Mario Draghi, ha testimoniato oggi durante il processo sul caso Gregoretti che vede coinvolto Matteo Salvini. Il leader leghista, infatti, è accusato di sequestro di persona per aver bloccato, per sei giorni a bordo della nave Gregoretti, 135 migranti soccorsi nel Mediterraneo a luglio 2019. Tra coloro che al Senato diedero l'ok per il processo a Salvini c'erano anche i grillini, ex alleati di governo della Lega. Chiamato a testimoniare a Catania, però, il titolare grillino della Farnesina ha confermato che "la distribuzione dei migranti sbarcati era uno degli elementi fondanti del governo Conte I e II", ammettendo così che il leader leghista non fece di testa propria, ma seguì la  linea politica contenuta nel contratto di governo. Della testimonianza di Di Maio si è detta soddisfatta Giulia Bongiorno, legale di Matteo Salvini. E a confermare le parole del ministro degli Esteri nell'aula bunker spunta anche un'intervista risalente al settembre del 2019, nella quale Di Maio, fresco della nuova alleanza con il Pd, nega qualsiasi segno di discontinuità col governo precedente, quello giallo-verde, in materia di immigrazione. In quel periodo, infatti, l'Italia aveva assegnato alla Ocean Viking un porto sicuro dopo ben sei giorni dal primo soccorso. A tal proposito Di Maio disse: "Lo abbiamo assegnato solo perché l'Europa ha deciso di aderire alla nostra richiesta di prendere gran parte di quei migranti". E ancora: "Deve essere ben chiaro il principio che anche prima, col precedente governo, il nostro obiettivo era fare in modo che chi arrivava in Italia venisse distribuito negli altri paesi europei. Adesso si sono creati dei meccanismi nuovi, degli automatismi, che ci permettono di fare in modo che quando arriva uno straniero in Italia attraverso un'imbarcazione, viene redistribuito negli altri paesi europei. Come accadeva in passato quando si facevano sbarcare e si redistribuivano, anche adesso si fanno sbarcare solo se vengono redistribuiti". 

Gregoretti, Giulia Bongiorno si gioca la carta-Palamara? "I fatti da lui descritti meritano approfondimento". Libero Quotidiano il 19 febbraio 2021. Luca Palamara potrebbe prendere parte al processo Gregoretti, che vede Matteo Salvini imputato per sequestro di persona. A lanciare la possibilità è Giulia Bongiorno, avvocato che difende l’ex ministro dell’Interno: "A me interessa enormemente capire se per caso gli input di questo procedimento nascono dall’idea che un politico di destra debba essere fatto fuori dal punto di vista giudiziario" ha detto per poi aggiungere: "Questo mi interessa molto, se lo vogliamo sentire ( Palamara, ndr) ? Noi ci siamo rimessi al giudice". L'unica richiesta della senatrice leghista è che "a marzo si concludesse tutto". Da qua il timore: "Non vorrei perdere tempo. Se vogliamo aprire questo capitolo, ok, ma la preoccupazione è che passino altri tre mesi e di fare un processo nel processo. Noi stiamo assumendo iniziative su un tema assai rilevante". Insomma, serve fare chiarezza sulle parole del magistrato ma non se questo dovesse allungare i tempi. Sono ormai note a tutte le chat che hanno sollevato lo scandalo. Oltre alle nomine, quello che è emerso dai messaggi tra giudici è una certa e ben pensata contrarietà al leader del Carroccio. In uno di questi il capo della Procura di Viterbo Paolo Auriemma diceva a Palamara: “Salvini indagato per i migranti? Siamo indifendibili”. E lui replicava: “No hai ragione, ma ora bisogna attaccarlo”. Frasi che fanno pensare ad accuse, ai danni dell'ex ministro, mirate. E proprio il diretto interessato ha commentato così l'eventualità: "Se Palamara verrà sentito in aula lo deciderà il giudice, io per ora leggo il suo libro la sera e rabbrividisco", ha riferito al termine dell’udienza preliminare in corso nell’aula bunker di Catania. A fargli eco ancora una volta la Bongiorno: "I fatti che sono descritti nel libro di Luca Palamara meritano un approfondimento. Sappiate che noi stiamo assumendo delle iniziative. Saremmo favorevoli a tutti gli approfondimenti del mondo. Non vorrei che calasse il velo su quei fatti. Stiamo attenti. Ci vuole una riforma della giustizia che parta della riforma della magistratura e del Csm e poi si ricomincia ad avere giustizia".

Gregoretti, il pm: «Non luogo a procedere per Salvini». Il magistrato in aula: «Le azioni di Salvini sono state illegittime? A mio avviso no, ma non sto dicendo che sia moralmente o politicamente giusto». Il Dubbio il 10 aprile 2021. «Ritengo che la condotta dell’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini non integri gli estremi del reato di sequestro di persona e per questa ragione si ribadisce la richiesta di non luogo a procedere». Con queste parole il pm di Catania Andrea Bonomo, al termine della discussione, ha chiesto al gup Nunzio Sarpietro il non luogo a procedere per il leader della Lega accusato di sequestro di persona per la vicenda della nave Gregoretti nell’estate 2019. «Non si può parlare di sequestro di persona», dice Bonomo. Che aggiunge: «Il Governo condivideva le valutazioni dell’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini e condivideva la sua linea politica, che era quella della collocazione dei migranti». «Non che sia giusto e condivisibile – dice Bonomo rivolto al gup Nunzio Sarpietro – ma si può ritenere che l’ex ministro Salvini abbia violato le convenzioni internazionali? Si può definire illegittima la sua scelta di tardare il pos? A mio avviso no». Ma aggiunge: «Non dico che moralmente o politicamente la scelta sia stata giusta – prosegue – ma non spetta a noi dirlo». Salvini, presente in aula, è accusato del sequestro di 131 persone nell’estate del 2019 ad Augusta, nel Siracusano. Dopo il Pm Andrea Bonomo parleranno le parti civili che confermeranno le loro richieste di rinvio a giudizio dell’ex ministro Salvini. Si tratta di AcccoglieRete, Legambiente ed Arci, rappresentate rispettivamente dagli avvocati Corrado Giuliano, Daniela Ciancimino e Antonio Feroleto, e una famiglia di migranti che era a bordo della Gregoretti, rappresentata dall’avvocato Massimo Ferrrante. Alla fine parlerà l’avvocato Giulia Bongiorno. Nel corso della discussione, il pubblico ministero Andrea Bonomo, ha ricordato la vicenda della nave Gregoretti, e ha ribadito che le azioni di Salvini non sarebbero state «illegittime». E ricorda più volte che il Governo «condivideva la linea politica di Matteo Salvini» perché l’intero esecutivo «chiedeva all’Europa un meccanismo diverso per il collocamento dei migranti». Per il magistrato «era un principio condiviso da tutto il governo». Per Bonomo «c’era condivisione politica» che sarebbe proseguita anche quando Salvini ha lasciato il Viminale «come dimostra l’accordo di Malta». «Era di competenza del ministro dell’Interno? – chiede ancora il pm Bonomo – Sì certo che lo era». E aggiunge che «se vengono garantite le condizioni dei migranti a bordo» anche «una nave può essere considerata un pos» cioè un place of safety, un porto di approdo.

"Scelte condivise dal Governo". Salvini, sulla Gregoretti “non fu sequestro di persona”: pm chiede non luogo a procedere. Redazione su Il Riformista il 10 Aprile 2021. Il fatto non sussiste. A quasi due anni dalla vicenda dello sbarco dei migranti dalla nave Gregoretti, l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini “non ha violato alcune delle convenzioni internazionali” e “le sue scelte sono state condivide dal Governo”. Nel corso dell’udienza preliminare nell’aula bunker di Catania, il pm Andrea Bonomo, a conclusione del suo intervento in aula davanti al Gup Nunzio Sarpietro, ha ribadito la richiesta di non luogo a procedere nei confronti del segretario della Lega. La Procura di Catania nella richiesta di archiviazione aveva scritto che “l’attesa di tre giorni non può considerarsi una illegittima privazione della ‘libertà”, visto che le “limitazioni sono proseguite nell’hot spot di Pozzallo” e che “manca un obbligo per lo Stato di uno sbarco immediato”. Inoltre, aveva osservato il pm, “le direttive politiche erano cambiate” e dal 28 novembre il Viminale aveva espresso la volontà di assegnare il Pos (cioè un place of safety, porto d’approdo) e di “farlo in tempi brevi”, giustificando “i tempi amministrativi” per attuare lo sbarco dei migranti “con la volonta’ del ministro Salvini di ottenere una ridistribuzione in sede europea”. Inoltre sulla nave “sono stati garantiti assistenza medica, viveri e beni di prima necessita'” e “lo sbarco immediato di malati e minorenni”. “Io rivendico con orgoglio quello che abbiamo fatto con i colleghi. Per me la coerenza e la dignità sono dei valori. Io mi assumo, insieme ai colleghi che lavoravano con me, il successo delle politiche di contrasto all’immigrazione clandestina”, aveva detto il leader della Lega, con il suo avvocato Giulia Bongiorno, dopo l’udienza preliminare dello scorso dicembre. “Mai combatterò un avversario politico in un’aula di tribunale, si combattono con le idee. Mi spiace per la quantità di tempo e denaro che gli italiani stanno spendendo, perché qualcuno in Parlamento ha deciso di fare un processo politico”. Dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, “non mi aspetto complimenti, favori e bugie, mi aspetto la verità. Ha detto più di una volta che ‘io facevo ricollocare, io facevo sbarcare’. Ci sono anche dei video che abbiamo portato in aula. Non dica ‘non ricordo, non ricordo’ come qualcuno oggi”, ha continuato Salvini, aggiungendo che in aula “mi sono limitato a ricordare i numeri. Vado orgoglioso di quello che ho e che abbiamo fatto. I numeri: ridotti del 50% i dispersi nel Mediterraneo e sostanzialmente azzerato, da 83 a 4, i morti. I numeri ci danno ragione. Abbiamo salvato vite, abbiamo rispettato le norme sia italiane che internazionali”. Stilettate e bordate lanciate al governo: sull’alleanza, sul Recovery Fund, sulla gestione dei soldi. “Ritengo improbabile andare a votare a marzo in piena campagna vaccinale”.

Ecco perché il caso Gregoretti era già destinato all'archiviazione. Sin dall'inizio è apparso palese che il procedimento sul caso Gregoretti dovesse in realtà giungere al suo punto di partenza: ossia una richiesta di archiviazione per Matteo Salvini. La decisione di sabato della procura non deve quindi sorprendere. Mauro Indelicato - Dom, 11/04/2021 - su Il Giornale. Il caso Gregoretti si avvia a conclusione. Il 14 maggio, data stabilita per l'udienza dove il Gip di Catania comunicherà le sue decisioni, molto probabilmente si procederà con l'archiviazione della posizione di Matteo Salvini. Un epilogo anticipato oggi con la richiesta, da parte della stessa procura di Catania, di richiedere al Gip il “non luogo a procedere” per l'ex ministro dell'Interno. Non c'è da stupirsi: si è intuito già dall'inizio che il procedimento sul caso Gregoretti era destinato a finire in un vicolo cieco, in un evento quasi più mediatico che giudiziario. Nell'autunno del 2019 infatti, sono stati gli stessi magistrati etnei a chiedere l'archiviazione per Salvini. Secondo la procura guidata da Carmelo Zuccaro, l'allora ministro dell'Interno non aveva commesso alcun reato contestato, dunque né sequestro di persona e né abuso di ufficio. I giudici del tribunale ordinario, come evidenziato nelle motivazioni consegnate nel dicembre 2019, hanno ritenuto che i fatti in questione avessero una valenza politica, non dunque di natura penale: “Non sussistano i presupposti del delitto di sequestro persona – si leggeva tra le carte della procura – né di nessun altro delitto, e ciò anche a prescindere dalle valutazioni in ordine sia alla riconducibilità o meno della condotta del Ministro alla categoria degli atti politici o di alta amministrazione sia alla sindacabilità giurisdizionale degli atti politici o di alta amministrazione”. Un concetto molto simile a quello ribadito nel corso dell'ultima udienza dal Pm Andrea Bonomo, il quale ha fatto riferimento a una strategia politica messa in atto nel luglio del 2019 per giungere a una redistribuzione dei migranti in sede comunitaria. Il nodo è sempre stato rappresentato proprio da questo principio: il blocco della nave, secondo la procura, è considerabile un atto di natura politica. E qui la linea dei magistrati ha coinciso in buona parte con quella della difesa di Matteo Salvini. Quest'ultimo il 10 aprile ha consegnato l'ultima memoria difensiva: 63 pagine in cui il segretario del carroccio è tornato su questi punti. Ossia, da un lato, la natura politica della scelta alla base dello stop allo sbarco, oltre che, dall'altro lato, una condivisione della linea con l'intero governo Conte I, formato da Lega e M5S. Di scelta collegiale aveva parlato, subito dopo l'udienza dell'ex presidente del consiglio Giuseppe Conte, anche il Gip di Catania Nunzio Sarpietro. Il quadro trapelato all'inizio del procedimento, è stato quindi ulteriormente rafforzato nel corso delle varie udienze preliminari. Non a caso nelle sue memorie Matteo Salvini ha citato anche passaggi delle testimonianze rese da alcuni ministri del Conte I, tra cui Luigi Di Maio. Perché quindi si è arrivati fino a questa fase preliminare? In realtà ad orientare il caso Gregoretti verso le aule giudiziarie è stato il tribunale dei ministri di Catania, competente visto che all'epoca dei fatti l'imputato era membro del governo. La posizione dei giudici dell'apposito tribunale si è distaccata da quella dei magistrati della procura. La politica ha poi fatto il resto. Il 20 gennaio la giunta per le immunità del Senato ha dato il primo via libera al processo contro Salvini, il 12 febbraio è arrivato il disco verde definitivo. Ma questo soltanto perché, rispetto al luglio del 2019, era cambiata la maggioranza: il governo aveva già colore giallorosso, il voto dei senatori ha rispecchiato la posizione della nuova coalizione formata da M5S e Pd. Quando ad ottobre sono iniziate le udienze preliminari, si è capito subito come il caso Gregoretti fosse destinato a ritornare al punto di partenza: ossia alla richiesta della procura di archiviare la posizione dell'imputato. Il procedimento si è quindi rivelato, ancora una volta, nella sua vera natura: un lento girare a vuoto ad uso e consumo soprattutto della politica.

Fausto Biloslavo per “il Giornale” l'11 aprile 2021. L'ex ministro che sembra Alice nel paese delle meraviglie e il due volte presidente del Consiglio che gioca allo scaricabarile con il contorno di altri pezzi grossi grillini oggi sbugiardati dalle parole pronunciate in aula a Catania che hanno suggellato la decisione collegiale del governo sul caso Gregoretti. Una scoperta dell'acqua calda sottolineata dal pubblico ministero, Andrea Bonomo, che ha chiesto il non luogo a procedere per l'ex ministro dell'Interno Matteo Salvini. In sintesi, il leader della Lega, non decise di testa sua di trattenere a bordo della nave della Guardia costiera Gregoretti 114 migranti, nel luglio 2019, per esercitare pressione sull'Europa sempre restia ai ricollocamenti. Al di là dell'importante significato processuale la richiesta del pm sbugiarda il tragicomico tentativo di arrampicarsi sugli specchi dei grillini allora, come oggi, alleati di governo. Il più ridicolo è Danilo Toninelli, ex ministro dei Trasporti, che aveva la responsabilità della Guardia costiera. I suoi 42 «non ricordo» e «non so» in due ore di testimonianza a Catania sul caso Gregoretti rimarranno simbolo tragicomico della trasformazione del grillino in Alice nel paese delle meraviglie. La linea del Piave era la seguente: «Il Consiglio dei ministri non trattò l'argomento. La scelta di quando fare sbarcare è esclusiva competenza del ministero dell’Interno». Lo smemorato della politica non ricordava i contenuti del laborioso accordo di governo che prevedeva la linea dura sull'immigrazione e ancora meno la politica di ridistribuzione dei migranti. «Non so, non ricordo» che cozzavano con i post dei giorni di nave Gregoretti quando il ministro Toninelli tuonava su Twitter che «non li faremo sbarcare se la Ue non batte un colpo». Per non parlare della tabula rasa sul cruciale tavolo tecnico, del 12 febbraio 2019, che aveva sancito la linea dell'intero governo: prima certezze sulla redistribuzione dei migranti e poi lo sbarco. Non a caso, ieri in aula a Catania, l'avvocato del leader della Lega, Giulia Bongiorno ha ricordato le comiche di Toninelli: «C'è chi ha rinnegato la sua attività di ministro». Pure il due volte presidente del Consiglio, con e senza la Lega, Giuseppe Conte, viene sbugiardato dalla piega del processo di Catania. L'avvocato di se stesso, a differenza di Toninelli, rispose a tutte le domande sul caso Gregoretti, ma cercò sempre di fare il giochetto dello «scaricabarile» sull'allora ministro dell'Interno Salvini. L'indirizzo politico, quello di coinvolgere preventivamente l'Europa nella redistribuzione dei migranti soccorsi nel Mediterraneo, era condiviso dal governo secondo Conte, ma le decisioni sugli sbarchi erano di competenza del cattivone che guidava il Viminale. Peccato che l'ex premier nel video della conferenza stampa a fine 2019 ribadisse chiaramente: «Prima i ricollocamenti, poi lo sbarco». La grillina dispersa, Elisabetta Trenta, all'epoca dei fatti ministro della Difesa impegnata in un braccio di ferro mediatico e politico con Salvini, ha mantenuto un basso profilo. L'unico alleato di governo, che non si è tirato troppo indietro dalla responsabilità collegiale sancita in aula a Catania, è stato il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, allora vicepremier come Salvini. Il paradosso è che la linea dura condivisa dal governo Conte 1 ha portato all'accordo di Malta sulla ridistribuzione dei migranti del Conte 2 purtroppo congelata dal Covid. Per di più con il secondo governo Conte cambia poco, come dimostrano diversi casi collegati alla navi «umanitarie» Ocean Viking, Alan Kurdi, Aita Mari a Open Arms. Tutte situazioni di stallo, che hanno registrato dai 3 ai 10 giorni di attesa dalla richiesta del porto sicuro allo sbarco. Per i migranti del Gregoretti i giorni erano sei. La verità è che il processo a Catania per sequestro di persona, come quello sostanzialmente identico a Palermo del caso Diciotti è un maldestro tentativo di far fuori Salvini per via giudiziaria con lo zampino dei grillini.

·        Quelli che…Porti Chiusi.

L’assurda storia del pescatore Vincenzo: salva 24 naufraghi e finisce sotto inchiesta. Giulio Cavalli su Il Riformista il 17 Giugno 2021. Vincenzo Partinico è un pescatore che sabato scorso mentre navigava per lavoro a una trentina di miglia da Lampedusa ha incrociato una “carretta del mare” con 24 migranti a bordo e che imbarcava acqua. Partinico ha fatto quello che farebbe qualunque persona con un cuore, quello che è sempre avvenuto nella Storia: ha salvato chi chiedeva aiuto. All’Adnkronos ha raccontato che quelli stavano con «i vestiti zuppi d’acqua e negli occhi spalancati il terrore di quello che avevano vissuto». Alle 4.45 del mattino, l’ora in cui il mare accoglie solo i disperati e i pescatori, ha sentito un urto e ha capito che si trattava di persone. Racconta di avere recuperato alcuni, altri sono finiti in mare, lui e i suoi colleghi hanno gettato i salvagenti fino a raccoglierli tutti, prima di avvisare la motovedetta della Capitaneria di porto. Accade da secoli: in mare i pescatori, tutti quelli che con il mare e nel mare ci sono cresciuti, hanno la regola universale di salvare chi si trova in difficoltà. Capita di salvare pescatori, capita di salvare diportisti, capita di salvare i migranti. Vincenzo Partinico, 57 anni, spiega il perché senza bisogno di troppi giri di parole: «sono esseri umani. Non c’è differenza e chi dice il contrario è solo un cretino». Eppure Partinico ora si deve trovare in fretta un avvocato perché è stato denunciato alla Procura di Agrigento. Il reato? Era là dove non avrebbe potuto stare: per salvare quelle persone si è permesso di avvicinarsi e in questo mondo di egoismi travestiti da sovranismi i confini sono catene che ti si abbattono sulla schiena anche in casi come questo. “Violazione delle norme del Codice della navigazione” c’è scritto sull’avviso di garanzia. Il sindaco di Lampedusa Totò Martello prova a ripetere a tutti i giornalisti che «Vincenzo è l’orgoglio di Lampedusa» e che la sua azione «dimostra più di tante parole come chi è a mare non guarda né al colore della pelle né ai cavilli burocratici» ma segue l’unico comandamento del mare: salvare chiunque abbia bisogno di essere salvato.

Giulio Cavalli. Milano, 26 giugno 1977 è un attore, drammaturgo, scrittore, regista teatrale e politico italiano.

"Abusati e venduti, respinti illegalmente alle frontiere dell'Italia centinaia di minori migranti", La denuncia di Save the children. Alessandra Ziniti su La Repubblica il 17/6/2021. Nel dossier redatto dalla Ong per la Giornata mondiale del rifugiato, le testimonianze, con foto e video, dei viaggi lungo la rotta balcanica attraverso l'Italia verso la Francia. Appello alla Ue: " Proteggere i ragazzi ai confini dell'Europa". Gyasi ha 17 anni, è nato in Ciad e ha una gamba ferita da un colpo d'arma da fuoco sparatogli da un poliziotto in Libia quando è scappato dal centro di detenzione dove è stato rinchiuso per 20 mesi dopo essere sopravvissuto ad una traversata finita male e riportato indietro quando aveva solo 14 anni. Alla fine ce l'ha fatta ad arrivare in Sicilia e da lì a Ventimiglia.

“Ci hanno preso a bastonate e hanno ammazzato il mio amico davanti a me”. Così l’Europa respinge i migranti minori

La denuncia in un rapporto di Save The Children che attacca Bruxelles e i paesi membri. I ricercatori hanno passato due mesi sulle frontiere settentrionali dell’Italia raccogliendo testimonianze delle brutalità: «Sogno ancora le violenze della polizia nei boschi della Croazia». Luca Sebastiani su L'Espresso il 17 giugno 2021. La difesa dei sacri confini, del proprio territorio, della propria nazione. Sono gli slogan che in giro per l’Europa si sentono spesso per bocca di qualche rappresentante politico pronto a scagliarsi contro tutto ciò che è “diverso” e che vuole “invadere”. Forse senza sapere che tra coloro che provano ad entrare nel Vecchio Continente ci sono anche tanti, tantissimi minorenni soli che scappano e subiscono violenze fisiche e psicologiche durante il loro viaggio. E non di rado trovano un’accoglienza peggiore tra i paesi europei. Molti non sono neanche tracciati e si muovono ogni giorno “come fantasmi” a piedi o in camion, tra strade e sentieri di montagna in un'Unione europea che fa finta di non vedere. L’allarme lo lancia Save The Children, nel rapporto “Nascosti in piena vista. Minori migranti in viaggio (attra)verso l’Europa” a cura del giornalista Daniele Biella e del fotoreporter Alessio Romenzi, in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato. Un lavoro che ha portato gli autori e un team di ricerca per due mesi sia al confine italo-sloveno, svincolo importante della tremenda rotta balcanica, sia a Ventimiglia o a Oulx, ad osservare e a raccogliere testimonianze dei respingimenti francesi. In realtà, sottolinea nel rapporto Save The Children, il Comitato delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia, l’articolo 3 della Convenzione Onu contro la Tortura e l’articolo 33 della Convenzione sullo Status di Rifugiato del’51, confermano che in nessun caso un minore straniero non accompagnato possa essere espulso o respinto alla frontiera. Purtroppo quello che accade in Europa è ben diverso. Secondo il censimento del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, a fine aprile 2021 i minori stranieri non accompagnati presenti in Italia erano 6.633. In quel mese ne sono arrivati 453, di cui solo 149 tramite gli sbarchi e ben 107 attraverso i Balcani. Questi primi dati raccontano solo parzialmente la situazione, che è fatta di volti, storie e racconti di ragazzi. In certi casi poco più di bambini. Come Ibrahim, 11enne del Bangladesh e ceco da un occhio, che a Save The Children ha raccontato di voler «venire in Italia per essere curato, ho viaggiato per un anno e la parte più dura è stata la rotta balcanica, dalla Croazia sono stato respinto 12 volte, in alcuni casi picchiato e derubato dalla polizia di frontiera. Ho camminato tanto a piedi, un mese e sei giorni dalla Bosnia, arrivando senza avere nulla da mangiare». Una volta arrivati in Italia, in Friuli-Venezia Giulia, chi viene intercettato da esercito o forze dell’ordine è portato in questura per un’identificazione, sottoposto al tampone e smistato in centri di accoglienza. Da alcuni mesi infatti non sono più consentite le riammissioni verso la Slovenia. Nel 2020 sono state 1.301, tra cui anche quelle di minori non accompagnati. È nelle strutture ospitanti che Biella, Romenzi e il team di ricerca di Save The Children parlano con Nadir, 16enne afghano: «In Afghanistan non si può vivere bene e non è possibile studiare. Va tutto male là a causa della guerra. Ai miei fratelli però dico di non fare il viaggio che ho fatto, perché in Bulgaria sono rimasto in prigione tre mesi, sono stato picchiato. Quando sono arrabbiati, picchiano e basta». Sulla stessa atroce linea, ma ancora più duro, è il quadro che illustra il neomaggiorenne Abdel, che viene dal Pakistan: «Sogno spesso le violenze della polizia nei boschi della Croazia. Una volta ci hanno fatto camminare senza sosta in salita per ore, continuando a picchiarci, un poliziotto si divertiva a farlo [...] Una volta invece la polizia è arrivata, i piedi erano feriti e non siamo riusciti a scappare, avevano i cani. Quando abbiamo riprovato di nuovo a scappare, uno di noi è stato bastonato dalla polizia alla testa ed è morto sul colpo. È morto e l’hanno preso e buttato nel fiume, l’hanno buttato nel fiume». Non sorprende l’aumento negli ultimi tempi dei traumi psicologici dei minori viste le tante testimonianze che inchiodano paesi europei come Bulgaria e Croazia per le brutalità commesse dalle forze dell’ordine ai danni di ragazzi e ragazze. Ma per molti, la maggior parte, l’Italia non è la destinazione finale. Non è la conclusione di quel pericoloso “game”, come viene chiamato da loro: il sogno è arrivare nel Regno Unito, in Germania, in Francia. E quindi continuano nella migrazione, sempre con il rischio di essere oggetto di violenze, incidenti e traffico di esseri umani. Per questo, sempre nell’aprile del 2021, sono stati 302 i minori che si sono allontanati dalle strutture di accoglienza, 24 dai centri del Friuli per dirigersi verso il confine italo-francese. Ma anche lì sono in molti ad essere respinti, trattati come adulti alla frontiera tra Ventimiglia e Mentone. I ricercatori hanno intercettato il 17enne Gyasi, che è arrivato in Italia dal Ciad passando per la Libia, dove nel centro di detenzione gli hanno sparato a una gamba, è tra i tanti migranti respinti dalla Francia: «Ho dichiarato la mia data di nascita, 2004, quella con cui sono stato registrato allo sbarco in Sicilia. Ma non mi hanno creduto e mi hanno riportato in Italia scrivendo sul refus d’entree una data che mi fa risultare maggiorenne». Solamente nell’aprile 2021 sono stati 18 i minori non accompagnati respinti di cui si ha segnalazione. Dati probabilmente parziali. Il grido di Save The Children è forte, lanciato da Raffaella Milano, direttrice dei Programmi Italia-Europa: «Ogni giorno e ogni notte attraversano i confini degli stati membri dell’Unione Europea, Premio Nobel per la pace, che continuano a chiudere gli occhi di fronte alle violenze che i migranti sono costretti a subire». L’Organizzazione lo denuncia nel rapporto e «chiede all’Italia e alle istituzione europee una protezione immediata, un monitoraggio efficace e indipendente delle frontiere e progetti di assistenza umanitaria nei luoghi di transito».

Immigrazione e lotta alle Ong, il Pd adotta il metodo-Salvini: record di imbarcazioni sequestrate. Giovanni Longoni su Libero Quotidiano l'08 giugno 2021. «Io non ho mai fatto una campagna contro gli immigrati, il mio problema non è il colore della pelle ma la legalità». Matteo Salvini due sere fa ha detto queste cose da Lucia Annunziata (a "In Mezz' ora in più" su Raitre) e non è la prima volta che lo fa. Però la fama di unico flagello degli immigrati e più ancora delle navi Ong che li trasportano in Italia gli resta attaccata - cosa che peraltro non deve essergli del tutto sgradita in quanto gli garantisce il sostegno elettorale di molti cittadini preoccupati per gli arrivi in massa di immigrati. Comunque, consenso o non consenso, i numeri dei fermi imposti alle barche dei buoni samaritani del mare suggeriscono una realtà un po' diversa: gli stop alle navi Ong sono cresciuti durante il governo Conte II rispetto a quando il leader del Carroccio stava al Viminale, per poi esplodere nei mesi reccenti con Mario Draghi.

Casarini furioso. L'ultimo caso è avvenuto sabato scorso quando la Sea -eye 4, attraccata al porto di Palermo perché i suoi volontari ricevessero la cittadinanza onoraria della città di Leoluca Orlando, è stata sottoposta a fermo amministrativo al termine di una ispezione della Guardia costiera. «Considerato il tipo di attività che la nave regolarmente svolge», si legge nella nota della Guardia Costiera, «l'ispezione ha confermato che i mezzi collettivi di salvataggio della nave risultano sufficienti ad ospitare un numero massimo di 27 persone; pertanto, in caso di emergenza a bordo della nave, che comporti l'evacuazione della stessa, si ritiene che l'equipaggio non sarebbe in grado - anche per consistenza numerica e di qualifica- di garantire che le persone ospitate possano essere avviate ai mezzi di salvataggio nè ovviamente trovare posto sufficiente per essere sugli stessi ospitate». In pratica la Sea -eye 4, secondo gli agenti, salvava troppe persone rispetto alla sua capienza... Una motivazione che ha scatenato la reazione della sinistra estrema. Luca Casarini, capo missione di Mediterranea, altra Ong finita nei guai, ha sbottato contro i «pretestuosi quanto arbitrari controlli» per poi attaccare il ministro delle Infrastrutture Giovannini.

I pensionati triestini. La Mediterranea Saving Humans di Casarini è sotto inchiesta dalla Procura di Ragusa per aver accettato un compenso in denaro da una petroliera che voleva disfarsi di alcuni profughi. Ma ci sono molti casi simili, elencati dall'americano Richrad Bruade per il sito "Jacobin" in un intervento dall'eloquente titolo "La guerra alle Ong nell'Italia di Draghi". Si va dalle inchieste sulla tedesca Jugend Rettet («Iniziata alla fine del 2016 sotto il governo guidato dal Pd») ai guai di Save the Children e Medici senza frontiere («favoreggiamento e sfruttamento dell'immigrazione clandestina»), fino al blocco amministrativo della Sea Watch 3. Il caso più divertente è quello si una coppia di anziani attivisti di Trieste che «aiuta da anni i migranti dell'Asia, curando i piedi di persone che hanno camminato per migliaia di chilometri (...). Anche loro sono stati accusati di "tratta di esseri umani"». In sintesi, il mondo sembra diviso fra una destra che combatte l'immigrazione clandestina e se ne vanta e una sinistra e un centro che fanno molto di peggio (si pensi alla Danimarca o a Minniti) e tengono la bocca ben chiusa.

(ANSA l'8 giugno 2021) - La vice presidente americana Kamala Harris ha detto ai migranti di Guatemala e Messico di "non venire negli Stati Uniti" perché saranno respinti. Durante la sua prima visita all'estero da quando ha assunto l'incarico, Harris ha parlato del "pericoloso viaggio verso nord" che intraprendono i migranti invitandoli a "non venire. Gli Stati Uniti continueranno a far rispettare le nostre leggi e a proteggere i nostri confini". "Se verrete al nostro confine, sarete rimandati indietro", ha detto la vice presidente sottolineando che ci sono "strade per un'immigrazione legale e sono queste che vanno percorse".

Giogria Meloni smaschera i compagni con Kamala Harris: "Immigrati rispediti a casa? E la sinistra fa finta di niente". Libero Quotidiano l'08 giugno 2021. Giorgia Meloni attacca la sinistra e l'arcinota ipocrisia dei "compagni" sul tema dell'immigrazione. Lo fa in un post sul suo profilo Facebook, dove riprende le parole della vicepresidente americana Kamala Harris, che nelle ultime ore ha tuonato contro l'immigrazione illegale negli Stati Uniti. "Il vice presidente Usa e idolo della sinistra Kamala Harris ora parla come Donald Trump e rivolgendosi ai migranti che vorrebbero entrare negli Stati Uniti dice chiaramente che l'immigrazione illegale sarà contrastata", scrive la Meloni. "Gli Stati Uniti continueranno a difendere i propri confini e le proprie leggi, anche 'respingendo' chi prova a entrare illegalmente. Così come fa qualsiasi Nazione al mondo, tranne l'Italia ostaggio della sinistra immigrazionista. Che dite, sentiremo il solito grido sdegnato di politici, giornalisti e intellettualoni nostrani o questa volta faranno finta di niente?", conclude il post della leader di Fratelli d'Italia con una domanda retorica che chiama in causa la sinistra italiana da sempre critica con le politiche dell'immigrazione attuate dal centrodestra. La vicepresidente Usa durante una missione in Guatemala ha discusso del fenomeno migratorio dal Paese dell’America centrale con il presidente Alejandro Giammattei, la numero due di Joe Biden ha avvertito i potenziali immigrati che si dovessero mettere in viaggio nel prossimo futuro verso il sogno americano a “non venire” negli Usa perché “sarete rispediti indietro. Vogliamo sottolineare che l’obiettivo del nostro lavoro è aiutare i guatemaltechi a trovare la speranza a casa. Voglio dire chiaramente alle persone in questa area. Non venite”. Insomma la vicepresidente Usa che un’icona dem nata a Oakland da madre indiana, immigrata da Chennai, e da padre di origine giamaicana, è 49º vicepresidente degli Stati Uniti d’America, ha spiegato in maniera chiara quale sarà la visione dell'amministrazione Biden sull'immigrazione. Ed ecco che la Meloni chiede proprio alla sinistra italiana che per anni ha criticato Donald Trump, cosa ne pensa ora di questa chiara presa di posizione.

L'idolo della sinistra vuole cacciare i migranti. Lorenzo Mottola su Libero Quotidiano l'08 giugno 2021.

Lorenzo Mottola. Milanese sulla quarantina, storico bocconiano, nel senso che la Bocconi l'avevo cominciata, ma poi mi sono laureato in storia (altrimenti mica sarei qui a fare il giornalista). Caporedattore centrale di Libero da parecchi anni, mi occupo principalmente di politica. Ma anche di pandemie, quando qualche genio decide che è giunto il momento di scoprire di cosa sa un pipistrello alla piastra. Su questo blog cercheremo di trattare di tutto. Il nuovo idolo della sinistra italiana sull’immigrazione ha più o meno le stesse idee del vecchio leghista Pier Gianni Prosperini: “Ciapa 'l camél, ciapa la barchétta, e te turnet a cà”. Parliamo di Kamala Harris, braccio destro di Joe Biden, che in questi giorni si trova in centro America per la sua prima missione diplomatica all’estero. Una volta giunta in Guatemala, la vicepresidente - donna di colore e figlia di migranti - ha pronunciato un discorso che pare scritto all’ultimo piano della Trump Tower: “Voglio essere chiara con le persone di questa regione che pensano di fare il viaggio pericoloso al confine tra Stati Uniti e Messico. Non venite, non venite. Gli Stati Uniti continueranno a far rispettare la legge e garantire la sicurezza alla frontiera”. Confini chiusi, sbarrati per i clandestini.  Per i regolari se ne può parlare, ma sappiamo che gli Usa hanno regole rigidissime. Unica certezza: con chi prova a violare la legge, anche per fame, non c’è dialogo. “Se verrete al nostro confine, verrete respinti”. E non a carezze, si suppone. Certo, Kamala ha inserito nel suo ragionamento anche altri elementi. Ha spiegato che Washington collaborerà per migliorare il futuro delle persone che hanno avuto la sfortuna di nascere a sud del confine degli Stati Uniti. Perché nessuno deve essere messo nella condizione di desiderare di lasciare la propria patria per cercare un briciolo di fortuna e felicità. Un discorso già sentito, che ricorda un po’ il vecchio “aiutarli sì, ma a casa loro”. Insomma, torniamo per una sorta di anaciclosi alla dottrina del Prosperini, che oggi potrebbe denunciare i democratici Usa per il plagio dei suoi vecchi comizi televisivi (quei comizi che pronunciava prima dell’arresto per aver ospitato nel suo ufficio dei guerriglieri etiopi, ma questa è tutta un’altra storia). In Italia, ovviamente, qualcuno resterà deluso. Per esempio Roberto Speranza, che all’insediamento di Biden stappava dicendo che “gli Stati Uniti d'America inizieranno una nuova epoca più aperta, solidale e democratica”.  O Laura Boldrini, convinta che bastasse l’insediamento di Kamala per veder ristabiliti <i valori della democrazia nel mondo>. Sarà d’accordo l’ex presidente della Camera con la dottrina “i clandestini vanno rispediti a casa loro”?.  Nicola Zingaretti era arrivato a scrivere a Biden “ridurre le disuguaglianze prodotte da una globalizzazione che non ha ancora al centro l'obiettivo dello sviluppo umano integrale”. Aspetta e spera. Per la politica italiana è un rituale ormai consolidato: ci si innamora di un politico americano sperando che si tratti di un compagno di ferro e poi si scopre che la sinistra come noi la conosciamo praticamente neanche esiste oltreoceano. E infatti ieri anche Matteo Salvini e Giorgia Meloni sfottevano: “Cosa diranno ora i nostri intellettualoni?”. Ma cosa è capitato a Kamala per farla diventare improvvisamente così rigida sull’immigrazione. La spiegazione è semplice: con la fine dell’amministrazione Trump centinaia di migliaia di centroamericani hanno pensato che i confini degli Stati Uniti si sarebbero improvvisamente spalancati. Risultato: nel mese di aprile è stato raggiunto un picco record, 178mila persone hanno cercato di entrare negli Stati Uniti violando la legge. Un simile numero secondo le autorità statunitensi non si registrava in almeno 20 anni. Da qui la decisione dell’amministrazione Biden di tornare rattamente sui propri passi e di lanciare un messaggio diverso. Insomma, “state a casa vostra”. E anche negli Usa qualcuno l’ha presa male. Per esempio, Ocasio Cortez, esponente democratica, che ha giudicato “deludente” il discorso di Kamala.   "Primo, chiedere asilo in qualunque punto del confine Usa è un metodo di arrivo legale al 100%. Secondo, gli Usa per decenni hanno contribuito a cambi di regime e destabilizzazione in America Latina. Non possiamo aiutare a dare fuoco alla casa di qualcuno e poi accusare di scappare". Qualcuno negli Stati Uniti le darà retta? Difficile.

Giovanni Sallusti, autore del libro ''Politicamente Corretto - la dittatura democratica'' - Giubilei Regnani editore, per Dagospia l'8 giugno 2021. Caro Dago, basta, la misura è colma, anche il recalcitrante tenutario di questa rubrica sceglie di dire qualcosa di Politicamente Corretto, perché di fronte alla barbarie manifesta bisogna prendere atto e reagire. Che spettacolo gretto, questo vicepresidente degli Stati d’Uniti America che, in visita nel povero Guatemala, con alle spalle tutta l’opulenza del capitalismo yankee e la sicumera del complesso militare-industriale, si rivolge in quel modo agli ultimi, ai diseredati, ai dannati della terra. “Voglio parlare molto chiaro con chi sta pensando di fare quel pericoloso viaggio tra Stati Uniti e Messico”. E già qui sguazziamo in un pericolo equivoco sovranista, quei disgraziati non “stanno pensando” di migrare, sono obbligati a farlo, per impellenti motivi economici, sociali, perfino climatici, che ormai solo i pochi miscredenti del Vangelo secondo Greta negano. Ma il peggio viene ora: “Non venite. Non venite”. Scandito così, due volte, con pausa scenica e una durezza d’animo che nemmeno “Salvini&Meloni”, ormai un unico sintagma per indicare l’abiezione umana e politica, come da sacrosanto utilizzo sdoganato da Roberto Saviano. Insiste, il vicepresidente, e sicuramente da qualche parte deve ancora tenere gelosamente custodita la tessera del Ku Klux Klan: “Gli Stati Uniti continueranno a far rispettare le nostre leggi e a proteggere il nostro confine”. Questo è davvero inaudito, la persuasione razzista che la legge oltre che per i cittadini del proprio Paese debba valere anche per gli immigrati clandestini e i loro “organizzatori”, come se una Carola Rackete non fosse libera di forzare blocchi, speronare motovedette militari e mettere a rischio la vita di uomini in divisa, siamo davvero alla notte della civiltà. “Esistono modi legali con cui la migrazione può e deve avvenire”, è il virgolettato a rinforzo, di chiara ispirazione trumpiana. E poi la sottolineatura ridondante, tipica di una nazione buzzurra costruita sulla Colt: “Se verrete al nostro confine, sarete rimandati indietro”. Teorizza il respingimento sistematico dei clandestini, questo vicepresidente, siamo all’instaurazione del fascismo in America. E quando cerca di indorare la pillola è perfino peggio, perché rispolvera la retorica tipica di tutte le destre nazionaliste, quella dell’ “aiutiamoli a casa loro”. “L’amministrazione Usa vuole aiutare i guatemaltechi a trovare spazio in patria”. Chiude proprio così, con la parola proibita, maledetta, bandita dagli aperitivi arcobaleno della gente che piace, “patria”, questo pseudoconcetto etnicista, novecentesco, in odor di mai sopite nostalgie nazionalsocialiste. Come dici, caro Dago? Il vicepresidente in questione è una vicepresidentessa? Una vicepresidentessa di colore, di madre indiana e padre di origini giamaicane (per stare all’obsoleta distinzione reazionaria precedente a genitore 1/ genitore 2)? È la vicepresidentessa di colore nuova star indiscussa del Partito Democratico, l’ala sinistra e patinata rispetto a quell’attempato maschio bianco di Joe Biden, così indietro sui tempi? La Madonna Pellegrina del politically correct globale, quella che risplende al riparo dalla critica e dall’ironia (chiedere a quel becero del professor Marco Bassani, sospeso dalla Statale di Milano perché aveva condiviso spiritosaggini social sulla vicepresidentessa), quella che a detta del Giornalone Unico avrebbe spalancato un’era di magnifiche sorti e progressive e inclusiviste dopo l’orrenda stagione dell’orco Trump (un altro che voleva contrastare l’immigrazione di massa e presidiare le frontiere, ma senza alcuna grazia e con la stampa contro), insomma stiamo parlando di Kamala Harris? Chiedo venia, cancella tutto, mi scuso e sollevo questo sito da ogni responsabilità. 

Gian Micalessin per “il Giornale” il 4 giugno 2021. Per Enrico Letta paladino dello «ius soli» deve essere stato un altro colpo al cuore. A fargli rischiare il coccolone ci sta pensando, anche stavolta, la premier danese Mette Frederiksen sua «compagna» di schieramento sui banchi del Parlamento europeo. Ieri, come previsto, il Parlamento di Copenaghen ha approvato con 70 voti contro 24 la nuova legge sull' immigrazione voluta dalla sinistra socialdemocratica. La legge - applaudita da Matteo Salvini, ma deplorata dalle Nazioni Unite, dalle organizzazioni umanitarie e dalla stessa Ue - prevede l'istituzione di campi extra-europei dove segregare i richiedenti asilo in attesa di risposta da parte delle istituzioni danesi. Una procedura al cui confronto quella imposta, a suo tempo, dal «cattivissimo» Donald Trump era rose fiori. Mentre l'ex presidente statunitense si limitava a far attendere il responso sull' accoglienza nei campi in Messico i social-democratici danesi esigono, in piena sintonia con l'opposizione di centro destra, che l'attesa avvenga in un paese africano. E a render il tutto più paradossale s' aggiunge il ruolo giocato dal ministro dell'immigrazione Mattias Tesfaye, un socialdemocratico figlio di immigrati etiopi. Ad aprile Tesfaye era stato avvistato in Rwanda dove, nel corso di una visita destinata a restar segreta, aveva avviato trattative con il governo di Kigali per l'apertura dei discussi centri di detenzione. Nelle settimane successive lo stesso Tesfaye ammise di aver «identificato una manciata di paesi» con cui discutere il progetto pur precisando che si sarebbe trattato di centri «in linea con gli obblighi internazionali». Ieri, comunque, i portavoce del governo socialdemocratico ammettevano senza troppi problemi che la legge punta a scoraggiare i richiedenti asilo pronti a bussare alle porte di Copenaghen. «D' ora in poi se richiedi l'asilo in Danimarca sai che verrai mandato in un paese extra-europeo. Quindi speriamo- spiegava Rasmus Stoklund portavoce del governo sull' immigrazione - che le persone rinuncino a cercare accoglienza in Danimarca». Il primo stop alla nuova legge danese è arrivato dalle istituzioni europee. «L' esternalizzazione delle procedure di asilo solleva questioni fondamentali riguardo l'accesso alle procedure di asilo e alla protezione internazionale. Una simile proposta non è in linea con le attuali regole della Ue nè con le proposte del nuovo patto per le migrazioni o l'asilo» - ha avvertito Adalbert Jahnz portavoce della Commissione Ue. La creazione di campi di attesa in paesi terzi per i richiedenti asilo era stata bocciata in sede di Consiglio Europeo nel 2018 quando una bozza di proposta era stata studiata dal governo austriaco d' intesa con quello giallo-verde guidato da Conte-Salvini-Di Maio e dai paesi dell'est del gruppo di Visegrad. E infatti, ieri, Matteo Salvini non ha esitato ad applaudire la scelta danese. «Bene ha fatto la Danimarca, governata dalla sinistra - ha detto il leader della Lega - ad approvare una legge per aprire centri di accoglienza in Paesi terzi. Dopo i respingimenti spagnoli e le frontiere chiuse della Francia, un altro governo europeo ci dà lezioni. Invitiamo il Viminale a prendere nota». Insomma al mal di cuore di Letta è destinato ad aggiungersi quello del Consiglio Europeo. Dopo aver rimandato alla seduta di fine giugno le discussioni sulla redistribuzione e sul ricollocamento avanzate da Mario Draghi il Consiglio Ue si ritroverà sul tavolo la drastica legge sulla segregazione extra- europea voluta dai «compagni» della tanto elogiata social-democrazia danese.

I "cannoni sonori" per respingere i migranti: come funzionano. Matteo Orlando il 31 Maggio 2021 su Il Giornale. Nuove barriere digitali sperimentali attendono migranti e rifugiati nell'Ue post-pandemia. Per migranti e rifugiati diventerà un’impresa entrare nell’Unione Europa tramite il confine greco-turco. La polizia di frontiera della Grecia, infatti, durante i mesi dell’emergenza sanitaria dovuta al Covid-19, mesi "tranquilli" dal punto di vista degli arrivi sul territorio ellenico di migranti e rifugiati (nel 2020 c’è stata una diminuzione degli arrivi del 78% rispetto all’anno precedente, da circa 75.000 ingressi del 2019 si è passati ai 15.700 del 2020), ha prima testato e via via installato, lungo la linea di confine con la Turchia, in una superficie di circa 200 chilometri, una vasta gamma di nuove barriere digitali, fisiche e sperimentali, tese ad impedire alle persone di entrare nell'Unione europea senza documenti. La rete di sorveglianza automatizzata, che è ancora in costruzione, secondo le intenzioni delle autorità greche, ha lo scopo di individuare precocemente migranti e rifugiati e dissuaderli dall'attraversare, con pattugliamenti fluviali e terrestri, proiettori e dispositivi acustici a lungo raggio. Infatti, nel momento in cui è arrivato un nuovo muro di acciaio, simile alla recente costruzione al confine tra Stati Uniti e Messico, che sta bloccando e bloccherà sempre più i punti di attraversamento di uso comune lungo il fiume Evros, e mentre le torri di osservazione sono state dotate di telecamere a lungo raggio, con visione notturna e sensori multipli (per segnalare movimenti sospetti ai centri di controllo), sta facendo discutere gli osservatori internazionali l’utilizzo dei cosiddetti "cannoni sonori", cioè dei dispositivi acustici a lungo raggio che "sparano" raffiche di rumore assordante e, secondo le intenzioni della polizia greca, dovrebbe dissuadere i migranti e i rifugiati che arrivano dal confine turco a desistere dall’attraversamento. Questi "device acustici", montati sui veicoli delle forze dell’ordine, hanno le dimensioni di un piccolo televisore ma i rumori che emettono possono eguagliare il volume di un motore a reazione. "Avremo una chiara immagine “pre-border” di ciò che sta accadendo. Il nostro compito è impedire ai migranti di entrare illegalmente nel Paese. Abbiamo bisogno di attrezzature e strumenti moderni per farlo", ha detto all'Associated Press il maggiore di polizia Dimosthenis Kamargios, capo dell'autorità di guardia di confine della regione. Sono stati sperimentati anche nuovi modelli di identificatori biometrici e strumenti che permettono di integrare i dati satellitari con filmati di droni che possono operare su terra, in aria, in mare e sott'acqua. Dopo la protezione dei suoi attraversamenti terrestri la Grecia adesso sta facendo pressioni sull'Ue per consentire a Frontex di pattugliare fuori dalle sue acque territoriali per impedire a migranti e rifugiati di raggiungere Lesbo e altre isole greche via mare, che è la rotta più comune in Europa per l'attraversamento illegale negli ultimi anni. L'Unione Europea ha investito tre miliardi di euro nella ricerca tecnologica sulla sicurezza in seguito alla crisi dei rifugiati nel 2015-16 quando, in fuga dalle guerre in Siria, Iraq e Afghanistan, più di un milione di persone sono arrivate in Grecia e in altri paesi comunitari.

(ANSA-AFP il 18 maggio 2021) - E' salito ad almeno 5.000, tra cui un migliaio di minori, il numero di migranti che sono riusciti a superare il confine tra il Marocco e la Spagna e a raggiungere l'enclave spagnola di Ceuta solo nella giornata di lunedì. Lo hanno riferito le autorità spagnole per le quali si tratta di una cifra che costituisce un "record" , senza precedenti. A nuoto o a piedi, gli arrivi di migranti che lasciano le spiagge marocchine situate a pochi chilometri a sud di Ceuta si sono moltiplicati dalla mattina alla sera.

(ANSA-AFP il 18 maggio 2021) - Almeno 85 migranti sono riusciti stamane ad entrare illegalmente dal Marocco nell'enclave spagnola di Melilla, sulla costa nordafricana, dopo che ieri almeno 6.000 erano entrati in quella di Ceuta. Lo ha reso noto la prefettura di Melilla, precisando che si tratta di persone provenienti da Paesi dell'Africa subsahariana. Intanto il governo spagnolo ha fatto sapere che 1.500 dei migranti riusciti ieri ad entrare a Ceuta sono stati espulsi verso il Marocco.

(ANSA-AFP il 18 maggio 2021) - Il premier spagnolo Pedro Sánchez ha cancellato un viaggio previsto a Parigi dopo il record di arrivi di migranti a Ceuta, enclave spagnola sulla costa nordafricana al confine con il Marocco. "La mia priorità in questo momento è riportare la normalità a Ceuta", ha scritto Sánchez su Twitter.

La grande fuga dal Marocco nell'enclave spagnola. Il dramma dei migranti a Ceuta, in 7mila arrivati a nuoto: tra loro 1.500 bambini. Elena Del Mastro su Il Riformista il 19 Maggio 2021. Settemila migranti si sono riversati in un giorno a Ceuta, facendo salire la tensione fra Rabat e Madrid. In maggioranza giovani uomini, hanno scavalcato le recinzioni o raggiunto a nuoto l’enclave spagnola in Marocco, dopo che le autorità di Rabat hanno apparentemente sospeso i controlli alle frontiere. Il segnale di una disputa diplomatica che si aggrava, legata al visto umanitario concesso da Madrid a Brahim Ghali, leader del Fronte Polisario, gruppo militante che lotta per l’indipendenza del Sahara Occidentale. Mossa che non è piaciuta a Rabat. Vista la situazione potenzialmente esplosiva, il primo ministro Pedro Sanchez ha cancellato il viaggio a Parigi per il summit sul finanziamento dei Paesi africani, e centinaia di militari e numerosi blindati sono stati inviati sulle spiagge di Ceuta. Ore dopo, la ministra degli Esteri Arancha Gonzalez Laya ha convocato l’ambasciatrice marocchina Karima Benyaich, comunicandole il rifiuto “del governo per il massiccio ingresso di migranti” e “ricordandole che il controllo del confine è responsabilità condivisa”. Rabat, subito dopo, ha richiamato la diplomatica per consultazioni. Drammatiche le immagini dall’enclave. I soldati hanno separato gli adulti dai minori che, inzuppati e scossi dai brividi, uscivano dal mare, e hanno portato in braccio i bambini sfiniti per consegnarli alla Croce rossa. Un giovane è morto annegato e decine di persone sono state curate per ipotermia. Circa 3.800 le persone rimandate in Marocco, mentre il ministro dell’Interno Fernando Grande-Marlaska ha assicurato che nessuno degli oltre 1.500 minori fosse fra loro. Nel corso della giornata, le guardie marocchine hanno ricominciato a controllare le frontiere e il flusso si è ridotto, pur senza bloccarsi. Un’ottantina di persone è entrata anche a Melilla. “Hanno lasciato passare le persone, stavano lì fermi senza parlare”, ha raccontato Amina Farkani, 31enne marocchina che prima dei blocchi legati alla pandemia ha lavorato per 18 anni nell’enclave vivendo all’esterno. Sanchez, prima di volare a Ceuta, ha definito il Marocco “amico e partner”, ma ha anche chiesto alle autorità di “rispettare il confine condiviso” e promesso “fermezza”. Risale a trent’anni fa un accordo sull’espulsione di chiunque attraversi a nuoto il confine. Ma tra gli arrivati, molti provengono da Paesi sub-sahariani con cui Madrid non ha accordi. Nè il governo di Rabat, nè quello di Madrid hanno parlato apertamente dell’origine di questa improvvisa crisi migratoria. Un’allusione è stata fatta dall’ambasciatrice marocchina: “Ci sono atti che hanno conseguenze”, che “devono essere ipotizzate”. Formalmente l’esecutivo spagnolo ha escluso ogni connessione con l’accoglienza del leader secessionista: “Non posso pensare che mettere a rischio la vita di giovani e minori sia una risposta a una questione umanitaria”, ha affermato Laya. Il ministero degli Esteri marocchino aveva definito la scelta di curare Ghali “incoerente con lo spirito di partnership e buon vicinato”, accennando a “conseguenze”. Intanto, la commissaria europea agli Affari interni, Ylva Johansson, al Parlamento Ue ha parlato di fatti “preoccupanti”: “La cosa più importante ora è che il Marocco continui a impegnarsi per evitare le partenze irregolari e che chi non ha diritto di restare sia rimandato indietro”. Ha aggiunto: “I confini spagnoli sono confini europei. L’Ue vuole costruire una relazione con il Marocco sulla base di fiducia e impegni condivisi, le migrazioni sono un elemento chiave”. (Fonte:LaPresse)

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

"La polizia marocchina gettava gente in mare". Frontiera chiusa: 5.600 già rispediti indietro. Roberto Pellegrino il 20 Maggio 2021 su Il Giornale.  Ricatto di Rabat per farsi riconsegnare Ghali, terrorista ricoverato in Spagna. «Li gettavano in mare come se fossero pietre di cui sbarazzarsi e non esseri umani». Il giorno dopo l'assalto degli 8mila disperati alla spiaggia blindatissima di Tarajal, ultimo baluardo prima di Ceuta, giungono le testimonianze della notte brava della polizia marocchina. Il quotidiano spagnolo El Mundo ha raccolto le voci anonime di alcuni poliziotti che si sono rifiutati di lanciare tra le onde del Mediterraneo centinaia di minori e donne, alcune incinta o con neonati. Nella notte tra lunedì e martedì scorso, è arrivato l'ordine della autorità di Rabat di fare pulizia di quella massa di migranti che bivaccava da mesi a ridosso della frontiera marocchina, sul litorale di Belyounech. Aspettavano il mare calmo per superare a nuoto le barriere marine e mettere piede in terra spagnola, che vale l'ingresso in Europa, dopo un viaggio a piedi iniziato in Senegal, Mali e Niger. La polizia marocchina li ha costretti e buttati in acqua, al buio, tra le grida e i pianti dei minori, senza pietà, senza avere il tempo di afferrare un salvagente. Chi ha raggiunto la spiaggia di Ceuta, nuotando al freddo per quasi un chilometro, ha poi trovato i militari ad accoglierli e soccorrerli. È stata usata anche la forza per fermare la fuga dei clandestini e allinearli con i piedi in acqua, un gesto simbolico per dire loro che non hanno il diritto di calcare il suolo spagnolo (5.600 già rimpatriati). Un centinaio è riuscito a disperdersi nell'enclave, scatenando una caccia all'uomo che è proseguita per tutta la giornata di ieri, creando tensioni tra gli abitanti di Ceuta e le forze dell'ordine che hanno ispezionato decine di navi in partenza per Portogallo, Spagna e Francia per scovare i migranti nascosti. In strada ci sono stati alcuni scontri violenti tra i sans papier che hanno lanciato pietre e vari oggetti contro la polizia: il comandante ha lamentato di avere troppi pochi effettivi per contenere i migranti. Nessuno si aspettava un'ondata simile. Né che il Marocco aprisse la frontiera, costringendo i migranti a buttarsi in mare per morire o inondare Ceuta. Il vicepresidente della Commissione europea, Margaritis Schinas, ha accusato Rabat di «strumentalizzare la migrazione». Più che una strumentalizzazione, il gesto delle autorità marocchine sembra una vendetta privata per punire Madrid che si ostina a non estradare Brahim Ghali, il capo del Fronte Polisario che vuole liberare il Sahara Occidentale, a cui il Marocco dà la caccia perché è un terrorista. A nulla è valsa l'attività diplomatica dei due Paesi in lite, ora si spera nella mediazione dei Borbone, confidando sull'antica amicizia tra re Mohammed VI e Juan Carlos, che, però, si è autoesiliato negli Emirati Arabi e non esercita più. Così se la dovrà vedere il figlio Felipe che sta già parlando con i reali Alawide. L'immagine del neonato strappato al mare da un agente spagnolo ha sconvolto gli spagnoli, mentre l'opposizione accusa il premier Sánchez di avere sottovalutato il problema, tagliando i finanziamenti per le forze di polizia dell'enclave.

Il dramma nell'enclave spagnola in Marocco. “Era freddo, non sapevo se era vivo”: l’agente e il neonato, la foto simbolo del dramma di Ceuta. Antonio Lamorte su Il Riformista il 19 Maggio 2021. La foto simbolo del dramma di Ceuta – con migliaia di migranti, a quanto pare circa ottomila, che hanno cercato di raggiungere la città enclave spagnola in terra africana a nuoto – un agente con un neonato tra le mani. Salvato dalla morte. Lo scatto ha fatto il giro del mondo “Quando ho tirato fuori il bimbo dall’acqua non sapevo se fosse vivo o morto. Era freddo, non si muoveva”, ha detto l’agente in un’intervista a El Pais, il principale quotidiano spagnolo. Juan Francisco Valle, 41 anni, agente del Gruppo Speciale di Attività Subacquee della Guardia Civil. Il sommozzatore della Marina, da dodici anni nella Guardia Civil, ha spiegato di “non aver mai visto una marea umana” del genere, con “centinaia di persone disperate”. “Il nostro lavoro consiste nel recuperare i corpi dall’acqua, ma questa volta dovevamo recuperare persone vive, decidere quali avessero bisogno più urgentemente del nostro intervento”, ha aggiunto Valle. “C’erano tanti genitori, madri e padri con i figli legati al corpo come potevano, agganciati alla schiena con stoffa e vestiti”. Il neonato era finito in acqua mentre la madre cercava di raggiungere Ceuta. Madrid ha mandato sul posto la Guardia Civil, i militari, per contenere e respingere e difendere la frontiera. Circa 1.500 i bambini che hanno attraversato il confine. 5.600 le persone fatte rimpatriare in Marocco. Rabat avrebbe allentato le maglie dei controlli alla frontiera per una sorta di ripicca: perché il leader del Fronte Polisario, Brahim Ghali, 73 anni, leader della guerriglia separatista del Sahara occidentale, accusato di violazione dei diritti umani, stupro, torture e genocidio, è ricoverato all’ospedale di Logroño, nella Comunidad autonoma di La Roja. Ghali si troverebbe in Spagna a garanzia di non essere interessato dalla Giustizia, ma la situazione non è chiara e potrebbe cambiare anche velocemente. La guerriglia di Ghali contende al Marocco il controllo del Sahara occidentale, ex colonia spagnola, che lo scorso autunno ha rotto la tregua ini vigore dal 1991. Il premier spagnolo Pedro Sanchez si è recato personalmente a Ceuta. Ha annunciato il rimpatrio di 4.800 persone delle 8.00 entrate illegalmente a nuoto nell’enclave ed è stato fischiato. Parte dei migranti stanno tornando volontariamente indietro. La ministra degli Esteri Arancha Gonzalez Laya ha dichiarato che la Spagna non intende approfondire la crisi diplomatica con il Marocco ma ha assicurato che le autorità del paese saranno “ferme” nella difesa “della frontiera, la sicurezza e l’ordine”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli. 

La crisi, le storie dei migranti in Spagna e quel neonato salvato in mare. Le Iene News il 19 maggio 2021. La foto simbolo della crisi migratoria che sta vivendo in queste ore la Spagna: un agente della Guardia Civil salva un neonato caduto in mare a Ceuta. Noi, nel 2016, eravamo andati proprio lì per raccontarvi una delle vie dei migranti per passare dal Marocco in Europa. Ecco perché quest’immagine e queste storie ci chiamano in causa tutti. Un minuscolo cappellino che si confonde con le acque circostanti. Un piccolissimo corpo sorretto da due grandi mani. Nello scatto simbolo della crisi di migranti a Ceuta c’è tutto il dramma di queste ore. Il neonato è stato salvato in mare da un agente della Guardia Civil (che l’ha twittata) al confine tra l’enclave spagnola e il Marocco. "Abbiamo preso il bambino, era congelato, freddo, non si muoveva", ha detto ai media spagnoli Juan Francisco, agente del Gruppo speciale di attività subacquee della Guardia civile. E il ricordo va immediatamente a un’altra immagine che fa gelare il sangue: quella del piccolo Alan Kurdi, trovato morto su una spiaggia turca. Quella foto, che vedete qui sotto, è diventata uno dei tragici simboli dell’immigrazione verso l’Europa. Simboli che devono ricordarci che, quando parliamo di migranti, è di questo che stiamo parlando. Che il dramma non risparmia certo i bambini e che ci chiama in causa tutti come europei, come esseri umani. Sono oltre 8mila i migranti arrivati a Ceuta nelle ultime 48 ore. Tantissimi sono minori. Le persone, di origine subsahariana, sono riuscite a entrare nella piccola enclave spagnola in Africa dal territorio marocchino. Chi a nuoto, chi con canotti o arrampicandosi sulle scogliere. Ieri la Spagna ha deciso di schierare l’esercito su quella frontiera con il Marocco. “Voglio comunicare a tutti gli spagnoli, e specialmente a quelli che vivono a Ceuta e Melilla, che ristabiliremo l'ordine con la massima celerità”, ha dichiarato il premier di Madrid Pedro Sánchez. Circa 4mila persone sono già state mandate indietro dalla Spagna. “Quella frontiera è una frontiera europea” ha detto Margaritis Schinas, vicepresidente della Commissione europea. “E quello che succede lì non è un problema di Madrid, è un problema per tutti, perché siamo un’Unione”. Su quel confine con il Marocco, solitamente blindato, nella notte tra sabato e domenica le guardie di frontiera di Rabat hanno allentato i controlli. L’ipotesi è che si tratti di una ritorsione del Marocco contro la decisione di permettere il ricovero in un ospedale iberico di Brahim Ghali, leader del Fronte Polisario, movimento per l’indipendenza del Sahara Occidentale, occupato dalle truppe di Rabat. Il governo Sanchez smentisce l'ipotesi: “Il Marocco è un Paese amico della Spagna e così dovrà essere anche in futuro”. Eppure l’ambasciatrice a Madrid, Karima Benyaich, dichiara: “Ci sono atti che comportano delle conseguenze e bisogna accettarle”. Nella serata di ieri il governo marocchino ha fatto sapere di aver chiuso di nuovo i valichi. Quella di Ceuta è una delle vie di accesso all’Europa, come vi abbiamo raccontato e mostrato nel servizio di Marco Maisano che potete vedere qui sotto. Era il 2016 quando siamo andati a Ceuta, città spagnola situata appunto nel Nord Africa e circondata dal Marocco. Per raccontare questa via per passare all’Europa, Maisano è andato in territorio marocchino, al porto di Tangeri Med. Qui abbiamo incontrato due giovani ragazzi, di 17 e 15 anni, che ci hanno detto di voler andare in Spagna, raccontandoci i modi per partire. “Noi proviamo continuamente”, ci ha detto uno dei due. “Sono due giorni che non mi tolgo le scarpe, mi fanno male i piedi”. Quando gli abbiamo chiesto perché volevano andare in Europa, ci ha detto: “Vogliamo crearci un futuro perché qui non è possibile. Quando non si riesce a combinare niente bisogna venire qua a rischiare”. “Sapessi quanti ne partono come noi”, ha detto a Marco Maisano, che ha fatto notare al più piccolo la sua età: soli 15 anni. “Ho 15 anni… però i soldi non ci sono”, ha risposto lui. “In Europa ti insegnano un mestiere così puoi trovare lavoro”, ha continuato il più grande. “Ma io non voglio andare in Spagna, voglio andare in Inghilterra”, ci ha spiegato. E quando gli abbiamo detto che l’Inghilterra aveva appena votato per l’uscita dall’Europa, ha subito cambiato piano: “Allora andiamo in Germania. L’importante è entrare in Europa, poi in qualche modo facciamo”.

Dramma migranti. Ecco il bambino invasore. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 20 Maggio 2021. Fu la notte del 30 aprile 711, all’esordio di maggio, 7000 berberi sbarcarono in Spagna, erano ancora in acqua, il generale che li comandava, Tāriq, diede fuoco a tutte le navi da trasporto perché non si potesse tornare indietro, “O gente! Dov’è la via di fuga? Il mare è dietro di voi e i nemici sono davanti a voi. In quel che dico non v’è, per Dio, se non verità e pazienza”, incitò, sinistro. Forse la stessa frase l’hanno urlata i militari marocchini di guardia alla frontiera dell’enclave spagnola di Ceuta, lasciando a 8000 disperati il mare dietro e il nemico davanti. La morte e la morte, è quello che di solito i profughi hanno come prospettive: lasciano la tragedia e vanno incontro alla tragedia. E forse è quel ricordo doloroso che condiziona la Spagna, forse è quella sindrome dell’invasione che ha stretto la fortezza del cuore del Continente. Si ritorna a quella notte di tregenda dell’avanguardia di maggio, ad Algeciras messa a ferro e fuoco dall’esercito del generale Tariq. Una paura che è diventata patologia cronica, e l’Europa è cresciuta, è diventata un gigante militare, economico, ma è rimasta piccola e spaventata come in quella notte: guarda al mare come coacervo di pericoli, a ogni onda sussulta e alza le spade. Tariq è morto da più di mille anni e non ci sono condottieri in grado di portare offese in armi attraverso il mare Antico. Il Mediterraneo vomita solo disperazione, schiere a migliaia di esseri indifesi senza scelta una volta in acqua. Per una volta, l’ultima volta, l’incantesimo s’è spezzato, i soldati spagnoli sono finiti in acqua insieme al nemico, per una volta non hanno sguainato le spade, hanno allargato le braccia ad abbraccio, e dentro il cuore di un militare spagnolo c’è finito un bambino che era appena nato e già stava per morire. Questa è l’immagine di una sindrome che potrebbe finalmente finire. Di un’Europa che smette di essere il nemico davanti, uguale al carnefice che sta dietro ai disperati, che non sono il nemico.

Gioacchino Criaco. E' uno scrittore italiano, autore di Anime nere libro da cui è stato tratto l'omonimo film.

Annalisa Grandi per Corriere.it il 20 maggio 2021. Si chiama Juan Francisco Valle, ha 41 anni ed è un agente del Gruppo Speciale di Attività Subacquee della Guardia Civil l’uomo immortalato con il salvagente e il bimbo di due mesi in braccio, finito nell’acqua mentre la madre cercava di raggiungere l’enclave spagnola di Ceuta dal Marocco. Una foto diventata il simbolo del dramma di migliaia di migranti che stanno cercando di raggiungere Ceuta, già 5.600 sono stati rimpatriati in Marocco. Juan Francisco Valle, uno degli otto membri del reparto speciale della Guardia Civil, ha raccontato al quotidiano spagnolo El Pais: «Quando ho tirato fuori il bimbo dall’acqua non sapevo se fosse vivo o morto. Era freddo, non si muoveva» dice commosso. Sommozzatore della Marina, da dodici anni nella Guardia Civil, spiega di «non aver mai visto una marea umana» di questo tipo, con «centinaia di persone disperate». «Il nostro lavoro - aggiunge - consiste nel recuperare i corpi dall’acqua, ma questa volta dovevamo recuperare persone vive, decidere quali avessero bisogno più urgentemente del nostro intervento». «C’erano tanti genitori - aggiunge - madri e padri con i figli legati al corpo come potevano, agganciati alla schiena con stoffa e vestiti». Esattamente come il bimbo di due mesi, cuffia celeste e pagliaccetto a righe, che Juan Francisco ha salvato dall’acqua: il piccolo è stato affidato alle cure sanitarie e sta bene. Sono circa 8mila le persone che da lunedì sera avevano attraversato il valico di frontiera di Tarajal, che oggi è stato chiuso nuovamente dalle autorità del Marocco. Quasi 6mila sono già state rimpatriate: la maggior parte sono rimpatri volontari, fa sapere il Ministero, dopo che la Spagna aveva schierato l’esercito per fermare l’arrivo dei migranti. Restano però gruppi di persone che continuano a cercare di varcare la frontiera e arrivare a Ceuta a nuoto.

Andrea Nicastro per il "Corriere della Sera" il 20 maggio 2021. Sembra di sentire gli schizzi, il respiro controllato, lo sfregamento della muta da sub sul salvagente. Ci saranno state grida tutt'attorno di altri in acqua, ma l'obbiettivo li taglia fuori e la nostra mente sente solo la concentrazione dell'uomo nel suo sforzo di tenere sollevate le mani. È un poliziotto, un subacqueo, barba rada e capelli corti. Lo sguardo è fisso su un punto che potrebbe essere la spiaggia. Tra i suoi enormi guanti rossi e neri tiene un neonato. Ha paura di schiacciarlo. Lo regge così, con le due manone, fuori dall'acqua. Il grande fatica a nuotare così con le mani alzate, ma è il piccolo che non dovrebbe stare lì. Ha un pigiamino a righe che sembra di ciniglia, la cuffietta azzurra e i guantini rosa. Lui o lei non dovrebbe essere in mare, incapace com'è di reggersi a galla anche solo dieci secondi. La testolina è piegata sul petto, la pelle di marmo. Sembra ciò che per fortuna non è. Quel neonato è vivo. «Era gelato, rigido, bianco», ma quella creaturina di due mesi è salva. La foto ha fatto il giro del mondo. Il sommozzatore della Guardia Civil si chiama Juan Francisco Valle, detto Juanfran. Ha imparato il mestiere nell'esercito e poi ha proseguito, già 12 anni fa, nella polizia di Madrid. «Di solito il nostro lavoro - ha spiegato alle tv spagnole - è raccogliere in mare corpi morti. Dall' alba di lunedì sino al pomeriggio di martedì, invece abbiamo dovuto soccorrere una folla di persone che si sono buttate in acqua. Mai visto niente di simile». La distanza della costa marocchina da quella di Ceuta, l'enclave spagnola in Africa, non è tanta. Un buon nuotatore potrebbe impiegare 20 minuti anche meno. «Ma tra chi si buttava, molti sapevano a malapena restare a galla. Contavano su pezzi di legno o bottiglie di plastica vuote. La madre del bimbo, ad esempio, aveva un salvagente giocattolo. Sembrava in difficoltà e quando ci siamo avvicinati ho visto che aveva uno zainetto sule spalle e da quello spuntava la testolina del neonato. Non riuscivo a crederci. Ho pensato a una bambola. Poi ho allungato la mano e ho sentito il peso. L'unico pensiero, a quel punto è stato di portarlo a riva al più presto, dalla Croce Rossa». La foto è stata scattata dai colleghi di Juanfran. Poliziotti. È tagliata con un'inquadratura molto stretta. Non sappiamo quanto l'uomo e il neonato siano lontani dalla riva o dalla barca appoggio o dalla madre. Di certo chi ha individuato quella scena e l'ha diffusa sull'account Twitter della Guardia Civil ha fatto bene il suo lavoro. Grazie a Juanfran, l'immagine della Spagna esce pulita da questi due giorni di marea migratoria. Ferma nel respingere l'ondata di migranti, ma umana nel farlo.

Claudio Del Frate per corriere.it il 19 maggio 2021. La crisi dei migranti esplosa tra Spagna e Marocco si sposta sui tavoli diplomatici ma nel frattempo altre soluzioni sono state adottate per le spicce. Il premier iberico Pedro Sanchez ha annunciato questa mattina che delle circa 8.000 persone che negli ultimi giorni hanno violato il confine di Ceuta (enclave spagnola in territorio africano) 4.800 sono già state rimandate in Marocco. E il numero dei respingimenti è destinato ad aumentare con il passare delle ore. Ma quanto sta accadendo su quel confine «caldo» e apparentemente lontano ha fatto scattare un interrogativo che ci riguarda da vicino: perché il governo di Madrid ha respinto in poche ore un numero così alto di migranti e l’Italia non fa altrettanto di fronte agli sbarchi - spesso ben più esigui - di Lampedusa? La risposta è nei trattati che la Spagna ha sottoscritto con il Marocco. Oltre all’ovvia diversità tra un confine di terra e uno di mare.

L’accordo Spagna-Marocco del ‘92. Nel 1992 l’allora premier spagnolo Felipe Gonzales (socialista) sottoscrive un patto con il suo omologo marocchino Driss Basri: l’accordo prevede che i migranti (di qualunque nazionalità) entrati in Spagna provenienti dal Marocco possano essere rispediti indietro entro un tempo massimo di dieci giorni. Nei primi dieci anni questo meccanismo viene messo in pratica in appena un centinaio di casi o poco più anche perché il numero degli arrivi resta quasi sempre contenuto. Ma nel 2005 tocca a un altro premier di sinistra (Luis Zapatero) affrontare la prima seria crisi migratoria, quando Ceuta e la vicina enclave di Melilla vengono invase in poche ore da migliaia di africani in fuga. In quell’occasione l’accordo viene rispolverato e scattano migliaia di espulsioni «en caliente», a caldo e senza troppe procedure. Altrettanto faranno i successori di Zapatero, Rajoy e ora Sanchez.

Una sentenza in aiuto a Sanchez. I respingimenti di massa scattano anche perché spesso gli assalti alla linea di confine (che nel frattempo è stato protetto da un doppio reticolato alto fino a 6 metri) hanno carattere molto violento. Alcune organizzazioni umanitarie hanno contestato che le sbrigative procedure adottate da Madrid e l’impiego della Guardia Civil violerebbero i diritti umani. Ma in supporto alla linea dura di Pedro Sanchez è arrivata nel novembre scorso una sentenza della Corte Costituzionale che ha ritenuto legittime proprio le espulsioni «a caldo». «Occorre ripristinare uno stato di legalità violato dal tentativo di stranieri di violare quella specifica frontiera» hanno scritto i giudici, citando anche il caso specifico di due cittadini respinti mentre tentavano di scalare i reticolati del confine.

L’accordo Italia-Tunisia. E veniamo all’Italia: perché non fa altrettanto con chi approda sulle coste di Lampedusa o altre località? La prima obiezione è la differenza geografica: un conto è rimandare indietro delle persone via terra, in sicurezza, un altro rimandare indietro per centinaia di miglia carrette del mare stracariche di esseri umani che in questo modo rischiano di annegare. Occorre dunque rifarsi ad accordi internazionali che stabiliscano procedure di rientro per via aerea o marittima ma in sicurezza. Attualmente l’Italia ha sottoscritto patti bilaterali con pochi Paesi, il principale dei quali è la Tunisia, punto di partenza di uno dei flussi che attraversano il Mediterraneo. Grazie ad appositi voli settimanali nel 2019 sono stati riportati indietro poco più di 7.000 migranti (fonte Viminale) ma causa Covid e annesse norme sanitarie nel 2020 questa cifra si è quasi dimezzata, a 3.600.

La Libia e il memorandum Minniti. Ancor più complicato il nodo della Libia, altro punto di partenza di barchini e gommoni diretti in Italia. Roma non ha nessun accordo specifico con Tripoli anche perché la Ue considera porti non sicuri quelli libici, dove ai migranti non viene garantito adeguato trattamento umanitario. Qualsiasi respingimento verso la Libia è dunque considerato illegittimo e anche la Corte dei diritti dell’uomo ha già condannato l’Italia per un episodio risalente al 2009. Per riportare sotto controllo la rotta del Mediterraneo centrale l’Italia ha sottoscritto nel 2017 con Tripoli il controverso memorandum Minniti: questo, pur escludendo i respingimenti, prevede che la Guardia Costiera libica - sparita dal mare dopo la caduta di Gheddafi - riprenda a pattugliare la zona di sua competenza e presti soccorso alle imbarcazioni che rischiano di fare naufragio. Per questo Roma ha finanziato l’acquisto di navi e l’addestramento della Guardia Costiera libica. Operazione di realpolitik, perché affida il controllo della rotta migratoria a un Paese che, come già detto, non garantisce i diritti umani e finisce per usare il controllo delle sue acque come arma di ricatto.

Migranti? Ecco cosa c'è davvero dietro la guerra di Ceuta. Mauro Indelicato il 19 Maggio 2021 su Il Giornale. Rabat non ha mandato giù la presenza in Spagna di Brahim Ghali, leader del Fronte del Polisario e dunque principale nemico del Marocco sulla questione relativa alla sovranità nel Sahara Occidentale. Da qui la possibile crisi migratoria di Ceuta. C'è un filo comune che lega la recente ondata migratoria di Ceuta con la questione, mai risolta, della sovranità sul Sahara Occidentale. Si tratta del ricovero, avvenuto ad aprile, del leader del Fronte del Polisario, Brahim Ghali, in Spagna. Quest'ultimo è nemico numero uno del Marocco, essendo a capo dell'organizzazione in guerra da anni con Rabat proprio per la sovranità del Sahara Occidentale. Il suo ricovero in una clinica spagnola ha da subito fatto emergere le ire da parte del governo marocchino. Ieri il ministro degli Esteri spagnolo, Arancha González Laya, aveva ricevuto rassicurazioni da Rabat: “I funzionari marocchini – ha dichiarato in un'intervista a una radio di Madrid – mi hanno assicurato che le due questioni non sono collegate”. Tuttavia quanto accaduto a Ceuta fa parecchio pensare. In questa città, enclave spagnola nel cuore del Marocco, si è abituati a vivere con lo spettro di ritrovarsi decine di migranti pronti a scavalcare le recinzioni apposte dalle autorità iberiche. Mai però era accaduto che, nel breve volgere di poche ore, ben 8.000 migranti riuscissero ad entrare in territorio spagnolo. Mettere piede qui vuol dire entrare a tutti gli effetti in Ue, anche se il Mediterraneo non è stato attraversato. Un afflusso del genere ha scatenato più di un sospetto. Le dichiarazioni dell'ambasciatrice marocchina a Madrid, come sottolineato su Il Corriere della Sera, non hanno contribuito a gettare acqua sul fuoco: “Ci sono azioni che hanno delle conseguenze”, ha affermato in una recente intervista Karima Benyaich. Forse il Marocco ha voluto mostrare alla Spagna che l'interruzione della collaborazione diplomatica non è un grande affare per Madrid. In quanto, in primo luogo, le autorità di Rabat potrebbero allentare i controlli sul flusso migratorio e generare la crisi osservata a inizio settimana a Ceuta. In poche parole, il Marocco potrebbe adesso fare pressione sulla Spagna per costringere il governo di Pedro Sanchez a trattare sulla posizione di Ghali. Il leader del Polisario è ricoverato per i gravi postumi del Covid, contratto a Tindouf, base del suo movimento. Il suo arrivo in Spagna, reso possibile peraltro grazie a documenti falsi algerini, ha suscitato molte polemiche in seno alla stessa opinione pubblica del Paese iberico. Ghali è infatti ufficialmente ricercato anche in Spagna a seguito di alcune denunce per stupri e torture perpetuati nei campi di Tindouf, le cui vittime hanno trovato rifugio in territorio spagnolo. Inoltre alcune associazioni di parenti di vittime spagnole uccise nelle Canarie o nel Sahara Occidentale durante gli anni della guerra tra il Polisario e il Marocco, hanno puntato il dito contro la presenza di Ghali. Ma a prescindere da quanto sta accadendo in Spagna, per Rabat il fatto stesso che il suo principale nemico sia stato accolto da Madrid è stato visto come un affronto. Da qui la possibile “vendetta” attuata permettendo l'afflusso di migranti a Ceuta. In questo contesto però, occorre anche sottolineare un aspetto: buona parte degli oltre ottomila migranti riusciti ad arrivare a Ceuta, sono già stati espulsi in Marocco. Vuol dire cioè che i trattati tra i due Paesi, che prevedono anche la possibilità di immediati respingimenti, sono rimasti in funzione anche in queste ore. Un elemento che potrebbe indurre gli osservatori di entrambe le parti in causa a un certo ottimismo.

L'invasione dal Marocco: cosa sta succedendo in Spagna. Spunta la "vendetta". Luca Sablone il 19 Maggio 2021 su Il Giornale. Circa 8mila migranti hanno assaltato le barriere tra il Marocco e l'enclave spagnola di Ceuta. Avvertita anche l'Ue: "Migranti usati come merce di scambio". L'ondata di migranti a Ceuta sta inasprendo ulteriormente la già grave crisi diplomatica in corso tra Madrid e Rabat. Da lunedì sera infatti circa 8mila persone hanno varcato la frontiera e 4mila sono stati respinti oltre confine dalle autorità che hanno schierato l'esercito. Sul posto sono giunti il premier Pedro Sanchez e il ministro dell'Interno di Spagna Fernando Grande-Marlaska. Il primo ministro è dunque volato a Ceuta, enclave spagnola in territorio marocchino, usando toni decisi per rassicurare i cittadini: "Voglio comunicare agli spagnoli, specialmente a quelli che vivono a Ceuta e Melilla, che ristabiliremo l'ordine con la massima celerità. Saremo fermi di fronte a qualsiasi sfida. L'integrità di Ceuta come parte della Nazione spagnola sarà garantita dal governo con tutti i mezzi disponibili". Eppure da mesi la situazione risultava essere piuttosto tranquilla grazie non solo al rafforzamento delle frontiere, ma anche alle dure misure adottate dalla Spagna per prevenire il fenomeno dell'immigrazione. Da lunedì notte però il tutto è andato fuori controllo e così Madrid sta cercando di porre rimedio in maniera tempestiva: i ministeri della Difesa e dell'Interno hanno autorizzato l'invio dell'esercito, che dovrà aiutare la polizia nel pattugliamento del confine e delle strade del centro di Ceuta. Nel frattempo continuano ad alimentarsi le voci relative a un sospetto ben preciso: le guardie di frontiera marocchine hanno lasciato passare i migranti come rappresaglia per l'ospitalità concessa da Madrid a Brahim Ghali, capo dei separatisti del Fronte Polisario che contendono a Rabat il Sahara occidentale? Karima Benyaich, ambasciatrice del Marocco in Spagna, non si è nascosta e ha ammonito: "Ci sono atteggiamenti che non si possono accettare, ci sono azioni che hanno conseguenze e bisogna assumersene la responsabilità". Parole che potrebbero così smontare il tentativo di Arancha Gonzalez Laya, ministro degli Esteri di Madrid, di negare il legame tra la crisi di Ceuta e l'accoglienza di Ghali, entrato lo scorso aprile in Spagna dall'Algeria con un documento falso e ora in un ospedale di Logrono per curarsi dal Covid-19. Alla Spagna e all'Europa è arrivato un avvertimento chiaro. Sulla linea del leader libico Gheddafi e della Turchia di Erdogan, spiega Andrea Nicastro sul Corriere della Sera, "anche il Marocco ha fatto capire che può usare i migranti come merce di scambio". Una sorta di apertura e chiusura a comando della diga marocchina contro la migrazione: "Tra i due estremi del Mediterraneo la guerra israelo-palestinese e quella del Sahara Occidentale si sono così collegate alla crisi migratoria che preoccupa l'Europa".

Frontex adesso è sempre più orientata verso Visegrad. Mauro Indelicato su Inside Over il 9 aprile 2021. Il volto di Frontex è sempre più orientato verso la linea di Visegrad. Il rinnovo del consiglio di amministrazione dell’agenzia europea che si occupa del controllo dei confini e delle frontiere ha sancito una decisa svolta verso posizioni più nette sull’immigrazione. Un nome su tutti sembra dare una precisa indicazione in tal senso: si tratta, in particolare, di Zoran Niceno, ossia il direttore della Polizia di frontiera croata. È lo stesso protagonista della vicenda relativa agli eurodeputati italiani fermati al confine con la Bosnia durante una missione politica. 

Lo sguardo verso Visegrad. La posizione di Zagabria sull’immigrazione è molto netta: i confini devono essere sigillati e i migranti irregolari non devono entrare. Nell’ambito della rotta balcanica il ruolo della Croazia è cruciale, visto che le sue sono frontiere esterne dell’Ue e dunque le carovane che risalgono dalla Serbia e dalla Bosnia vedono nel confine croato il primo lembo di territorio comunitario. Anche per questo Zagabria ha come obiettivo quello di arrestare il flusso migratorio. Diversamente, secondo le linee del trattato di Dublino, dovrebbe accollarsi l’onere delle richieste di asilo in quanto Paese di primo approdo. La linea dura della Croazia ha trovato applicazione pratica nel dispiegamento massiccio della polizia di frontiera. Il corpo è comandato da Zoran Niceno, adesso membro del consiglio di amministrazione di Frontex. Il governo croato non fa parte del blocco di Visegrad, ossia dei Paesi dell’est Europa che vogliono una posizione molto più netta in ambito europeo sull’immigrazione. Tuttavia è possibile notare delle linee comuni tra Zagabria e gli esecutivi di questo gruppo. Ecco perché l’inserimento di Zoran Niceno nel board di Frontex è possibile valutarlo come emblema dell’orientamento futuro dell’agenzia. Non solo: nel nuovo consiglio di amministrazione è stato nominato tra gli altri anche Zsolt Halmosi, vice capo della polizia ungherese. Si tratta di una delle figure più vicine a Viktor Orban, il capo del governo di Budapest tra i più attivi all’interno del blocco di Visegrad, il quale comprende anche gli esecutivi di Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia. Halmosi è tra gli artefici della linea dura sui migranti, da attuare anche con la costruzione e la fortificazione del muro lungo i confini con la Serbia.

L’agenzia nel mirino. A capo di Frontex da anni vi è il francese Fabrice Leggeri. Quest’ultimo nei mesi scorsi è stato aspramente criticato in sede europea soprattutto da ambienti vicini al centro sinistra. A dicembre il gruppo dei Verdi e dei Socialisti Democratici al parlamento europeo avevano chiesto la testa di Leggeri. Il perché è da ricercare nei contenuti di alcune inchieste pubblicate sull’inglese The Guardian e sul tedesco Der Spiegel. Secondo le due testate, Frontex all’inizio del 2020 si sarebbe resa protagonista di respingimenti illegali verso la Turchia. Il contesto era quello della crisi migratoria esplosa nel marzo dell’anno scorso lungo i confini tra Atene ed Ankara. Erdogan, come arma di ricatto verso l’Europa, ha lasciato passare migliaia di irregolari verso il territorio ellenico con l’intento di mettere pressione a Bruxelles. Il governo greco guidato da Kiryakos Mitsotakis ha reagito con il pugno duro: piuttosto che sottostare ai ricatti di Erdogan, esercito e polizia hanno blindato sia i confini terrestri che quelli marittimi. In tal modo si è evitato un massiccio afflusso in grado di destabilizzare il quadro politico continentale, proprio come accaduto con la crisi dei rifugiati siriani tra il 2015 e il 2016. Ma secondo The Guardian e Der Spiegel, Atene si sarebbe resa protagonista di respingimenti lesivi della dignità dei migranti. Il tutto con la complicità dei mezzi di Frontex. Da qui la richiesta di dimissioni presentata da almeno due gruppi parlamentari. Dal canto suo Fabrice Leggeri ha respinto le accuse. Ma il quadro oramai appare chiaro: per chi ha portato avanti negli ultimi anni posizioni immigrazioniste, Frontex è diventata inaffidabile. La svolta verso Visegrad operata all’interno del consiglio di amministrazione potrebbe acuire le tensioni e portare a nuove polemiche, soprattutto dal centro – sinistra. In poche parole, è lecito attendersi nei prossimi mesi azioni volte a denigrare e delegittimare il ruolo dell’agenzia.

Minniti, il funzionario del Pci che ha sdoganato la guerra alle Ong. L'ex ministro dell'Interno ha a lungo combattuto le attività di salvataggio delle Ong nel Mediterraneo. Il Dubbio il 7 aprile 2021. «La parola “Spezziamo-le-braccia-ai-migranti” non possiamo lasciarla alla destra. Se noi non picchiamo i neri, vince la destra che vuole picchiare i neri». Così nel 2017 Maurizio Crozza presentava in Tv la parodia di Domenico (Marco) Minniti, ministro dell’Interno tutto rigore e sicurezza. Nulla di strano, se non fosse che l’allora inquilino del Viminale è un esponente di spicco del Partito democratico. Ma Minniti è convinto che per battere le destre si debba giocare sul loro campo, importando nel vocabolario della sinistra le parole d’ordine con cui Matteo Salvini fa il pieno di consensi in piazza e nelle urne. Così il controllo dell’immigrazione diventa una questione di vita o di morte per il dirigente dem. L’intero mandato di Minniti al Viminale è incentrato sull’argomento. Fin dal primo giorno, quando comincia a lavorare sul “Memorandum di intesa tra Italia e Libia” mentre Angelino Alfano non ha ancora portato le sue cose alla Farnesina, dove è stato spostato dal nuovo premier Paolo Gentiloni. L’esponente del Pd ha già tutto in mente e a due mesi dal suo insediamento è già pronto l’accordo con i libici per bloccare i migranti alla fonte. Poco importa come. L’importante è la firma di Fayez al Serraj, primo ministro del governo di unità nazionale di Tripoli, sul documento controfirmato dal presidente del Consiglio italiano. Obiettivo prioritario del Memorandum: «Arginare i flussi di migranti illegali e affrontare le conseguenze da essi derivanti». In cambio l’Italia avrebbe fornito «supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina». In altre parole: addestramento, mezzi e attrezzature alla forza di sicurezza comunemente definita Guardia costiera libica, formata da un ambiguo coacervo di milizie dismesse e trafficanti. Senza parlare dei campi dove i migranti vengono trattenuti, considerati da tutte le organizzazioni internazioni per i diritti umani come dei veri e propri centri di tortura, dove i “prigionieri” subiscono violenze di ogni tipo. Ma bisogna battere Salvini e non si può andare troppo a spaccare il capello. Del resto, Minniti è persona abituata a ragionare secondo la neutra logica dei costi/benefici. Perché per perseguire un obiettivo ci vuole disciplina e un certo pelo sullo stomaco. Una lezione che avrà imparato fin da bambino, a Reggio Calabria, in una famiglia piena di militari. Il padre e lo zio sono ufficiali dell’Aeronautica e il giovane Domenico detto Marco cresce in un contesto in cui difficilmente è possibile sgarrare. Gli studi in filosofia e la militanza nel Pci sono forse il massimo della “devianza” consentita. Ma sulla diciplina non si scappa. Ed è con questa ferrea forza di volontà che Minniti, poco dopo il Memorandum, interviene per bloccare chi ancora si ostina a salvare vite in mare e portare in Europa migranti vivi: le Ong. Ad agosto del 2017, il ministro dell’Interno prepara infatti un decalogo da sottoporre alle organizzazioni non governative per continuare a svolgere la loro attività in mare senza conseguenze. Il “codice” prevede tra le altre cose: disponibilità a ricevere a bordo ufficiali di polizia giudiziaria per raccogliere informazioni e prove finalizzate alle indagini sul traffico di esseri umani; divieto a trasbordare i naufraghi su altre navi; divieto di ingresso nelle acque libiche; impegno a dichiarare alle autorità tutte le fonti di finanziamento per la loro attività di soccorso in mare. Ovviamente le Ong insorgono, soprattutto per la richiesta di trasformare le imbarcazioni da navi da soccorso in navi da pattugliamento con gli agenti a bordo. È da questo decalogo che parte l’inchiesta con cui la Procura di Trapani si prende la libertà di intercettare persino giornalisti e fonti. Ma Minniti – sottosegretario alla Difesa del governo Amato nel 2000, viceministro dell’Interno del governo Prodi nel 2006, sottosegretario alla presidenza del consiglio dei ministri con delega ai Servizi segreti nei governo Letta e Renzi, prima di insediarsi al Viminale nel 2016 con Gentiloni – non ha tempo per fermarsi a discutere. Per raggiungere uno scopo non bisogna fermarsi, come gli avrà probabilmente insegnato Francesco Cossiga, l’amico con cui nel 2009 dà vita ad Icsa (Intelligence culture and strategic analysis) una fondazione dedicata all’analisi dei principali fenomeni connessi alla sicurezza nazionale. E Minniti non si ferma mai. Neanche adesso che da un paio di mesi ha lasciato il seggio alla Camera per guidare Med-Or, la nuova fondazione di Leonardo, la società partecipata dallo Stato, che opera nei settori di difesa, aerospazio, sicurezza. Praticamente tutte le passioni di una vita.

Ventimiglia, dove si spegne la speranza dei migranti. Le maniere forti della Francia che blocca chi arriva dall’Africa o dai Balcani. E l’indifferenza delle istituzioni italiane. Nella cittadina ligure le associazioni di volontari fanno quello che possono. E tra i profughi aumentano alcolismo e depressione. di Matteo Macor su L'Espresso il 6 aprile 2021. È «tornata», dicono della frontiera che li divide dalla Francia i liguri di Ventimiglia. Nell’anno in cui la pandemia ha fatto riscoprire confini e distanze, questo angolo estremo di Paese ha ricominciato a fare da terra di mezzo, periferia di passaggio dove si incontrano e si confondono, spesso per perdersi, le diverse rotte migranti che attraversano l’Italia. Una frontiera scomparsa che alle migliaia di persone che ogni anno cercano di oltrepassarla appare prima come l’anticamera delle rispettive terre promesse, poi come un purgatorio da dimenticare, e oggi più che mai è tornata rappresentazione plastica del cortocircuito europeo sulla gestione dei flussi migratori. Sugli scogli diventati simbolo già nel 2015, l’anno della crisi dei rifugiati nel mondo, quando tra il Mar Ligure e il muro del confine francese si fermarono per mesi i sogni di migliaia di migranti, quello dell’accoglienza è infatti un problema di ritorno. In città sono riesplosi i numeri di transiti e respingimenti, le strade sono tornate dormitorio, e il simbolo perfetto dell’impotenza della politica sul tema è la mancanza di un centro istituzionale che accolga e sostenga le persone in transito. In uno degli “imbuti d’Europa”, da quasi un anno, a garantire un presidio di accoglienza sono solo ed esclusivamente reti informali di associazioni solidali, parrocchie, ong. Un «fronte di resistenza» - si ammette tra volontari - che dal basso «colma il vuoto come può, anche per chi dovrebbe fare ma non fa, o anzi punta a fare tutt’altro». Terra di transito per storia e vocazione, lontana una manciata di chilometri dalla francese Mentone e cento volte tanto da Roma, a raccontare il confine ritrovato di Ventimiglia di questi mesi sono per prime le storie di chi prova a oltrepassarlo, ma anche i numeri di commissariati, prefetture, ong. Nell’arco dell’ultimo anno, dal doppio valico di Ponte San Ludovico e Ponte San Luigi la polizia francese ha respinto oltre 21mila migranti. Uomini, donne, famiglie, spesso - e illegalmente, fanno notare quasi ogni giorno i legali solidali impegnati sul campo - minori non accompagnati di tutte le età. Ben più dei 17mila del 2019, poco più dei 20mila del 2018, poco meno solo rispetto ai 23.800 del 2017. Più del doppio rispetto a quanto non sia successo sul confine dell’altra via di fuga dall’Italia, i sentieri della Val di Susa, tra Oulx, Bardonecchia, Claviere. Conteggi ancora più significativi, se per spiegarne la portata si considerano anche i tre mesi di blocco totale dei transiti di inizio 2020, quando il lockdown deciso per contrastare la diffusione del Covid ha di fatto azzerato i movimenti tra Italia e Francia. Facendoli deflagrare, con tutte le conseguenze del caso, una volta ripartito il Paese. E rifacendo della città - si legge nell’ultimo monitoraggio di Medici senza frontiere - «un’emergenza grave, quanto sottovalutata». Punto d’arrivo per entrambe le principali rotte migranti, quella che viene dai Balcani (da cui arrivano rifugiati afgani, pakistani, siriani, bengalesi) e soprattutto quella che sale dall’Africa subsahariana, via Libia e Lampedusa (sulla quale viaggiano soprattutto sudanesi, ghanesi, somali, gambiani, ma anche tunisini e marocchini), oggi in città gli effetti della chiusura dei confini sono tornati visibili «in modo preoccupante», è l’allarme di Claudia Lodesani, presidente di Msf Italia. Moltiplicati dall’emergenza Covid i controlli di polizia su treni e sentieri di valico, i migranti in transito «diventano stanziali anche più del doppio del tempo rispetto a prima, anche tre, quattro mesi». Dei circa 300 transitanti che in media soggiornano attualmente in città, una grandissima parte ha già provato una, due, tre volte il passaggio nell’Europa che conta. E finché non riescono a passare in Francia, sono costretti a dormire per strada, sulla spiaggia, nei fabbricati inutilizzati lungo la ferrovia. «In alloggi improvvisati senza acqua, servizi igienici e riscaldamento» - spiegano in Msf - dove diventano numeri anche storie come quella di Said, un 27enne somalo in viaggio da 7 anni, in fuga da un paese che non accetta la sua omosessualità, rimasto bloccato a Ventimiglia e «caduto» - dice di sé - nell’alcolismo. «Uno tra i tanti», continuano dall’associazione solidale 20k, «che dopo viaggi infiniti arrivano all’ostacolo che tra tutti parrebbe il più facile da superare, e qui invece cadono in trappola, una pausa forzata dove chi non riesce subito a continuare il proprio cammino rischia di finire in spirali di disagio, nell’alcol, tra le braccia di passeur e altri traffici». Una dannazione elevata all’ennesima potenza, se possibile, da quando la città non ha più un centro istituzionale per gestire i flussi in arrivo sul confine. Sgomberato già dalla scorsa amministrazione comunale (e sindaco di centrosinistra) il campo autogestito nato lungo il fiume Roja, il centro di accoglienza che la Croce Rossa gestiva in città per conto della Prefettura è stato smantellato definitivamente a luglio, senza che da allora sia stata garantita nessuna alternativa. Il progetto di un nuovo centro di transito si è bloccato nelle lotte tra comuni della provincia, nessuno dei quali vuole offrire spazi per ospitarlo, e i silenzi della Regione. Il sindaco forzista di Ventimiglia Gaetano Scullino ha prima chiesto soluzioni alternative per “spostare” il problema («più controlli di polizia alle stazioni e servizi pullman per riportare indietro in altre regioni le persone che arrivano fin qua», la sua ricetta), poi concordato un protocollo di intesa con Ministero dell’Interno e Prefettura per lo studio di «qualcosa di diverso» di cui, però, non si vedono ancora né bandi di gara, né finanziamenti. Un centro di identificazione «che ovviamente accetterei solo fuori dai confini di una città che ha già fatto abbondantemente la sua parte»: spiega anche così lo stallo di questi mesi. Un limbo dove «a fare rumore, e frustrare profondamente», riassume Manuela Van Zonneveld, origini olandesi e residenza francese, volontaria della Caritas, «è una totale mancanza dello Stato proprio dove servirebbe di più». Le conseguenze delle alzate di spalle della politica locale, del resto, non sono solo pura questione di principio, materia da teoria del diritto internazionale. «La mancanza di una struttura ufficiale adibita all’accoglienza va di pari passo con quella di presidi di assistenza sanitaria, o psicologica, o di genere», spiega la giovane attivista Valentina Lomaglio, di 20k. Non c’è un ambulatorio medico, scarseggiano «i servizi socio-sanitari di prossimità e gli interventi di mediazione culturale», si legge anche nella lettera scritta alle autorità locali da Msf, per chiedere l’allestimento di un nuovo centro. «Sono abbandonate a loro stesse madri e giovani donne, sono sospesi servizi essenziali come le docce o la mensa». Diritti dovuti eppure “dimenticati”, proprio dove, secondo Msf, «indipendentemente dal loro status legale è dovere garantire una dignitosa accoglienza di breve periodo a persone provate dal percorso migratorio e da traumi non elaborati». Un «presidio territoriale di prima accoglienza, basterebbe quello», sintetizza Massimo D’Eusebio, consigliere comunale d’opposizione, «una minima forma di bilanciamento fra i diritti umani basilari delle persone in transito e il diritto alla salute pubblica. Necessaria ora e fondamentale per quando, in aprile inoltrato, i transiti triplicheranno». Già raddoppiati nella prima settimana di primavera gli arrivi in città, e caduti nel vuoto gli appelli per l’apertura di un nuovo centro di transito, a rappresentare la gravità della situazione sono così anche e soprattutto gli stessi, coraggiosi sforzi delle associazioni solidali attive sul territorio. Caritas gestisce un appartamento riservato a donne, bambini e famiglie, con 15 posti e un solo bagno (attualmente, di fatto, l’unica doccia “ufficiale” a disposizione dei migranti in tutta Ventimiglia). Diaconia Valdese ha aperto un piccolo ricovero per minori non accompagnati. We World, Save the Children e 20k gestiscono reti di distribuzione alimentare e accoglienza in famiglia, Médecins du Monde un servizio minimo di assistenza sanitaria mobile. Gli attivisti dell’associazione Kesha-niya (che in lingua curda suona come un confortante “no problem”) fanno assistenza diretta sul lato italiano del confine a chi viene respinto dalle autorità francesi, offrendo ristoro dopo le 12, 20, anche 24 ore di fermo nei container della gendarmerie. Si ritrovano su una piazzola vista mare lungo la vecchia Aurelia, garantiscono pasti caldi, energia elettrica per ricaricare gli smartphone, consulenza legale. E oggi, pur mettendo in guardia dal rischio che «un nuovo campo diventi solo un altro modo per nascondere il problema, marginalizzare e non trovare soluzioni», ammettono la necessità di «un segno di reazione, anche minimo, nel vuoto cosmico di diritti che è oggi questo pezzo d’Italia». Mentre le ong sono nuovamente sotto processo (mediatico, e non) nel silenzio raggelante che già da qualche mese è calato su quello che succede nel Mediterraneo, sulla scena nazionale si ritorna timidamente a discutere di Ius Soli. I primi a non crederci sono proprio quei volontari costretti a mettere «una pezza» - dicono - alle mancanze della politica in tema di accoglienza. «La verità è che le politiche migratorie non hanno colore né elettorato, si affrontano in modo strumentale da una parte e dall’altra», riflette Luca Daminelli, attivista sul campo con 20k e ricercatore universitario in Migrazioni e processi interculturali. «Il modello che si seguirà probabilmente anche a Ventimiglia, a maggior ragione quando si accorgeranno davvero della gravità della situazione, è quello europeo: grandi hotspot di identificazione delle persone in transito sulle frontiere più calde, nessuna nuova possibilità alle reti di accoglienza che, con tutti i loro limiti, avevano fatto nascere gli Sprar, neanche un euro di tutti i milioni stanziati dai vari Recovery Plan investiti su reali progetti di integrazione». Scelte precise non solo di gestione pratica del problema, ma anche di «educazione alla sensibilità», sostiene ancora Manuela, dalla Caritas. «Durante il primo lockdown», racconta, «quando in fila per i nostri pasti c’erano più che altro italiani, pensavamo che questa città e le sue istituzioni avrebbero capito qualcosa sulla condizione delle persone in transito, smettendo di rimanerne indifferenti. Ci sbagliavamo, a vedere come si affronta ancora oggi il problema. In cinque anni ci siamo abituati a tutto, a troppo. E no, non ne siamo usciti migliori».

Al confine tra Croazia e Bosnia, dove la polizia respinge i migranti e caccia gli eurodeputati. Una delegazione di parlamentari europei del Pd è andata in uno dei punti chiave della rotta balcanica in cui, come denunciato dalle ong e dalle inchieste anche dell'Espresso, le forze dell'ordine commettono violenze e soprusi su chi prova a entrare nel territorio della Ue. Pierfrancesco Majorino, europarlamentare PD su L'Espresso l'1 febbraio 2021. Il ronzio del drone ci accompagna fastidiosamente e alziamo le mani verso quel punto nero presente nel mezzo del cielo per salutare. La polizia croata, prima in maniera gentile poi con crescente decisione, ci intima di non superare il nastro che indica il limite non valicabile. Il limite è un confine inesistente stabilito appositamente per la delegazione dei parlamentari europei composta, oltre che dal sottoscritto, da Pietro Bartolo, Alessandra Moretti, Brando Benifei. È un lembo di plastica che attraversa la strada malandata che porta dentro al bosco di Bojna, è un atto insensato che non rispetta le regole. Gli agenti ci dicono che oltre quel segno, lasciato sulla carne viva dell’Europa, non possiamo proprio passare. Il primo di noi che decide di farlo, Pietro Bartolo, non è un tipo qualsiasi. È lo storico medico di Lampedusa, un uomo di mare e di cura dagli occhi vivaci che non ha nessuna intenzione di farsi dire come ci si debba comportare in un contesto del genere. Lo seguiamo, convinti. Decisissimi a non farci fermare da chi ci sta impedendo di raggiungere quello vero, di confine. Il confine che separa la Croazia e la Bosnia si trova infatti alcune centinaia di metri più avanti. Ed è lì che inspiegabilmente, anche a prescindere da quanto avevamo comunicato per giorni, le autorità croate non ci vogliono far arrivare. La paura che giustifica l’impiego di agenti in un contesto surreale, fatto perfino di un breve e goffo inseguimento realizzato sulla stradina che attraversa una sterpaglia dove ancora resistono le mine antiuomo, è quella dei nostri occhi. Evidentemente non ci vogliono far vedere qualcosa e così impediscono ad un gruppo di deputati della UE di percorrere alcuni metri di selciato del Vecchio Continente. Azzardiamo un’ipotesi: i poliziotti non vogliono che qualcuno, magari con un ruolo istituzionale, assista alla scena di gruppetti di migranti che intendono chiedere asilo in quel tratto di rotta balcanica. Così la polizia forma un cordone e ci impedisce di compiere ulteriori passi. Brando Benifei, il nostro capo delegazione, lo dice chiaro guardando fisso una telecamera «non mi è mai capitato, sono stato lontano dall’Europa, in zone del mondo difficili, complicate, e mai nessuno mi aveva impedito, in questo modo, di svolgere il mio compito ispettivo».

Alessandra Moretti aggiunge una riflessione che ci accompagna per ore, un non detto pesante come un macigno «se fanno così con noi, che ne è di quelle donne e di quegli uomini o di quei bambini, provenienti dalla Bosnia, che cercano di passare, tentando di compiere il proprio viaggio verso il luogo che hanno desiderato raggiungere?». Una risposta ce l’avevano fornita qualche ora prima all’Hotel Porin, il centro d’accoglienza situato alle porte di Zagabria. Un luogo ben attrezzato e ampio, nel quale i bambini giocano rumorosamente e dove si possono ascoltare anche i racconti di famiglie provenienti dal Kurdistan o dall’Afganistan che spendono parole gentili verso i cittadini croati. «Il problema è il confine. La polizia al confine ci ha tolto tutto, tutto, perfino i soldi», ci avevano detto dei giovani di Kabul, abbassando lo sguardo e fornendoci altri particolari di quel contesto denunciato da mesi da diversi rappresentanti di organizzazioni umanitarie e raccontato con precisione dalle inchieste giornalistiche. Le autorità croate - le stesse che reagiscono raccontando incredibilmente falsità sulle nostre intenzioni, proprio in queste ore - da tempo, spiegano, che si tratta in gran parte di montature. Che le violenze e i soprusi della polizia son stati casi marginali, isolati. Ancora una volta, come è già accaduto in passato, ad opera di svariati politici italiani rispetto al Mediterraneo, si punta il dito nella direzione delle ONG e degli attivisti dei diritti umani. Nessuno parla di “taxi del mare”. Ma solo perché in questo tratto di “Balkan Route”, nell’entroterra, c’è il bosco. Non sapremo mai se i ragazzi afgani avevano ragione e non conosceremo neppure la cifra esatta dei soprusi dei reparti repressivi. Ma possiamo affermare con certezza che si avverte tutta la spropositata necessità di un cambiamento radicale delle politiche europee in materia migratoria. Cosa che ci viene ribadita quando continuiamo il nostro viaggio visitando le aree della Bosnia più note alle cronache di queste durissime settimane invernali. Raggiungiamo il campo di Lipa mentre la neve cade copiosa. Siamo in zone dove gli operatori umanitari italiani sono i primi a dire di farla finita con le politiche emergenziali: «Non chiamatela nemmeno emergenza umanitaria, vi prego», mi rimprovera Silvia Maraone storica rappresentante dell’IPSIA, «perché qua quel che servono sono scelte strutturali». E ha ovviamente ragione da vendere. Dopo il 2016 l’Unione Europea ha chiuso la rotta balcanica, e migliaia di rifugiati si sono accampati nei boschi bosniaci o in quello che resta dei palazzi in rovina, nelle zone industriali abbandonate, soprattutto nella parte nord occidentale del paese, nel cantone di Una Sana. Dall’altra parte dei morti c’è la Croazia. I migranti che provano ad attraversare il confine chiamano il tentativo: the game. Dall’inizio dell’anno sono 15.672 i respingimenti registrati dalla Croazia. Nel solo mese di ottobre sono stati 1934, più di sessanta al giorno. Secondo i dati di DRC almeno il 60 per cento delle persone ha subito violenza. A ottobre sono stati registrati 189 casi di "violenza inaudita" così li descrive l’organizzazione, in due casi si tratta di violenza sessuale da parte di uomini in uniformi nere senza segni identificativi, senza divise riconoscibili. Dall'inizio del 2018 in Bosnia sono stati registrati circa 65.000 rifugiati, migranti e richiedenti asilo, le strutture di accoglienza riescono ad ospitare 6500 persone, e le organizzazioni umanitarie ne hanno mappate almeno altre tremila che vivono al fuori dei centri di accoglienza, in campi improvvisati. La settimana scorsa il campo di Lipa è stato bruciato. Ospitava 1300 persone, costrette ora a dormire in tende di plastica senza riscaldamento nelle gelide notti dell'inverno bosniaco. Una dichiarazione congiunta rilasciata sabato scorso da diverse organizzazioni umanitarie, tra cui DRC, UNHCR e OIM ha esortato le autorità a trovare immediatamente una soluzione alternativa. "Le strutture ancora esistenti non sono sicure e rischiano di crollare, a causa delle nevicate. Il sito è senza riscaldamento e sono già stati segnalati casi di congelamento, ipotermia e altri gravi problemi di salute" afferma il comunicato. Proprio Pietro Bartolo ha più volte richiamato un concetto simile nei diversi interventi realizzati in Parlamento: «Va superata la logica degli accordi di Dublino, ci vuole una svolta vera, una svolta che non si fondi sull’esternalizzazione continua delle frontiere, sui respingimenti come unica soluzione». Parole identiche a quelle pronunciate da un altro parlamentare europeo, Massimiliano Smeriglio, che, sempre in questi giorni, ha visitato la parte “italiana” della rotta balcanica, ricordando con puntualità quanto anche i nostri governi non si possano chiamare fuori, non possano far finta di non avere responsabilità. «C’è un grande bisogno di Europa» è quel che dice un giovane operatore della Croce Rossa, nel campo d’accoglienza che ospita novecentoquaranta persone situato, come uno spillo conficcato nella pelle, nel cuore della Bosnia, mentre la neve imbianca i nostri giacconi e i corpi esili dei ragazzi pakistani che mi spiegano quanto sia difficile vivere a gruppi di trenta sotto tendoni privi di corrente elettrica, riscaldamento e sistemi di areazione. Assam, con la coperta che gli cade sulle spalle, e un volto dalle labbra carnose che sbuca sorridente, mi spiega che in fondo “the game", il gioco, è questo: è un tentativo fatto di fughe nei boschi, respingimenti, botte, frammenti di futuro da immaginare. Sono due anni che ci prova, lo rifarà ancora. C’è proprio bisogno bisogno d'Europa, dunque, visto che, di fronte alla cosiddetta pressione migratoria, non c’è Stato che possa cavarsela da solo. Che poi, io credo, vuol dire innanzitutto la condivisione di una responsabilità che sin qui non è mai stata veramente affrontata coralmente, una responsabilità comune di fronte a cui non servono i cordoni di polizia per nascondere la realtà ma che invece domanda, e subito, maggiore dialogo e cooperazione tra i governi, interventi in discontinuità di tutte le istituzioni europee, politiche di accoglienza di qualità, azioni per l’integrazione, libera circolazione, in un quadro di regole chiare, dei migranti. I “migranti” che poi dovrebbe voler dire donne, uomini, bambini.

"Picchiati con spranghe, derubati o peggio se proviamo a raggiungere l'Europa". Migliaia di persone, fuggite da Afghanistan, Pakistan e non solo, sono intrappolate in Bosnia. Abbandonate dalle istituzioni, condannate al freddo. E quando provano ad arrivare in Croazia, subiscono ogni tipo di violenza. Ecco le loro storie. Francesca Mannocchi su L'Espresso il 21 dicembre 2020. Il freddo in Bosnia ha due colori, quello dell’ora appena dopo il sorgere del sole è ghiaccio, e quello delle nove del mattino è ocra, fatto dell’alternarsi delle ombre. Strisce allungate dalla luce, sagome che si muovono cercando il primo raggio di sole. Sono i fantasmi di Bihac che si svegliano, allargano sulle spalle le coperte e camminano come lucertole verso qualcosa che intiepidisca quello che la notte ha gelato. Imran ha diciannove anni, ha lasciato Jalalabad, in Afghanistan due anni fa, oggi vive in un edificio abbandonato nella zona industriale della città bosniaca. Per spiegare perché ha lasciato il suo paese dice solo: «Taliban. Non ci fanno vivere». Poi, forse temendo che la parola “talebano” non evochi sufficiente preoccupazione in chi ascolta, elenca le persone che conosce vittime di un attacco, una bomba, un assalto: uno zio che andava a lavorare in ospedale, un cugino che andava ad accompagnare i figli a scuola, una vicina, mentre camminava per andare a comprare il pane. Tutti morti. Imran ci ha messo sei mesi per raggiungere la Bosnia.

La grande bufala sui migranti: "La solidarietà Ue? È un fake". Sul tema dell'immigrazione, l'Italia si mostra impotente nel confronto internazionale. "E il governo resta immobile". Sofia Dinolfo e Mauro Indelicato, Martedì 19/01/2021 su Il Giornale. Provando a difendere il suo operato in audizione davanti alla Commissione Politiche dell'Unione europea del Senato, il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese ha implicitamente ammesso la disfatta a livello europeo dell’Italia: questo ha del clamoroso in quanto proprio in ambito comunitario il governo giallorosso puntava sulla solidarietà per risolvere il problema legato all’immigrazione. Nel suo discorso il capo del Viminale, ha ammesso le criticità del nuovo piano dell’Unione Europea così come si è mostrato in difficoltà nella difesa delle attività nell’ambito della ridistribuzione. Non solo: nelle sue dichiarazioni, il ministro non ha accennato ai piani volti a ridimensionare l’ingresso dei migranti.

L’Unione Europea ha lasciato da sola l’Italia. Da quando il Conte II alla guida del governo nazionale, una delle premesse portanti è sempre stata rappresentata dalla possibilità di allinearsi con la posizione europea per dare discontinuità nell’affrontare il fenomeno migratorio. Un impegno confermato più volte dai piani alti del Viminale che nel frattempo ha cercato di darne dimostrazione con promesse, slogan e passerelle. Ed eccoci ora alla resa dei conti: il Patto europeo sull’immigrazione che avrebbe dovuto aiutare l’Italia a risolvere numerose criticità si è concretizzato con un nulla di fatto. Nel documento, presentato a settembre dal presidente della commissione europea Ursula Von Der Leyen, non si parla né di annullamento del trattato di Dublino né di meccanismi automatici sui ricollocamenti. Le istanze avanzate dal governo giallorosso, si sono tradotte in parole gettate al vento. Di questo il ministro dell’Interno Lamorgese ne è ben consapevole anche se il 12 gennaio scorso, durante la sua audizione davanti alla Commissione Politiche dell'Unione europea del Senato, ha cercato di difendere a spada tratta il suo operato giustificandosi col definire “ambizioso” il Patto europeo in materia di immigrazione e asilo: “Come ho detto sin dall’inizio- ha dichiarato Lamorgese- il Piano presenta delle criticità”. Una dichiarazione ben lontana da quelle rilasciate nei mesi scorsi in cui si sbandierava il raggiungimento di importanti obiettivi: l’Italia è stata dunque isolata a livello comunitario e la doccia fredda sta sortendo i suoi effetti che adesso, alla resa dei conti, sono difficili da ammettere.

Ricollocamenti? Una chimera. Una fatica ammettere anche la disfatta per quanto concerne il sistema dei ricollocamenti. Sono 920 i migranti ricollocati in tre mesi: un numero esiguo se si considera che gli stranieri sbarcati nell’anno appena concluso sono circa 34mila. Ma neanche in questa circostanza c’è stato un mea culpa, anzi, il contrario. Il ministro Lamorgese ha provato a difendere questi numeri ritenendoli come un passo avanti rispetto agli anni precedenti: "Prima dell'accordo di Malta- ha affermato il ministro- avevamo 125 ricollocati, dopo l'accordo sono state ricollocate 920 persone, un incremento del 90%. L'accordo di Malta funzionava e si è bloccato a seguito dell'emergenza covid”. Ecco che gli accordi di Malta tornano ad essere utilizzati come scudo di difesa per tutelare le frammentarie operazioni poste in essere. Ma è ormai superfluo ribadire come quelle proposte in tema di ricollocamenti automatici siano trasformate in carta straccia anticipando già quello che sarebbe accaduto in seguito. Non sarebbe meglio quindi introdurre un piano differente? Forse lo ha capito lo stesso ministro: “Il processo dell'immigrazione- ha dichiarato-non è un processo per cui esistano ricette facili perché non dipende soltanto dal Paese Italia, ma anche dagli altri Stati europei. Serve un approccio differente”.

Quel flop di Lamorgese e Conte: la rotta "di lusso" dei migranti. Sparito il piano di controllo navale con la Tunisia. Nel suo discorso il ministro Lamorgese ha fatto riferimento all'annosa questione relativa alla Tunisia. Nel 2020 il 42% dei migranti sbarcati proveniva proprio dal Paese nordafricano, le prospettive per il nuovo anno in tal senso non sono delle più rosee. Tuttavia il titolare del Viminale non ha fatto cenno a piani volti a contrastare il flusso proveniente da questa rotta migratoria. In tal senso a novembre era stata la stessa Lamorgese a lanciare l'idea di un piano che prevedeva, tra le altre cose, l'impiego delle navi nel canale di Sicilia. Chi si aspettava, nel suo discorso al Senato, un riferimento a quel piano è rimasto deluso: la proposta di novembre si è rivelata lettera morta. Rispetto ai rapporti con le autorità di Tunisi, gli unici cenni fatti dalla Lamorgese hanno riguardato i rimpatri: “Faremo 10 voli in più a settimana per i rimpatri” ha dichiarato il ministro. Ma proprio su questo fronte le insidie sono dietro l'angolo. Il governo anche in passato ha sempre provato a mostrare la volontà di rendere più facili i rimpatri, ma il risultato è tutt'altro che scontato: “Lo stesso ministro – ha dichiarato a IlGiornale.it il docente Marco Lombardi, presidente del gruppo di ricerca ItsTime – ha ricordato come il rimpatrio sia di fatto impossibile nella maggior parte dei casi, perché soggetto a degli accordi specifici con i Paesi da cui si parte. I quali fanno ovviamente orecchie da mercante”. I passi in avanti fatti con la Tunisia difficilmente potranno essere quindi risolutori. E soprattutto, ad oggi la vera emergenza da affrontare con Tunisi è relativa alla limitazione delle partenze. Argomento su cui però si è preferito forse sorvolare.

Migranti, un anno di flop della Lamorgese: i ricollocamenti non "decollano". Colpa del governo o colpa dell'Ue? In un contesto come quello attuale, Roma e Bruxelles si dividono forse quasi equamente le responsabilità. Da un lato il governo giallorosso ha investito politicamente troppo sull'Ue, dall'altro le istituzioni comunitarie hanno attuato linee controproducenti per l'Italia: “La povera ministra – è il commento di Marco Lombardi – appare in difficoltà nel riconoscere le pastoie europee che, augurandoci ogni bene, ci abbandonano a ogni male: l’intervento della Lamorgese è una accusa all’abbandono dell’Italia sul fronte immigrazione dai cosiddetti partner europei”. Il giudizio di Lombardi contro l'Ue è inflessibile: “La solidarietà europea è in realtà un grande fake, che serve solo per il buonismo elettorale”. “Il ministro mi ha fatto pena, poverina – ha concluso Lombardi – Perché è nuda davanti alla protervia europea nei confronti della quale riconosce la necessità di avere una "logica costruttiva di compromesso" e che "comunque dei passi avanti sono stati fatti". Quel 'comunque' svela tutta l’impotenza dell’Italia nel confronto internazionale sul tema delle migrazioni, che sono l’arma più potente che gli europei hanno contro l’Italia medesima”. Errori da una parte ed errori dall'altra dunque. Resta però il fatto che l'immobilismo del governo giallorosso sulla questione migratoria è un eloquente dato di fatto. E il puntare tutto su un'improbabile solidarietà europea è il più grande “peccato originale” del Conte II.

·        Due “Porti”, due Misure.

È accusato di torture e abusi: diventa il capo dell'Interpol. Redazione il 26 Novembre 2021 su Il Giornale. Contro di lui cinque denunce, ma da Abu Dhabi sono arrivati 56 milioni. È al centro di denunce penali in cinque Paesi. Eppure il generale Ahmed Naser al-Raisi, alto funzionario del ministero degli interni degli Emirati Arabi Uniti, è stato eletto presidente dell'Interpol. Alla fine ce l'ha fatta, nonostante le proteste in tutta Europa, soprattutto in Francia e Germania, dove i parlamentari hanno scritto ai rispettivi governi chiedendo di boicottare la sua candidatura e nonostante le organizzazioni per i diritti umani avessero messo in guardia contro l' «inevitabile perdita di credibilità» dell'organizzazione che riunisce le polizie di 195 Paesi. Al-Raisi è al centro di tre denunce per tortura proprio in Francia, dove ha sede l'Interpol. Ecco perché i tre casi stanno facendo grande clamore. Uno riguarda il blogger Ahmed Mansour, da quattro anni in isolamento perché accusato di avere «minacciato l'ordine pubblico» e diffuso fake news. Altro oppositore del regime di Abu Dhabi, che racconta di essere finito sotto le grinfie di al-Raisi, è l'accademico britannico Matthew Hedges, arrestato dagli Emirati Arabi Uniti nel 2018 e accusato di essere una spia al servizio del Regno Unito. Liberato dopo due anni, in carcere è stato torturato e denuncia di essere stato drogato prima di una confessione che gli è stata sostanzialmente estorta. Terzo - ma non ultimo - il drammatico racconto di Ali Issa Ahmad, arrestato, picchiato e accoltellato negli Emirati dopo aver indossato una maglietta della nazionale del Qatar, proprio mentre era in corso un embargo politico, logistico ed economico contro il Paese. E non manca nemmeno la storia di Ahmed Mansoor, detenuto in una cella senza materasso, coperte, senza accesso all'acqua, a un bagno e ai medici. Già nell'ottobre 2020, diverse Ong - 19 in tutti, tra cui Human Rights Watch - avevano espresso preoccupazione per la possibile scelta di Raisi, che hanno descritto come «parte di un apparato di sicurezza che continua a prendere di mira sistematicamente i suoi detrattori pacifici». Eppure al-Raisi va incontro al suo nuovo incarico senza intoppi. Il sospetto è che a oliare il nuovo destino sia stato il finanziamento di 56 milioni di dollari da parte degli Emirati Arabi Uniti all'Interpol, arrivato dopo le accuse ad Abu Dhabi di aver abusato del sistema degli «avvisi rossi» (i provvedimenti sull'altissima pericolosità dei ricercati, che vengono diramati ai Paesi membri dell'Interpol) con l'obiettivo di perseguitare i dissidenti politici. Da qualche anno l'Interpol è al centro di polemiche e accuse. L'ultimo capo eletto, il cinese Meng Hongwei, nel 2017 fu prelevato nel pieno della notte, dal proprio letto in Cina, per poi sparire nel nulla. Accusato di corruzione, nel 2020 fu condannato a 13 anni. A succedergli, il coreano Kim Yong Yan, che adesso ha concluso il mandato, esteso di un anno causa Covid.

Quei morti di Nassiriya non li dimentichiamo. Marco Gervasoni su Cultura Identità il 12 Novembre 2021. Sono passati diciotto anni da quel 12 novembre, ore locale 10,40, in cui a Nassiriya la base militare dell’esercito italiano, chiamata “Maestrale”, fu rasa al suolo da un attentato terroristico. Un tributo di 28 morti, 19 italiani (di cui due civili) e 9 iracheni. Non dimenticherò la tensione che circondava l’arrivo delle bare, un paio di giorni dopo, nell’obitorio di via De Lollis, dove mi trovavo a passare del tutto casualmente. E ancor più la Camera ardente nel Vittoriale e poi i funerali di Stato in Santa Maria degli Angeli. Il culto della Italia, e il senso di appartenere a una grande nazione, sembravano per qualche giorno essere entrati a far parte stabilmente nello spirito del paese. Illusione. Da lì a pochi mesi, nelle manifestazioni della sinistra radicale, come si chiamava allora e dei centri sociali, potemmo udire slogan orrendi come “Uno cento mille Nassiyria”, elogi alla “resistenza irachena” contro “l’imperialismo yankee”, mentre i Ds di D’Alema, Veltroni e Fassino continuarono ad opporsi al rifinanziamento della missione irachena e a chiedere il ritiro delle truppe Italiane. Oggi lo possiamo dire e ce ne duole: gli eroi di Nassiriya sono morti invano. Non perché la missione irachena sia stata un totale fallimento, come quella afghana, anzi il contrario. Ma perché, a quasi vent’anni dal loro sacrificio, la bandiera per cui essi sono caduti è finita assai più nella polvere di quanto non fosse già. Da allora abbiamo assistito a massicce cessioni di sovranità dell’Italia, all’intervento di forze e governi esteri che hanno fatto cadere leader legittimi scelti dal voto (qualsiasi riferimento a Berlusconi è puramente voluto), allo svilimento del sentimento nazionale. Sì, la loro morte e il lutto aveva intercettato quella voglia di patria e di nazione che poi anni dopo si sarebbe confermata nella crescita di movimenti e partiti cosiddetti “sovranisti”. La loro morte ci mostrò che il Paese aveva desiderio di cercare una propria identità. E da quel punto di vista, la loro memoria deve essere coltivata oggi, come anche in futuro. Ma a partire dell’establishment, del sistema, di larga parte della classe politica, i morti di Nassiriya non dicono più nulla. Certamente non dicono nulla ai movimenti populisti anti politici come quello dei grillini, che hanno venduto la loro carica “rivoluzionaria” a parole per pochi denari e oggi finiscono per essere l’Udeur di Mastella della sinistra. Né dicono nulla a quelli che continuamente rivendicano “più Europa”, e non ci stupiremmo se oggi qualcuno affermasse che sono caduti per la Ue e magari per l’esercito europeo. Sono morti invano. Il loro martirio non ha dato alcun seguito. La nazione è ancora negletta, anzi ancor più che nel 2003. Ragion di più per ricordarli e prenderli ad esempio, per chi su batte per la identità della nazione.

Giuseppe Scarpa per "il Messaggero" il 10 ottobre 2021. Se si tampona un auto, in un banale incidente, lo Stato può negare la cittadinanza. Non sei sufficientemente integrata, la replica, in estrema sintesi, fornita dal Ministero degli Interni ad una donna che si è vista rifiutare il tanto desiderato status. E pazienza se nel Bel Paese, la signora ha sposato un italiano, ha due figli nati cresciuti qui e versi, da due decenni, regolarmente i contributi. È successo questo a Roma. È la storia di J. Kukaleshi, 41 anni, albanese, da 23 anni nella Capitale. Il dipartimento per la libertà civile e l'immigrazione non ha avuto dubbi e il primo ottobre le ha spedito questa missiva: «Non ha dato prova di aver raggiunto un grado sufficiente di integrazione nella comunità nazionale desumibile, in primis, dal rispetto delle regole di civile convivenza». Insomma è bastato urtare una macchina e ricevere una condanna dal giudice di pace a una multa da 600 euro, per vedersi negare la cittadinanza italiana. È opportuno specificare che la signora era sobria e che la sanzione dal giudice è arrivata solo dopo la denuncia dell'altro automobilista a cui sono stati riconosciuti 7 giorni di prognosi.

LA DOMANDA La donna ha inoltrato la richiesta all'ufficio competente del Ministero, il 25 aprile 2017, facendo leva sui suoi anni di residenza. Ha evitato di chiederla dopo aver sposato un italiano perché non le sembrava corretto. Non voleva, in questo modo, dover dipendere dal marito proprio perché riteneva di essersi meritata la nuova nazionalità sul campo. E invece, il suo ragionamento, non ha fatto i calcoli con il cortocircuito burocratico e la pignoleria del sistema. «Non ho scelto la via più facile - spiega Kukaleshi - Infatti mio marito mi rimprovera e mi dice se l'avessi richiesta collegata al matrimonio l'avresti già ottenuta. Forse ha ragione. Ma io sono cocciuta ho voluto farlo, facendo valere la residenza, perché me lo merito, perché sono italiana. E invece mi hanno detto di no per un tamponamento di cui mi ero perfino dimenticata». 

IL TAMPONAMENTO Tutto accade il 19 marzo del 2005. Kukaleshi, alla guida della sua vettura, tampona un altro automobilista nella strada che da Roma porta a Monterotondo. I due compilano la constatazione amichevole. La vicenda sembra chiudersi lì. Invece l'uomo la denuncia, delle volte accade. L'episodio non è grave, finisce al giudice di pace che infligge una multa di 600 euro per lesioni colpose (involontarie). Il medico aveva dato 7 giorni di prognosi al conducente tamponato. «Certo l'incidente è avvenuto per colpa mia, ma questo è abbastanza per negarmi la cittadinanza? Mi hanno scritto che non ho raggiunto un grado sufficiente di integrazione nella comunità nazionale, per me questa è una frase dolorosa. Penso che, essere coinvolti in un piccolo tamponamento, possa capitare a tutti. Non lo si dovrebbe considerare come un avvenimento che macchia la vita di una persona, la segna definitivamente». 

L'ARRIVO IN ITALIA La donna ricorda quando è arrivata in Italia. Era il 1998. «Ho iniziato a lavorare da subito in un salone di bellezza. Poi nel turismo. A partire dal 2015, con mio marito, dopo tanti sacrifici, abbiamo avviato una piccola attività di bus turistici. Insomma vivo da 23 anni in questo Paese, ho due figli di 8 e 11 anni, verso contributi da due decenni. Ho vissuto più a Roma che in Albania. Per me la lettera che ho ricevuto dal Ministero è un torto enorme». Intanto il suo legale però promette battaglia: «In tanti anni di lavoro non ho mai visto una cosa del genere. Ho inviato una memoria di replica al Ministero», spiega l'avvocato Alì Abukar Hayo tra i maggiori esperti in materia di immigrazione. «Negare la cittadinanza - prosegue Abukar - per una condanna, dal Giudice di Pace, al pagamento di una multa di 600 euro, peraltro condonata. Per un fatto del lontano 2005 in cui è rimasta lievemente ferita una persona. È una follia».

Intanto l'Italia tace. Così vengono torturati i migranti che non arrivano in Italia. Giulio Cavalli su Il Riformista il 5 Ottobre 2021. Perché i drammi non possano disturbare la serenità dei potenti basta che accadano là dove non ci sono occhi e non ci sono orecchie, e che non accadano davanti a una telecamera oppure su una spiaggia e forse sarà per questo che la Tunisia ha gioco facile nel gettare uomini, donne e bambini in quel sacchetto dell’umido internazionale che è la Libia. Sarà per questo che viene perfino difficile provare a raccontare sulle colonne di un giornale un dolore e una vergogna internazionali che dovrebbero sanguinare da tutti i notiziari e che invece rimangono impigliati nelle pieghe delle notizie di poco conto. Lunedì 27 settembre quattro imbarcazioni con persone di origine subsahariana e tre con persone tunisine sono partite dall’arcipelago di Kerkennah, in Tunisia. È la solita storia di disperati su barche disperate che si illudono di attraversare il mare per trovare un po’ di ristoro. Una di quelle storie che da noi, anche se cambiano i governi, vengono citate solo in occasioni di qualche stantia commemorazione che si trasforma in una liturgia frigida. Accade in questi giorni: le imbarcazioni vengono intercettate dalle unità marittime della Guardia Nazionale tunisina, che le hanno riportate sulla costa tunisina. Qui i racconti si fanno carne. I profughi falliti di origine tunisina vengono rilasciati immediatamente (prima i tunisini, si dice da quelle parti, probabilmente) mentre le persone di origine subsahariana sono state trascinate al confine libico. Secondo le testimonianze (raccolte da alcuni legali per i diritti umani che ancora ostinatamente credono al Diritto) si tratta di «un centinaio di persone, tra cui diverse donne e minori. Almeno tre delle donne erano incinte». Poiché l’importante è evitare gli occhi i profughi sono stati portati in una lingua di terra a cavallo tra il confine più a nord della Tunisia e la Libia. Le immagini che arrivano sono uno strazio che gocciola vergogna: ci sono alcune persone che sono rinchiuse in un edificio privato, delle donne in avanzato stato di gravidanza e una donna semi incosciente che partorisce in mezzo al deserto, aiutata come si può da un compagno di sventura. Quella donna che partorisce tra la sabbia senza nemmeno una grotta è il presepe infernale di un’Europa che sarà condannata dalla Storia. In una nota congiunta di diverse associazioni, tra cui il Forum tunisino per i diritti umani, Medecins du monde, Avvocati senza frontiere e l’italiana Asgi, spiegano che «all’arrivo al confine con la Libia, gli ufficiali della guardia nazionale tunisina avrebbero costretto i migranti sotto la minaccia delle armi ad attraversare il confine con la Libia». «Una volta attraversato il confine, – scrivono in una nota congiunta le associazioni per i diritti umani – un primo gruppo di migranti è stato rapito in territorio libico. Secondo le nostre fonti, sono attualmente detenuti non lontano dalla frontiera, a Zouara, in una casa privata. Si dice che i rapitori abbiano chiesto circa 500 dollari a testa per il loro rilascio. Un altro gruppo di migranti, inizialmente bloccato a Ras Jedir, sarebbe stato arrestato di recente dai libici. I loro telefoni, che sono irraggiungibili, sarebbero stati confiscati. Si dice che ci siano due donne incinte in questo gruppo, compresa una donna di otto mesi». Per quanto riguarda il parto dell’orrore sembra che le forze armate abbiano assistito al parto per poi trasportare madre e neonato all’ospedale Ben Guerdane. Sembra che anche a fine agosto sia avvenuta un’altra espulsione sommaria dalla Tunisia alla Libia che anche in quel caso ha coinvolto donne e minori. Tocca ricordare che il comportamento delle autorità tunisine viola le disposizioni della Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, ratificata dalla Tunisia nel 1957. Inoltre, le espulsioni verso la Libia, che non può in alcun modo essere considerata un paese sicuro in cui far tornare i migranti, non sono conformi al diritto internazionale e al principio di non respingimento. L’assenza di identificazione e di assistenza iniziale, oltre alla negazione del diritto di chiedere protezione internazionale, sono una chiara violazione dei diritti umani fondamentali e del diritto di asilo. Ma evidentemente la Libia e i suoi confini sono ormai una terra di nessuno che non merita nemmeno un finto moto di contenimento. Le organizzazioni firmatarie dell’appello «denunciano le violazioni dei diritti umani di cui sono vittime i migranti subsahariani e chiedono alle autorità tunisine di chiarire questi fatti, di intervenire urgentemente per garantire un’assistenza adeguata e dignitosa a queste persone, e di prendere con urgenza decisioni politiche al fine di stabilire un meccanismo e un circuito chiari per la presa in carico dei cittadini stranieri soccorsi in mare, per garantire un trattamento delle persone sbarcate che rispetti gli impegni della Tunisia in questa materia». Chissà che anche l’Italia, mentre commenta le elezioni che come al solito hanno vinto tutti, trovi un minuto per dirci qualcosa, anche alla luce del fatto che dalle ultime notizie la madre di un bambino di due anni sarebbe morta nelle ultime ore e due uomini risulterebbero dispersi. E intanto in Libia? In Libia ormai siamo ai rastrellamenti della memoria più nera: nelle ultime ore sono stati incarcerati almeno 4.000 migranti (anche se fonti non ufficiali parlano di 8.000) in una retata organizzata nella città occidentale di Gargadesh, ovviamente rivenduta come una campagna di “sicurezza” contro la droga (la violenza delle parole e delle bugie è la stessa in tutto il mondo). I detenuti sono stati raccolti in una struttura a Tripoli chiamata Centro di raccolta e restituzione, ha affermato il colonnello della polizia Nouri al-Grettli, capo del centro. Anche in questo caso i video che si è riusciti a raccogliere sono terrificanti: uomini come topi ammassati. Qualcuno di loro sanguina vistosamente, qualcuno giace inerme e devastato mentre viene massaggiato da alcuni compagni. Tarik Lamloum, un attivista libico che lavora con l’Organizzazione Belaady per i diritti umani, ha affermato che i raid hanno comportato violazioni dei diritti umani contro i migranti, in particolare nel modo in cui alcune donne e bambini sono stati detenuti. Lamloum ha affermato che molti migranti detenuti sono stati registrati presso l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati Unhcr, come rifugiati o richiedenti asilo. Le immagini mostrano migranti legati con le mani dietro la schiena, arresti arbitrari per le strade e un video riprende un uomo catapultato da un’auto in corsa mentre cerca di scappare. Se l’inferno esiste in questi giorni l’inferno è lì. Nel Paese circolano manifesti che avvisano di prossimi rastrellamenti. I trafficanti libici hanno talmente fame di corpi da usare come carne di ricatto e di pressione politica che ora se la vanno a cercare per le strade del Paese. Chissà se il ministro agli Esteri e il ministro alla Difesa (così sornioni dopo avere recitato benissimo per l’emergenza umanitaria in Afghanistan che sembra miracolosamente già passata) avranno il tempo di dire una parola, di proporre qualcosa. Chissà se non se vergogneranno prima o poi di essere complici con la loro colpevole indifferenza di un girone dantesco finanziato con i nostri soldi. Chissà.

Giulio Cavalli. Milano, 26 giugno 1977 è un attore, drammaturgo, scrittore, regista teatrale e politico italiano.

Profughi e migranti: due problemi diversi. Augusto Minzolini il 19 Agosto 2021 su Il Giornale. La tragedia afghana ci offre lo spunto per una riflessione che dovrebbe essere condotta con una buona dose di pragmatismo e di realismo, senza dimenticare quello spirito umanitario che la nostra stessa Costituzione ci suggerisce. La tragedia afghana ci offre lo spunto per una riflessione che dovrebbe essere condotta con una buona dose di pragmatismo e di realismo, senza dimenticare quello spirito umanitario che la nostra stessa Costituzione ci suggerisce di fronte ai profughi di guerra. È inutile addentrarsi nella solita disputa ideologica che contraddistingue ogni dibattito sull'immigrazione: in questa occasione non si può neppure immaginare di chiudere le nostre frontiere a chi fugge dall'Afghanistan. Per noi, infatti, non si tratta solo di un impegno solidale, ma di un dovere, accogliere attraverso i corridoi umanitari, e dare diritto di asilo - meglio nell'ambito di un piano europeo - ai profughi di guerra di un Paese verso il quale l'Occidente tutto ha mancato di parola. Disquisire su questo punto, come purtroppo avviene, è un errore, perché nessuno può assumersi la responsabilità di chiudere la porta in faccia a chi è in balia di un regime efferato, che non riconosce nessun diritto né agli uomini, né alle donne e che usa la prigionia, la tortura, le esecuzioni esemplari come strumento di Potere. Un ragionamento semmai andrebbe fatto su come l'Italia gestisce il fenomeno migratorio (i numeri sono tornati preoccupanti) in tempi normali e non di tragedia. Cioè su come ci comportiamo con i cosiddetti migranti economici e, più in generale, con l'immigrazione clandestina. Questioni che, al di là di ogni ipocrisia, si legano a quella dei profughi di guerra: in un equilibrio mondiale caratterizzato da guerre asimmetriche e da conflitti regionali, infatti, spesso i due fenomeni si sommano. Solo negli ultimi anni abbiamo assistito ad ondate migratorie determinate dalle crisi in Siria, in Libia e ora in Afghanistan, per non contare le guerre dimenticate che costellano l'intera Africa. Ora, dato che il nostro Paese non può diventare la terra Promessa per tutti, è necessario che si individuino delle regole nella gestione dei flussi migratori che fissino quote e priorità stringenti nell'accoglienza. Se non si fosse obnubilati dall'ideologia, infatti, ci vorrebbe poco a capire che è difficile fare fronte ad un'emergenza migratoria (i profughi di guerra) se si è esposti perennemente (per i numeri) ad un'altra emergenza migratoria (i migranti economici): l'Italia non è nella possibilità di assorbire la somma dei due flussi contemporaneamente. Ecco perché regolare i flussi, dire dei sì e dei no alle frontiere in tempi normali e contemporaneamente chiedere all'Europa in maniera più persuasiva di condividere il peso dell'accoglienza, ci permetterebbe di essere più disponibili nelle emergenze nei confronti di chi emigra non per il desiderio legittimo di migliorare la propria condizione sociale, ma addirittura perché vittima di persecuzioni e costretto a farlo per salvare la propria vita. Sarebbe puro buonsenso. Con buona pace dei sacerdoti del politicamente corretto, perché di questi tempi con la demagogia e con la retorica non si va da nessuna parte in un mondo complesso come l'attuale dove dei fanatici del Corano, residuo di un Medio Evo mai passato, sono riusciti a tenere in scacco per venti anni l'Occidente fino a costringerlo alla resa, ledendone l'immagine e l'onore. Augusto Minzolini

Giuseppe Scarpa per "Il Messaggero" il 21 aprile 2021. Dieci cittadinanze italiane conferite a chi non ne aveva alcun diritto. Falsificando tutto. Dichiarazione dei redditi e dati personali al fine di ottenere il definitivo via libera da parte del Ministero degli Interni. Ma oltre al grande imbroglio, architettato da un gruppo di professionisti di cui fanno parte un avvocato e un commercialista, nella vicenda c'è molto di più. Una sorta di spy story che tira in ballo l'intelligence di casa nostra. Infatti il regista di questa storia - secondo la procura - è un agente dei servizi segreti italiani, Giancarlo Pirocca. Ormai un ex. Poiché l'Aise l'ha mandato via subito dopo la perquisizione che l'uomo ha ricevuto dai carabinieri di via In Selci.

L'ACCUSA. Un'inchiesta delicata, andata in scena a Roma tra il 2014 e il 2019, che coinvolge anche altre persone. In tutto sono venti, tra cui una funzionaria della prefettura che, almeno in un caso, sarebbe stata complice del dipendente dell'Aise. Si tratta di Anna Antonelli, accusata dagli inquirenti di falsità ideologica e che il prossimo 28 aprile sarà giudicata in un processo con il rito abbreviato. Gli altri indagati sono invece imputati per associazione a delinquere, tra cui appunto Pirocca. Il protagonista dell'affaire è un uomo delle forze dell'ordine inserito nei ranghi dell'intelligence. E sfruttando questa sua posizione, per gli investigatori, avrebbe avviato un'attività redditizia per arrotondare lo stipendio. Non l'avrebbe fatto da solo. Ad aiutarlo anche un avocato e un commercialista che per suo conto falsificavano le pratiche. Mentre due immigrati gli procuravano i clienti da regolarizzare. Ovviamente tutta la cricca si reggeva sui «compensi», come emerge nel capo d'imputazione, che i richiedenti pagavano per diventare italiani. L'agente dei servizi segreti si sarebbe attivato in un secondo momento. Quando si trattava di ricevere «notizie riservate - questa la contestazione degli inquirenti - da parte dei funzionari dell'amministrazione pubblica».

LA DIFESA. Insomma Pirocca avrebbe bussato alle porte degli uffici e sarebbe stato in grado di avere notizie sullo stato delle pratiche. A che titolo l'uomo riuscisse ad ottenere dei dati sensibili, semplicemente chiedendone conto ai dipendenti del ministero degli interni, non è chiaro. A spiegare come sarebbero andate le cose, almeno in un caso e per quanto concerne l'episodio che vede coinvolta la sua assistita, è l'avvocato Alì Abukar Hayo. Il penalista difende la funzionaria della prefettura. Per il legale la donna è innocente poiché avrebbe dato informazioni, su un'unica pratica, ad un agente dei servizi segreti regolarmente accreditato alla Prefettura. Ecco ciò che spiega il difensore di Anna Antonelli. «La mia assistita non ha commesso nessun tipo di reato. Sottolineo è innocente. L'informazione che la funzionaria ha fornito sulla richiesta di cittadinanza è stata data a Pirocca poiché costui era accreditato nell'ufficio come un dipendente della Presidenza del Consiglio dei Ministri, dal momento che era in servizio all'Aise. Ed era autorizzato a chiedere questo tipo di informazioni. Dopodiché l'utilizzo che l'agente dei servizi ha fatto di quei dati non può riguardare la mia cliente. Lei ha eseguito ciò che le è stato detto di svolgere». A decidere sarà il gup Alessandra Boffi.

Le madri del tempo perduto: le badanti rumene che hanno lasciato i loro figli per accudire i nostri vecchi. Uno scrittore racconta la storia delle donne che partono dalla Romania per lavorare in Italia. E quando tornano a casa soffrono della sindrome che diventa simbolo del nostro disagio. Marco Balzano su L'Esprresso l'1 aprile 2021. Una domenica mattina attraversavo il parco di Porta Venezia. C’era il sole e si sentiva la primavera. Senza accorgermene è arrivata l’ora di pranzo e attorno a me, poco alla volta, le panchine si sono riempite di gente. Dalle buste di tela uscivano teglie e piatti, bottiglie e posate. Si preparava il ritrovo di quelle donne che nel resto dei giorni sono invisibili, nascoste dentro le case, chiuse nelle camerette che abitavamo noi quando vivevamo coi genitori, nel frattempo diventati anziani e bisognosi di cura e di assistenza continua, cose che i ritmi del mondo globalizzato non ci permettono più di offrire. Chi non le ha mai incontrate? Di quale famiglia non hanno intrecciato la storia? Ad ogni latitudine esistono le traiettorie della cura: la mia protagonista è rumena e lascia la campagna fuori Ia ș i, al confine con la Moldavia, per venire a Milano, ma avrebbe potuto essere una peruviana che va a Washington, un’indiana a Dubai, una nord africana che migra in Israele. Il mondo ricco e occidentale, insomma, siccome è anche il più vecchio, affida la cura. E cura significa donne. Così, anche se a sentire alcuni politici, la migrazione sembra ancora un fatto essenzialmente maschile, da trent’anni a questa parte il settanta percento dei migranti del pianeta è donna. E nella stragrande maggioranza dei casi, madre. L’immagine di Enea che porta sulle spalle Anchise, il padre ormai anziano, non ci descrive più. Quel gesto da un po’ di tempo lo compie qualcun altro. Non è una responsabilità e nemmeno una critica – tutti elementi che a un narratore interessano poco – ma un cambiamento di cui, per una serie di ragioni profonde che forse hanno a che fare con il pudore, il senso di colpa, l’amore stesso, non abbiamo ancora parlato a sufficienza. In quell’immagine di Enea, sostituito da una persona che non ha legami di sangue col vecchio appoggiato sulle sue spalle, si nasconde un dato ancora da rivelare e che per essere messo meglio a fuoco va ripetuto: queste donne sono madri. Ce l’hanno raccontato il primo giorno che si sono presentate, quando ci siamo improvvisati mediatori culturali e, insieme, datori di lavoro. Ce l’hanno ricordato con le videochiamate quotidiane ai figli lasciati a casa, a volte ancora bambini, altre già adolescenti ribelli o, al contrario, adulti precoci dal sorprendente senso di responsabilità. Se sono madri, vuol dire che l’anello scoperto della catena sono proprio i figli rimasti a casa, che la sociologia chiama “left behind” o “children home alone”, suscitando immagini che non hanno bisogno di chiose ulteriori. Ovunque ci sono migliaia e migliaia donne che vanno a portare cura a estranei dall’altra parte del mondo lasciando senza i propri figli, che non hanno nemmeno avuto la possibilità di scegliere se restare o partire. Possono solo aspettare. Il contrappasso per dare loro le stesse possibilità degli altri, per emanciparli economicamente, è rompere il legame più primordiale e trascorrere una vita a distanza. Stiamo parlando di una lontananza profonda, di una ferita che dura anni e anni, durante i quali ci si aggrappa alle videochiamate e in cui si attende il ritorno come un’epifania. Ma nel frattempo si cresce e si invecchia, ognuno su un proprio binario parallelo, e può diventare difficile continuare a condividere quel nodo di sentimenti che col tempo si fa più inestricabile. Ecco, io volevo indagare proprio quel nodo, quella «orfania» e quella nostalgia di maternità che mi ha comunicato meglio di tutti una donna che assisteva un anziano nel palazzo dei miei genitori. Svetlana era alta e robusta, sulla cinquantina, e ci teneva a mostrarmi la stanza dove viveva. Aveva una fotografia sul comodino, in una cornice di argento luccicante. C’erano due bambini, avranno avuto cinque o sei anni. Non mi ha dato nemmeno il tempo di chiederglielo che subito mi ha risposto: «Adesso sono molto più grandi, ma tengo questa fotografia perché a quei tempi facevo ancora la madre». Quella frase è bastata a farmi cambiare il progetto del romanzo che avevo in mente. Non poteva più essere soltanto il racconto di una donna come lei, ma doveva comprendere anche i suoi figli. In fretta si sono imposte altre domande: se questo fenomeno è planetario, quanti saranno quelli che crescono senza madre? Cosa provano a immaginarla ogni giorno dedita alla cura di altri corpi, di altri volti, di altre esistenze e non di loro? Sono partito per Iași, la seconda città più grande della Romania, in autunno. Iași è molto bella e movimentata, ci sono sette università, un numero incredibile di chiese abbracciate da vecchi palazzi sovietici che col loro grigio minaccioso offuscano l’orizzonte. Volevo confrontare la vita di quel centro con i borghi della campagna circostante. A Iași ho ricevuto un’accoglienza calorosa da diverse autorità, sorprese che uno scrittore straniero si interessasse a un tema - l’emigrazione delle donne - che per loro è una questione sociale di proporzioni notevoli e in continua crescita. Ho visitato comunità di bambini e ragazzi con i genitori sparsi per il mondo: spesso non sapevano nemmeno dove fossero, alcuni non li vedevano da anni, qualcuno aveva ricordi confusi. C’erano gli arrabbiati, accecati dalla lontananza; i ribelli, che la notte scavalcano i cancelli per scappare in discoteca; gli inconsapevoli, illusi che la loro vita fosse uguale a quella di tutti gli altri; ma c’erano anche i coraggiosi, che trovavano nel sacrificio della lontananza una ragione sufficiente per non tirarsi indietro dai propri doveri e fare la propria parte fino in fondo. I figli di Daniela, così si chiama la mia protagonista, hanno i volti di quei ragazzi e attraversano molti dei loro stati d’animo. La visita più importante in città è stata all’Istituto di psichiatria “Socola”, un edificio a cui si arriva percorrendo a piedi una lunga strada dissestata. La direttrice, alta e magra, con uno sguardo severo e un tono di voce paziente, mi ha portato nel padiglione che ospita le malate di “Mal d’Italia”. Per alcuni “Sindrome”, per altri “Male”, ma il nome del nostro paese non cambia. Siamo, insieme al Giappone, la nazione più vecchia del mondo, così gli psichiatri hanno reso l’Italia emblema della malattia che silenziosamente rode come un tarlo l’equilibro psichico e fisico di coloro che vivono per anni lontano da casa e si occupano, notte e giorno, di stare vicino a chi soffre di patologie complesse come l’Alzheimer e il Parkinson. Insieme alla direttrice ho attraversato gli stanzoni, ciascuno con sei letti - vecchi letti con le assi di legno scuro - dove donne dagli occhi assenti, con i segni del “burnout” scavati sul volto, rispondevano a fatica al saluto. Quando, ore dopo, ho potuto parlare con un paio di loro, ho avuto l’ennesima prova che la realtà è molto più impietosa ed iperbolica della letteratura. Se volevo scrivere un romanzo familiare e mantenermi ancorato al rapporto madre-figli e alle relazioni affettive avrei dovuto solamente sottrarre: Daniela non doveva né bere, né finire in famiglie sfruttattrici o aggressive, come a molte di loro era capitato. Ripercorrendo a ritroso la strada dissestata ho pensato che non serve essere particolarmente patriottici per sentirsi pungere da una definizione come “Mal d’Italia”. Siamo il simbolo di un disagio, di una popolazione anagraficamente molto vecchia, che non può fare a meno di queste lavoratrici perché non sono soltanto un supporto, ma una parte dell’impalcatura sociale. Quasi vent’anni fa, appena dopo l’approvazione della legge Bossi-Fini, si era corsi ai ripari con una sanatoria per mezzo milione di colf e badanti perché sono l’immigrazione silenziosa di cui non possiamo fare a meno. Una migrazione espulsa dal dibattito pubblico, tanto dai populismi quanto dalle discussioni parlamentari, ridotta ad argomento sociologico o a tema sindacale. Eppure oggi parliamo finalmente di diritti delle donne, di emancipazione, di parità, di usi più rispettosi della lingua: queste storie non possiamo non conoscerle più da vicino. E infine ho visitato la Romania rurale, con una natura incredibile, montagne in lontananza e campi di girasoli sotto gli occhi. Mi sono spostato verso la Moldavia, fuori dall’Unione Europea. Per le moldave (come per le ucraine) è tutto ancora più complicato: bisogna anzitutto procurarsi un passaporto. Chi è emigrata a fine anni Novanta spesso racconta storie rocambolesche per superare i confini. I pullmini che ora siamo abituati a vedere fuori dai capolinea delle metropolitane o sul retro delle stazioni ferroviarie sono arrivati dopo. Il paese di Daniela e dei suoi figli è proprio un piccolo borgo di campagna, come ce ne sono tanti fuori dai centri urbani. Al mercato e per le vie si trovano in maggioranza uomini: fanno la spesa, entrano nelle botteghe, chiacchierano tra le bancarelle. Le donne che si vedono meglio, a parte quelle più anziane, stanno sui cartelli della pubblicità, specie quelli delle compagnie telefoniche. Sono quasi sempre immortalate nell’atto di parlare coi figli. Dai ragazzi, invece, chiacchierando davanti a una birra, ho ascoltato sogni diversi, visioni del futuro inedite e sorprendenti. Ovviamente alcuni - specialmente chi grazie alle rimesse delle madri ha portato a termine gli studi - covano il desiderio di andarsene lontano: sognano le capitali europee o gli Stati Uniti. Ma altri vogliono restare: se andarsene vuol dire seguire la sorte dei genitori, mi spiegavano, allora meglio provare a immaginare un avvenire diverso qui dove siamo nati, cercare di cambiare aspetto a questi posti che, in effetti, sotto la ruvidità del paesaggio possiedono un fascino, come le storie delle loro famiglie, ancora in attesa di essere raccontato. Il figlio più piccolo di Daniela, Manuel, forse per ripicca, forse per contrapposizione a sua madre, desidera trasformare la casa dei genitori e l’orto del nonno in un agriturismo. Vuole ricominciare dai semi dei pomodori e delle fragole. Non vuole che le erbacce e i rami dell’albero coprano il tetto della casa dove è cresciuto. E a me sembrava che quel giovane custode di un mondo fosse la pagina più luminosa della storia che volevo iniziare a scrivere.

Marcinelle, Meloni: «Nessuno paragoni i nostri emigrati a chi oggi sbarca illegalmente in Italia». Sara Gentile domenica 8 Agosto 2021 su Il Secolo d'Italia. «Nell’anniversario del disastro di Marcinelle, dove persero la vita 136 italiani, ricordiamo i nostri connazionali caduti in Belgio cercando un futuro migliore». Giorgia Meloni in occasione del 65° anniversario ricorda la tragedia di Marcinelle. Era l’8 agosto del 1956 quando 262 uomini, tra cui ben 136 italiani, morirono intrappolati nella miniera di Marcinelle, in Belgio. È una delle più grandi tragedie del lavoro che la storia ricordi. I minatori in attività erano 274: solo in 12 uscirono vivi. Tutti gli altri morirono: oltre ai 136 italiani, 95 belgi, otto polacchi, sei greci, cinque tedeschi, cinque francesi, tre ungheresi, un inglese, un olandese, un russo e un ucraino.  «Ancora oggi – scrive la leader di FdI su Fb – qualcuno ha il coraggio di paragonare quegli italiani, emigrati per migliorare la loro condizione e quella della Nazione che li ospitava, a chi sbarca illegalmente ogni giorno in Italia pretendendo solo diritti (col benestare e il supporto di una certa sinistra). Noi continuiamo a rendere onore a quelle vittime, simbolo del sacrificio dei lavoratori italiani nel mondo». Tanti i commenti al post di Giorgia Meloni. Scrive un utente: «Italia, Paese di migranti, lavoratori con documenti e voglia di fare… senza aiuti ma con tanta dignità e orgoglio. I nostri connazionali sì che hanno contribuito a far crescere altri Paesi anche se per molti di loro ci sono state varie Marcinelle». E un altro scrive: «La sinistra specula su tutto e speculerà anche su questo! Ma i paragoni non sono gli stessi e i tempi e le condizioni non sono uguali!!! Un vero legislatore dovrebbe saperlo!». C’è chi ricorda: «A quei tempi vivevo lì vicino, fu spaventoso. Tanti minatori erano italiani». E chi osserva: «In ricordo di chi è partito e non è più tornato e di quegli italiani che oggi lasciano la loro terra per un futuro migliore all’estero. Lavoriamo perché non sia più necessario!».

Marcinelle, il racconto dei superstiti: «Noi italiani illusi, scampati al più grande disastro nella storia delle miniere». Alan David Scifo su L'Espresso il 4 agosto 2021. L’8 agosto del 1956 262 uomini morirono intrappolati sottoterra. 136 erano connazionali, attirati in Belgio dalle promesse dei due governi di una buona paga e condizioni di lavoro sicure. «Condizioni particolarmente vantaggiose vi sono offerte per il lavoro sotterraneo nelle miniere belghe». Questa frase campeggiava nei manifesti rosa affissi in ogni angolo dell’Italia del dopoguerra, dai circoli degli zolfatai, alle chiese rimaste in piedi dopo le distruzioni del conflitto. Veniva venduto come il lavoro della libertà economica, della stabilità, quello nelle miniere di carbone del Belgio, tanto che molti furono affascinati da quei grandi volantini rosa e decisero di preparare la valigia di cartone, prendere il treno con il solo biglietto di andata nelle affollate stazioni del Sud, per andare in quella che era, per molti “L’America”.

Sessantacinque anni dopo, il ricordo di Marcinelle brucia ancora. Urbano Ciacci, 86 anni, uno degli ultimi minatori di Bois du Cazier ancora viventi. Italiano, nato a Fano, nel 1954 ha cominciato a lavorare in miniera a Marcinelle. Nel 1956, durante un congedo per il matrimonio, torna in Italia per sposarsi con Elsa Tonucci. Quando succede la tragedia lui era in viaggio di ritorno a Marcinelle dopo il matrimonio. Conosceva tutti i deceduti.

Quello che si celava però dietro al protocollo italo-belga, firmato nel 1946 dai due paesi, non era scritto sulle tabelle: in cambio di 50 mila emigrati impiegati nelle miniere, l’Italia avrebbe ricevuto carbone, barattato per la partenza di centinaia di migliaia di persone, città intere del meridione svuotate per un patto che sarebbe durato 10 anni. Fino all’8 agosto del 1956, giorno che cambierà per sempre la storia delle miniere di carbone. «Sono arrivato in Belgio che ero giovane», racconta il marchigiano Urbano Ciacci, 86 anni, fisico scheletrico e occhi lucidi. «Nel 1956 ero già da qualche anno al lavoro a Marcinelle, ma quando ho conosciuto questa signorina (dice emozionato indicando la sua compagna di vita) abbiamo deciso di sposarci e siamo tornati in Italia. Il giorno dopo il matrimonio dovevamo partire ma per un disguido non era arrivato il nulla osta per mia moglie. Non potevo lasciarla da sola, quindi ho deciso di ritardare la partenza di un giorno». Quando arriva, il 10 agosto, per il suo primo giorno di lavoro dopo il matrimonio, si reca a Bois du Cazier con la sua tuta blu ma trova soltanto fumo e tanta gente davanti il cancello della miniera: «Alla stazione di Milano avevo letto in un giornale cosa era successo: “Un incendio a Marcinelle, gli operai sono tutti morti”, ma lo nascosi a “ella” sul treno», dice in un italiano che ormai è solo memoria degli anni vissuti a Fano, «altrimenti sarebbe voluta tornare indietro». Quel giorno in più invece gli salva la vita: Urbano Ciacci, infatti, doveva essere una delle tante “medagliette”, precisamente la numero 709, in fondo a quel tunnel che si infiamma uccidendo per l’incendio e per asfissia 262 persone di cui 136 immigrati italiani, partiti dopo quello scriteriato patto che mostrava come sicure miniere in cui invece bisognava lavorare in ginocchio, tra i topi, respirando carbone, con effetti sui polmoni che si sarebbero visti dopo anni. Un banale incidente farà scattare la scintilla che ucciderà coloro che si trovavano dentro la miniera (solo 13 si salveranno) e manderà in fiamme anche lo stesso Patto, messo in discussione subito dopo quella tragedia. Il lavoro “dei sogni”, ben retribuito, come annunciato dai manifesti, nascondeva infatti condizioni di lavoro al limite e scarsa sicurezza, come nel caso dell’incendio che uccise gli occupanti della miniera: due carrelli rimasti sporgenti nell’ascensore, per un’errata comunicazione tra i manovratori, rimasero in bilico durante la fase di discesa e tranciarono i cavi, l’aria compressa, la corrente elettrica, provocando un incendio che fece morire, soprattutto per mancanza di aria, gli occupanti del pozzo. «Le norme sulla sicurezza arriveranno dopo quell’incendio», racconta Vincenzo Mentino, maestro del lavoro, console del Benelux e tra coloro che non hanno voluto cancellare la memoria, creando un museo a Bois Du Cazier. «Le cose non stavano come venivano raccontate dai manifesti, per questo noi vogliamo mantenere vivo il ricordo di chi non c’è più e abbiamo fatto di tutto per evitare che questo luogo diventasse un centro commerciale». A Charleroi, dove si trova Marcinelle, adesso diventato un museo che accoglie centinaia di migliaia di persone l’anno, tutto parla di miniera e anche in ospedale alcune gigantografie ricordano che quello è il paese del carbone, e quella che rimane una delle più grandi tragedie europee avvenute sottoterra. «Quello che mi sono trovato davanti non era bello», racconta ancora Urbano Ciacci mentre fa partire con un fiammifero la vecchia lanterna che usava lui in miniera. «C’era chi gridava e chi piangeva, chi cadeva per terra dopo una notte passata ad aspettare buone notizie». Queste non arriveranno mai, e Urbano continuerà a lavorare per un altro decennio in quella miniera diventata simbolo di morte. Ma chi era arrivato qualche anno prima non sapeva a cosa andava incontro: «Io in Italia avevo tanti debiti», ricorda Valentino Di Pietro, 86 anni, che ha assistito alla tragedia di Marcinelle ma lavorava in una miniera vicina. «Nei manifesti non lo dicevano che era un lavoro duro, che bisognava lavorare in miniera almeno 5 anni, altrimenti non potevi mettere più piede in Belgio. Per il taglio del carbone dovevamo stare in ginocchio e quando uscivamo dalla miniera eravamo così neri che le mogli che aspettavano fuori non ci riconoscevano e baciavano un altro minatore». Ci scherza su, Valentino, giurando che a lui è accaduto, mentre nella sua casa pagata con il sudore della miniera prepara il caffè, italiano nelle intenzioni, ma lungo, come quello belga, segno del paese dove ormai ha messo le sue radici, perché è quello che comunque gli ha dato un lavoro. Quel lavoro però era rischioso e chi ogni giorno scendeva in miniera dava due baci ai figli, nel caso non dovessero tornare più in superficie. Tra coloro che se lo aspettavano c’era Ciro Natale Piccolo, della provincia di Udine, anche lui partito dopo la firma del protocollo Italia-Belgio, siglato da De Gasperi, come ricordano tutti. Morto a 30 anni quell’otto agosto, ogni giorno imprecava e bestemmiava, come ricorda la figlia: «Mio padre diceva sempre che un giorno sarebbero morti tutti come topi se fosse successo qualcosa», racconta Loris Piccolo, che vive ricordando ogni giorno il padre nella sua casa a due passi dalla miniera. «Quel giorno mia madre vide il fumo e si mise a correre veloce verso la miniera. Quando tornò ci disse che non avremmo più rivisto nostro padre». È arrabbiata Loris, che nella sua casa di uno stile che ricorda l’Italia degli anni 60 ha tutti i giornali di quel giorno, dei processi che sono seguiti per cui non pagò mai nessuno, nonostante le accuse all’azienda, e tiene anche una copia di quel manifesto rosa, simbolo di tradimento: «Macché bene. In Belgio pagavamo 40 franchi al giorno per stare nelle baracche d’alluminio dove prima mettevano i prigionieri della Seconda guerra mondiale, loro costretti con la forza a lavorare in miniera». Una schiavitù, appunto, seppur pagata, relegata prima ai prigionieri di guerra e poi agli italiani costretti a firmare per almeno 5 anni, altrimenti dovevano tornare in patria. La stessa realtà era stata pure mostrata in un film commissionato al regista belga Paul Mayer dal ministero per l’Istruzione, poi censurato dallo stesso, con addirittura l’accusa per il direttore di appropriazione indebita di fondi statali. In “Déjà s’envole la fleur maigre”, Mayer, attraverso l’utilizzo di attori-minatori italiani, aveva descritto tutte le storture del patto, le sofferenze di ragazzi umiliati sottoterra da un lavoro straziante e le condizioni di lavoro al limite della sopravvivenza. Il governo voleva invece una pagina patinata che onorasse le miniere. Solo pochi anni fa quel lavoro è stato mostrato al pubblico, mentre Paul Mayer, apprezzato regista, è morto isolato dal suo stesso paese perché aveva messo davanti alla telecamera la cruda realtà. La stessa che venne mostrata alle centinaia di persone che stavano davanti il cancello di Bois du Cazier, quell’otto agosto di 65 anni fa, quando invece la storia del Belgio, delle miniere e degli emigrati in Italia partiti in cerca di un futuro migliore cambierà per sempre. Tutto andrà in fumo, come quei corpi i cui nomi oggi vengono ricordati in una stanza in maniera continua dA una cantilena ridondante e ininterrotta che rompe il silenzio nel museo di Marcinelle.

IN RICORDO DI ROCCO BERTERAME, IL LUCANO CHE ERA IL SIMBOLO DELL’EMIGRAZIONE. Il Sud Online il 9 marzo 2021. “Rocco Berterame, deceduto ieri in Belgio, era il simbolo dell’emigrazione lucana ai tempi dello scambio braccia-uomo per un sacco di carbone. Carbone mai arrivato che serviva alle stesse famiglie dei minatori lucani e meridionali, per scaldarsi nelle baracche in cui erano costretti a vivere. Le baracche di Maassmechelen, Genk, Beringen erano servite a tenere prigionieri russi prima e tedeschi poi e dunque trasformate in case per italiani da tenere sotto controllo e da non avere libertà di movimento se non per andare a lavorare in miniera. Rocco Berterame – ricorda Scaglione – era nato il 2 Marzo del 1924 ad Abriola in provincia di Potenza, emigrato in Belgio il 1947. Nel 1950 aveva sposato Agnes Bollen e diventato poi uomo di fiducia dell’ingegnere direttore della miniera di Beringen, tanto da esserne nominato custode, prima durante il lavoro e poi quando la stessa è diventata Museo a memoria del sacrificio di tanti italiani. Lo avevamo incontrato a novembre del 2016 quando fu da noi premiato come testimone dell’emigrazione lucana, nel corso della manifestazione promossa da Antonio Friggione nella vicina Maassmechelen e riconosciuto come l’uomo che dava voce alla sofferenza degli italiani diventandone anche difensore dei loro diritti insieme al grande Leonardo Cristiano da noi celebrato nel Museo dell’Emigrazione Lucana di Lagopesole. La sua scomnparsa ci rattrista, ma la sua testimonianza scritta e in video, voluta dalla Tv belga e italiana, resterà come meoria perenne, sperando che resti tale anche nelle scelte e nelle iniziative lucane proprio nei giorni in cui si sta celebrando la IV Conferenza Plenaria Stato-Regioni-PA-CGIE voluta dal Consiglio Generale degli Italiani all’Estero presieduto dal Segretario Generale, Michele Schiavone. Un messaggio di cordoglio è venuto amnche dal Sindaco di Abriola, Romano Triunfo”. Luigi Scaglione, Presidente Centro Studi Internazionali Lucani nel Mondo, Cabina di regia Conferenza Plenaria. FONTE: lasiritide.it

Invisibili. Foto e testo Ivo Saglietti su Insider Over l'1 marzo 2021. Ci sono quasi 2mila chilometri tra Aleppo e Idomeni, in Grecia, al confine con la Macedonia del Nord. In auto, se tutto va bene, ci vogliono 20 ore e 38 minuti, a piedi 350 ore, 15 giorni camminando giorno e notte, 30 giorni camminando 12 ore al giorno. Idomeni, Grecia, confine ferroviario con la Macedonia del Nord. Ero lì nel 2016. Ci arrivai con un pullman insieme ad una trentina di profughi siriani; la prima fotografia che feci mostra una sola tenda, un palo piegato e un bambino che tira calci ad un pallone. Il giorno seguente i pullman furono quattro e le piccole tende si moltiplicarono: quattro, dieci, cento, le persone: uomini, donne, vecchi e bambini arrivarono a migliaia. I siriani nella fuga non abbandonavano nessuno, nemmeno il vecchio padre sulla sedia a rotelle. Fuggivano da Bashar al Assad e da una guerra terribile: fuggivano dai russi e dagli americani. Arrivarono anche le Ong, la polizia e l’esercito da una parte e dall’altra del confine. Un confine debole, giusto un po’ di filo spinato. Per il momento nessuna barra. Nessuna garitta. Pochi controlli. Cominciarono le code per un po’ di cibo, per qualche abito o per una visita medica. Grazie ad Angela Merkel, che offrì visti di ingresso in Germania, iniziarono i primi passaggi in Macedonia del Nord in modo ordinato; mano a mano che gli arrivi aumentavano la frontiera si stringeva, si alzavano reti e reticolati e la polizia si irrigidiva. Arrivarono il freddo la pioggia e giorni di fango e poi la frontiera si chiuse come una clessidra sulla rabbia dei profughi che passavano oramai come granelli di sabbia. Ricordo quelle giornate al confine nel fango e sotto la pioggia, uomini e donne infreddoliti che si accalcavano, bambini silenziosi sulle spalle dei padri e sedie a rotelle spinte con fatica. Poi iniziarono le proteste, i tentativi di sfondare i reticolati e i gas sparati dai macedoni. Con gli scontri arrivarono a decine fotografi e giornalisti. Ora la tragedia faceva notizia. Ci sono quasi 6500 chilometri da Islamabad, Pakistan, a Bihac, in Bosnia. Da Kabul a Belgrado 5400 chilometri. In auto, se tutto va bene, ci vogliono 79 ore. A a piedi 1253, 53 giorni camminando giorno e notte, 100 giorni camminando 12 ore al giorno. A Belgrado i migranti vivono in un capannone abbandonato della stazione centrale. Non c’è luce e nemmeno finestre. Siamo avvolti dal fumo dei fuochi accesi. Bruciano di tutto, compresa la plastica, e la puzza di diossina ti entra nel naso e in bocca. Una sola fontanella all’esterno serve per bere, lavarsi e preparare un po’ di minestra calda. Nessuno li controlla. Nessuno li assiste. Tranne un furgoncino con targa inglese che arriva per portare il pranzo. Allora si mettono in coda, disciplinati, e prendono i piatti di plastica con il cibo. In piedi o accucciati mangiano quello che hanno portato loro (ah, quei piatti di plastica li ho visti ovunque nei campi: da Ceuta a Lampedusa da Otranto a Idomeni, sempre uguali, sempre bianchi e sempre mezzi vuoti). Possono uscire e nessuno lo impedisce: poche centinaia di metri fino ad un parco sul Danubio che oramai i belgradesi evitano. Qualcuno l’ho incontrato al bar dell’Hotel Istanbul,. Lì fa caldo e passano ore chiacchierando e bevendo caffè turco. Non sembrano ansiosi di rimettersi in cammino. Non molto lontano dalla stazione, gli arabi del Golfo stanno costruendo due enormi palazzi e questa sarà la ragione per il loro trasferimento altrove. A Bihac, in Bosnia, in un vecchio palazzo ci sono centinaia di profughi pakistani e afgani (come non distinguerli). Qui, oltre alle finestre, mancano anche le porte: dormono a gruppi di tre quattro sotto le coperte oppure camminano e fanno la coda, controllati da qualche agente nervoso. Una coda lunga per ogni cosa. Anche qui per un po’ di cibo, qualche vestito o medicine. Un gruppo, fuori, ha acceso un fuoco. Cucina una frittata e quel pane sottile che ricorda il nostro carasau: è il pane di casa loro e, probabilmente, ha il sapore della memoria. Aspettano e si rinfrancano prima di di incamminarsi verso Velika Kladuša a 57 chilometri verso nord. Lì c’è il confine con la Croazia, l’Europa e il sogno. A Velika si radunano vicino ad un ristorante. Un proprietario generoso offre un piatto di pasta o zuppa ad ognuno di loro. E anche a me. E’ calda e buona quella minestra. Fuori, seduto per terra, un volontario di Sarajevo cura le ferite inflitte dalla polizia di Zagabria a quelli che hanno cercato di attraversare il confine. “Ci ho provato 15 volte”, mi dice un ragazzo afgano alto e magro, “mi hanno preso tutto, distrutto il cellulare e bastonato sulle gambe, domani ci riprovo poi ci accompagna al campo di partenza verso il confine, l’ultima tappa sarà tra i boschi e le mine dell’ultima guerra balcanica poi, a Dio piacendo, l’Europa e la Germania”. Piove e fa freddo tra le tende del campo, tra la sporcizia e il fango. Tutto sembra provvisorio: anche gli aiuti (qualche scatoletta di tonno o sardine). Alcuni giovani hanno montato un samovar e distribuiscono del tè tiepido in bicchieri di plastica che regolarmente finiscono per terra. un furgone della Crbh arriva per la distribuzione del pranzo ma non ha molto successo. Non si fidano, mi dice una infermiera, ma non ne capisco le ragioni. Ora comincia a piovere forte e scende la notte. E’ giunta l’ora di partire. Il confine con la Croazia non è lontano. L’Europa li aspetta con i bastoni e le armi.

"Non ho avuto la fortuna di fare l'esperienza col barcone". Meta imbarazza con una gaffe. Uno scivolone imbarazzante per il cantante Ermal Meta che ha fatto dell'ironia di dubbio gusto sugli immigrati imbarcati sui gommoni. Rosa Scognamiglio - Gio, 04/03/2021 - su Il Giornale. "Non ho avuto la fortuna di fare l'esperienza col barcone". E in studio cala il gelo. Una sortita di dubbio gusto quella del cantante Ermal Meta che, nel corso di un intervento al programma televisivo Oggi è un altro giorno, condotto dalla giornalista e presentatrice Serena Bortone, ha ironizzato con troppa leggerezza sul problema dell'immigrazione clandestina. In collegamento da Sanremo, dove partecipa alla settantunesima edizione del Festival con il brano Un milione di cose da dirti, Ermal Meta ha raccontato ai microfoni della trasmissione di Rai1 l'emozione di partecipare alla kermesse canora per la quarta volta nella sua carriera. Stasera si esibirà nuovamente sul palco del teatro Ariston: "Sono emozionato, è un palco stra-importante. - ha dichiarato - Pubblico sì o no, l’emozione è sempre la stessa”. Tutto bene fino a quando la conduttrice non ha ripercorso il vissuto personale dell'artista. "Sappiamo che tu sei arrivato in Italia a 13 anni su un barcone", ha detto Serena Bortone commettendo una gaffe. Immediata la replica del cantante che, nel tentativo di smentire la giornalista, è inciampato in un'altra gaffe. "In realtà io non sono mai arrivato sul barcone. - ha risposto - Mi sarebbe piaciuto molto perché il contatto con l’acqua lo adoro. Non ho avuto la fortuna di vivere questa esperienza”. Una sortita di dubbio gusto che ha fatto calare il gelo in studio per qualche secondo. Come molti già sapranno, Meta è nato a Fier, in Albania. All'età di 13 anni si è trasferito con la madre, la sorella e il fratello in Italia, a Bari, per sfuggire - secondo quanto avrebbe dichiarato in alcune interviste - dal papà violento. Ed è questo il motivo per cui la gaffe, per quanto dettata verosimilmente dall'emozione, è apparsa ancor più fuori luogo e inappropriata. Intanto, stasera, Meta salirà per la seconda volta in questa edizione del Festival sul palco dell'Ariston: canterà il brano Un milione di cose da dirti.

Quel giorno a Brindisi in cui gli albanesi vennero considerati fratelli. Il 7 marzo 1991 venticinquemila profughi arrivano al porto su barche di fortuna. Le autorità sono impreparate ma tra la gente nasce una straordinaria mobilitazione. Un episodio indimenticabile. Anche perché è durato poco. Roberto Di Caro su L'Espresso il 4 marzo 2021. «È buio quando alle 7 di sera la nostra nave finalmente getta l’ancora ma Brindisi è tutta illuminata, sembra New York: perché il paradiso, si sa, è inondato di luce, e le vetrine brillano, la tv è a colori, c’è un telefono in ogni casa, le donne ballano come Raffaella Carrà e ridono come Loretta Goggi. Abbiamo freddo e fame, accovacciati da trenta ore in un angolo a poppa in mezzo ad altri ottomila come noi, uomini, donne, bambini, minori senza nessuno. Siamo gli ultimi, è dalle 10 di mattina che in porto attraccano navi come alveari galleggianti. Le banchine sono già invase da migliaia di profughi, gli elicotteri ci volteggiano sulla testa lanciandoci bottiglie d’acqua e sacchetti di zucchero. Qualche pazzo si tuffa in mare, gli altri spingono per scendere: una volta a terra, dicono, nessuno ci potrà più rimandare indietro...». Sbarcheranno verso le 11 di notte, Astrit che racconta e i suoi due amici, Silvan e Roland. Il conto dell’esodo di quella sola giornata del 7 marzo 1991 arriverà a 25 mila profughi da 24 tra pescherecci di varia stazza e grandi mercantili come la Lirja, il Tirana, l’Apollonia, ultima la Legend, bandiera panamense e capitano greco: senza precise avvisaglie, solo radi segnali premonitori e senza che gli stessi protagonisti avessero deciso alcunché poche ore prima di gettarsi nell’avventura destinata a ribaltare le loro vite. Il Governo italiano ci metterà un giorno e mezzo prima di riuscire a muovere un dito. Brindisi, con i suoi 80 mila abitanti, i suoi problemi di disoccupazione e Sacra corona unita, si ritrova a fronteggiare da sola una catabasi alla quale nulla e nessuno l’ha preparata. Può finire in un disastro, le premesse ci sono tutte: una massa di disperati, un’invasione, numeri incontenibili. Invece, accantonato in fretta l’iniziale stordimento, la città, le sue istituzioni e associazioni e corpi, e decine di migliaia di brindisini, prendono l’iniziativa, si mettono in gioco, ribaltano una tragedia annunciata in una delle pagine più encomiabili della recente storia patria. Un passo indietro e 83 miglia nautiche a est, i 154 chilometri che in linea d’aria dividono Durazzo da Brindisi. L’Albania da cui chi può fugge appena s’apre uno spiraglio, senza un soldo in tasca e col vestito che ha addosso, è un paese al collasso. Morto nell’85 Enver Hoxha, il piccolo Stalin dei Balcani, paranoico dittatore dal ’44 (vedere a Tirana il Museo dei Servizi segreti alla Casa delle foglie o le decine di migliaia di bunker costruiti in ogni dove in vista di un’invasione), fallite le riforme economiche e le timide aperture al pluralismo del suo delfino Ramiz Alia, il regime sopravvive come un cadavere al quale ancora non hanno detto che è già morto: con la sua nomenklatura, i suoi rituali, la sua polizia politica prima onnipotente ora inane e stracciona.

Tutt’intorno, caduto il muro di Berlino, la Ddr è uno scheletro vuoto, le rivoluzioni dell’89 nell’Est Europa hanno abbattuto come birilli gli altri regimi del “socialismo reale”, l’arcinemica Jugoslavia in mano a Miloševic si dissolverà nel giro di quattro mesi dai fatti che qui si raccontano. Una fuga di massa dall’Albania c’è già stata: il 2 luglio del ’90, mentre in Italia si gioca il Mondiale di calcio, in quasi cinquemila scavalcano le mura e i cancelli delle ambasciate occidentali a Tirana, dopo una difficile trattativa il 13 li imbarcano a Durazzo, da Brindisi li trasferiranno negli Stati disposti a dare asilo. A ottobre, colpo durissimo per il regime che perde l’ultima sponda per trattare un cambiamento col contagocce, espatria e ottiene asilo politico in Francia Ismail Kadare, il più autorevole scrittore albanese. A dicembre scendono in piazza gli studenti dell’Università di Tirana. Ramiz Alia legalizza i partiti e concede elezioni per fine marzo, ma ormai l’argine è rotto, per il disperato come per l’intellettuale la speranza è l’espatrio, la fuga, l’Italia: Lamerica, come tre anni dopo racconterà il film di Gianni Amelio. Astrit (di cognome fa Cela, oggi è funzionario Infocamere a Milano, sposato con un’italiana, due figli, fondatore dell’Associazione Albania e futuro) non è neppure tra i disperati. Ha 26 anni, insegna letteratura e francese in una scuola media di provincia a Skrapar, dalla tv ha una discreta conoscenza dell’italiano. Il più grande dei suoi cinque fratelli e sorelle è docente di filosofia alla Scuola centrale del Partito, funzionario di alto rango del regime: «Ci ritroviamo la mattina del 6 marzo in un bar di Tirana. Sa che me ne voglio andare, io temo rappresaglie contro di lui. “Ormai sei grande”, mi dice, “devi pensare alla tua vita”. Ci abbracciamo. Le ambasciate però sono chiuse, i carri armati pattugliano le strade, la stazione è bloccata. Silvan, insegnante di inglese e Roland, suo fratello, ingegnere civile, li incontro per caso, riferiscono voci di navi in partenza da Durazzo verso l’Italia. Un camion ci porta lì in un’ora, il soldato che ci dovrebbe fermare butta via il fucile e salta con noi sul cargo: nessuno chiede soldi, nessuno paga, è una fuga, non un traffico di esseri umani. Sono le 2 di pomeriggio. Ci spareranno, ci arresteranno? Qualcuno lascia, noi aspettiamo. Notte all’addiaccio, macchine spente. Solo alle 6 di mattina del giorno dopo, il fatidico 7 marzo, la Legend molla gli ormeggi e con una lentezza esasperante comincia il suo viaggio. Il mare è calmo, la giornata calda, a lungo ci accompagnano i delfini. Verso mezzogiorno uno scoppio di euforia, “libertà, libertà”, le dita a V di vittoria: siamo entrati in acque internazionali». In tasca Astrid ha un oggetto proibito sotto il regime: mai sentito il nome di Madre Teresa di Calcutta, albanese e Nobel per la pace, ma tre giorni prima quello scricciolo di suora se n’era arrivata a Tirana e aveva aperto una casa di accoglienza: incuriosito, Astrit s’era unito alla folla che la applaudiva, lei dal balcone aveva gettato rosari per tutti. Il suo, lo terrà in tasca per tutta la traversata. La Brindisi che trova, quando alle 11 di notte sbarca infine dalla Legend, è una città scossa, impreparata, disorientata. A capo della locale Caritas è Bruno Mitrugno, bancario di 47 anni, che per assistere i profughi si giocherà le ferie dell’intero anno: «I primi arrivati sciamano lungo i due corsi del centro, Garibaldi e Roma: senza controlli, ma senza incidenti, sul viso dei più giovani un misto di gioia e stupore. La maggior parte è però ancora accovacciata sulle banchine e lì resterà per la notte, i più anche quella successiva: al riparo di teli di plastica bianca messi a disposizione da un’industria locale, nutriti alla bell’e meglio da volontari e cittadini con pane, latte, biscotti, ciò che uno ha in casa, inclusi pannolini, coperte, vestiti. È una mobilitazione spontanea: a centinaia vengono subito ospitati in casa dai brindisini: impensabile, oggi. Tutti fanno la loro parte, persino i contrabbandieri di sigarette che da poco hanno strappato a Napoli la palma del malaffare. C’è un solo grande assente, nei primi giorni: il Governo italiano». All’avvistamento delle navi, gli ordini impartiti alla Capitaneria di porto erano stati di impedire l’attracco e rispedire tutta quella gente a casa sua, se la passano liscia stavolta ne arriveranno altre decine o centinaia di migliaia. Fallito il tentativo, non c’è nessun piano di riserva: il Coordinamento della Protezione civile è un ministero senza portafoglio, titolare Vito Lattanzio, pugliese, la struttura un semplice dipartimento con duecento persone e mezzi inadeguati, che «di civile conserva solo il nome», riconoscerà lo stesso Claudio Martelli, vicepresidente del Consiglio nel sesto governo Andreotti allora in carica. Mentre le immagini choc fanno il giro delle agenzie e arrivano inviati e tv di mezzo mondo è una telefonata a vincere la riluttanza degli apparati dello Stato. Monsignor Settimio Todisco, grande vescovo, girata la città fin dall’alba, chiama il prefetto Antonio Barrel e gli dice testualmente: «Eccellenza, se lei non apre subito le scuole all’accoglienza, io stasera aprirò ai profughi tutte le Chiese». La sera dell’8 marzo la prefettura requisisce 34 elementari e medie. Il 9 mattina un lancio dell’Ansa riferisce che è in corso il trasferimento delle persone dal porto agli edifici scolastici. Si aprono le porte della stazione marittima, rifugio in cortile e sotto i portici, e di un deposito militare in disuso nella frazione di Restinco. Altri profughi vengono dislocati a Ostuni, Villa Speranza della Diocesi, e a Molfetta dall’anomalo vescovo don Tonino Bello, fondatore di Pax Christi, l’anno appresso in marcia fin dentro la Sarajevo accerchiata e in guerra, ora beato. Sono già passati due giorni dal primo sbarco. Retto il violento impatto iniziale, tocca dare forma all’assistenza di fortuna di una massa gigantesca di sbandati. Racconta Mitrugno della Caritas: «Una vera cabina di regìa non c’è. Ci coordiniamo, noi, la Croce Rossa, i sindacati, le associazioni, gli ospedali, il sindaco: ma con il sistema del tam tam. Nutrire cento o duecento persone non è impresa impossibile, con grandi pentole e chili di fagioli ce la puoi fare: la gente regala il cibo, i volontari lo cucinano come possono. Più arduo è prendersi cura delle persone. Nelle scuole adibite a centro d’accoglienza mancano i letti, si dorme per terra, donne e bambini sui materassi portati da comuni cittadini. Nel marasma, mariti, mogli, figli si perdono di vista: inventiamo allora un telefono per i ricongiungimenti familiari. I bagni sono un grave problema, tant’è che quando tutto finirà dovranno essere rifatti nuovi ovunque. Le prime cucine da campo le vedremo soltanto quando, il quarto giorno, arriverà l’esercito. E, assieme ai militari, i primi politici: scesi dalla macchina, la prima cosa che chiedono è “Dov’è la stampa?”. Un’ultima notazione: si vociferava di una massa di delinquenti fuggita dalle carceri albanesi e confusa tra gli altri sulle navi. Bene, neanche una mela fu rubata in quei giorni». Nelle settimane a seguire vengono requisiti campeggi e villaggi turistici lungo la costa salentina, ai migranti è concesso un permesso di soggiorno straordinario di un anno, Governo e Regioni trovano una quadra per ridistribuirli, c’è chi favoleggia di mandarli nel Kuwait da ricostruire dopo la guerra del Golfo. In realtà si disperdono presto in mille rivoli: storie diverse, chi avrà successo in Italia e resterà, chi vi imparerà un mestiere e tornerà a investire in Albania, anche chi si perderà, certo. Il racconto non può però tacere che il vento dell’opinione pubblica cambierà molto in fretta. L’8 agosto la nave Vlora è respinta a Brindisi e rimorchiata a Bari, i suoi 20 mila fuggiaschi chiusi nello stadio in condizioni abnormi, la gran parte verrà rimpatriata. Cinque anni dell’iperliberista Sali Berisha al potere dal ’92 e il paese è di nuovo allo sfascio, città intere in mano a bande criminali: gli sbarchi ricominciano, il Venerdì Santo del ’97 la nave militare Sibilla sperona per errore la motovedetta Kater i Rades, muoiono in 108, il governo Prodi dispone un blocco navale. Nell’immaginario collettivo l’albanese non è più il fratello da aiutare, ma il criminale che ruba, spaccia e costringe le sue donne a prostituirsi. Oggi la comunità, quasi mezzo milione, è la meglio integrata in Italia. Ma ci sono voluti trent’anni. Quel 7 marzo 1991 è rimasto una strana, felice, imprevedibile eccezione.

«Quando arrivarono gli albanesi c’era chi voleva chiudere tutto. Io invece dissi: aiutiamoli, sono solo infreddoliti».

Giuseppe Marchionna era il giovane e inesperto sindaco di Brindisi quando ci fu lo sbarco di 25mila persone dal paese balcanico. Con il megafono invitò i concittadini alla solidarietà. «Rifarei tutto. Ma poi lo Stato ci abbandonò”. Patrizio Ruviglioni su L'Espresso il 4 marzo 2021. Giuseppe Marchionna ha solo trentasette anni quando, da sindaco di Brindisi, affronta l’emergenza umanitaria dello sbarco dei 25mila albanesi. «E credo che l’età abbia inciso: con un politico anziano della Prima Repubblica, uno di quelli “ordine e disciplina”, non sarebbe andata così», ricorda oggi parlando con l’Espresso. «Poi è stata questione di mentalità: la mia è libertaria e internazionalista; mi capitasse adesso, a quasi settant’anni, farei le stesse scelte». E cioè: dare un messaggio di solidarietà e accoglienza là dove sta per montare la paura. «Ma mi ero reso conto subito che si trattava di disperati: non ho più visto tanta miseria come quel giorno». Eletto nell’agosto del 1990 in quota socialista, al momento della crisi Marchionna vanta poca esperienza e giusto qualche contatto a Roma. «Il Psi era al governo, ma arrivavano notizie vaghe: pescherecci al largo della costa, una sorta di blocco navale e nient’altro. Poi si alza il libeccio, si rischia un’ecatombe e allora si opta per farli attraccare nell’area più esterna del porto». È il tardo pomeriggio di mercoledì 6 marzo, con «la gente inquieta alle finestre e il silenzio squassato da qualche sirena». Nessuno ha idea del numero di persone che nella notte sbarcheranno fin sulle banchine del centro storico. «Il 7 mi alzo presto e vado in Comune. Piove fortissimo. Mi informano: gli albanesi hanno rotto gli argini che le forze dell’ordine avevano creato per contenerli». In venticinquemila sono in giro per la città, la polizia gli suggerisce di chiudere tutto. «D’istinto, da solo, decido per il contrario». Convoca giornalisti e soprattutto radio locali, «perché all’epoca garantivano il passaparola». Quindi registra un appello da trasmettere ogni quindici minuti: «Aiutiamoli, sono solo spaventati e infreddoliti». In alternativa, ci dice, scoppia la guerra etnica. «Eravamo la capitale adriatica del contrabbando di sigarette, con tanto di bande. Sarebbe bastato che un barista avesse risposto male a uno di loro per far scattare la violenza. Ma bisognava soccorrerli in ogni caso: non si chiude la porta in faccia a chi muore di fame». E cittadini e autorità locali lo capiscono subito, questo, anche se non è scontato. «All’inizio la tensione è terrificante. Nei giorni successivi lavoro con orari massacranti: telefono alle mense aziendali per cucinare dei pasti, insieme al prefetto adibiamo scuole a dormitori, grazie agli interpreti ricongiungiamo famiglie. E i cittadini si mobilitano: alcuni lanciano cibo dalle finestre, altri li accolgono in casa mentre le massaie portano pentole di pasta a chi resta fuori. Ricordo addirittura delle tavolate collettive nei quartieri popolari». E intanto, nel suo ufficio, è un pellegrinaggio – Occhetto, La Malfa, Martelli – per ringraziarlo. «Ma solo lunedì 11, dopo averci abbandonati per giorni, il governo invia l’esercito con tende e cucine da campo, come chiedevo dall’inizio». Perché tanto ritardo? «Ho un’idea: mandare le forze armate in aiuto degli albanesi era come dire che li avremmo accolti tutti; e lo Stato non voleva dare un messaggio di solidarietà». A quello, semmai, ci pensarono Marchionna e i brindisini.

Brindisi, Pjerin Gjoni 30 anni fa sbarcò dall'Albania: oggi è medico contro il Covid. Era tra i 24mila che sbarcarono in massa a Brindisi dall’Albania trent'anni fa, il 7 marzo del 1991. Quando arrivò aveva 35 anni e già una laurea in medicina. La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Marzo 2021. Era tra i 24.000 che sbarcarono in massa a Brindisi dall’Albania trent'anni fa, il 7 marzo del 1991. Quando arrivò aveva 35 anni e già una laurea in medicina ma una volta in Italia ha dovuto rifare tutto e oggi presta servizio al 118 della città che lo ha accolto da giovane, ed è in prima linea contro il covid. Pjerin Gjoni, albanese di Durazzo, non mancherà alle celebrazioni per il trentennale dall’esodo albanese che si stanno organizzando per domenica prossima 7 marzo. «E' stata una mia scelta restare qui - racconta - per ricompensare l’Italia, Brindisi, per quello che è stato fatto per me, per il mio popolo». Gjoni ha un ricordo nitido di quel che accadde allora: «Le luci della città restarono accese per tre giorni e tre notti, fummo accolti in casa dalla gente, io sono stato ospitato per un mese intero». Oggi indossa il camice, tutti i dispositivi di protezione individuale, e presta soccorso agli altri: «E' un modo per restituire almeno un pò a un popolo che ha dato tanto, che merita di essere messo sul piedistallo per la sua solidarietà».

LA STORIA -  Trenta anni fa arrivò a Brindisi insieme a un fiume di connazionali albanesi: «Non cercavamo ricchezza, ma libertà», racconta. Oggi Pjerin Gloni ha 65 anni, è italiano nel cuore e sul passaporto e fa il medico del 118. Ogni giorno è in prima linea nella lotta al covid e col suo lavoro in questo anno di pandemia ha soccorso e aiutato quei concittadini che nel marzo del 1991 a loro volta lo accolsero e aiutarono. E’ sempre rimasto per scelta a Brindisi, dove si è creato una famiglia. Pjerin racconta la sua storia con gioia. Ricorda ogni dettaglio di quei freddi giorni di marzo del 1991 a bordo di una delle prime carrette del mare che da allora in poi portarono decine di migliaia di albanesi disperati sulle coste pugliesi: "Fu il maltempo a salvarci. C'era mare grosso, dovettero per forza lasciarci arrivare in Italia». Ma nei suoi ricordi è impressa l’enorme macchina dell’accoglienza che fu allestita in poche ore: «Il sindaco di Brindisi, Pino Marchionna era giovanissimo. Le luci della città rimasero accese per tre giorni, fummo accolti in casa dalla gente. Quello che è accaduto allora meriterebbe di essere ricordato sempre, con una ricorrenza». Quando arrivò, Gjioni aveva 35 anni e una laurea. Ma non poté far valere il suo diploma anche in Italia. Dovette nuovamente iscriversi all’università, a Bari: «Mi sono specializzato anche in virologia, ma ho scelto il 118» per salvare vite, per restituire tutto ciò che gli è stato dato. «Il mio popolo ce l’ha nel Dna: se si riceve qualcosa, poi deve ricambiarlo in misura dieci volte superiore». Nel prossimo weekend si celebrerà il trentennale dell’esodo dei profughi albanesi sulla costa brindisina. C'è un programma fitto di iniziative. Nei giorni scorsi il console generale d’Albania, Gentiana Mburimi, ha incontrato il sindaco di Brindisi per discutere degli ultimi dettagli della visita del presidente del consiglio albanese Edi Rama. Il medico ormai brindisino d’adozione, non trattiene l'emozione ricordando quei giorni. Negli anni che sono trascorsi, da allora, ha incontrato gli studenti delle scuole, ha narrato mille volte quel «miracolo» che si realizzò con l'opportunità di avere una seconda vita. «Sarebbe bello - dice - ritrovarsi tutti qui, un giorno. Tutti coloro i quali sono stati accolti all’epoca. C'è chi è diventato imprenditore, chi ha studiato. Brindisi sarebbe invasa». «Non fu facile, per nessuno - conclude - E ora l’incredibile, spontanea, accoglienza di quei giorni non va dimenticata».

Le navi bianche che salvarono gli italiani fuggiti dall'Africa. Per salvare gli italiani dell'Africa Orientale, fu inviata una flotta di vecchi transatlantici incaricati di riportare in Italia donne, bambini e anziani. Una storia dimenticata. Davide Bartoccini, Giovedì 11/02/2021 su Il Giornale. Dopo una lunga e sofferta trattativa tra il governo Londra e quello di Roma, furono quattro bastimenti di oltre ventimila tonnellate di stazza ciascuno, dipinti interamente di bianco con grandi croci rosse sulle murate - la Saturnia, la Vulcania, la Caio Duilio e la Giulio Cesare - a riportare in patria decine di migliaia di uomini anziani, donne a bambini italiani che erano rimasti prigionieri in quella che un tempo era nota come AOI, l’Africa Orientale Italiana: possedimenti coloniali che caddero pezzo dopo pezzo in mano ai britannici pronti ad internare militari e civili nei campi di internamento sparsi sul continente. Una pagina della nostra storia poco conosciuta. Un'odissea lunga e pericolosa che prevedeva la circumnavigazione del "continente nero” - dato che non venne concesso dagli inglesi di attraversare il canale di Suez. Iniziata nel 1942, quando le "Navi bianche" salparono per la prima volta dai porti di Massaua e Berbera al suono della marcia reale, e terminata solo nell’agosto del 1943 con l'ultimo attracco nel porto semidistrutto di Taranto. Questo mentre nelle acque del Mediterraneo incombeva la guerra; i sommergibili, gli aerosiluranti, e gli incrociatori delle due fazione si davano battaglia; e i britannici minacciavano di abbordare le navi bianche alla minima comunicazione di carattere “bellico” con la Supermarina italiana. Sarebbe stato considerato come un atto di ostile che avrebbe privato del lasciapassare neutrale il convoglio. Cinquanta giorni in mare. Per coprire oltre 10mila miglia dalla costa orientale fino a Capo di Buona Speranza, e poi su, fino a Gibilterra. Ammassati, logorati nel morale per la separazione dai cari e per il futuro incerto, spossati dal caldo africano, dalle privazioni e dai malanni: fu' questo il riassunto dei diari di bordo compilati in quattro viaggi dai comandanti e dai medici imbarcati, che raccontarono quella prima “grande missione umanitaria” che permise i rimpatriati da Etiopia, Eritrea e Somalia e mise definitivamente la parola fine al colonialismo italico. Quello era solo il "secondo" passo verso una madrepatria distante, diversa, che molti non avevano nemmeno mai visto: una madrepatria in larga parte affamata e affaticata, ridotta allo stremo, che non sapeva come e dove accogliere altri sfollati. I "rifugiati nazionali", così vennero chiamati, furono: "costretti ad abbandonare case e averi, concentrati dai britannici in campi provvisori e da lì inviati a Berbera (in Somalia, o a Massaua in Eritrea, ndr) direttamente per l’imbarco", scriveva nel suo saggio lo storico Emanuele Ertola. "Affaticati e storditi dopo un lungo viaggio attraverso l’Etiopia in treno e camionetta, i rimpatrianti dovevano quindi sopportare la lunga attesa per salire a bordo”. A bordo delle navi bianche, vecchi transatlantici riconvertiti in navi ospedale, la situazione non era rinfrancante: "Ricordo i bambini più piccoli che morivano per infezione diarroica; ricordo l’epidemia di tosse convulsa che imperversava tra i bambini più grandi. Ricordo la madre disperata che aveva assistito alla fine del suo piccolo; ricordo che le donne in stato di gravidanza erano terrorizzate e ricordo che non c’erano più letti disponibili nell’infermeria strapiena", raccontava Maria Gabriella Ripa di Meana a Massimo Zamorani, storico inviato del Giornale che scrisse il libro Dalle Navi Bianche alla Linea Gotica. Secondo le ricerche effettuare dagli storici sarebbero stati almeno 40.000 i rifugiati che si ritrovarono in una patria spezzata a metà dalla guerra - che aveva visto la caduta di Mussolini, la firma dell'armistizio del 8 settembre e la nascita della Repubblica fascista di Salò. Alcuni poterono contare sul sostegno di lontani parenti; altri sull'accoglienza di quegli italiani "brava gente” che erano disposti ad aiutare i “compatrioti”; ma molti, rimasti senza niente e senza nessuno, vennero lasciati a loro stessi, unendosi ai già numerosi sfollati che avevano perso tutto a causa della guerra. Si rifugiarono nelle baraccopoli, ai margini dei centri urbani, e dopo la guerra in luoghi di raccolta per sfollati e orfani come l'ex campo di concentramento di Fossoli. Vennero descritti a lungo tempo come esseri spezzati: “apatici, imbelli, interessati solo ai sussidi, portatori di un passato dubbio se non oscuro”, dirà Pamela Ballinger nel suo recente saggio. Uno stato dell’esistenza che si attenuerà solo con il miracolo economico del dopoguerra. Per alcuni. Per altri una ferita che non si sarebbe mai rimarginata. Tra quei rifugiati c’erano volti noti come Hugo Pratt, all’epoca appena adolescente che dopo essere stato internato nel campo di Dire Daua, aver perso il padre ed essersi arruolato nella Xª Mas, racconterà l’Africa nei suoi leggendari fumetti. O donne normali, come Anna Maria, che pubblicherà un diario dal titolo Africa come amore, e dirà:“ ..guardo gli ultimi lembi della terra d'Africa, che ormai lascio per sempre. Laggiù, nell'interno lascio Carlo, che forse non sa ancora che io sto tornando in Italia. Come l'avevo immaginato diverso questo ritorno. Quante vicende, quanto soffrire: ripartivo come un emigrante, sola. Ma eravamo vivi. Molte partivano lasciando in Africa una tomba e quindi a me non restava che ringraziare Dio per la sua benevolenza”. Lasciando anche a noi che leggiamo dopo così tanto tempo da quella commozione, uno strano senso di malinconia e profondo mal d’Africa.

Da leggo.it il 9 dicembre 2021. La Procura di Roma ha chiesto l'archiviazione dell'inchiesta sui due marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, accusati dell'omicidio di due pescatori, uccisi a largo delle coste del Kerala, nell'India sud occidentale a colpi di arma da fuoco. L'episodio risale al febbraio del 2012 e lo scorso ottobre il Tribunale arbitrale dell'Aja aveva chiuso ufficialmente il caso dopo che l'Italia ha assicurato all'India che il processo giudiziario sarebbe andato avanti nel nostro Paese. Il procuratore Michele Prestipino e il sostituto Erminio Amelio hanno chiesto al gip di fare cadere le accuse nei confronti dei due fucilieri di Marina in quanto il quadro degli elementi di prova raccolti in questi anni non è sufficiente a garantire l'instaurazione di un processo. I due fucilieri erano stati interrogati in Procura lo scorso luglio. Latorre e Girone furono già ascoltati dai pm di Roma il 3 gennaio del 2013 e nello stesso anno i pm capitolini disposero una perizia sul computer e su una macchina fotografica che si trovavano a bordo della Enrica Lexie, la nave su cui erano in servizio Latorre e Girone.

Marò, Corte India: «Caso si chiude con risarcimento da un milione». Secondo i media indiani, le famiglie dei pescatori accettano la proposta d'indennizzo dall'Italia. La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Aprile 2021. Mancava ancora un ultimo passo per chiudere del tutto il contenzioso con l’India sul caso dei due marò, dopo la sentenza di luglio scorso dell’arbitrato internazionale: il risarcimento dovuto dall’Italia per la perdita di vite umane, i danni morali e materiali. Ora, dopo l'accordo sull'ammontare di 100 milioni di rupie (pari a 1,1 milioni di euro), la Corte Suprema di New Delhi si è detta pronta ad archiviare il dossier non appena lo Stato italiano avrà versato la somma su un conto corrente del ministero degli Esteri di Delhi. Resta poi da definire la vicenda processuale italiana: la procura di Roma, competente a indagare, ha aperto un fascicolo per omicidio che dovrà essere ora definito. Secondo i media locali, dopo una settimana dal deposito, il caso tornerà davanti all’Alta Corte per essere definitivamente chiuso, probabilmente il 19 aprile. A quel punto decadranno anche le ultime restrizioni cui Massimiliano Latorre e Salvatore Girone sono sottoposti dal loro rientro in Italia, sempre per decisione della Corte indiana. Sarà poi la stessa Corte Suprema a distribuire i soldi versati alle vittime che hanno accettato la proposta di indennizzo: le famiglie dei due pescatori uccisi, Ajeesh Pink e Valentine Jelastine, riceveranno 40 milioni di rupie ciascuna, mentre i restanti 20 milioni andranno a Freddy Bosco, l’armatore del peschereccio Saint Antony su cui navigavano le vittime, rimasto a sua volta ferito nella sparatoria di 9 anni fa al largo del Kerala. Il risarcimento pattuito si somma ai 245 mila euro già versati in passato dall’Italia ai familiari. Il 15 febbraio 2012 i due fucilieri di Marina stavano prestando servizio antipirateria a bordo della nave commerciale italiana Enrica Lexie: all’avvicinarsi del peschereccio, temendo un attacco di pirati non insolito in quel tratto dell’Oceano Indiano, aprirono il fuoco sparando, come raccontarono, colpi di avvertimento in acqua. Ma a bordo del Saint Antony morirono i due pescatori. La vicenda scatenò un’aspra crisi diplomatica tra l’Italia e l'India - con Latorre e Girone prima fermati in Kerala, poi costretti per anni a risiedere nell’ambasciata italiana di Delhi - e un estenuante contenzioso su chi dovesse processare i due militari italiani. Quando tutte le strade intraprese si erano dimostrate senza uscita, nel 2016 il governo italiano decise di ricorrere all’arbitrato internazionale, conclusosi con una sentenza inappellabile dalle due parti nel luglio 2020: la giurisdizione del caso è di competenza italiana perché al momento dei fatti i due fucilieri godevano dell’"immunità funzionale», ma al tempo stesso l’Italia avrebbe dovuto risarcire «la perdita di vite umane, i danni fisici, il danno materiale all’imbarcazione e il danno morale sofferto dal comandante e altri membri dell’equipaggio del peschereccio indiano Saint Anthony». Conclusa la vicenda internazionale, a 9 anni dall’accaduto, tocca quindi alla magistratura italiana entrare nel merito della vicenda. Sin dal 2012, la procura di Roma ha aperto un fascicolo per omicidio volontario, affidato al sostituto procuratore Erminio Amelio. Latorre e Girone furono ascoltati dai pm capitolini il 3 gennaio del 2013, quando fecero ritorno in Italia per alcuni giorni. E sempre nel 2013 su incarico della Procura fu eseguita una perizia sul computer e su una macchina fotografica che si trovavano a bordo della Enrica Lexie. I magistrati di piazzale Clodio stanno ora analizzando gli atti inviati dal Tribunale arbitrale per poi procedere a una definizione del fascicolo.

Marò, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre devono pagare: quanti soldi andranno ai familiari dei pescatori indiani, cosa non torna. Libero Quotidiano il 10 aprile 2021. Il caso internazionale dei due marò italiani Salvatore Girone e Massimiliano Latorre si chiuderà dopo 9 anni, pagando. Secondo Asia News, i giudici di Nuova Delhi avrebbero accettato di porre fine al dossier giudiziario relativo alla morte di due pescatori indiani avvenuta il 15 febbraio 2012 a causa, sostiene l'accusa, dei colpi partiti dai due fucilieri della marina in servizio sulla nave mercantile italiana Enrica Lexie. In cambio, però, le famiglie delle due vittime del peschereccio, Ajeesh Pink e Valentine Jelastine, dovranno ricevere un bonifico di 100 milioni di rupie, circa 1,1 milioni di euro, come risarcimento per la perdita di vite umani, danni morali e materiali. Girone e Latorre, una settimana dopo il pagamento della somma (che si aggiunge ai 245mila euro già versati in passato dal governo italiano) torneranno in piena libertà. Dopo un lunghissimo contenzioso, con l'India che ha tenuto bloccati i due marò nell'ambasciata italiana a Nuova Delhi, di fatto prigionieri. intenzionata a processarli, solo nel luglio 2020 l'arbitrato internazionale ha stabilito che la giurisdizione del caso fosse italiano in quanto i due militari godevano dell'immunità funzionale. Restano comunque, come ricorda anche il Messaggero, ancora molti dubbi sulla responsabilità dei due italiani, su cui sta indagando la procura di Roma che ha aperto un fascicolo per omicidio volontario. A gravare sul conto di Girone e Latorre sono sostanzialmente le testimonianze degli altri pescatori presenti sulla St. Antony. La perizia balistica ha poi stabilito come i proiettili che hanno ucciso i due pescatori siano gli stessi in dotazione ai militari, ma l'autopsia assicura al contrario che i proiettili sarebbero di un altro tipo, e peraltro diversi tra loro e collegati ad armi con numero di matricola differente rispetto a quelle dei due marò. 

Marò, la soddisfazione di Giorgia Meloni: "Fratelli d'Italia, i primi a battersi per la giurisdizione italiana". Libero Quotidiano il 02 luglio 2020. Il Tribunale arbitrale internazionale aiuta i Marò e dà ragione all'Italia: "Avevano l'immunità" in India. Una svolta importante sulla giurisdizione dei due fucilieri della Marina, una vittoria importante per il nostro Paese che da anni si batte per Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, per poterli affidare ai tribunali italiani. E la decisione viene commentata con enorme soddisfazione da Giorgia Meloni, su Twitter, dove cinguetta: "Il Tribunale arbitrale internazionale ha deciso che la giurisdizione sul caso dei nostri Marò Latorre e Girone spetterà alla nostra Nazione", premette. Dunque, la Meloni sottolinea che "Fratelli d'Italia è stato il primo partito a chiedere venisse riconosciuta la giurisdizione italiana. Oggi come ieri siamo al loro fianco", conclude la Meloni.

"Otto anni di infamia targata Mario Monti". Marò, una Maglie definitiva: "Assassini?", lo schifo di una sinistra a senso unico. Maria Giovanna Maglie sui Marò: "Otto anni di infamia targata Monti. E la sinistra li bollò come assassini". Libero Quotidiano il 02 luglio 2020. “Otto anni di infamia targata governo Monti, tolto il ministro degli Esteri che si dimise per protesta”. Maria Giovanna Maglie esulta per l’esito dell’arbitrato internazionale sul caso dei marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Accolta la tesi dell’Italia nella controversia con l’India: è stato stabilito che i due fucilieri di marina godono dell’immunità in relazione all’incidente del 15 febbraio 2012 e quindi all’India viene precluso l’esercizio della propria giurisdizione nei loro confronti. “La sinistra li bollò come assassini - sottolinea la Maglie - ma l’arbitro dà ragione all’Italia, i marò erano nell’esercizio delle loro funzioni”. La sentenza ripaga anche il gesto nobile di Giulio Terzi di Sant’Agata, che si dimise dal ministro in aperta polemica con il governo presieduto da Mario Monti. 

Giu. Sca. per “il Messaggero” il 10 aprile 2021. Si sta per chiudere anche davanti alla Corte suprema indiana il caso dei due marò, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, dopo la sentenza di luglio scorso emessa nell' ambito dell' arbitrato internazionale. Secondo Asia news, i giudici di New Delhi hanno stabilito che il dossier sarà chiuso quando lo Stato italiano avrà versato su un conto del ministero degli Esteri di Delhi 100 milioni di rupie (circa 1,1 milioni di euro) come risarcimento per la perdita di vite umane, i danni morali e materiali. Le famiglie dei pescatori hanno infatti accettato l' indennizzo e la somma di denaro si aggiunge a quella già versata in passato dall' Italia: circa 245mila euro. A distanza di una settimana dal deposito, il caso tornerà davanti all' Alta Corte per essere definitivamente chiuso, probabilmente il 19 aprile. A quel punto decadranno anche le ultime restrizioni cui Girone e Latorre sono sottoposti dal loro rientro in Italia. In realtà, il caso è tutt'altro che chiaro: ci sono molte incongruenze sulle responsabilità dei due fucilieri italiani. A fare chiarezza dovrebbe pensarci la procura di Roma, che ha aperto un fascicolo per omicidio volontario, affidato al pm Erminio Amelio. I fatti sono del 15 febbraio 2012. I due fucilieri della Marina sono in servizio antipirateria a bordo della nave commerciale italiana Enrica Lexie. Quando si avvicina un peschereccio, temendo un attacco, sparano alcuni colpi di avvertimento in acqua. A bordo dell' imbarcazione ci sono i due pescatori Ajeesh Pink e Valentine Jelastine, che perdono la vita. È l' inizio di una grave crisi diplomatica tra Italia e India: Latorre e Girone vengono fermati in Kerala, poi costretti per anni a risiedere nell' ambasciata italiana di Delhi, mentre si consuma un lunghissimo contenzioso su chi li debba processare. Nel 2016 il governo italiano decide di ricorrere all' arbitrato internazionale, che si chiude nel luglio 2020: la giurisdizione del caso è di competenza italiana visto che, al momento dei fatti, i due marò godevano dell' immunità funzionale - erano funzionari dello Stato italiano, impegnati nello svolgimento della loro missione, cioè difendere un mercantile da eventuali abbordaggi di pirati -, ma l' Italia viene chiamata a risarcire i danni. A 9 anni dai fatti, scende in campo la magistratura italiana. Girone e Latorre sono già stati ascoltati dal pm Amelio nel 2013 e nello stesso anno è stata anche eseguita una perizia sul computer e su una macchina fotografica che si trovavano a bordo della Enrica Lexie. Adesso i magistrati di piazzale Clodio stanno analizzando gli atti inviati dal Tribunale arbitrale per poi procedere a una definizione del fascicolo. Ma ecco le incongruenze. La tesi dell' accusa in India si basa principalmente sulle testimonianze dei pescatori della St. Antony: hanno tutti quanti riconosciuto nella petroliera italiana il punto di partenza degli spari. Bisogna però sottolineare che l' equipaggio della Lexie è stato riconosciuto soltanto dopo che da giorni si parlava della vicenda ed erano state diffuse le immagini dell' imbarcazione, con il nome della nave visibile. Poi c' è la perizia balistica: secondo il consulente i proiettili estratti dai corpi delle vittime provengono dalle armi in dotazione ai militari. Ma questa conclusione è stata smentita dall' autopsia, secondo la quale le misure dei proiettili sarebbero diverse da quelli delle armi dei fucilieri. Un altro dettaglio importante: i due proiettili che hanno colpito a morte i pescatori sarebbero diversi tra loro, mentre armi e munizioni in dotazione ai militari italiani sono uniformi. Una circostanza emersa da una perquisizione sulla nave mercantile. In una relazione allegata alla perizia balistica, inoltre, è emerso che i proiettili rinvenuti nei cadaveri sarebbero collegati ad armi con numero di matricola differente rispetto a quelle dei due marò. I fucili di Latorre e Girone, però, avevano il caricatore vuoto, visto che, come hanno raccontato, i due avevano sparato i colpi di avvertimento in acqua. I periti balistici, inoltre, non riusciti a ricondurre i frammenti di proiettili ritrovati sul peschereccio a nessuna delle armi in dotazione ai fucilieri.

La calunnia indiana sui marò. Alle istanze di risarcimento avanzate dai parenti dei pescatori uccisi dai marò si sono aggiunte quelle promosse da altri undici soggetti. Gerry Freda, Lunedì 25/01/2021 su Il Giornale. L’Italia sarebbe pronta a versare un risarcimento milionario per chiudere la vertenza con l’India relativa al caso giudiziario dei due fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. La stampa indiana ha infatti ultimamente rilanciato la notizia che Roma avrebbe proposto un ristoro finanziario ai familiari di Valentine Jalastin e di Ajesh Pink, ossia i due pescatori uccisi dai marò citati in quanto erano stati scambiati per pirati da questi ultimi. La bufera giudiziaria abbattutasi nel subcontinente su Latorre e Girone risale al febbraio del 2012, quando i due fucilieri, ufficialmente in servizio con funzioni anti-pirateria a bordo della petroliera italiana Enrica Lexie, spararono e uccisero, al largo della costa dello Stato indiano sudoccidentale del Kerala, quei pescatori, il 44enne Valentine e il 20enne Ajesh, nella convinzione di respingere un assalto di predoni diretto contro la medesima petroliera. I due fucilieri pugliesi finirono così in un carcere locale, con conseguente inizio di una battaglia legale e diplomatica tra Roma e Nuova Delhi, dato che entrambe rivendicavano il diritto di giudicare i due militari. Tale controversia si è conclusa di recente con un verdetto della Corte permanente di arbitrato internazionale, che ha riconosciuto l'immunità funzionale ai due italiani, rilevando come gli stessi fossero impegnati in una missione navale per conto dello Stato di appartenenza. Contestualmente, l'Italia è stata condannata dal medesimo tribunale internazionale a erogare un equo risarcimento per la morte dei due pescatori e per i danni morali subiti dai marittimi del peschereccio oggetto degli spari effettuati da Latorre e Girone. Proprio per dare applicazione alla decisione della Corte e al proprio obbligo di indennizzo, le autorità italiane, ha riferito in questi giorni la versione inglese del Mathrubhumi, ossia uno dei giornali più letti del Kerala, avrebbero offerto come ristoro “10 crore di Rs”, pari a 100 milioni di rupie, ovvero 1.125.733 euro. In merito al risarcimento milionario che Roma avrebbe offerto di pagare, il giornale indiano afferma infatti: “Il Governo italiano ha fatto la sua mossa con il governo centrale (di Delhi) e statale (del Kerala) per chiudere il caso”. L’Italia, prosegue la testata indiana, avrebbe offerto la somma in questione dopo che i familiari dei pescatori uccisi avevano avanzato nei riguardi di Roma richieste di ristori pari almeno a 150 milioni di rupie. In precedenza, puntualizza l’organo di stampa del Kerala, sarebbero stati in realtà già versati dal Belpaese alle famiglie delle vittime risarcimenti per 20 milioni di rupie. Nel dettaglio, i 100 milioni di rupie, precisa il quotidiano, verrebbero erogati da Roma suddividendoli in “40 milioni di rupie ciascuno ai familiari dei due pescatori deceduti. Gli altri 20 milioni di rupie saranno dati a Freddy, il proprietario del peschereccio, per i danni”. Tale Freddy è stato uno dei più accaniti oppositori della scarcerazione e del rientro in Italia dei marò pugliesi. A dimostrazione dell’ostilità di quest’ultimo verso l’ipotesi di un rientro in patria dei due soldati è il fatto che lo stesso, quando Latorre è tornato in Italia per curarsi, aveva sollecitato le autorità indiane a bloccare la “fuga” del militare italiano in nome della necessità di effettuare ulteriori accertamenti medici sulle reali condizioni di salute dello stesso Latorre. La proposta italiana di un risarcimento milionario alle vittime del caso-Enrica Lexie potrebbe però non essere l’ultimo capitolo della vicenda giudiziaria, dato che, alle richieste di indennizzo avanzate dai parenti di Valentine e di Ajesh, si sono aggiunte in questi anni quelle presentate dai colleghi di lavoro dei due deceduti, ossia dagli undici membri dell'equipaggio in servizio sul peschereccio al momento degli spari esplosi dai due marò. Ci sono di conseguenza delle istanze indiane di risarcimento che attendono ancora di essere accolte dalle autorità di Roma.

(ANSA il 15 giugno 2021) - La Corte Suprema indiana ha ordinato la chiusura di tutti i procedimenti giudiziari nel Paese a carico di Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, i due Marò coinvolti nella morte di due pescatori indiani nel 2012. Lo riporta il giornale indiano in lingua inglese The Hindu. La Corte Suprema indiana aveva rinviato la chiusura del caso lo scorso 19 aprile perchè l'indennizzo di cento milioni di rupie (circa 1,1 milioni di euro) che l'Italia doveva versare alle famiglie delle vittime non era stato ancora depositato. Nel corso dell'udienza del 19 aprile, che era stata presieduta dallo stesso presidente della Corte - Sharad Arvind Bobde - il procuratore generale dello Stato, Tushar Mehta, aveva dichiarato che "l'Italia ha avviato il trasferimento di denaro", aggiungendo però che la somma non era ancora disponibile. Il nove aprile scorso la Corte aveva deciso che il caso sarebbe stato chiuso solo dopo il deposito del risarcimento pattuito. I due militari erano accusati di aver ucciso nel 2012 due pescatori indiani, al largo delle coste del Kerala: i fucilieri, che erano impegnati in una missione antipirateria a bordo della nave commerciale italiana Enrica Lexie, videro avvicinarsi il peschereccio Saint Antony e, temendo un attacco di pirati, spararono alcuni colpi di avvertimento in acqua. A bordo della piccola imbarcazione, però, morirono i due pescatori Ajeesh Pink e Valentine Jelastine, e rimase ferito l'armatore del peschereccio, Freddy Bosco. Dopo un lungo contenzioso, nel luglio del 2020 il tribunale internazionale dell'Aja, che aveva riconosciuto "l'immunità funzionale" ai fucilieri, aveva stabilito che la giurisdizione sul caso spettava all'Italia e aveva disposto il risarcimento alle famiglie delle vittime.

Girone Latorre: Corte Suprema indiana chiude il caso. Il commissario Ue Gentiloni: «Successo della diplomazia italiana». La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Giugno 2021. La Corte Suprema indiana ha ordinato la chiusura di tutti i procedimenti giudiziari nel Paese a carico di Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, i due Marò coinvolti nella morte di due pescatori indiani nel 2012. Lo riporta il giornale indiano in lingua inglese The Hindu.  «Si chiude il caso con l’India. Un successo della diplomazia italiana», twitta il commissario Ue, Paolo Gentiloni, che nel 2015, da ministro degli Esteri, decise di ricorrere all’arbitrato internazionale sul caso dei due fucilieri di Marina. La Corte Suprema indiana aveva rinviato la chiusura del caso lo scorso 19 aprile perché l'indennizzo di cento milioni di rupie (circa 1,1 milioni di euro) che l’Italia doveva versare alle famiglie delle vittime non era stato ancora depositato. Nel corso dell’udienza del 19 aprile, che era stata presieduta dallo stesso presidente della Corte - Sharad Arvind Bobde - il procuratore generale dello Stato, Tushar Mehta, aveva dichiarato che «l'Italia ha avviato il trasferimento di denaro», aggiungendo però che la somma non era ancora disponibile. Il 9 aprile scorso la Corte aveva deciso che il caso sarebbe stato chiuso solo dopo il deposito del risarcimento pattuito. I due militari erano accusati di aver ucciso nel 2012 due pescatori indiani, al largo delle coste del Kerala: i fucilieri, che erano impegnati in una missione antipirateria a bordo della nave commerciale italiana Enrica Lexie, videro avvicinarsi il peschereccio Saint Antony e, temendo un attacco di pirati, spararono alcuni colpi di avvertimento in acqua. A bordo della piccola imbarcazione, però, morirono i due pescatori Ajeesh Pink e Valentine Jelastine, e rimase ferito l’armatore del peschereccio, Freddy Bosco. Dopo un lungo contenzioso, nel luglio del 2020 il tribunale internazionale dell’Aja, che aveva riconosciuto «l'immunità funzionale» ai fucilieri, aveva stabilito che la giurisdizione sul caso spettava all’Italia e aveva disposto il risarcimento alle famiglie delle vittime.

LA MOGLIE DI LATORRE - «Da 9 anni sono costretta a parlare a nome di mio marito. A lui è stato fatto esplicito divieto di parlare pena pesanti sanzioni. Non può nemmeno partecipare a qualsiasi manifestazione pubblica. È vincolato al segreto. È ora di chiedersi perché le autorità militari vogliono mantenere il segreto su ciò che sa e vuol dire. Quello che so è che per la politica italiana siamo stati carne da macello. Presto Massimiliano si presenterà alla procura di Roma». Così Paola Moschetti, moglie di Latorre.

L'INCHIESTA DELLA PROCURA DI ROMA - Girone e Latorre verranno ascoltati nelle prossime settimane in Procura, a Roma. Per l'omicidio dei due pescatori indiani, i pm romani hanno aperto un fascicolo di indagine fin dal 2012. Il pm Erminio Amelio in questi mesi ha analizzato gli atti inviati dal Tribunale internazionale dell’Aja - che nel luglio del 2020 ha deciso in favore dell’Italia la competenza giurisdizionale - per poi procedere alla conclusione delle indagini che potrebbe arrivare in estate. «A chiusura della lunga e dolorosa parentesi indiana mi resta un dubbio - dice ancora la moglie di Latorre - considerato che sarà la procura di Roma a stabilire se vi sono prove sufficienti a portare a processo Massimiliano, sarà la Magistratura italiana a stabilire se è colpevole oppure innocente. Quel che mi chiedo ora è questo: se mio marito è innocente così come il suo compagno di sventura Girone, e saranno entrambi riconosciuti tali, come è giusto che sia, cosa ha pagato lo Stato italiano all’India?». Una dichiarazione riportata da Paola Moschetti su Facebook a proposito del risarcimento danni di 1,1 milioni di euro alle famiglie dei pescatori indiani morti.

Marò, l'India li perdona ma l'Italia no: l'ultimo sfregio (di Stato) ai nostri militari. Tommaso Montesano su Libero Quotidiano il 16 giugno 2021. La buona notizia, accompagnata dal suono delle fanfare politiche, è che la Corte suprema dell'India ha chiuso tutti i procedimenti ancora aperti contro i marò italiani Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, accusati di avere ucciso due pescatori del Kerala nel 2012. La cattiva - mentre le forze politiche esulta- no - è che l'accusa di omicidio volontario resta aperta presso la procura di Roma, cui spetta giudicare i due fucilieri dopo la pronuncia del Tribunale del mare di Amburgo, che ha riconosciuto la competenza giurisdizionale italiana. Per questo le famiglie di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone non si uniscono al coro di chi, in queste ore, si lancia in dichiarazioni trionfalistiche. «Per la politica italiana siamo stati carne da macello», si sfoga Paola Moschetti, moglie di Latorre. La donna, costretta a parlare a nome del marito da nove anni (i militari sono vincolati al silenzio, ndr), ha affidato a Facebook i suoi pensieri. «Mi resta un dubbio», premette. E il «dubbio» è: visto che l'Italia ha versato alle famiglie dei due pescatori indiani circa 1,1 milioni di euro come indennizzo, «se mio marito è innocente così come il suo compagno di sventura Girone e saranno entrambi riconosciuti tali come è giusto che sia, cosa ha pagato lo Stato italiano all'India?». La signora Paola, raggiunta telefonicamente da Libero, preferisce non aggiungere altro: «A chi ha seguito la vicenda, credo sia evidente a chi mi riferisca...».

NODI DA SCIOGLIERE. Molto più loquace l'avvocato Fabio Anselmo, il legale che assiste Latorre a piazzale Clodio nell'ambito del procedimento aperto nel 2012 e affidato al sostituto procuratore En rico Amelio. «È lo sfogo comprensibile di una donna e di una famiglia che nove anni fa hanno avuto la loro vita distrutta. Va bene la vittoria diplomatica, ma qui stiamo parlando di persone. Massimiliano continua a portare sulle spalle il peso di un'accusa di omicidio». E il caso - purtroppo - ancora non è chiuso: «A breve sarà ascoltato dai magistrati romani. E lì non ci sarà alcun segreto militare che tenga. Massimiliano ci tiene a dire perché è innocente, ha voglia di raccontare quello che ha dovuto subire e che non dimenticherà mai». Insomma, mentre l'arco parlamentare si congratula con se stesso- «tutti si fanno i complimenti...», nota Anselmo - la famiglia Latorre guarda già al prossimo step giudiziario: «Queste esultanze ci lasciano molto freddi. Adesso, come avvocato di Massimiliano, mi aspetto di vedere quali prove ci sono a suo carico». E qui si torna alle parole di Paola su Facebook: sei due fucilieri sono innocenti, «cosa ha pagato lo Stato italiano all'India?». «Adesso vediamo che prove ci sono», insiste il penalista: «La procura di Uno dei primi ad esultare è stato Luigi Di Maio, ministro degli Esteri: «Grazie a chi ha lavorato con costanza al caso, grazie al nostro infaticabile corpo diplomatico». Parole che stavolta provocano la reazione di Vania Ardito, moglie di Salvatore Girone: «Interessante leggere i ringraziamenti del ministro nei confronti di chi ha lavorato sodo. Ma prima di tutto è importante ringraziare i due soldati che si sono sacrificati alla sottomissione indiana per tanti anni, che non gli saranno più restituiti. Auspichiamo una rapida soluzione del caso anche in Italia». Nel frattempo, i due militari resteranno in silenzio. «Avevamo chiesto l'autorizzazione a poter fare dichiarazioni, ma ci è stata negata. In tutti questi anni Massimiliano e Salvatore non hanno potuto dire la loro», è l'ennesima coda velenosa che l'avvocato Anselmo mette su una storia ancora da chiudere.

Silenzi e ammissione di colpa. Le domande aperte sui marò. Riccardo Pelliccetti il 17 Giugno 2021 su Il Giornale. I due fucilieri di Marina hanno sempre negato di aver sparato, ma da 9 anni non possono esporre la loro versione. Ci sono voluti nove anni per chiudere il contenzioso con l'India sul caso dei due marò, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, coinvolti nella morte di due pescatori del Kerala nel 2012. Ma la vicenda non è conclusa, anzi. In primo luogo, perché c'è ancora l'inchiesta aperta in Italia dalla Procura di Roma, ma soprattutto perché manca una risposta a molti interrogativi. Hanno poco da gongolare i nostri politici, con Luigi Di Maio in prima fila. «Chiusi tutti i procedimenti giudiziari in India ha scritto su twitter il nostro ministro degli Esteri. Grazie a chi lavorato con costanza al caso, grazie al nostro infaticabile corpo diplomatico. Si mette definitivamente un punto a questa vicenda». A parte il fatto che non è vero che ci sia un punto definitivo sulla questione, ma qualcuno crede veramente che sia tutto chiarito? L'Italia ha pagato 1,1 milioni di risarcimento, di fatto un'ammissione di responsabilità, eppure Latorre e Girone hanno sempre negato di aver sparato contro il peschereccio. I due fucilieri del San Marco hanno mentito per nove anni? E perché viene severamente proibito di esporre pubblicamente la loro versione dei fatti? La stessa moglie di Latorre, ieri, non ha trattenuto l'indignazione. «Da 9 anni sono costretta a parlare a nome di mio marito ha detto Paola Moschetti -. A lui è stato fatto esplicito divieto di parlare pena pesanti sanzioni. Non può nemmeno partecipare a qualsiasi manifestazione pubblica. È vincolato al segreto. È ora di chiedersi perché le autorità militari vogliono mantenere il segreto su ciò che sa e vuol dire. Quello che so è che per la politica italiana siamo stati carne da macello. Presto Massimiliano si presenterà alla procura di Roma». Già, perché le autorità militari impongono il segreto? C'è qualcosa di scomodo che l'opinione pubblica è meglio non sappia? Anche la moglie di Girone non risparmia critiche. «Interessante leggere i ringraziamenti del ministro Di Maio nei confronti di chi ha lavorato sodo ha detto Vania Ardito -, ma prima di tutti è importante ringraziare i due soldati che si sono sacrificati alla sottomissione indiana per tanti anni che mai più gli saranno restituiti». Non occorre riepilogare l'intera la vicenda, molti ricordano bene il gioco allo scaricabarile della politica, che ha portato addirittura alle dimissioni del ministro degli Esteri Giulio Terzi, nel 2013. Ma il tempo passa, i ricordi si affievoliscono e quello che è stato il più grande schiaffo diplomatico (non dimentichiamo che l'India trattenne come «ostaggio» il nostro ambasciatore a New Delhi affinché l'Italia rispedisse laggiù i due marò, che godevano di un permesso in patria) ora viene dipinto come un grande successo. Certo, il Tribunale internazionale di Amburgo nel 2020 ha riconosciuto l'immunità funzionale dei nostri militari, ma allo stesso tempo non ha ammesso la giurisdizione italiana e ha stabilito che l'incidente andava sanato con un risarcimento alle famiglie delle vittime, all'armatore del peschereccio indiano e agli altri membri dell'equipaggio. Di fatto, ha affermato che i nostri due marò sono responsabili delle morti anche se non possono essere giudicati in India. E i nostri politici si sono accodati, senza andare a fondo nel caso, senza ravvisare alcuna necessità di portare alla luce quello che è realmente accaduto. Sul caso Regeni, l'Italia è stata come un mastino con l'osso. Ma l'Egitto non è l'India. E nessuno affigge manifesti per chiedere «verità per i due marò». Speriamo lo faccia la Procura di Roma. Riccardo Pelliccetti

Marò, parla la moglie di Latorre: «L’ictus di mio marito, le ingiustizie e il tempo che ci hanno rubato» . Carlo Vulpio su Il Corriere della Sera il 15/6/2021. Paola Moschetti, la moglie di uno dei due marò: lui e Girone sono stati esemplari.

Signora Paola Moschetti, per suo marito Massimiliano Latorre e per il collega Salvatore Girone è finito un incubo.

«Lo spero. Voglio crederlo. Ma ne dubito».

Non le è tornata un po’ di fiducia dopo questi anni difficili?

«No. È troppo presto per la fiducia. La speranza non mi ha mai abbandonato, questo sì, anche nei momenti più bui. Ma la fiducia è un’altra cosa, e io ancora non ne ho».

«Perché dopo nove anni e mezzo di tribolazioni mi sento come una bambina che deve imparare a camminare e ha paura di cadere. Se per me è così, figuriamoci per Massimiliano. Per lui è ancora peggio, le sue ferite sono ancora più profonde e tutt’ora aperte».

Teme che non possano rimarginarsi, anche se l’esito giudiziario di questa vicenda fosse favorevole?

«Sì, ho questo timore. Anche perché da quando Massimiliano è stato colpito da un ictus, nel 2014, non ha potuto opporre la stessa resistenza psicofisica a una situazione assurda che ci ha travolti e stremati».

Lei, subito dopo la notizia della chiusura del caso davanti alla Corte suprema indiana, ha detto: «Per la politica italiana siamo stati carne da macello». Cosa intende dire?

«Mi pare chiaro, c’è ben poco da aggiungere. Basta guardare le facce di bronzo che presentano questo esito come un successo della politica e della diplomazia italiana»

Sul suo profilo Facebook ha anche scritto: «Se mio marito è innocente, così come il suo compagno di sventura Girone, e saranno entrambi riconosciuti tali come è giusto che sia, che cosa ha pagato lo Stato italiano all’India?».

«Le rispondo riproponendo la domanda: che cosa ha pagato lo Stato italiano all’India?».

«Non lo so. Lo sta dicendo lei. Se è questo ciò che le viene in mente, forse è questa la risposta esatta».

A ogni modo, oggi è un bel giorno per i sottufficiali della Marina italiana, Latorre e Girone, possiamo dirlo?

Uno Stato irriconoscente?

«Dico solo che è lo stesso Stato che, con la giustificazione del segreto militare, adesso impone a Latorre e a Girone di tacere e addirittura di non partecipare nemmeno a manifestazioni pubbliche».

Se si guarda indietro, cosa pensa vi abbia aiutato di più ad andare avanti?

«L’affetto, il calore e il sostegno della gente comune. Anche degli sconosciuti. In tutto questo tempo ci hanno scritto e ci sono stati davvero vicino in tanti. Una solidarietà commovente».

Quali sono stati invece i momenti più neri?

«Quelli in cui avvertivamo la distanza o addirittura il senso di fastidio di chi doveva darsi da fare per risolvere questa vicenda. Sembrava volessero dirci: ancora con questa storia dei due marò? In quei momenti, ci guardavamo negli occhi e ci sentivamo sconfitti. Pensavamo di non doverne più venir fuori».

Si offende se le chiedo quanti anni ha?

«No. Perché ne intuisco il motivo. Ho 50 anni. Dieci anni fa quindi ne avevo 40. Ci hanno rubato quasi dieci anni. E quali anni...».

Enrico Ferro per “la Repubblica” il 18 gennaio 2021. «Credevo di essere un superuomo ma la prigionia mi ha fatto sentire così piccolo, senza alcun potere. Se c' è qualcosa che ho imparato dopo quei 47 giorni, è proprio l' importanza dell' umiltà». Il pilota di Tornado Gianmarco Bellini, trent' anni dopo, è un generale dell' Aeronautica in pensione. Vive negli Stati Uniti, a Virginia Beach, dove è anche console onorario d' Italia. Nato in provincia di Verona, ha 62 anni, una moglie, due figli, un ristorante e una casa con giardino e piscina. Il cuore che batte però, è sempre quello di un TopGun. Trent' anni fa, la notte tra il 17 e il 18 gennaio 1991, il caccia di Bellini e del navigatore Maurizio Cocciolone venne abbattuto durante i bombardamenti dell' operazione Desert Storm sull' Iraq di Saddam Hussein. Il Tg1 aveva il volto di Paolo Frajese, il primo ministro era Giulio Andreotti. L' Italia rimase un mese e mezzo con il fiato sospeso per le sorti dei due aviatori rapiti e mostrati in televisione pieni di lividi.

Gianmarco Bellini, cosa ricorda di quella notte?

«Ricordo ancora tutto. Partimmo alle 2. La nostra era una missione a bassa quota, avevamo come target un deposito di munizioni in Kuwait, al confine con l' Iraq. Il meteo era pessimo, fui l' unico a riuscire a fare rifornimento in volo. Purtroppo gli iracheni avevano riempito la costa di contraerea. Ci beccarono in pieno sul piano di coda del Tornado, che divenne incontrollabile. L' aereo fece un primo tonneau, una rotazione sull' asse longitudinale. Rischiavamo di schiantarci ma, durante la seconda rotazione, riuscimmo a tirare la leva di espulsione. Eravamo a soli 30 metri da terra».

Poi cosa successe?

«Questo è l' unico blackout, non ricordo nulla dopo quell' atterraggio con il paracadute: ho cancellato tutto, la mia memoria riprende dai due giorni successivi. So che ci hanno presi subito, spogliati e portati a Baghdad. Lì siamo rimasti per 47 giorni, in diverse prigioni: all' inizio in un campo militare, dove ci hanno interrogato con metodi pesantissimi. Io avevo 32 anni, Maurizio 29» .

Non avevate messo in conto che sarebbe potuto accadere?

«Non ci pensavamo minimamente. Io volavo dal '77, nell' 85 mi avevano promosso nei Tornado. Ero un pilota da combattimento all' apice della carriera».

È cambiato per quell' esperienza?

«Radicalmente. Quando ci si avvicina alla morte si cambia. Ho capito di essere stato protetto, ho sentito una mano più forte di quella umana. Vicino a me c' era un' entità superiore. Non era il mio momento. Ancora ringrazio Dio per questo».

Dopo la liberazione cos' ha fatto?

«Ci liberarono il 3 marzo, in aprile già volavo di nuovo. A maggio 1991 ho iniziato a fare l' istruttore, Maurizio ha continuato con le missioni, anche in Afghanistan. Sono stato in servizio fino al 2011, poi mi sono congedato».

Ha metabolizzato quel trauma?

«Sì. L' unica cosa che mi tocca è quando vedo prigionieri di altre guerre. E ripenso sempre a noi».

Sente ancora Cocciolone?

«Ci siamo sentiti un paio di volte ultimamente. Lui, aquilano, vive in Brasile ora».

Lei si è fermato negli States.

«Sì, ho deciso di fermarmi a Virginia Beach. Qui ho incontrato mia moglie Gilda, una napoletana in America».

Lei fa ancora voli civili, quindi non ha chiuso con gli aerei?

«La mia casa è vicina alla base di Oceana. Ogni giorno vedo gli F-18 che si alzano in volo. Io li osservo e penso che, nonostante tutto, vorrei essere ancora lassù».

Guerini: "Non lasciamo indietro nessuno". Gli interpreti: "Ma noi abbiamo paura..." Il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, rassicura i traduttori. Ma loro chiedono di incontrarlo, nonostante i molti timori. Fausto Biloslavo e Matteo Carnieletto, Martedì 26/01/2021 su Il Giornale.  “Abbiamo ricevuto l’ultimo stipendio. I soldati italiani sono venuti subito al cancello, dove ci hanno fatto firmare la ricevuta. Erano molto freddi e distaccati. Tutto questo è strano”. A parlare è uno degli ex interpreti di Herat, che chiede di rimanere anonimo. Il suo lavoro al fianco dei soldati italiani si è concluso ufficialmente a causa della pandemia.

Del Vecchio: "Interpreti affidabili". La realtà è che non ci siamo presi la briga di affrontare il nodo degli interpreti e della loro protezione dalle rappresaglie talebane. “Nessuno ha voluto affrontare questa storia - spiega una fonte qualificata militare al Giornale.it - Il Centro operativo interforze (Coi) non ha preso in considerazione il problema e non ha trasmesso i nominativi di chi dovrebbe venir protetto al ministero degli Affari esteri”. Oggi il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, in visita ad Herat, dopo la campagna e le richieste del nostro quotidiano, ha dichiarato che “l’Italia non lascia indietro nessuno”. Fonti del ministero hanno spiegato che “la prosecuzione della missione Resolute Support in Afghanistan verrà stabilita insieme agli Alleati, tema che sarà affrontato durante la prossima ministeriale Nato in programma a Bruxelles a febbraio”. Il rischio però è che, nonostante i buoni propositi, non si passi dalle parole ai fatti. E si punti a scaricare un problema nazionale sull’Alleanza atlantica. La Difesa sostiene che “le eventuali richieste di protezione e asilo saranno sicuramente prese in considerazione di concerto con il Ministero degli Esteri e dell'Interno”. Per ora, in Afghanistan, la richiesta di aiuto attraverso una lettera firmata da tutti i traduttori e inviata al comando di Camp Arena, la nostra ultima base ad Herat, è rimasta lettera morta da dicembre. Il Giornale ha acceso i riflettori sugli interpreti che rischiano di venire abbandonati al loro destino. E lee reazioni sono state tante. In un post pubblicato su Facebook, l’ex ministro Elisabetta Trenta ha scritto: “Mi unisco a tutti coloro che invitano il nostro Paese a non dimenticare gli interpreti che da venti anni hanno lavorato a supporto dei nostri militari in Afghanistan. Non lasciamoli nelle mani dei talebani! Gli interpreti sono importantissimi per noi quando siamo all’estero, ci permettono di compiere la missione, aiutandoci non solo con le traduzioni ma anche a comprendere le usanze del posto e a essere cortesi e accettati dalla popolazione locale. A rischio della loro vita e di quella delle famiglie, si prendono cura di noi. Con loro si stabilisce spesso un rapporto che va al di là di quello professionale. Io sono diventata amica con le persone che, per nove mesi, avevano collaborato con me in Iraq e sono in contatto con loro ancora oggi, dopo 12 anni. Tentai di aiutare uno di loro, che aveva problemi per aver collaborato con gli italiani, a venire in Italia, ma non ci riuscii. È il momento di dimostrare gratitudine verso gli interpreti afghani che hanno rischiato la vita per noi e che oggi, causa Covid, sono stati licenziati. Sarebbe giusto offrire l’asilo a coloro che hanno lavorato con dedizione, lealtà e coraggio per il nostro Paese”.

All’invito della Trenta hanno risposto alcuni interpreti commentando il post dell’ex ministro. Mh Shafiq Waziri ha lavorato per dieci anni per le nostre truppe: “Sono stato in quattro province con i soldati italiani e in più di trenta distretti. Abbiamo passato giorni molto brutti perché la nostra base nel distretto del Gulistan, nella provincia di Farah, era nel mirino dei talebani. Abbiamo affrontato molti Ied (gli ordigni esplosivi improvvisati, Ndr). Una volta uno è esploso, uccidendo quattro soldati. È stata una giornata molto brutta e io non la dimenticherò mai. L’Afghanistan e gli afghani sono grati all’Italia e agli italiani”. Shafiq si riferisce all’attacco del 9 ottobre del 2010, dove morirono quattro alpini del 7° reggimento alpini di stanza a Belluno, inquadrato nella brigata Julia. Antonella Manca, sorella di Gianmarco, morto in quell’attacco, risponde: “Mio fratello mi ha sempre parlato di voi e del vostro importante aiuto. Ti abbraccio di cuore e ti auguro buona fortuna sperando che possiate essere aiutati come meritate”.

I dimenticati. Dopo l’inizio del primo ripiegamento dall’Afghanistan, nel 2014, abbiamo accolto in Italia 116 interpreti con le loro famiglie (420 persone in tutto), ma 35 sono rimasti tagliati fuori dal piano di protezione perché formalmente erano stati reclutati da una società di sicurezza americana pur lavorando da anni con il nostro contingente. Il primo ad aver denunciato il vergognoso abbandono fin da allora è Abbas Ahmadi: “Dei 35 che eravamo, siamo rimasti in 20. Gli altri se ne sono andati via, diversi clandestinamente affidandosi ai trafficanti di uomini, ma in alcuni casi sono riusciti ad ottenere i visti o l’asilo dalla Germania, altri paese europei e anche l’Australia. L’Italia ci ha sempre chiuso le porte in faccia”, racconta l’interprete al Giornale.it. “Ho rischiato la vita per voi. Ho sacrificato me stesso e ora vorrei essere salvato, venendo in Italia o andando in un altro Paese sicuro” afferma Abbas, che è costretto a vivere blindato in un quartiere di Herat, insieme a sua moglie e a due figli temendo di venire ucciso dai talebani. Pochi giorni fa è stato “giustiziato” un interprete che lavorava con l’esercito britannico nella provincia di Helmand, nel sud del Paese. Ammadi era un “guerriero” senza armi, orgoglioso di essere stato al fianco delle truppe italiane. Per tre anni ha seguito i nostri militari nei luoghi più caldi dell’Afghanistan. Di etnia hazara, particolarmente odiata dai talebani, mostra le foto delle sue missioni al fianco degli italiani con giubbotto antiproiettile, a bordo dei blindati Lince. Come lui anche Ali Paiguli, che racconta al Giornale.it: “Sono stato nominato interprete delle forze armate italiane il 22 ottobre 2011, nella provincia di Herat. Poi mi hanno inviato al campo Sayar della Seconda brigata del 207esimo corpo d’armata afghano per otto mesi, nella provincia di Farah e, per finire, due mesi nella zona di Herat. Con il trasferimento di responsabilità alle forze di sicurezza afghane è iniziata la riduzione delle truppe straniere. Il 28 giugno 2012 sono rimasto disoccupato assieme ad altri 35 afghani”. “Gli interpreti - prosegue Ali - hanno lavorato spalla a spalla con i vostri soldati partecipando a molte missioni. Ora ho un lavoro, ma il livello di sicurezza è zero. Forse oggi, forse domani, ma è certo che i talebani, prima o dopo, mi troveranno e mi uccideranno perché ho aiutato gli italiani”. Ali lancia un solo appello al governo: “Per favore, salvateci. La nostra vita è importante. Se la situazione economica in Italia è difficile, allora fate in modo che possiamo raggiungere altri Paesi, come il Canada o l’Australia, dove accolgono i rifugiati”. La realtà sul campo descritta da Saifi Khalil Ahmad, arrivato in Italia nel 2015, è ancora peggiore: “I vicini ci accusavano ogni giorno di essere spie degli italiani, ma abbiamo accettato lo stesso di portare avanti la missione al fianco dei nostri fratelli, come interpreti o lavoratori locali in mensa e per fare le pulizie”. Le minacce di morte dei talebani, però, non tardano ad arrivare: “Ho vissuto con i soldati sia nelle basi principali che nelle Fob (le postazioni avanzate, Ndr) sulle montagne. Uno dei miei compiti era accompagnare le colonne di rifornimenti da Herat a Bala Murghab. Le strade erano disseminate di mine e i talebani tendevano continue imboscate. Un giorno ad Herat, mi hanno minacciato: “O abbandoni gli italiani o ammazziamo te e la tua famiglia’. Ho riferito le minacce al mio capitano e lui ha avvisato il comandante. Tutti sapevano che ero in pericolo”. Saifi viene accolto in Italia il 10 ottobre del 2015 e trasferito a Scanzano Jonico nel Sistema di protezione per richiedenti asilo (Sprar). “Siamo stati lì per sei o sette mesi - racconta l’interprete al Giornale.it - non potevamo uscire, nemmeno per correre. Ogni due giorni dovevo partecipare a dei corsi di italiano, che per me erano inutili conoscendo già la vostra lingua. Le case erano umide e piene di muffa. Mia moglie si è ammalata. Volevo lavorare, ma ci hanno trattato come migranti illegali”.

Anche la politica si muove. L’appello degli interpreti afghani è stato accolto, tra gli altri, dai senatori Ciriani, Rauti, De Carlo e Petrenga, che hanno presentato una interrogazione, con richiesta di risposta scritta. Al governo chiedono quali iniziative “intenda intraprendere al fine di predisporre un adeguato programma di protezione a favore di coloro i quali abbiano fattivamente collaborato con le nostre forze armate in Afghanistan e negli altri teatri di crisi internazionale. Se non si ritenga necessario tenere costantemente sotto osservazione la situazione di chi ha collaborato con l'Esercito italiano nello scenario afghano offrendo pronta protezione ed aiuto, qualora la situazione dovesse evolversi in modo negativo e presentasse pericoli per la loro vita e incolumità”. In poche parole, si chiede se esista un piano reale per gli interpreti oppure no. La Difesa afferma di sì e sostiene che ne parlerà con gli alleati Nato nel vertice sull’Afghanistan di febbraio. Il ministro Guerini, però, si trova oggi nella base di Herat, per il cambio della guardia fra gli alpini della Julia ed i paracadutisti della Folgore. Gli interpreti licenziati in tronco vorrebbero incontrarlo, ma non possono neppure avvicinarsi agli ingressi della base. “E quelli che sono ancora in servizio hanno paura di perdere il posto se provano ad avvicinarlo”, spiega al Giornale.it uno dei traduttori afghani. L’unica certezza è che per proteggere chi ha servito lealmente il nostro Paese non bastano le parole, ma ci vogliono i fatti.

L'Italia abbandona pure il ferito: "Gli spari, poi il mio occhio...". Mohsen Enterzary è stato ferito mentre era al servizio della mitica Task Force 45: "I talebani sono pronti a uccidermi". Fausto Biloslavo e Matteo Carnieletto, Lunedì 18/01/2021 su Il Giornale. "Stavamo ripiegando con alcuni soldati afghani e tre militari dei corpi speciali italiani della squadra di trenta uomini della Task force 45 impegnata nella caccia a un comandante talebano", racconta Mohsen Enterzary da Kabul. Il 9 giugno 2012, poco più che ventenne, lavorava come interprete da oltre un anno al fianco dei militari italiani nelle missioni più pericolose. "I talebani ci hanno investito con una valanga di fuoco - ricorda il coraggioso traduttore - Uno dei primi proiettili mi ha colpito nella parte sinistra della testa. Per alcuni minuti ho perso i sensi. Poi mi sono ripreso, sanguinante, ma tutt’attorno continuavano a sparare. Ricordo bene i fischi delle pallottole". Al suo fianco era rimasto un poliziotto afghano, un amico, che dopo un'ora riuscì a tirarlo fuori dall’imboscata. I soldati italiani intervennero con il primo soccorso fino all’evacuazione via elicottero. A Kandahar, nell’ospedale americano, gli salvarono la vita estraendo il proiettile dalla testa. "Ho perso la vista dall’occhio sinistro, diversi denti, la mascella è rimasta deformata per sempre e ho anche l’udito che non va bene", spiega Enterzary, che oggi si è rifatto una vita come giovane ingegnere lavorando al ministero dell’Energia nella capitale afghana. "Per anni ho cercato di mettermi in contatto con gli italiani chiedendo aiuto e protezione - spiega l’ex interprete - Volevo solo una raccomandazione per il visto e lasciare l’Afghanistan dopo avere versato il mio sangue per voi". Nessuno ha risposto o si è fatto sentire, neppure per sapere se fosse vivo o morto, nonostante la Task force 45 gli avesse rilasciato, prima di venir ferito, un attestato "in riconoscimento della dedizione e del grande aiuto per il successo delle operazioni". La firma è del comandante del gruppo Alpha "Condor" a Farah, il 25 novembre 2011, con sullo sfondo una foto di combattimento dei nostri corpi speciali in Afghanistan. Enterzary fa parte dei primi 35 interpreti traditi e abbandonati dagli italiani, che hanno lavorato per anni al fianco dei nostri soldati, ma erano stati reclutati e continuavano ad essere sul libro paga di Mission essential, un’agenzia di sicurezza Usa. Per questo motivo sono rimasti tagliati fuori dalla protezione garantita ad altri traduttori. "Gli americani mi hanno mandato in India per ulteriori interventi chirurgici e mentre ero in ospedale ferito gravemente mi pagavano 300 dollari al mese. Poi sono stato licenziato", racconta Enterzary con un filo di tristezza nella voce. "Con gli italiani della Task force 45 ho partecipato come interprete ad operazioni contro il traffico di oppio e missioni per catturare i comandanti talebani. Alcuni li abbiamo presi", spiega l’afghano. "Speravo che gli italiani mi aiutassero - sottolinea il ragazzo - Mi sono sentito tradito, abbandonato". Soprattutto perché nel 2014-2015 abbiamo portato in Italia 117 interpreti afghani con le loro famiglie, ma il ferito e altri 34 sono stati scaricati, grazie alla formalità burocratica del contratto con la società americana. Enterzary spera ancora in un visto per l’Italia se le cose si mettessero male: "I talebani mi conoscono e se tornano a Kabul si vendicheranno. Sono della minoranza hazara, di fede sciita e ho lavorato con i militari italiani. Tre motivi per venire giustiziato". Non solo lui, ma anche gli interpreti afghani che hanno lavorato fino ad oggi con il contingente italiano rischiano di venire abbandonati. Undici sono già stati licenziati ad Herat senza alcun nuovo piano di protezione. Gli altri 38 sono a rischio, nonostante le assicurazioni della Difesa. Stessa sorte per i 7 interpreti di Kabul mandati a casa con il pretesto del Covid. Il 15 gennaio il governo ha risposto a un’interpellanza sugli interpreti abbandonati di Salvatore Deidda, capogruppo in commissione Difesa di Fratelli d’Italia, garantendo che le domande di protezione “pregresse e future (…) saranno sottoposte alla valutazione di merito”. Isaq conferma al Giornale dalla capitale afghana che “da marzo non lavoro, dopo aver servito come interprete gli italiani dal 2002. Ho sei figli e sono vedovo”. Senza un piede finito in cancrena era stato "arruolato" dal generale Giorgio Battisti, che si batte per garantire la protezione a tutti gli interpreti afghani. “Ho paura della vendetta dei talebani - ammette il traduttore - Mi sono rivolto all’ambasciata e all’addetto militare, che ha promesso di aiutarmi. Vorrei venire in Italia con la mia famiglia”. Anche Meya, soprannominato “Super Mario”, ha lavorato al fianco dei nostri militari dal 2004. “Sono a casa da 7 mesi, in quarantena - spiega da Kabul - In Afghanistan la violenza aumenta con attacchi e bombe. Se gli italiani non si occuperanno della nostra protezione, i talebani ci taglieranno la testa. Ci conoscono tutti”. Nino Sergi, presidente emerito della Ong Intersos, ha scritto un appello che pubblichiamo integralmente qui: “La protezione del proprio personale, italiano o di altre nazionalità, è un inderogabile dovere di ogni organizzazione, che sia civile o militare: un imperativo”. Zaki Koistani, addetto militare dell’ambasciata afghana a Roma, ha rilanciato via twitter l’appello del generale Battisti per accogliere gli interpreti in Italia. Anche il presidente del Comitato atlantico, Fabrizio Luciolli, invita l’Italia ad aiutare i collaboratori afghani “per evitare che diventino vittime invisibili della guerra”. La Difesa vuole coinvolgere la Nato nella riunione sull’Afghanistan di febbraio. Battisti, però, osserva che “richiamare responsabilità riconducibili a enti sovranazionali (Onu, Nato, Ue, ecc.) appare, tutto sommato, una comoda via d’uscita per chi non intende o non è in grado d’individuare le soluzioni più efficaci”. Al fianco degli interpreti scende in campo anche l’ex ambasciatore in Afghanistan, Enrico Di Maio: “Mi unisco all’appello confermando che è un dovere proteggerli”. Padre Giuseppe Moretti, che per anni è stato a Kabul, nella piccola chiesa dentro l’ambasciata, non ha dubbi: “Li licenziano adesso perchè inaffidabili? Per anni, però, erano fidatissimi. Quello italiano si è sempre presentato come l’esercito più umano. Dimostriamolo con i nostri interpreti”. Anche i deputati della Lega Roberto Paolo Ferrari, capogruppo in commissione Difesa, e Paolo Formentini, vicepresidente della commissione Esteri, hanno presentato un’interrogazione al governo. “Sarebbe opportuno tutelare l'incolumità di chi ha lavorato con i nostri soldati affrontando gravi rischi - sostengono i parlamentari - mostrando nei loro confronti una generosità almeno non inferiore a quella che si riserva ai migranti irregolari che giungono nel nostro Paese da ogni parte del mondo senza particolari benemerenze”. Uno degli interpreti a rischio di Herat, in un drammatico messaggio vocale inviato al Giornale.it, si chiede: “Abbiamo lavorato con gli italiani e sono stati la nostra famiglia. Perché ora ci abbandonano? È normale?”. E aggiunge: “Aiutateci. Non lasciateci (indietro) sotto il fuoco” dei talebani.

"Non abbandonate gli interpreti in Afghanistan". Pubblichiamo l'appello di Nino Sergi, presidente emerito dell'Ong Intersos, per sostenere gli interpreti afghani dimenticati dall'Italia. Nino Sergi, domenica 17/01/2021 su Il Giornale. Grazie e buona fortuna: licenziati dai contingenti militari italiani in Afghanistan, a Herat, Farah, Kabul, senza protezione dalle possibili rappresaglie. La cinquantina di collaboratori afghani ha chiesto garanzie per la propria incolumità, come d’altronde era stato assicurato. Gli interpreti, in particolare, sono i più preoccupati. La voce e le orecchie dei militari italiani: e per questo considerati da una parte dei Talebani come spie da sopprimere. La protezione del proprio personale, italiano o di altre nazionalità, è un inderogabile dovere di ogni organizzazione, che sia civile o militare: un imperativo. Ho guidato per anni un’organizzazione umanitaria, operando in contesti di conflitto, entrando spesso in contrapposizione con le presenze militari definite dalla politica ipocritamente “umanitarie”; ma anche cercando di interloquire, nel corretto rapporto civile-militare, per salvaguardare lo spazio dell’azione umanitaria nelle aree più fragili e bisognose. Trovo ora vergognoso questo abbandono a se stessi delle persone che più sono state vicine e indispensabili ai comandi militari italiani. È stato superiore agli 8 miliardi di euro il costo della missione militare italiana in Afghanistan dal 2001 (rispetto a circa un quindicesimo di tale cifra spesi per la cooperazione civile e la ricostruzione del paese). Che ora lo Stato italiano e il suo ministro della Difesa ritengano un peso eccessivo proteggere una cinquantina di collaboratori afghani con le loro famiglie è il segno della pochezza di visione e coerenza politica. Accoglierli in Italia come più volte promesso sembrerebbe la prima soluzione, simile ad altre già attuate. Non dovrebbero esserci problemi di sicurezza, data la fiducia di cui tutti hanno goduto per anni e anni. Le testimonianze dell’abbandono a se stessi, anche qui in Italia, di interpreti afghani accolti nei recenti anni (abbandono che risulta uguale in Francia) fanno però sorgere seri dubbi sulla capacità dell’Italia di garantire dignità umana a questi arrivi. Anni di rifiuto di normare convenientemente il rifugio e la protezione umanitaria producono ora solo difficoltà, quando non vera e propria emarginazione e disperazione; e potrebbe questa essere l’occasione per una revisione normativa seria e condivisa: c’è da sperarlo. Accogliere deve anche significare garantire un futuro dignitoso. Un’altra ipotesi potrebbe essere il sostegno per alcuni anni (reale, non verbale: sia con accordi politici che finanziariamente) all’inserimento in altri Paesi di loro scelta, in particolare dell’area asiatica o mediorientale. L’alternativa potrebbe essere l’impegno, negli accordi che si stanno definendo con i leader talebani, della garanzia di incolumità e di piena cittadinanza a coloro che hanno avuto rapporti di lavoro con il contingente militare italiano e gli altri. Ma non è tra le priorità. In ogni caso una soluzione dignitosa deve essere trovata. Ora, a breve, prima di qualsiasi lettera di licenziamento. Comunque la si pensi sull’operazione militare in Afghanistan, si tratta di persone, di collaboratori che hanno servito l’istituzione italiana delle Forze Armate e che non possono essere abbandonati a se stessi, traditi nel momento stesso in cui c’è chi li considera traditori in Afghanistan.

"Nessuno deve restare indietro". Pubblichiamo l'intervento del Gen. B. (ris) Antonino Inturri, che ha comandato il 3° rgt. a. mon. della Brigata alp. Julia, ed è stato impiegato in Afghanistan quale Comandante del Provincial Reconstruction Team (PRT) XIV e, in precedenza, in Mozambico e Bosnia Erzegovina. Antonino Inturri, Domenica 17/01/2021 su Il Giornale. È di questi giorni l‘appello lanciato dal Giornale affinché il Governo Italiano provveda a colmare il vuoto legislativo riguardante la salvaguardia e la tutela delle decine di interpreti afgani, e relative famiglie, impiegati negli anni presso il Contingente e le unità militari italiane dislocate in Afghanistan che la scadenza al 31 dicembre scorso del loro contratto rischia di esporre a possibili e probabili ritorsioni per il proprio operato. Non intendo dilungarmi in questioni attinenti alla sfera giuridico-amministrativa o a quella politica. Mi limito a offrire una chiave di lettura legata alla mia personale esperienza. Premetto che le parole proferite dalla M.O.V.M. Prof.ssa Paola DEL DIN, che mi onoro di conoscere personalmente, dovrebbero, da sole, convincere le nostre Autorità politiche al totale accoglimento delle istanze oggetto del dibattito. E se ciò non dovesse essere sufficiente, le innumerevoli esperienze vissute sul campo da tanti Comandanti e Colleghi che da quella collaborazione hanno tratto un indubbio valore aggiunto nell’elaborare il proprio processo decisionale dovrebbero bastare a sottolineare il prezioso e imprescindibile valore del contributo fornito alla missione da parte degli interpreti locali. Sono stato il Comandante del PRT XIV (Provincial Reconstruction Team XIV) in HERAT nel periodo Ottobre 2010 – Aprile 2011. Uno dei compiti principali dell’Unità, e del suo Comandante in primis, era quello di condurre in tutta la Provincia attività di “ingaggio” dei leader locali al fine di guadagnare la fiducia non solo di questi ultimi, ma della popolazione locale e poter così concordare e condurre di concerto quelle attività di ricostruzione e sviluppo fondamentali per il ripristino di condizioni di vita accettabili. Quindi, un’attività oltremodo sensibile, che richiede equilibro, capacità di ascolto e di giudizio, abilità nel compromesso, fermezza e, nello stesso tempo, elasticità, volontà di dialogo, discernimento tra ciò che è vero, verosimile o “fake”. E tutto questo, in un contesto complesso e così lontano dalla nostra forma mentis occidentale, caratterizzato poi dalla percezione costante che chiunque vesta una uniforme straniera sia comunque un invasore (anche se animato dalla più pia delle intenzioni) che rendeva il quotidiano una scommessa continua. Gli interpreti afgani che ho avuto come collaboratori per tutto il periodo del mio mandato sono stati prima di tutto dei mediatori culturali. Essi sono stati il complemento e il completamento alla formazione e all’addestramento ricevuti a premessa dell’impiego in Teatro Operativo. Si è trattato pertanto di un rapporto dai molteplici contenuti, dal reciproco scambio socio-culturale all’approfondimento della realtà locale e per gli interpreti tutto ciò ha portato al perfezionamento degli strumenti di comunicazione verbale e non verbale; alla traslitterazione delle posture, del linguaggio del corpo, delle percezioni che rendesse aderente e comprensibile nella sua essenza il messaggio da veicolare. Tutto ciò ci ha aiutato a fare meglio e a fare di più. Sono stati funzionali alla missione. Sono stati dei nostri. “Brothers-in-arms”. Certo, l’obiezione principale è quella che in fondo si tratta di una prestazione di lavoro retribuita: nulla è dovuto oltre al soldo pattuito. Ma così non è stato, per quanto mi riguarda. La relazione instauratasi tra chi ha lavorato costantemente “spalla a spalla” 24 ore al giorno, sette giorni su sette, si è basata essenzialmente sul rispetto e sulla fiducia reciproca, valori espressi attraverso la condotta di una attività sì professionale, ma che afferiscono non tanto e non solo a noi stessi come individui, come soldati, ma a ciò che rappresentiamo sul campo: la nostra Bandiera e la nostra Patria. Nei loro confronti non abbiamo alcun debito, ma dovremmo esprimere un senso di gratitudine per averci aiutato nel compiere al meglio il nostro dovere. E a noi hanno insegnato che nessuno resta indietro.

·        Cosa succede in Libia.

Afghanistan e Libia: tutte le armi in mano ai terroristi islamici. Come possono usarle. Domenico Affinito e Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera 21 settembre 2021. Afghanistan, Libia e Siria sono le tre crisi che oggi alimentano l’arcipelago dell’estremismo islamico. Tre Paesi fuori controllo dove l’intervento dell’Occidente ha acuito il rischio per la sicurezza globale. A Doha, nei mesi scorsi, gli americani hanno trattato il ritiro dall’Afghanistan con i talebani, la promessa era: noi ce ne andiamo, ma voi non consentirete ad al Qaida, o altri gruppi estremisti, di operare nel Paese. Sappiamo come è andata. E quando i Paesi si disfano, le armi restano. Quali e quante armi, e dove vanno a finire? 

Le armi dell’esercito russo. In Afghanistan ci sono. Ci sono tutte quelle abbandonate dai sovietici dopo la ritirata del 1989: mitragliatrici pesanti NSV e KPV, e le più moderne Kord (russe). I loro colpi penetrano muri e mezzi blindati. Sono in grado di colpire fino a oltre 2000 metri e possono abbattere aerei in volo a bassa quota o in fase di decollo e atterraggio. Di solito sono impiegate in postazioni protette o montate su automezzi (le chiamano «tecniche»), come succede per i razzi multipli da artiglieria Grad. Numerosi i razzi a spalla, come l’RPG 7 ritratto nelle foto di molti mujāhidīn dell’epoca. Nascono come armi anticarro ma sono impiegati anche nelle aree urbane e come armi antiaeree. Diffusi in tutto il Paese i mortai (come l’82 BM 37), utilizzati continuativamente anche in questi 20 anni per attacchi e attentati anche a Kabul, da un quartiere all’altro, soprattutto per attaccare la zona dei palazzi del Governo. Ci sono poi gli SPG9 da 73 mm: armi anticarro leggere usate un po’ per tutte le tipologie di combattimento, sia su treppiede che automontati. Questo arsenale è finito quasi tutto nelle mani dei talebani, e nelle loro mani è rimasto dopo essere stati cacciati dalle forze alleate nel 2001, nascosto e sotterrato nelle cave. 

Le armi americane. Oggi si aggiunge tutto l’equipaggiamento americano in dotazione al disciolto esercito afgano: 75.000 veicoli militari, 600.000 fra fucili d’assalto come l’M16 e l’M4, mitragliatrici pesanti, armi anticarro, artiglieria leggera con cannoni e mortai, 16.000 visori notturni, illuminatori laser. Questo vuol dire che sono in grado di combattere e colpire con precisione anche di notte. I talebani si sono impossessati dei rilevatori biometrici con le impronte digitali e le scansioni oculari degli afghani che hanno collaborato con le forze alleate negli ultimi 20 anni. Più di 200 fra aerei ed elicotteri. Se saranno in grado di pilotarli e manutenerli, dovranno fare i conti con il loro utilizzo perché il controllo dello spazio aereo e la supremazia aerea (vuol dire che gli americani possono ancora effettuare operazioni aeree quasi senza limitazioni) è ancora in mano americana: le basi Usa sono in tutti i Paesi confinanti, ad eccezione dell’Iran. Poi un centinaio di droni. Anche in questo caso occorre saperli pilotare, e poi serve il collegamento radio che gli americani possono bloccare con azioni di disturbo e accecamento elettronico. Il grande problema sono i sistemi di abbattimento aereo e i talebani hanno i missili Stinger forniti dagli Usa durante l’occupazione russa: sono sistemi d’arma composti da un lanciatore da spalla e un missile che impiega il puntamento a infrarosso passivo e che segue autonomamente la traccia di calore del velivolo. Fu questo tipo di arma a determinare la disfatta dell’esercito russo. Non è detto che oggi le batterie siano ancora utilizzabili, ma i talebani hanno anche i Misagh 1 e 2 di produzione iraniana e russa (ne sono spariti qualche migliaio durante la disfatta libica e nessuno sa che fine abbiano fatto). Queste armi hanno un raggio d’azione di 5 km e possono abbattere aerei civili o militari fino a 3500 metri di quota, compromettendo la sicurezza della supremazia aerea Usa in Afghanistan. 

Esplosivo e bomb maker. Le quantità di munizioni d’artiglieria sono enormi: quelle russe perfettamente conservate in scatole sigillate e quelle americane, dalle quali viene recuperato esplosivo da innesco e relative spolette per realizzare attentati o per attentatori suicidi. In questo caso servono soggetti con capacità ingegneristiche, si chiamano «bomb maker» e sono figure molto quotate fra le varie formazioni terroristiche; le forze speciali occidentali avevano missioni di intervento cinetico su questi «elementi» (ovvero colpirli per farli fuori). Analisti e specialisti intelligence hanno dimostrato che l’eliminazione anche di un solo «bomb maker» provoca un rallentamento degli attentati anche in aree piuttosto estese. Purtroppo sono difficili da individuare, in più la presenza di vent’anni di truppe occidentali, con ottime capacità di scoperta e difesa da ordigni esplosivi, ha contribuito ad elevare le capacità tecniche e tecnologiche dei «bomb maker». In sostanza se 20 anni fa i talebani furono cacciati con lo sbarco di 40.000 militari, con lo scenario di oggi i numeri sarebbero ben altri. Tra armi sovietiche e americane stiamo parlando di arsenali sufficienti a sostenere guerriglie per decenni, e il rischio più immediato è che l’Afghanistan ritorni a essere una base di addestramento e rifugio di formazioni terroristiche islamiche. Nei 20 anni di presenza degli eserciti occidentali in Afghanistan, il governo di Kabul non ha mai controllato le periferie del Paese, lì dove si erano ritirati i talebani dopo il 2001 e dove sono cresciuti e hanno prosperato, soprattutto grazie al narcotraffico, i gruppi armati locali. Questa estate hanno riconquistato il Paese in due settimane, e nella capitale sono tornati anche gli altri protagonisti dell’estremismo islamico, anche loro armati fino ai denti: bin Laden era un grande esperto a sfruttare le caverne naturali dell’Afghanistan, dove è stata stipata parte dell’arsenale russo. Oggi i gruppi terroristici sono almeno sei, tutti in competizione fra loro, e la superiorità è valutata in base alle atrocità che commettono. E tutti vogliono entrare a far parte del nuovo governo talebano. Vediamo quali sono e chi li sostiene. 

I gruppi del terrore.

ISIS-Khorasan. Il più estremo e violento di tutti i gruppi militanti jihadisti in Afghanistan, colpevole dell’attentato all’aeroporto di Kabul del 26 agosto che ha ucciso 170 persone. È antagonista dei talebani, che considera apostati. Ha sede nella provincia orientale di Nangarhar. Nasce nel gennaio 2015 al culmine del potere dell’Isis in Iraq e Siria, della cui galassia fa parte. Recluta jihadisti pakistani e afghani, in particolare ex talebani che non considerano la propria organizzazione abbastanza estrema. In questi anni ha preso di mira le forze di sicurezza e i politici afgani, i talebani, le minoranze religiose, le forze statunitensi e Nato e le agenzie internazionali, comprese le organizzazioni umanitarie. Riceve finanziamenti da simpatizzanti stranieri tramite le reti islamiche hawala, attraverso le proprie imprese criminali e tramite sussidi diretti dall’ISIS.

Lashkar-e-Taiba. Nasce in Afghanistan nel 1987 in chiave antisovietica, e negli anni ha goduto del sostegno finanziario di al Qaida. Il suo quartier generale sarebbe a Muridke, vicino Lahore, ma gestisce 16 campi di addestramento nella parte pakistana del Kashmir. Il suo obiettivo è quello di liberare il Kashmir indiano, dove vorrebbe instaurare uno stato islamico, ma è tornato a operare in Afghanistan nel 2020. Riceve finanziamenti da donatori in Medio Oriente, principalmente dall’Arabia Saudita, e attraverso simpatizzanti in Pakistan.

Jaish-e-Mohammed. Gruppo estremista islamico sunnita con sede in Pakistan. Conduce principalmente attacchi terroristici nella regione amministrata dall’India del Jammu e Kashmir con l’obiettivo di porre la regione sotto il controllo del Pakistan. Fondato nel 2000 con il sostegno dei talebani afghani, di Osama bin Laden e di diverse organizzazioni estremiste sunnite in Pakistan. Secondo l’Onu nel maggio 2020 In Afghanistan aveva circa 230 combattenti armati dislocati con le forze talebane. È finanziato da fondazioni di beneficenza islamiche e da legittimi interessi commerciali gestiti dall’Al-Rehmat Trust e dall’Al-Furqan Trust.

Lashkar-e Jhangvi. Gruppo militante sunnita wahhabbita pakistano nato nel 1996. Ha condotto negli anni diversi attacchi anti-sciiti in Pakistan e in alcune aree dell’Afghanistan, dove diversi suoi membri sono fuggiti sotto la protezione dei talebani nel 2001. Ha stretti legami con al Qaida, tanto che alcuni membri sono affiliati a entrambi. Riceve fondi da attività criminali come l’estorsione, da aziende private dell’Arabia Saudita e da ricchi donatori in Pakistan, in particolare da Karachi.

Al Qaida. Da sempre presente in Afghanistan, dove nasce negli anni ‘80 da una rete di reclutamento per la resistenza all’occupazione sovietica e, per questo, ha goduto anche di finanziamenti occidentali. Negli anni ‘90 si trasforma in una rete globale di cellule e gruppi affiliati contro i presunti nemici dell’Islam. Dopo l’uccisione di Osama bin Laden nel 2011, il gruppo è guidato dal medico egiziano Ayman al-Zawahiri, e si ritiene viva nascosto nella regione di confine tra Afghanistan e Pakistan. Riceve fondi da enti di beneficenza e donatori nel Golfo Persico, ma anche dai suoi affiliati, attraverso il rapimento a scopo di riscatto e l’estorsione.

Haqqani Network (talebani). Fa parte della galassia talebana. La sua base è nelle regioni a sud est di Kabul, lungo i 550 km di confine con il Pakistan: una terra di nessuno dove transitano droga, armi e mujāhidīn. È un hub strategico per i jihadisti dell’Asia centrale e del sud-est asiatico. Gode dell’appoggio dei servizi segreti pakistani e riceve fondi dall’import-export legale e illegale dai Paesi del Golfo Persico. È responsabile di alcuni degli attacchi più sanguinosi degli ultimi 20 anni: nel settembre 2009 uccide sette paracadutisti italiani a Kabul e tre mesi dopo sette agenti Cia all’interno della base americana Chapman di Khost. È guidato da Khalil Haqqani, oggi capo della sicurezza a Kabul, e dal nipote Sirajuddin Haqqani, appena nominato ministro dell’interno del nuovo governo. Ricercato dall’FBI con obiettivo KK (vivo o morto). Ed è con lui che dovremmo dialogare.

Libia, le santebarbare depredate. La Libia già ben prima che Gheddafi fosse destituito e ucciso e iniziasse la guerra civile, aveva già dieci volte le armi necessarie al suo esercito. Proprio l’ex dittatore, durante gli anni di tensione politico militare con gli Stati Uniti, aveva predisposto centinaia di scorte di armi e munizioni in tutto il Paese per fronteggiare un’eventuale invasione via terra con la guerriglia della «Milizia popolare». La stessa milizia che dopo il 2011 ha saccheggiato e messo in vendita quelle armi a «chi ne aveva bisogno». Tutte armi di produzione sovietica. Secondo l’analista indipendente dell’Aies, Wolfganf Pusztai, dagli arsenali sono scomparsi tra 600 mila e un milione di pistole, fucili d’assalto Kalashnikov. I depositi, oggi vuoti, contenevano anche mitragliatrici, lanciarazzi anticarro RPG, mortai, proiettili, munizioni, esplosivi (comprese le mine), apparecchiature di segnalazione, artiglieria antiaerea, missili anticarro e sistemi missilistici antiaereo SAM a corto raggio trasportabile a spalla con guida a infrarosso. Scomparsi i missili SA24 assistiti da radar di scoperta, quello in grado di cercare da solo il bersaglio, e un numero imprecisato di missili antiaereo a spalla SA7 Grail e che sono in grado di colpire un aereo a 4 km di distanza. C’erano anche armi occidentali, come il cannone anticarro senza rinculo americano M40, ideale per essere montato su pick-up. Molte delle armi erano ancora nella loro confezione originale e, nel corso della guerra civile, hanno preso la via della Siria attraverso Turchia e Libano, finendo sul mercato nero a prezzi che vanno da 2000 a 150 mila dollari (qui le ultime «quotazioni» di mercato conosciute). Le forze speciali statunitensi ne hanno trovati in Afghanistan. 

I signori del contrabbando libico. Uno dei protagonisti del contrabbando è Mahdi al-Harati, comandante di spicco della Brigata rivoluzionaria di Tripoli, che ha fondato in Siria la brigata salafita Liwāʼ al-Umma. Il traffico di armi è diventato una delle principali attività anche nel sud della Libia dove, in pieno deserto del Sahara, vivono le tribu nomadi Tuareg e Tebu e dove, da sempre, i confini sono estremamente porosi. Le armi prendono la via del Mali, dove i Tuareg hanno stretti rapporti con il gruppo di al Qaida nel Maghreb islamico e altre organizzazioni terroristiche: Mouvement national de libération de l’Azawad (MNLA), Ansar Dine e Mouvement pour l’unicité et le jihad en Afrique de l’Ouest (MUJAO). I Tebu, invece, controllano il contrabbando verso Ciad e Sudan, dove cooperano con bande locali e delegati di organizzazioni terroristiche come ISIS e Boko Haram. Grandi quantità di armi dalla Libia sono state trafficate illegalmente a Gaza, Sinai e Siria, aumentando la capacità militare dei gruppi armati estremisti. Questo succede quando i paesi si disfano.

Altre vie minori di commercio sono state l’Algeria, l’Egitto (per giungere a Gaza) e la Tunisia, dove i rifugiati libici, dopo la fuga, hanno venduto le armi che avevano portato con loro. In seguito i jihadisti tunisini si sono trasferiti in Libia per l’addestramento prima di unirsi alla guerra in Siria. Sono stati costruiti nel sud e nell’ovest della Tunisia diversi nascondigli di armi, preparandosi per un’eventuale rivolta più ampia. Dopo il cessate il fuoco del 2020, il flusso di armi è diminuito. Continuano invece ad arrivare dalla Turchia forniture di ogni tipo, inclusi i mini-droni, impedendo all’operazione UE IRINI di controllare le sue navi. La Russia sta fornendo i sistemi di difesa aerea, ricambi, e armi per l’aeronautica militare dell’Esercito Nazionale Libico del generale Khalifa Haftar che, attraverso società private, riceve anche mine, sempre dalla Russia, e lanciarazzi dalla Serbia. 

La mappa del terrore mondiale. Secondo il Global Terrorism Index 2020, redatto dall’Institute for Economics & Peace (IEP), il principale attore mondiale del terrorismo rimane l’Isis. Sono 20 i Paesi al mondo nei quali l’impatto dei gruppi terroristici è massimo. Il primo è l’Afghanistan: pesa per il 16,7% del suo Pil. Seguono Iraq, Nigeria, Siria, Somalia e Yemen. La Libia è al sedicesimo posto, ma dopo la sconfitta del Califfato dell’Isis di Sirte nel 2106 i suoi miliziani sono fuggiti verso il sud, nel Fezzan, luogo di traffici e rifugio di diverse di organizzazioni estremiste. In quest’area senza controllo i terroristi dell’Isis, 3-4.000 secondo un Rapporto delle Nazioni Unite del 2018, si preparano nei campi di addestramento, hanno depositi di armi, gestiscono le rotte per il contrabbando e tessono rapporti con altri gruppi armati del Sudan, del Ciad e del Mali e, soprattutto, con al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi), che rimane ben rappresentata anche in Siria, Yemen, Somalia e Afghanistan, dove la sua alleanza con i talebani e altri gruppi terroristici rimane un punto fermo. Come l’Afghanistan, quindi, la Libia sta diventando sempre di più un hub per i miliziani dei Paesi dell’area e un connettore di gruppi terroristici. Con la differenza che la Libia è più vicina all’Italia.

Junzo Okudaira e l'armata rossa giapponese: i mercenari che seminavano il terrore.  Guido Olimpio e Alessandra Coppola su Il Corriere della Sera il 14 settembre 2021. Nella nuova puntata del podcast su 100 anni di terroristi la storia dell'estremista giapponese che al servizio di Gheddafi fece strage a Napoli nel 1988. È il 14 aprile 1988. Alcuni terroristi giapponesi dell’Armata rossa , addestrati in Libano, diventano il braccio armato dei palestinesi, per poi mettersi al servizio di Gheddafi. Sono una ventina, forse meno. A guidarli una donna, Fusako Shigenobu. Colpiscono due volte in Italia, in particolare con la strage di Napoli dell’aprile 1988 compiuta per conto di Gheddafi, in cui fanno saltare un’autobomba davanti al circolo ricreativo della Marina Usa, causando 5 morti e 15 feriti. L’autore, Junzo Okudaira, è ancora latitante, così come altri 5 irriducibili. Questa storia è al centro del nuovo episodio del podcast «Tracce», firmato da Guido Olimpio e Alessandra Coppola, dedicato a 100 anni di terroristi e disponibile per gli abbonati sul sito del Corriere della Sera e su Audible. Ospite della puntata l'orientalista Franco Mazzei, che racconta l'esperienza personale nel mezzo del violentissimo movimento studentesco giapponese.

La Libia è il Paese delle rivoluzioni fallite. Il ruolo delle milizie, la supremazia dei poteri locali, lo Stato bloccato. L’analisi dell’esperto Gastone Breccia. Francesca Mannocchi su L'Espresso il 27 ottobre 2021. Il ventennio 1911-1931, gli anni dell’impero dopo la guerra ottomana, il colpo di Stato del 1969 che porta al potere Muammar Gheddafi, inaugurando un regime quarantennale, e il decennio post rivoluzionario che fa emergere tutte le inalterate fratture del Paese. Sono le fasi della storia libica raccontate nel libro di Gastone Breccia e Stefano Marcuzzi, “Le guerre di Libia” (il Mulino), a dieci anni dalla morte di Gheddafi.

Partirei dal sottotitolo: un secolo di conquiste e rivoluzioni. In un quadro generale, tutte le conquiste e le rivoluzioni sembrano essere rimaste incompiute, nella vecchia e nella nuova Libia.

«È così. La Libia si è rivelata difficilissima da conquistare per motivi legati alla morfologia del territorio, al clima e alla frammentazione etnico-politica interna. Ogni tassello del mosaico libico va occupato e controllato, non si può sperare in un effetto domino a vantaggio di chi tenta di estendere la propria egemonia sul Paese. Allo stesso tempo il desiderio di rinnovamento sociale e politico che mette in movimento e dà slancio alle rivoluzioni non si è mai manifestato in tutta la sua forza, perché sempre limitato da legami di fedeltà e interesse locali e tribali. Per questo le rivoluzioni libiche si sono risolte in una ridefinizione degli equilibri di potere interni, più che in una trasformazione strutturale della società».

La prima parte del libro compie un’attenta ricostruzione della guerra Italo-turca combattuta tra il 1911 e il 1912. La Libia era considerata allora un fertile territorio da coltivare, ricco di giacimenti di zolfo. Erano gli anni di “Tripoli bel suol d’amore”, il brano scritto da Giovanni Corvetto per propagandare la guerra del Regno d’Italia contro l’Impero ottomano per la conquista della Libia. A distanza di oltre un secolo i protagonisti delle competizioni sul territorio restano gli stessi. L’Italia con i suoi interessi in Tripolitania, e la Turchia, peraltro di nuovo con ispirazioni ottomane. Quali sono gli aspetti di quel conflitto che dovrebbero darci degli insegnamenti ancora oggi?

«Da storico confesso che è difficile non subire il fascino della “longue durée”: a più di un secolo di distanza Erdogan si fa interprete dei vecchi interessi geopolitici ottomani, e pensa di riutilizzare la Libia come avamposto nel Mediterraneo occidentale; l’Italia, più modestamente, cerca di non perdere del tutto il controllo sulla vecchia “quarta sponda” per arginare i flussi migratori, destinati, secondo ogni verosimiglianza, ad aumentare nel prossimo futuro, e per non perdere terreno  in campo energetico. Le parti si sono rovesciate: nel 1911 l’Italia invase le province ottomane di Tripolitania e Cirenaica, oggi invece è la Turchia a tenere un atteggiamento aggressivo, mentre il nostro paese è costretto a lottare - quasi esclusivamente con le armi della diplomazia - per non perdere del tutto le proprie posizioni in Libia. Quanto agli insegnamenti della guerra Italo-turca ne indicherei soprattutto uno: la “vittoria”, in conflitti di questo tipo, non viene dall’aver sconfitto sul campo le forze armate avversarie, ma dall’essere riusciti con pazienza, nello spazio di molti anni, a portare avanti sia un’azione militare di soffocamento dell’insurrezione armata, sia un’azione politico-sociale capace di coinvolgere elementi locali nella gestione del potere e di avviare lo sviluppo economico».

Lei ripercorre la storia dell’esperienza coloniale italiana in un lungo, dettagliato capitolo. Quali sono stati, secondo le sue ricerche e analisi, gli aspetti che abbiamo sottovalutato, trascurato, nell’analisi della vicenda coloniale italiana?

«Durante il periodo fascista, l’analisi è stata condizionata dall’ideologia: la missione civilizzatrice dell’Italia mussoliniana è stata la lente deformante che ha impedito una valutazione corretta di quello che stava accadendo in Libia. Nel secondo dopoguerra, specularmente, l’analisi è stata spesso parziale e viziata dal peso delle colpe del regime fascista. La Libia del 1939 era un Paese timidamente avviato sulla strada dell’integrazione e dello sviluppo: non c’era più un’opposizione interna degna di nota, i fuoriusciti stavano rientrando, l’economia era in crescita lenta ma costante. Direi quindi che abbiamo sottovalutato sia gli aspetti più crudeli della repressione degli anni ‘20 e dei primi anni ‘30, sia gli sforzi fatti per dare un futuro migliore alla colonia pacificata».

Aspetti che a mio avviso continuiamo a sottovalutare. È memorabile, e lei lo ricorda, il momento in cui nel 2009, Gheddafi arriva in Italia con, appuntata sul petto, la fotografia in bianco e nero di Omar al-Mukhtar, l’anziano capo dei guerriglieri senussiti che venne impiccato di fronte a 20 mila persone dopo un processo farsa su richiesta di Roma. Quella storia fa parte di un rimosso italiano sulle vicende libiche.

«La rimozione della violenza usata dagli italiani in Libia per soffocare la resistenza armata - non un caso isolato: abbiamo preferito dimenticare anche i crimini commessi in Etiopia, in Grecia, nei Balcani - rende più difficile, oggi, comprendere l’atteggiamento dei libici nei nostri confronti. Gheddafi usò la memoria della resistenza cirenaica guidata da Omar al-Mukhtar per i propri scopi politici immediati: ma quella memoria è genuina e ancor oggi vivissima, e se in futuro vogliamo avere rapporti costruttivi con la Libia dobbiamo tenerne conto, non ignorarla».

Nel libro sottolineate che il Paese fatica ad abbandonare gli spettri del passato: da un lato la frammentazione politica, dall’altro l’ingerenza straniera e la tendenza all’autoritarismo. Inoltre, sempre nel libro, viene sottolineata la natura ambigua dell’intervento internazionale, che ha determinato un incremento della fragilità libica anziché veicolare il Paese verso un processo di transizione democratica.

«L’azione di varie potenze straniere in competizione fra loro ha esasperato le contraddizioni e le divisioni interne. Non credo si possa nemmeno parlare di un processo di transizione democratica avviato nel Paese. Non esistono, infatti, ancora i presupposti per una libera partecipazione dei cittadini alla vita politica. Del resto è facile constatare che senza sicurezza non c’è libertà, né sviluppo: è un assioma di quelle che sono state definite le guerre tra la popolazione del terzo millennio - guerre combattute non da eserciti lungo fronti ben definiti, ma da milizie che agiscono tra la gente, sfruttando la situazione a proprio vantaggio. Non vedo, purtroppo, all’orizzonte una forza interna capace di superare le divisioni attuali e avviare un vero processo di pacificazione».

Uno dei principali problemi del Paese, dopo il 2011, è stato il fallimento nel disarmare le milizie che avevano portato alla deposizione dell’ex rais e che sono diventante negli anni il vero potere libico. Su questo punto in particolare, la comunità internazionale ha dimostrato tutta la sua debolezza. Le milizie, poi in parte inglobate nei ministeri dell’Interno e della Difesa, hanno preso via via il controllo di asset strategici, strade, pozzi di petrolio, confini. Nonché il controllo dei traffici illeciti, armi, carburante, e tristemente il traffico di uomini. Quali sono state e quali saranno a suo avviso le conseguenze a lungo termine di questo antico e irrisolto problema?

«La conseguenza più grave è rappresentata dal consolidarsi di gruppi armati che sono emanazione di interesse e potere economico locale. Verosimilmente continueranno a vendere al miglior offerente esterno i propri servizi, ovvero la messa in sicurezza e la sorveglianza degli asset strategici a cui faceva riferimento. È un circolo vizioso. La sopravvivenza di milizie che trovano la propria ragione d’essere e il proprio guadagno nel gestire una situazione di pericolo oggettivo rende molto probabile il perdurare o addirittura l’aggravarsi di quella situazione in Libia, che può incancrenirsi sino a diventare inguaribile. E quindi, presto o tardi, a richiedere un intervento drastico».

Cosa intende?

«Chi sfrutta delle risorse in un Paese in preda a una guerra civile è disposto a sopportare un livello di rischio “ragionevole”, che può comportare ad esempio interruzioni sporadiche nell’estrazione del greggio, o simili. Ma se l’insicurezza diventa tale da minacciare la redditività degli investimenti, non resta che abbandonarli o intervenire per ripristinare l’ordine. In futuro chi avrà speso di più per sfruttare le risorse libiche potrebbe usare la forza - quasi di sicuro indirettamente, attraverso il potenziamento dei propri alleati locali - per difendere i propri interessi. Le società di servizi di sicurezza servono anche a questo: sia russi che turchi hanno già molti mercenari in Libia».

Oggi in Libia si gioca una grande partita regionale, che vede schierati da una parte la Turchia e il Qatar, dall’altra la Russia e gli Emirati Arabi. È una guerra economica, religiosa e militare. L’Europa sostiene un percorso diplomatico che sembra, però, sempre più essere scollato dalla realtà del Paese. Penso all’attuale governo Dbeibah, nato sotto l’egida della comunità internazionale per essere un governo di transizione verso elezioni che con ogni probabilità non si terranno. Quali sono gli scenari di questo conflitto regionale, e dello scollamento tra ambizioni militari degli attori regionali e la timidezza europea?

«Sono d’accordo con lei, l’Europa sta dimostrandosi una volta di più incapace sia di trovare una politica comune, basti pensare all’antagonismo tra Francia, Gran Bretagna e Italia, sia di formulare proposte realistiche per la soluzione della crisi. Non c’è stato un coordinamento efficace di azione diplomatica, pressione politico-economica e uso della forza militare. Lo spazio lasciato dall’Europa è stato rapidamente occupato da altri: questa seconda fase della guerra civile libica, infatti, ha già avuto un effetto geopolitico rilevante, ovvero aprire il Mediterraneo centrale all’azione militare per procura di Russia e Turchia. L’intera regione sembra destinata ad attraversare un periodo di grave instabilità: perché  il controllo dei campi petroliferi e dei porti di Tripolitania e Cirenaica, e di alcune tra le maggiori vie di comunicazione attraverso il Sahara, costituiscono uno degli obiettivi principali del nuovo “scramble for Africa” - la corsa ad accaparrarsi posizioni di vantaggio nel continente - il cui esito e le cui conseguenze a più lungo termine sono una delle maggiori incognite che pesano sul nostro futuro».

Libia è terra dove «tutto si muove e nulla cambia». A dieci anni dalla morte dell’ex rais Muammar Gheddafi quanto pesa l’eredità simbolica di quarant’anni di regime?

«Gheddafi aveva perso consenso tra la maggior parte della popolazione. Purtroppo la guerra civile seguita alla fine del suo regime sta facendo riemergere nostalgie legate alla sua capacità di garantire sicurezza interna, non importa a che prezzo, e un certo prestigio internazionale, almeno tra i Paesi “antagonisti” dell’Occidente. È qualcosa che abbiamo già visto in casi simili, non tutti “postumi”. Penso ad Assad in Siria. Quella di Gheddafi è dunque un’eredità dannosa per i libici, che dovrebbero liberarsi dall’illusione di risolvere la crisi attuale attraverso un altro uomo forte. Ma non possono farlo senza aiuto».

Dieci anni fa la morte di Gheddafi, uno spettro sul futuro incerto della Libia. Francesca Mannocchi su L'Espresso il 20 ottobre 2021. Pochi sanno e nessuno dice dove sia il corpo dell’ex rais. Che ha voluto lasciare di sé la patina della leggenda e la scia del timore del capo. Un’eredità di quarant’anni di dittatura: l’ambiguità della memoria che è l’ambiguità del Paese. Sono passati dieci anni dalla morte di Gheddafi. Dieci anni senza il corpo di Gheddafi, che resta spettro del passato, del presente e del futuro incerto della Libia. Gli anniversari sono il tempo della resa dei conti, lo è stato il 17 febbraio che ha segnato i dieci anni dall’inizio delle proteste rivoluzionarie, lo è oggi, 20 ottobre, data che segna il decennale della morte dell’ex rais. All’inizio delle rivolte Gheddafi si era impegnato a dare la caccia ai topi, i ratti – così li aveva chiamati – che avevano preso le armi e invaso le strade contro di lui. “Vi darò la caccia - disse loro - centimetro dopo centimetro, stanza per stanza, casa per casa, vicolo per vicolo, persona per persona.” Era affacciato alle finestre che davano sulla piazza Verde. Oggi piazza dei Martiri.

La reazione di Gheddafi alle rivolte era stata brutale, le forze lealiste avevano cominciato a bombardare indiscriminatamente le aree civili, arrestando i manifestanti e gli oppositori del regime, macchiandosi di delitti feroci, rapimenti, esecuzioni sommarie. È intervenuta la Nato a mettere spalle al muro il rais e la sua cerchia, ormai isolati nella città di Sirte - città simbolo che al rais aveva dato i natali e il consenso – e fu proprio nella sua città natale, che Gheddafi si stava nascondendo, di casa in casa, di cava in cava, di bunker in bunker, come un topo, come un ratto, come quelli a cui aveva promesso di dare la caccia. La mattina del 20 ottobre del 2011 aveva tentato con i suoi l’estremo tentativo di fuga: il figlio Mutassim, che stava difendendo la città con i suoi uomini, aveva ordinato al gruppo di lealisti rimasti intorno Sirte di abbandonare l’area del Distretto 2 con un convoglio di cinquanta veicoli armato, convoglio che venne colpito dalle bombe Nato che hanno incenerito dozzine di combattenti pro-Gheddafi. I pochi veicoli rimasti intatti hanno raggiunto una vicina casa recintata, nei cui pressi si trovavano due tubi di drenaggio. È lì che le milizie di Misurata hanno trovato Gheddafi e i membri del suo convoglio, è lì che li hanno disarmati, brutalizzati e uccisi. Da allora pochi sanno e nessuno dice dove sia il corpo dell’ex rais, il Fratello Guida, la Guida e Comandante della rivoluzione della Gran giamahiria araba libica popolare socialista, Guida Fraterna della Rivoluzione, il beduino prima alleato, poi terrorista, poi di nuovo alleato, poi dittatore da destituire. Restano i segreti, la Libia ne è piena. Se chiedi: Dov’è il corpo di Gheddafi? la gente sussurra. Tutti sanno, nessuno sa. “Il luogo esatto lo conoscono solo le milizie di Misurata”, dice la gente. “Lo sanno gli uomini di Salah Badi, che l’hanno portato via e trasportato in un luogo sconosciuto” mormorano. Nessuno lo sa, o magari solo gli uomini della sua tribù, o forse è un segreto che viaggia, come ogni segreto, di bocca in bocca, casa in casa e si fa leggenda. E forse, così in morte come in vita, Muammar Gheddafi ha voluto lasciare di sé, insieme, la patina della leggenda e la scia del timore del capo. A Misurata, città costiera teatro del più lungo assedio della rivoluzione, le milizie anti Gheddafi hanno costruito il Museo della Guerra. È la prima cosa che i libici mostrano a chi arriva in città. Si trova lungo via Tripoli, sul palazzo di fronte è stata dipinta una colomba con l’ulivo di pace. Le strutture sono ancora crivellate dai colpi d’artiglieria, le case ancora senza muri, senza tetti, con le lastre di metallo a coprire i crateri dei colpi di mortaio, le scale che non portano più da nessuna parte perché i piani superiori sono venuti giù, gli edifici più bassi bucati dai razzi. Intorno tra l’officina e il rivenditore di auto di lusso c’è il memoriale al 2011. Che i libici, anziché nominare Museo della Pace, della Stabilità, della Rivoluzione, hanno preferito chiamare Museo della guerra. All’esterno sono disposti i cimeli dei mesi di combattimento: le casse di munizioni, gli ak-47, una bomba da mezza tonnellata, i razzi, i mortai, le granate, i carri armati russi, il pugno che schiaccia il jet da combattimento americano preso dai rivoluzionari a Bab al Aziziya, l’aquila presa dalla brigata Salahdin nel deposito di armi di Gheddafi. Il bottino di guerra delle milizie che hanno deciso di portare a Misurata non solo i cimeli militari, ma anche quelli personali del rais, la sua Magnum 357 Smith & Wesson, gli stivali di pelle, la Browning placcata d’oro, i suoi fucili d’assalto, la sedia intarsiata di vernice dorata e velluto verde. Poi, sulla porta e sulle pareti interne sono state apposte quattromila fotografie delle vittime dei combattimenti del 2011, i martiri della rivoluzione, i prigionieri di Abu Salim, il carcere dei prigionieri politici, il carcere della strage del 1996 quando in due giorni 1270 detenuti vennero trucidati dagli uomini di Gheddafi. Le contraddizioni della Libia risiedono in questa istantanea: le immagini delle vittime del regime, le fotografie dei combattenti rivoluzionari, stese tutte intorno alla sedia, al trono di Gheddafi, trasportata alla fine della rivoluzione a Misurata come segno di vittoria. La domanda, sospesa di fronte al Museo della Guerra, è però: la vittoria di chi? È questa, forse, l’eredità di quarant’anni di dittatura di Muammar Gheddafi. L’ambiguità della memoria che è l’ambiguità della Libia. A guardarlo dieci anni dopo, quello che doveva essere il Museo per celebrare la nuova Libia sembra un altare alla nostalgia di Gheddafi, la ruggine che copre tutto pare aver smesso di glorificare le gesta dei rivoluzionari, e sembra nascondere il rimpianto di molti verso il regime, verso la stabilità. “Sono ancora qui” sembra dire alla Libia, Muammar Gheddafi dal Museo della Guerra di Misurata, un museo che doveva celebrare la vittoria dopo quaranta anni di regime e finisce per onorare colui che è stato sconfitto.

Il vero volto di Gheddafi. Leonardo Palma il 14 Dicembre 2021 su Il Giornale. Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore, un estratto di "Gheddafi. Ascesa e caduta del ra'is libico" (Historica edizioni). Muhammar Gheddafi nacque di umili origini e volle farsi rivoluzionario, nel tempo divenne un longevo tiranno. Fu forse il più enigmatico, affascinante e scellerato leader del mondo arabo: temerario, mutevole, debole nello spirito ma risoluto nel carattere, buon tattico ma mediocre stratega, visse del suo mistero e delle sue contraddizioni. Tribuno del nazionalismo arabo, socialista rivoluzionario dalle attitudini conservatrici, predicò la liberazione delle donne nella società musulmana ma fece uso degenerato del sesso come arma di ricatto e potere; tiranno che aspirava alla libertà, ascetico beduino del deserto, in quarantadue anni di potere accumulò immense fortune; fu un sognatore capace del più algido realismo in nome dello spirito di sopravvivenza; devoto a Dio ma divorato dalla paura della morte, ebbe in orrore la pena capitale ma la dispensò con prodigalità. Capace di umorismo ma indifferente alle crudeltà; alle virtù dell’uomo saggio preferì la ricerca del prestigio; timido alla patologica ricerca di attenzione, le sue illusioni cedettero presto il passo alla smodata smania di farsi padrone che ne illanguidì l’animo e il corpo, mentre l’avidità ne annientò la lealtà, l’onestà, ogni virtù: al posto dei parchi consumi presero sopravvento la superbia, la crudeltà, il mercimonio.

Sayf al-Islam, secondogenito e presunto erede del Colonnello, ammise di non sapere chi fosse suo padre. “È un uomo diverso ogni giorno”. Buona parte di ciò che sappiamo di Muhammar Gheddafi proviene da interviste con la sua famiglia, i suoi amici, alti ufficiali del regime e da scarni ricordi autobiografici come quelli contenuti nella raccolta di novelle Escapade d’enfer et autre nouvelles o in Khissat al-Thawra (Racconti della Rivoluzione). Possediamo poche altre fonti, la maggior parte delle quali risultato di propaganda e disinformazione o agiografia e mitologizzazione. Negli anni in cui fu al potere molti tentarono di scrivere un ritratto psicologico del Colonnello e durante l’amministrazione Reagan (1981-1989) Gheddafi divenne argomento di quotidiano dibattito a scapito di più importanti dossier come la crisi iraniana o i rapporti bilaterali con l’Unione Sovietica.

Gli analisti produssero centinaia di pagine sulle politiche ed il comportamento di Gheddafi, contribuendo ad amplificare la paranoia e il mito in cui si avvolgeva il personaggio. “Tossicodipendente, logorato dal potere, (sebbene) non psicotico […] (Gheddafi) soffre di un grave disturbo della personalità: il disordine da personalità borderline”. Sono solo alcuni dei giudizi espressi da funzionari del governo americano. Alcune delle persone più intime del Colonnello, tra cui membri del Comando Rivoluzionario (CCR), contribuirono ad alimentare le voci sulla inferma mente del Leader. Ibrahim Fagih è ancora convinto che patologie cliniche possano spiegare molte sue azioni apparentemente incomprensibili. Egli insiste nell’affermare che il Colonnello fosse un sociopatico, un soggetto a cui difettano empatia ed emozioni, incapace di provare rimorso e di anticipare le conseguenze delle sue azioni, una maschera vuota che guarda alle persone esclusivamente come ad un mezzo per un fine per la propria soddisfazione.

Mescolata ad un profondo senso di impunità, la sua sociopatia sarebbe stata poi accompagnata dalla paura della morte, dal momento che “tutto era visto attraverso il prisma della paranoia”. Altri, come White, ex vicedirettore del Bureau of Intelligence and Research (INR) del Dipartimento di Stato, lo descrissero come un maniaco-depressivo prigioniero del suo stesso narcisismo e feticismo, un rivoluzionario che agì come un adolescente, senza ponderare le conseguenze e la distanza che esiste tra idee, fantasie e realtà. Franco Frattini, che durante il suo mandato come ministro degli Affari

Esteri ebbe modo di incontrare più volte il Colonnello, lo ricorda dotato “di una mente raffinata e sinuosa. Elusivo […] sempre alla ricerca di un modo per entrare a far parte della grande storia”. Per l’ambasciatore italiano Francesco Paolo Trupiano, a lungo plenipotenziario a Tripoli, Gheddafi era un leader “dotato di un fascino perverso”. Secondo Ethan Chorin, tra i primi diplomatici americani a tornare a Tripoli dopo la fine dell’embargo, non fu nient’altro che un uomo infelice impegnato in un estenuante esercizio di sopravvivenza prima di una fine inevitabile.

Tutti questi ritratti, questi volti del Colonnello, sono veritieri e falsi allo stesso modo. Ognuno di essi coglie senza dubbio alcuni aspetti di una superficie di paradossi dietro cui si nascose un libertario del deserto. Gheddafi prese il potere nel 1969, appena un anno dopo il maggio francese e le proteste studentesche a Berkeley, aveva ventisette anni, era un sognatore la cui ostinata natura lo spinse a farsi carico delle ingiustizie del mondo fino alle estreme conseguenze: la causa palestinese divenne la sua causa, così come quella dell’Africa postcoloniale, dell’Irlanda del Nord, dei movimenti di liberazione caraibici e latino-americani, perfino dell’Armata Rossa Giapponese. Il senso di predestinazione (baraka) nutrì le sue

ossessioni e nei primi dieci anni di potere Muhammar Gheddafi ricordò una apologetica immagine di Lucio Sergio Catilina. Proprio come Catilina avrebbe infatti potuto dire: “Mi sono fatto carico, com’è mio costume, della causa generale dei disgraziati”. Studiare la caduta del colonnello significa domandarsi perché, tra la libertà e la tirannide, gli uomini scelgano inevitabilmente la seconda nella convinzione di poter avere la prima. Perché si giunga al potere in nome della prima ma si finisca per permanervi solo grazie alla seconda. Leonardo Palma

L’ultimo capitolo del rais. Mauro Indelicato su Inside Over il 20 ottobre 2021. Una chiamata con un satellitare per provare un’ultima disperata fuga, poi l’arrivo dei ribelli e la sua brutale esecuzione ripresa e filmata da decine di telefonini. Il 20 ottobre 2011 è il giorno della morte di Muammar Gheddafi, leader libico al potere da 42 anni. Per molti storici è questa la data della fine dei suoi tanti decenni di “regno”. Ma in realtà la sua Libia, quella della Jamahiriya e del Libro Verde, è al capolinea già da mesi ed esisteva oramai soltanto nella sua Sirte. Per la verità quindi a terminare in quel fatidico giorno di dieci anni fa è la parabola umana del rais, l’ultimo capitolo di una vita passata quasi interamente sotto i riflettori della politica.

La disperata fuga da Sirte

Il 20 ottobre la Libia è un Paese in guerra da mesi. A febbraio le prime manifestazioni contro il rais mettono a ferro e fuoco la Cirenaica. Quando poi Gheddafi sembra sul punto di riprendere tutto il territorio perso, Francia e Inghilterra intervengono a sostegno dei cosiddetti “ribelli”. Gruppi che, già dopo poche settimane, mostrano la loro eterogeneità e l’incapacità di guidare il Paese. A marzo, su input di Parigi e Londra, iniziano i primi bombardamenti per una “no fly zone“, poi la missione è posta sotto l’ombrello della Nato e ne prende parte anche l’Italia. Da allora ogni tentativo di resistenza di Gheddafi risulta vano. Misurata, Sebah, Tripoli cadono una dopo l’altra. Ad agosto il rais e la sua famiglia devono lasciare la capitale. Molte le speculazioni sulla sorte di chi da 42 anni è al potere. C’è chi azzarda su una fuga all’estero, chi invece pensa a un fortificato nascondiglio nel deserto. In realtà Gheddafi, assieme agli ultimi fedelissimi e al figlio Mutassim, si trova a Sirte. Lì dove 69 anni prima era nato. La sua città ancora non è caduta. Membri della sua tribù e gerarchi a lui più vicini riescono a resistere per settimane, asserragliati in un territorio che conoscono molto bene. Ma la mattina del 20 ottobre l’assedio dei ribelli, coperto dall’aiuto dal cielo delle forze Nato, non è più contrastabile. Gheddafi, come raccontato da Fausto Biloslavo su IlGiornale.it, a quel punto accende un telefono satellitare per chiamare qualcuno a Damasco. Forse è quello il primo momento dall’inizio della guerra in cui il rais capisce di non avere scampo, di aver perso e di non poter più organizzare una controffensiva. Un istante, un momento di lucida rassegnazione che probabilmente gli costa la vita. Perché grazie a quella chiamata Gheddafi viene localizzato. L’ultimo capitolo della sua esistenza inizia così. Dopo aver posato il satellitare, il leader libico si mette in fuga con un convoglio composto da almeno 75 mezzi. Gli aerei e i droni della Nato hanno vita facile nel rintracciare la lunga fila di pickup che provano a uscire da una Sirte prossima alla capitolazione. Il convoglio viene bersagliato dai bombardamenti e Gheddafi deve trovare rifugio in un canale di scolo alla periferia della città. Il resto è una storia raccontata dalle drammatiche immagini del linciaggio del rais da parte dei ribelli e degli ultimi istanti di vita del rais e del figlio Mutassim.

Una morte ancora attuale

Quanto accaduto con certezza dieci anni fa ancora è in parte un mistero. Forse, è l’ipotesi più accreditata, Gheddafi viene ucciso a bruciapelo da alcuni infiltrati all’interno del gruppo di ribelli che lo cattura. Possibile una “mano” francese nell’esecuzione, per mettere a tacere per sempre quella che sarebbe potuta essere una voce ingombrante da prigioniero. Fatto sta che dopo un decennio quanto accaduto a Sirte è ancora molto attuale. In primo luogo perché la Libia è ancora in guerra. In dieci anni il Paese nordafricano non è riuscito a trovare una sua concreta stabilità. Il territorio è diviso e controllato da una miriade di fazioni, gruppi e tribù incapaci di ridare vita a un vero e proprio Stato. In secondo luogo perché, anche a causa dell’instabilità, il nome di Gheddafi è piuttosto pesante. Il figlio, Saif Al Islam Gheddafi, potrebbe candidarsi nelle elezioni previste a dicembre e porterebbe in dote molti voti e un importante sostegno popolare. Nessuno in Libia ha dimenticato quanto accaduto, nessuno ha scordato quel drammatico giorno. Il 20 ottobre 2011 è un’importante e cruciale data della storia, ma è anche un momento in grado oggi di far discutere e di riempire pagine della cronaca attuale. Dieci anni fa si è chiuso l’ultimo capitolo della storia umana di Muammar Gheddafi, ma non invece la parabole politica di un rais capace di far discutere anche da morto.

(ANSA il 2 dicembre 2021) - Saif al Islam Gheddafi, il secondogenito dell'ex leader libico ucciso dieci anni fa, è stato ammesso a partecipare alle prossime elezioni presidenziali in programma per il 24 dicembre in Libia. Lo ha stabilito la Corte di Sebha, accogliendo il ricorso dei suoi legali contro la bocciatura una settimana fa della sua candidatura da parte dell'Alta commissione elettorale nazionale (Hnec), secondo quanto riporta su Twitter il giornale il The Libya Observer.

Francesco Semprini e Giordano Stabile per "la Stampa" il 15 novembre 2021. Saif al-Islam Gheddafi è tornato negli stessi abiti della sua ultima apparizione, quando era stato catturato, alla fine del 2011, dai ribelli di Zintan al confine con il Niger. Abito e turbante tradizionali, color marrone, una lunga barba e occhiali da vista. Ed è riapparso in quello stesso Sud della Libia, nel capoluogo del Fezzan Sebha, dove si sente più sicuro e fuori dallo scontro fra Tripolitania e Cirenaica. Ha firmato i documenti nel centro di registrazione per le candidature alla presidenza, con l'aria guardinga ma circondato da funzionari premurosi. Il suo ritorno in scena è stato preparato a lungo. Dopo la cattura ha subito un lungo processo, e per anni un totale blackout di dichiarazioni e immagini, a parte quelle di lui dietro le sbarre nel carcere di Zintan. Processato per le uccisioni di civili durante la rivolta del 2011, mentre il Tribunale internazionale dell'Aja aveva spiccato un mandato di cattura per crimini contro l'umanità. Nessuna fazione libica ha però mai avuto l'intenzione di consegnarlo. Dopo la condanna e cinque anni dietro le sbarre, è stato liberato nel 2017 e da allora ha tenuto un profilo bassissimo tanto che le voci di una sua morte presunta sono diventate sempre più forti. Fino all'intervista al «New York Times» del luglio scorso, al telefono, ma con la "prova in vita". Di lì è partita la sua corsa alla presidenza. Sa di avere un percorso difficile ma ha le sue chance. Se il campo rivoluzionario, soprattutto i Fratelli musulmani che dominano Tripoli, lo vorrebbe morto, c'è una parte di Libia «nostalgica». Il suo ruolo nella repressione del 2011, quando il padre Muammar chiamava i manifestanti «topi» da eliminare, è stato secondario. I veri macellai erano i fratelli più piccoli Moatassim e Khamis, a capo di unità dell'esercito senza scrupoli, e poi morti ammazzati. Lui, erede designato, ha sempre avuto più un ruolo diplomatico, soprattutto durante il riavvicinamento all'Occidente nei primi anni Duemila. Buoni studi all'estero, frequentazioni a Londra e persino un canale privilegiato con Israele. Il padre aveva scelto lui per parlare con il nemico, in vista di una «normalizzazione». Poi il bagno di sangue del 2011 ha spazzato via tutto ma adesso potrebbe tornargli utile. Secondo gli osservatori la discesa in campo del rampollo è da prendere sul serio se non altro perché va a complicare un cammino, quello verso le urne, già minato da tante criticità. Il suo ingresso è figlio di una legge elettorale, quella fortemente voluta dal presidente del Parlamento di Tobruk Aguila Saleh, che appare iniqua e lacunosa. «Una legge elettorale chiara non glielo avrebbe permesso», spiega una fonte vicina al dossier secondo cui il quadro generale assai lacunoso. Primo perché ribalta la simultaneità del voto presidenziale e di quello parlamentare prevista dalla risoluzione Onu 2570 attuativa dell'intesa di Berlino, esponendo il processo elettorale a un deragliamento in corsa. «Sembra tagliata su misura per Haftar o per far saltare il banco e permettere in caso di necessità al Parlamento di Tobruk di sopravvivere». Il quadro normativo crea inoltre confusione, ad esempio, non escludendo Saif; la legge dice infatti che per non essere ammesso deve sussistere una condanna in via definitiva, mentre per la gran parte dei giuristi quella di Saif non lo è. Per capire il peso della candidatura del figlio del Colonnello occorre dire che i gheddafiani hanno una forte intesa con Dbeibah, i duri e puri sono con l'erede del Rais, mentre la gran parte considera Khalifa Haftar un traditore. La discesa in campo pertanto non aiuta di certo il generale e, dal momento che Dbeibah è al momento escluso dalla corsa in base all'articolo 12 della legge elettorale, il giovane Gheddafi avrebbe chance di vittoria. Sul suo capo tuttavia, oltre al problema giuridico interno, rimarrebbe il problema della Corte penale internazionale, replicando così il caso Bashir in Sudan. Un altro aspetto che mostra la fragilità dei presupposti del voto del 24 dicembre espresso anche nella posizione italiana a Parigi secondo cui il voto è necessario, ma affinché sia utile e condiviso deve svolgersi in condizioni accettabili intervenendo subito sulla legge elettorale. Su questo c'è differenza rispetto a Francia ed Egitto sostenitrici del voto a prescindere, forse spinte dalla convinzione di poter incassare il risultato che è stato mancato con la guerra.

Tripoli lo condannò a morte nel 2015. Il figlio di Gheddafi si candida alla presidenza in Libia: per l’Aja un ‘criminale di guerra’. Riccardo Annibali su Il Riformista il 15 Novembre 2021. Saif al-Islam Gheddafi, secondogenito del deposto dittatore libico, il colonnello Muʿammar Gheddafi, ha presentato la sua candidatura per le elezioni previste il mese prossimo. Dopo anni di clandestinità e mesi di voci, domenica Seif al-Islam è uscito dall’ombra. Un tempo volto riformista del regime di Gheddafi (prima di aiutare suo padre a reprimere i ribelli dell’opposizione durante la rivolta della Primavera araba nel 2011), la sua ricomparsa sulla scena politica libica ha dato uno scossone ai già fragili sforzi per far apparire regolari le prossime elezioni, prese come punto di svolta da attori internazionali e libici che sperano che siano il prossimo grande passo nella transizione della Libia da anni di guerra civile e caos verso la pace e la stabilità. Quando venerdì le potenze globali si sono incontrate a Parigi con i leader libici per riaffermare il loro impegno a tenere le elezioni presidenziali e parlamentari il 24 dicembre, il dibattito sul voto si è risollevato. Resta da vedere cosa ne sarà della dichiarazione, con i leader libici ancora incapaci concordare le regole di base per lo scrutinio, su la legge elettorale che verrà adottata e sul fatto che sia le elezioni presidenziali che quelle parlamentari si svolgeranno simultaneamente. Il presidente del consiglio libico, Mohamed Menfi, ha dichiarato a Parigi di essere favorevole allo svolgimento delle elezioni presidenziali del 24 dicembre, ma il primo ministro del paese, Abdul Hamid Dbeiba, non si è esposto in merito. Dbeiba ha detto che ha intenzione di candidarsi alla presidenza, nonostante precedentemente avesse sostenuto il contrario. Altri probabili candidati includono il comandante militare Khalifa Hifter , che guida le forze orientali della Libia, il presidente del Parlamento, Aguila Saleh, e l’ex ministro degli interni Fathi Bashagha. Gheddafi, che è stato ripreso in un video domenica mentre presentava le carte per la sua candidatura nella città meridionale di Sabha indossando un abito tradizionale e un turbante libico in quella che è stata la sua prima apparizione pubblica tra i libici da anni, potrebbe essere lo sfidante più temibile. Vittoria o no, il ritorno di Gheddafi è visto come una conseguenza del cambiamento dei tempi in Libia da quando i ribelli hanno catturato e ucciso suo padre nel 2011. Mentre la guerra civile ha travolto il paese dividendolo tra governi rivali orientali e occidentali, Gheddafi è rimasto prigioniero, ricercato (come è tuttora) dalla Corte penale internazionale con l’accusa di crimini di guerra commessi durante la rivolta. Emadeddin Badi, analista libico, ha twittato domenica che “una tela piuttosto deprimente” era stata dipinta per le elezioni, osservando che i candidati ora includevano qualche ricercato dalla Corte penale internazionale (Gheddafi) e “un signore della guerra” (Hifter), che è stato citato in giudizio in un tribunale americano con l’accusa di aver torturato i libici durante la guerra. Le accuse contro Gheddafi e Hifter hanno portato domenica il procuratore militare libico ad annunciare di aver chiesto alla commissione elettorale nazionale di sospendere entrambe le candidature fino a quando non fossero state approvate. La commissione non aveva risposto entro domenica sera. Per anni i libici non hanno saputo se Saif al-Islam Gheddafi fosse vivo o morto. Liberato nel 2017, ha trascorso gli ultimi anni lontano dagli occhi del pubblico, ma gli sforzi guidati dalle Nazioni Unite per riunificare le istituzioni del paese e avviarlo su un percorso di governo stanno ora dando l’opportunità di riguadagnare importanza al Paese, anche se gli analisti sono dubbiosi che possa attirare un ampio sostegno. Alcuni libici domenica hanno respinto la candidatura di Gheddafi definendola un cinico tentativo di riconquistare il potere dopo il governo distruttivo di suo padre, ma allo stesso tempo non pensano che esistano alternative migliori. “Ci si può aspettare solo un ciclo continuo di caos, combattimenti e violazioni”, ha detto Mohamed Doukali, 47 anni, un impiegato del governo nella capitale libica, Tripoli, aggiungendo che, sebbene ritenesse che Gheddafi non avesse idee per salvare il paese, molti dei suoi amici e parenti avrebbero sostenuto il figlio dell’ex dittatore. Per molti libici, Gheddafi rappresenta un’occasione per calmare disordini e violenze esplose negli ultimi dieci anni, e vedono in lui una figura potenzialmente unificante che ricorda loro i giorni più stabili prima della rivolta. “Francamente, non voglio partecipare alla votazione per gli attuali noti candidati”, ha detto Aya Emhamed, 31 anni, architetto di Tripoli, “perché abbiamo già visto cosa possono offrire alla Libia, e il risultato è una Libia frammentata e divisa”. Nonostante le difficoltà nel tenere un’elezione regolare, è improbabile che le elezioni da sole stabilizzino la Libia. Il paese deve affrontare turbolenze economiche, milizie armate con poca intenzione di sciogliersi, politica frammentata, divisioni tra est e ovest e continue ingerenze di potenze esterne che hanno sostenuto entrambe le parti nella guerra negli ultimi anni, mirando all’influenza nella nazione nordafricana ricca di petrolio e gas. L’annuncio dello ‘sfratto’ dei trecento mercenari stranieri dalla Libia fatto settimana scorsa di Hifter, che sarebbero dovuti uscire dal paese in una data non specificata, lascia comunque il problema di quelli che rimangono (in numero non precisato) minacciando il fragile cessate il fuoco e le elezioni. Le Nazioni Unite hanno stimato che i combattenti stranieri ancora presenti siano circa 20.000, tra cui alcuni appartenenti alla società di sicurezza privata russa Wagner Group e provenienti dal Ciad, dal Sudan e dalla Siria. Nonostante le pressioni delle potenze europee e degli Stati Uniti, la Russia e la Turchia, i cui mercenari si schieravano contro fazioni opposte , sono rimaste riluttanti a ritirarle.

(ANSA il 14 novembre 2021.) - Saif Al-Islam, il secondo genito di Gheddafi, ha annunciato la sua candidatura alle presidenziali in Libia. Lo ha reso noto il The Libya Observer su Twitter affermando che Saif Al-Islam Gheddafi, ha presentato ufficialmente per le elezioni del 24 dicembre la candidatura all'ufficio dell'Alta Commissione elettorale nazionale libica di Sabha. Il sito Al Marsad, su Twitter, ha pubblicato le immagini di Saif Al-Islam Gheddafi che presenta i documenti per la candidatura alla Commissione elettorale a Sabha, nel sud della Libia. Saif, il cui nome significa "spada dell'Islam", è il secondo degli otto figli di Gheddafi e primogenito della sua seconda moglie Safiya. Allo scoppio della guerra civile libica del 2011 si era schierato con il padre diventando uno dei due portavoce ufficiale del governo. Nonostante una richiesta della Corte penale internazionale di processarlo per crimini contro l'umanità e la sanguinosa repressione di proteste, fu detenuto ma anche protetto a Zintan da milizie libiche che lo avevano catturato: un processo in contumacia celebrato a Tripoli, apertosi nell'aprile 2014, si concluse il 28 luglio dell'anno dopo con una vana condanna alla pena di morte per genocidio. Il 5 luglio 2016 Saif fu scarcerato dalle autorità di Zintan in forza di un'amnistia varata nel 2015 dal governo di Tobruk (quello controllato dal generale Khalifa Haftar), e da allora ha vissuto da uomo libero in una località segreta libica, forse sul confine con l 'Egitto. Già nel luglio scorso, nella sua prima intervista con un giornale straniero in un decennio, Saif Al-Islam aveva dichiarato al New York Times che stava organizzando un ritorno politico per candidarsi alla presidenza. Seondo una stima accreditata da Al Arabiya i "geddafiani" sarebbero ancora il 50-70% dei libici.

Libia, il figlio di Gheddafi Saif al Islam si candida alle elezioni. Lorenzo Cremonesi su Il Corriere della Sera il 14 Novembre 2021. L’erede più politico del Rais in corsa per le votazioni del 24 dicembre. Oggi la sua figura, sebbene abbia nemici tra i Fratelli Musulmani, raccoglie consensi crescenti. Alla fine, Saif al Islam ha compiuto il grande passo. Probabilmente il più complesso e rischioso dei suoi 49 anni di vita. Il figlio più politico di Muammar Gheddafi, e in effetti considerato il suo probabile successore sin da ben prima degli stravolgimenti del 2011, esce dal suo nascondiglio sulle montagne di Nafusa e si candida alle elezioni presidenziali pianificate (ma non affatto certe) per il prossimo 24 dicembre. I media locali trasmettono il video di lui vestito con la stessa jallabiah e lo stesso turbante color marrone che caratterizzarono le ultime apparizioni di suo padre, prima di essere linciato a Sirte il 20 ottobre 2011 dalle brigate della rivoluzione libica assistite dall’aviazione della Nato, mentre si reca agli uffici della commissione elettorale nella città meridionale di Sebah, al cuore del deserto del Fezzan. Un passo rischioso. Tutt’ora sono in tanti che lo vorrebbero morto. Tra loro ci sono le vittime e i perseguitati politici nel quarantennio del regime di Gheddafi, oltre a tanti tra i ribelli che si unirono ai combattimenti contro le colonne lealiste dieci anni fa. Il tribunale di Tripoli lo condannò a morte in absentia nel 2015. E su di lui pende un mandato di arresto per «crimini di guerra» da parte della Corte Internazionale dell’Aja. Saif al Islam, del resto, sa bene di essere una figura controversa. Lo era anche prima della rivoluzione. Laureato alla London School of Economics di Londra, ben accetto dalle diplomazie internazionali quale interlocutore moderato su cui cercare di fare leva per trattare con Muammar Gheddafi, in lui speravano anche gli oppositori che nel febbraio del 2011 miravano a rovesciare il regime evitando un bagno di sangue. Ma sin dai primi giorni delle rivolte violente di Bengasi, Saif scelse di sposare la linea dura del padre. E dette il suo pieno appoggio alla repressione armata. Salvo pentirsene all’inizio dell’estate e rilanciare la via del dialogo politico interno. Ma troppo tardi. A metà agosto i ribelli liberavano Tripoli grazie al continuo sostegno della Nato. Gheddafi si chiudeva a Sirte nell’ultima disperata resistenza. Saif cercava di fuggire verso l’Algeria. Ma veniva catturato in pieno deserto dalle milizie di Zintan solo pochi giorni dopo la morte del padre. Da allora divenne un prigioniero eccellente. Per lungo tempo parve che la sua esecuzione fosse imminente. Ma poi la frammentazione politica del Paese, la guerra tra milizie, la crisi economica ed il caos generale, mutarono il suo destino. Da nemico divenne alleato dalle milizie di Zintan, come lui stesso ha raccontato in un’intervista pubblicata dal New York Times agli inizi dello scorso luglio. Oggi la sua figura, sebbene continui ad avere legioni di nemici specie tra i ranghi dei Fratelli Musulmani, raccoglie consensi crescenti tra chi vede nell’uomo forte una possibile via d’uscita. La nostalgia per gli anni di Gheddafi è ormai proporzionale alla disillusione per gli esiti della rivoluzione. Ma resta estremamente difficile capire quanto valga elettoralmente il consenso per Saif. A lui si contrappongono candidati popolari come l’attuale premier Abdul Hamid Dabeibah, o come pure l’umo forte della Cirenaica Khalifa Haftar (che di recente ha mandato il figlio Saddam a Tel Aviv per cercare il sostegno israeliano), e il presidente del parlamento di Tobruk, Aguila Saleh. C’è da aggiungere che le stesse elezioni restano in dubbio. Manca una legge elettorale condivisa, non è ancora chiaro se il 24 si voterà soltanto per il primo turno delle presidenziali, oppure anche per il rinnovo del parlamento. Le stesse nomine dei singoli candidati alla presidenza causano tensioni e crisi. La conferenza di Parigi il 12 novembre a parole ha cercato di dare legittimità internazionale al voto, ma alla prova dei fatti ha mostrato le enormi difficoltà che ancora ne complicano i preparativi. Non è neppure escluso un rinvio. Ma da oggi un dato è certo: Saif torna ad essere una figura attiva nel suo Paese e lo fa all’insegna della continuità col padre. La memoria di Gheddafi resta forte sulla scena politica della Libia.

Il figlio di Gheddafi si candida a presidente. Ma i Fratelli musulmani lo vogliono morto. Fausto Biloslavo il 15 Novembre 2021 su Il Giornale. Saif conta sulla Russia e teme Haftar: "Con voto regolare avrebbe il 70%". Dieci anni dopo la caduta del regime di Gheddafi, suo figlio, Seif el Islam si candida alle elezioni presidenziali in Libia. «Se il voto fosse regolare potrebbe ottenere il 70 per cento» dei consensi» prevede una delle nostre «antenne» sul terreno. Il delfino designato, il più politico e intelligente fra i figli del colonnello ha firmato ieri la candidatura nella città meridionale di Sheeba. Una discesa in campo ricca di simbolismi. La «Spada dell'Islam», questo il significato del suo nome, si è presentato alle telecamere con un turbante e tunica araba color sabbia uguali a quelli che indossava il padre prima di venire linciato a Sirte. Barba color argento, 49 anni, ha pronunciato per l'occasione una frase significativa del Corano: «Allah, rivela la verità tra noi e la nostra gente, tu sei il più grande dei conquistatori». Un modo per ammiccare i devoti islamici sapendo bene che i suoi acerrimi nemici, i Fratelli musulmani, faranno di tutto per impedirgli di correre alle presidenziali del prossimo 24 dicembre, che vorrebbero rimandare con l'avallo della Turchia. Seif ha scelto Sheeba per presentare la candidatura, roccaforte della rinascita gheddafiana. E lo ha fatto dieci anni dopo il suo drammatico arresto proprio nella stessa area, il 18 novembre 2011, mentre stavo fuggendo verso sud. Simbolica «rivincita», che manda un segnale forte anche alle cancellerie occidentali: questa mossa non poteva avvenire senza l'appoggio della Russia e forse, riservatamente, di qualche paese europeo. Per la Nato, che ha bombardato la Libia scalzando il colonnello, il ritorno al potere del figlio sarebbe non solo una beffa, ma la dimostrazione che l'Alleanza ha sbagliato tutto, come in Afganistan. L'Alta commissione elettorale nazionale libica ha accettato la candidatura di Seif el Islam. E sono scattate subito le contromisure. Imad al Sayeh, della Procura militare libica, ha chiesto di interrompere la procedura. Una mossa dettata dai Fratelli musulmani, che sarebbero pronti a riprendere le armi per far fuori Gheddafi. La Corte penale internazionale ha dichiarato che il mandato di cattura sulla testa di Seif per crimini contro l'umanità, spiccato durante la rivolta del 2011, è ancora in piedi. L'accusa, fin da allora, era sembrata più «politica», che reale. Il figlio di Gheddafi dopo l'arresto da parte dei ribelli di Zintan si è fatto amico dei carcerieri. E lo scorso luglio ha lanciato con un'intervista al New York Times l'ipotesi di candidarsi alle elezioni. Dovrà guardarsi le spalle anche dagli «amici», come il generale Khalifa Haftar, signore della Cirenaica, che dovrebbe candidarsi o mandare avanti il figlio Saddam. Si sospetta che ci fosse proprio il suo zampino dietro un fallito attentato a Seif el Islam. «I voti di Haftar andranno a Gheddafi - spiega la fonte del Giornale - Ma non solo quelli dei nostalgici. La stragrande maggioranza dei libici vuole che il paese ritorni sicuro e prospero com'era ai tempi del Colonnello».

Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni ottanta copre le guerre dimenticate dall'Afghanistan, all'Africa fino all'Estremo Oriente. Nel 1987 viene catturato e tenuto prigioniero a Kabul per sette mesi. Nell’ex Jugoslavia racconta tutte le guerre dalla Croazia, alla Bosnia, fino all'intervento della Nato in Kosovo. Biloslavo è il primo giornalista italiano ad entrare a Kabul liberata dai talebani dopo l’11 settembre. Nel 2003 si infila nel deserto al seguito dell'invasione alleata che abbatte Saddam Hussein. Nel 2011 è l'ultimo italiano ad intervistare il colonnello Gheddafi durante la rivolta. Negli ultimi anni ha documentato la nascita e caduta delle tre “capitali” dell’Isis: Sirte (Libia), Mosul (Iraq) e Raqqa (Siria). Dal 2017 realizza inchieste controcorrente sulle Ong e il fenomeno dei migranti. E ha affrontato il Covid 19 come una “guerra” da raccontare contro un nemico invisibile. Biloslavo lavora per Il Giornale e collabora con Panorama e Mediaset. Sui reportage di guerra Biloslavo ha pubblicato “Prigioniero in Afghanistan”, “Le lacrime di Allah”,  il libro fotografico “Gli occhi della guerra”, il libro illustrato “Libia kaputt”, “Guerra, guerra guerra” oltre ai libri di inchiesta giornalistica “I nostri marò” e “Verità infoibate”. In 39 anni sui fronti più caldi del mondo ha scritto quasi 7000 articoli accompagnati da foto e video per le maggiori testate italiane e internazionali. E vissuto tante guerre da apprezzare la fortuna di vivere in pace.

Chi è Saif Al Islam Gheddafi. Mauro Indelicato su Inside Over il 3 ottobre 2021. Saif Al Islam Gheddafi è il secondogenito di Muammar Gheddafi, leader della Libia dal 1969 al 2011. Considerato da molti analisti come possibile erede del padre, la sua vita cambia drasticamente con l’uccisione del rais e la fine del regime. Raggiunto da una condanna a morte in Libia e da un mandato di cattura del tribunale internazionale, oggi vive in una villa nell’ovest del Paese e potrebbe candidarsi alle prossime elezioni.

L'infanzia di Saif Al Islam Gheddafi

Il nome dato dal padre è piuttosto indicativo. Saif Al Islam infatti significa letteralmente “Spada dell’Islam”. Nato a Tripoli il 25 giugno 1972, è il secondogenito di Muammar Gheddafi ma è il primo figlio che il leader libico ha dal matrimonio con Safia Farkash, la sua seconda moglie.

Saif cresce a Bab Al Aziziya, la caserma poco distante dal centro della capitale libica dove Muammar fissa il suo quartier generale. È qui che il rais lavora e riceve i capi di Stato stranieri ed è sempre qui che piazza la famosa tenda beduina da lui usata soprattutto nelle interviste delle tv internazionali.

Ma è anche qui che il numero uno della Libia fa vivere la sua famiglia. Per questo Saif durante l’adolescenza vive in prima persona il contesto politico dei turbolenti anni ’80. Ha quasi 14 anni quando, nell’aprile del 1986, gli Usa bombardano Bab Al Aziziya distruggendo la casa dei Gheddafi. Il rais e i suoi figli sopravvivono perché evacuano poco prima la residenza, ma nel corso dei raid sarebbe morta una figlia adottiva di Muammar di tre anni. Negli anni ’90 Saif intraprende gli studi universitari a Tripoli nelle facoltà di ingegneria. In questa fase molti analisti iniziano a vedere nel secondogenito del rais un possibile futuro erede in campo politico.

Gli studi a Londra e la vita in occidente

Dopo le lauree conseguite a Tripoli, Saif vola all’estero. Si trasferisce a Londra dove studia nella School of Economics and Political Science. Rimane qui per diversi anni, anche dopo il dottorato conseguito nel 2008. Molte cronache di allora dipingono Saif come un ragazzo ben integrato nella vita londinese. Viene visto spesso in molte feste in diversi locali facoltosi della capitale britannica, impara ben presto l’inglese e successivamente anche il tedesco. Saif Al Islam è invitato anche a banchetti in giro per il Vecchio Continente e intrattiene numerosi contatti con politici e uomini di affari. Il suo stile di vita è ben diverso da quello ritirato e vicino alle tradizioni berbere del padre. Tuttavia a Muammar le frequentazioni del figlio non dispiacciono. Saif viene visto infatti come un possibile mediatore e collante tra Tripoli e l’occidente. È in questa fase che anche in Europa si inizia a parlare del secondogenito di Gheddafi come del possibile erede. La sua mondanità nella capitale britannica è confermata anche da diverse relazioni amorose a lui attribuite. La più importante delle quali riguarda quella con la modella israeliana Orly Weinerman. Lei inizialmente smentisce, ma anni dopo conferma l’esistenza di un importante rapporto tra i due durato fino alla vigilia dello scoppio della primavera araba. La vita londinese di Saif è importante per la sua formazione politica. Non c’è nelle sue frasi la retorica anti occidentale del padre e, al tempo stesso, prova a impiantare in Libia alcune delle riforme concepite durante gli studi in Gran Bretagna. E questo sia a livello economico che politico.

Saif volto riformista della Jamahiriya

La visione di Saif sul futuro della Libia risente del suo periodo occidentale. A Tripoli il secondogenito di Gheddafi preme per delle riforme in senso democratico. Su Al Libiya, una tv da lui fondata, si parla della necessità per il Paese di dotarsi di un vero impianto costituzionale e la possibilità di un’amnistia per i reati politici. Su quest’ultimo fronte il padre ascolta il figlio e libera numerosi condannati, inclusi militanti islamisti. Ma sull’introduzione di riforme in senso democratico Muammar dissente rispetto al pensiero di Saif. Tanto che nel 2009 la tv Al Libiya viene fatta chiudere. È in questo periodo che si crea, all’interno della famiglia Gheddafi, una dicotomia. Da un lato vi è Saif Al Islam a capo di correnti riformiste, dall’altro invece vi è il fratello Mutassim che ha dalla sua i membri più conservatori. Entrambi sembrano concorrere per la successione a Muammar. Con la chiusura di Al Libiya, tra il 2009 e il 2010 Saif sembra tagliato fuori a favore di Mutassim, posto al vertice di importanti organizzazioni militari. Il secondogenito tuttavia conserva ancora importanti credenziali. Ha dalla sua un’opinione pubblica che vede di buon occhio le possibili riforme e il favore di un occidente che vede in Saif il volto moderato della Jamahiriya.

La designazione a erede di Muammar Gheddafi

Non è un caso che a Tripoli si parli sempre più di Saif pronto ad essere ufficialmente designato erede. Nonostante le divergenze con il padre, è il secondogenito a conservare agli occhi del rais le principali abilità diplomatiche e politiche per mandare avanti in futuro il regime. Per la verità una designazione ufficiale non arriva mai. Nel 2009 però, nonostante la chiusura della tv da lui voluta, Saif compare sempre più spesso accanto a Muammar. Quest’ultimo annuncia anche incarichi importanti per il suo secondogenito, a partire da quelli relativi ai progetti edilizi volti a richiamare investimenti stranieri dopo la fine dell’embargo economico nel 2004. La Libia in quel frangente è un cantiere aperto. Molti dei progetti e dei contratti siglati passano da Saif, il quale si attesta come principale promotore del rinnovamento economico del Paese. Per questo motivo l’investitura come erede di Muammar appare molto più di una semplice suggestione partorita in ambienti diplomatici.

La rivolta del 2011 e la cattura da parte dei miliziani

Nel febbraio del 2011 il mondo arabo è sconvolto dalle rivolte scoppiate in diversi Paesi. A gennaio il presidente tunisino Ben Alì e quello egiziano Mubarack rassegnano le proprie dimissioni a seguito delle proteste popolari. Muammar Gheddafi a Tripoli sembra più tranquillo, forte del buon periodo economico che sta vivendo la Libia.

Non è dello stesso avviso il figlio Saif. Fonti raccolte dal New York Times, anni dopo dimostrano l’inquietudine del secondogenito. Secondo lui all’inizio del 2011 ci sono i presupposti per una rivolta anche in Libia. In questo frangente Saif viene descritto come perplesso per la lentezza del percorso riformistico. Il 17 febbraio a Bengasi si ha la prima grande manifestazione. Nel giro di pochi giorni l’intera Libia è sconvolta dalle proteste e dagli scontri. Il 20 febbraio la tv libica annuncia un discorso di Saif. Per molti è l’epilogo del regime di Gheddafi: si crede infatti che la comparsa in televisione del figlio e non di Muammar sottintenda la fuga di quest’ultimo e le promesse di nuove riforme da parte di Saif. Al contrario, il secondogenito promette una lotta senza quartiere ai ribelli al fianco del padre. Questo perché, secondo Saif, la vera intenzione dei rivoltosi è la demolizione dello Stato libico e non una sua riforma. In un simile contesto, per il figlio di Gheddafi la Libia rischia di spacchettarsi in tanti piccoli Stati senza più la possibilità di creare un vero potere centrale. Poche settimane dopo la Nato interviene contro il regime bombardando le basi aeree per instaurare una no fly zone. In tal modo le sigle ribelli riescono ad avanzare. Saif rimane accanto al padre durante tutti i primi mesi del conflitto, poi ad agosto, poco prima della caduta di Tripoli, ripara a Bani Walid. Quando il 20 ottobre Muammar Gheddafi viene ucciso a Sirte assieme a Mutassim, Saif si trova nel sud della Libia, non lontano dal confine con il Niger. Da qui dichiara di guidare i reparti rimasti fedeli al regime. A novembre viene però catturato dalle milizie di Zintan. Trasferito in Tripolitania, Saif agli occhi dei rapitori si presenta senza pollice e indice nella mano destra a seguito di un bombardamento della Nato. Da questo momento in poi di lui non si hanno più notizie certe.

La condanna a morte mai eseguita

Dopo il 2011 di Saif si conoscono soltanto le vicende giudiziarie. Nel 2015, in particolare, viene condannato a morte da un tribunale di Tripoli per genocidio e per aver partecipato alla repressione voluta dal padre. Le stesse milizie che lo hanno catturato pochi anni prima però si rifiutano di consegnarlo. I miliziani di Zintan infatti in quel frangente sono schierati contro l’esecutivo stanziato a Tripoli e appaiono vicini all’esercito del generale Haftar. Il governo a sostegno dell’operato militare di Haftar, che ha sede nella città di Al Beyda, non riconosce la sentenza. Pochi anni più tardi annuncia inoltre un’amnistia per tutti gli ex membri del regime di Gheddafi, compreso Saif. Quest’ultimo torna formalmente libero, anche se in realtà non appare mai in video. Le Nazioni Unite affermano che dal 2014 non c’è prova dell’esistenza in vita del secondogenito di Gheddafi. Tuttavia si rincorrono in Libia le notizie di un suo possibile ritorno sulla scena politica.

La vita di Saif a Zintan

La prova che il mancato erede di Muammar Gheddafi sia in vita la si ha nel 2016. I miliziani di Zintan dichiarano infatti di aver rilasciato Saif, il quale vive in una villa di questa località ben protetto dai suoi ex carcerieri. Nel frattempo lui si sarebbe fatto anche una famiglia. Infatti si parla della presenza a Zintan di una moglie (fino ad allora sconosciuta) e di una figlia di tre anni, nata quindi dopo la caduta del padre. Ma per vedere in foto Saif occorre aspettare il 2021. Nel mese di luglio infatti un giornalista del New York Times riesce ad accedere nella sua villa di Zintan. Il figlio di Muammar appare invecchiato e con una barba molto lunga. Si dice sia diventato più religioso durante il periodo di detenzione. Le sue giornate sarebbero scandite dalla lettura e dalla pittura. Raramente metterebbe piede fuori per timori relativi alla sicurezza. È certo comunque che in tutti questi anni Saif non ha mai lasciato la Libia.

La possibile candidatura alle elezioni di Saif

Nel febbraio 2021 a Tripoli viene varato un nuovo programma, voluto dalle Nazioni Unite, volto a ridare stabilità al Paese. Si prevede, in particolare, l’insediamento di un nuovo governo chiamato poi a fissare le elezioni per il 24 dicembre dello stesso anno. Il nuovo esecutivo si insedia effettivamente a marzo guidato da Abdul Hamid Ddeibah, in tal modo la Libia si avvia verso le tanto attese consultazioni. Da più parti in ambienti diplomatici si parla di una candidatura di Saif Al Islam Gheddafi. Anche se non annunciata ufficialmente, la discesa in campo del secondogenito del rais è data come molto probabile. A pesare sulla candidatura sono i procedimenti giudiziari contro Saif sia all’interno che all’esterno della Libia. Ma diversi sondaggi indicano un certo apprezzamento per la sua possibile candidatura.

Saadi Gheddafi ridotto così dopo 7 anni di torture in carcere: foto sconvolgente dalla Libia. Libero Quotidiano il 07 settembre 2021. Saadi Gheddafi, il figlio dell’ex leader libico Muammar Gheddafi, che era detenuto in una prigione di Tripoli, è stato rilasciato in esecuzione di un ordine del tribunale. Era detenuto con l’accusa di crimini commessi contro i manifestanti nel 2011 e dell’uccisione nel 2005 dell’allenatore di calcio libico Bashir al-Rayani. Saadi ha avuto un passato da calciatore professionista e nel 2003 esordì in Serie A, a Perugia, grazie all’ex presidente della società umbra Luciano Gaucci. L’arrivo del figlio di Gheddafi fu celebrato con una festa sfarzosa a Torre Alfina, nel castello del 1200 della famiglia Gaucci. Risultò infatti positivo all’antidoping dopo la sfida Perugia-Reggina e furono pochi i minuti giocati il primo anno. Dopo un altro anno al Perugia, nel frattempo retrocesso in serie B, Gheddafi passò all’Udinese e poi alla Sampdoria. Nel 2002 la Lafico (Libyan Arab Foreign Investment Company), a capo della quale c’era proprio lo stesso Saadi, acquistò circa 6,4 milioni di azioni della Juventus, pari al 5,31% del capitale.  Lasciata l’Italia il terzogenito di Gheddafi, durante la guerra civile libica, nel settembre 2011 fuggì in Niger. Venne catturato e incarcerato a Tripoli nel 2014. Saadi, ora 47enne, era noto per il suo stile di vita da playboy durante la dittatura di suo padre. Nell’agosto del 2015 venne diffuso un video in cui Saadi veniva torturato dalle milizie islamiche. Il 19 dicembre 2017 la famiglia riferì di aver perso ogni contatto con lui, detenuto in isolamento senza la possibilità di vedere neanche il suo avvocato. Nell’aprile del 2018, la corte d’appello lo ha assolto dall’omicidio di Rayani.  "Lo avrebbe fatto mio padre (Luciano, presidente di quella società - ndr), lo faccio io anche a nome di mio fratello Alessandro: se Saadi vuole, qui troverà sempre una porta aperta, lo aspettiamo a braccia aperte" ha annunciato Riccardo Gaucci. "Io e la mia famiglia abbiamo conosciuto bene Saadi - ha detto ancora il figlio di Luciano -, impensabile che potesse aver commesso i crimini di cui era accusato, troppo rispettoso e umile". 

DA gazzetta.it il 7 settembre 2021. Saadi Gheddafi, il figlio dell’ex leader libico Muammar Gheddafi, che era detenuto in una prigione di Tripoli, è stato rilasciato in esecuzione di un ordine del tribunale. La notizia è stata data dal ministero della giustizia. Saadi, ex giocatore del Perugia e azionista della Juventus, era detenuto con l’accusa di crimini commessi contro i manifestanti nel 2011 e dell’uccisione nel 2005 dell’allenatore di calcio libico Bashir al-Rayani. Il terzogenito del Colonnello Gheddafi era detenuto in un carcere di Tripoli dal 2014. Saadi ha avuto un passato da calciatore professionista e nel 2003 esordì in Serie A, a Perugia, grazie all’ex presidente della società umbra Luciano Gaucci. L’arrivo del figlio di Gheddafi fu celebrato con una festa sfarzosa a Torre Alfina, nel castello del 1200 della famiglia Gaucci. Ma l’avventura italiana del terzogenito di Gheddafi durò poco: risultò infatti positivo all’antidoping dopo la sfida Perugia-Reggina. Pochi i minuti giocati. Dopo un altro anno al Perugia, nel frattempo retrocesso in serie B, Gheddafi passò all’Udinese e poi alla Sampdoria. Nel 2002 la Lafico (Libyan Arab Foreign Investment Company), a capo della quale c’era proprio lo stesso Saadi, acquistò circa 6,4 milioni di azioni della Juventus, pari al 5,31% del capitale. Già a partire dal febbraio 2011, quando la Primavera araba iniziò ad incendiare la Libia, gli Agnelli iniziarono a pensare di disfarsi di quei soci diventati imbarazzanti. Lasciata l’Italia e i campi da calcio, il terzogenito di Gheddafi, durante la guerra civile libica, nel settembre 2011 fuggì in Niger. Venne catturato e incarcerato a Tripoli nel 2014. Saadi, ora 47enne, era noto per il suo stile di vita da playboy durante la dittatura di suo padre. Nell’agosto del 2015 venne diffuso un video in cui Saadi veniva torturato dalle milizie islamiche. Il 19 dicembre 2017 la famiglia riferì di aver perso ogni contatto con lui, detenuto in isolamento senza la possibilità di vedere neanche il suo avvocato. Nell’aprile del 2018, la corte d’appello lo ha assolto dall’omicidio di Rayani.

DA ansa.it il 7 settembre 2021. La famiglia Gaucci non dimentica Saadi Gheddafi che con il loro Perugia esordì nella serie A di calcio. "Lo avrebbe fatto mio padre (Luciano, presidente di quella società - ndr), lo faccio io anche a nome di mio fratello Alessandro: se Saadi vuole, qui troverà sempre una porta aperta, lo aspettiamo a braccia aperte" ha annunciato Riccardo Gaucci. "Ho troppo rispetto per l'uomo che ho conosciuto, sarei felice di ospitarlo e fargli conoscere la mia famiglia" aggiunge. Saadi Gheddafi, figlio dell'ex leader libico Muammar, è stato scarcerato dopo sette anni in cella e ha subito lasciato la Libia per una destinazione imprecisata. "Quando ho saputo della scarcerazione di Saadi, ho cacciato un urlo di gioia che non ricordavo da anni" ha spiegato Riccardo Gaucci, appena rientrato in Italia dopo un periodo trascorso a Santo Domingo per lavoro, dicendosi "strafelice" per come si è conclusa la vicenda. "Io e la mia famiglia abbiamo conosciuto bene Saadi - ha detto ancora -, impensabile che potesse aver commesso i crimini di cui era accusato, troppo rispettoso e umile". Gaucci junior ha quindi ripercorso i tempi in cui il figlio dell'ex leader libico decise di intraprendere la carriera di calciatore. "Fu un'altra grande idea di mio padre - ha affermato - un'operazione di immagine ma anche di alta strategia politica, un progetto di pacificazione tra nazioni. Saadi non era un campione e lo sapeva, mai che si sia lamentato con la mia famiglia o con Serse Cosmi che lo fece giocare per pochi minuti contro la Juventus, regalandogli una grande gioia". Il 2 maggio del 2004 Gheddafi, entrò in campo al 30' del secondo tempo della partita Perugia-Juventus, al posto di Bothroyd, sul punteggio di 1-0 per gli umbri guidati da Serse Cosmi. "Lo ribadisco, se Saadi vuole, qui troverà sempre una porta aperta" ha ribadito Riccardo Gaucci.  

Libia, scarcerato Saadi Gheddafi: un passato da calciatore in Serie A, il figlio del 'Colonnello' era in cella dal 2014. La Repubblica il 6 settembre 2021. Ha militato nel Perugia, nell'Udinese e nella Sampdoria: era detenuto con l'accusa di crimini commessi contro i manifestanti nel 2011 e dell'uccisione nel 2005 del calciatore libico Bashir al-Rayani. Saadi Gheddafi, il figlio dell'ex leader libico Muammar Gheddafi, che era detenuto in una prigione di Tripoli, è stato rilasciato in esecuzione di un ordine del tribunale, ha spiegato il ministero della giustizia. Saadi, ex calciatore professionista, era detenuto con l'accusa di crimini commessi contro i manifestanti nel 2011 e dell'uccisione nel 2005 del calciatore libico Bashir al-Rayani. Il terzogenito del 'Colonnello' Gheddafi era detenuto in un carcere di Tripoli dal 2014. Saadi ha avuto un passato da calciatore professionista e nel 2003 esordì nel campionato italiano in Serie A, a Perugia, grazie all'ex presidente della società umbra Luciano Gaucci. L'arrivo del figlio di Gheddafi fu celebrato con una festa sfarzosa a Torre Alfina, nel castello del 1200 della famiglia Gaucci. Ma l'avventura italiana del terzogenito di Gheddafi è durata poco: è infatti risultato positivo all'antidoping dopo la sfida Perugia-Reggina. Pochi i minuti complessivi giocati in campo. Dopo un altro anno al Perugia, nel frattempo retrocesso in serie B, Gheddafi passa all'Udinese. Saadi passerà poi alla Sampdoria. Lasciata l'Italia e i campi da calcio, il terzogenito di Gheddafi, durante la guerra civile libica, nel settembre 2011 fugge in Niger. Viene catturato e incarcerato a Tripoli nel 2014. Nell'agosto del 2015 venne diffuso un video in cui Saadi veniva torturato dalle milizie islamiche. Il 19 dicembre 2017 la famiglia denunciò di aver perso ogni contatto con lui, detenuto in isolamento senza la possibilità di vedere neanche il suo avvocato.

Estratto dell’articolo di Vincenzo Nigro per "la Repubblica" il 12 agosto 2021. Sarà un'estate frenetica in Libia. L'appuntamento del 24 dicembre per le elezioni presidenziali e parlamentari sembra lontano, ma tutto si muove in quella direzione, fra mille difficoltà, prima fra tutte la mancanza di una legge elettorale sulla quale si sta ancora negoziando. Nelle ultime ore una notizia riporta direttamente alla battaglia tra i vari candidati e gruppi politici del Paese: la Procura militare libica ha emesso un mandato di cattura per Saif al Islam Gheddafi, il figlio del colonnello che dalla rivoluzione del 2011 è rimasto prima agli arresti a Zintan e poi di fatto è stato liberato dalla milizia che lo teneva in custodia. (…)  Nell'Est i gheddafiani sono rimasti molto forti, sia perché la tribù dei Qaddafiya è molto presente da Sirte fin verso Bengasi, ma anche perché politicamente quella regione ritiene di aver subito una rivoluzione che è stata guidata da milizie e capi politici di Tripoli e Misurata. Per questo personaggi come Haftar e Saleh temono la rivalità di Saif Gheddafi, capace di pescare nel loro stesso bacino di consensi. Il figlio dell'ex leader libico aveva costruito un profilo politico molto bene accetto anche in Occidente. Saif aveva ottenuto nel 2008 un master in Scienze politiche alla London School of Economics. Il padre lo aveva incaricato di una serie di mediazioni internazionali in cui era stato apprezzato come negoziatore affidabile e credibile.

IL MISTERO NEL MISTERO: PERCHÉ SPUNTA IL TABLET RUSSO IN LIBIA. Lorenzo Vita per it.insideover.com il 12 agosto 2021. La Bbc è entrata in possesso di un tablet rivenuto nella primavera del 2020 a sud di Tripoli. Al suo interno mappe delle linee del fronte, video di droni, nomi in codice, armi da richiedere per completare le missioni. E tutto quanto sarebbe riconducibili a un’organizzazione: la Wagner, la compagnia privata di sicurezza che opera come esercito parallelo collegato al Cremlino. Secondo l’inchiesta condotta dalla Bbc, il computer sarebbe stato abbandonato l’anno scorso durante la ritirata dai dintorni della capitale da parte delle forze legate a Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica. Il canale britannico ne sarebbe entrato in possesso grazie a una fonte dell’intelligence libica. Non c’è una firma precisa della Wagner. Tuttavia tutto sembra ricollegare quel tablet a un uomo della compagnia russa. Innanzitutto il tablet, un modello della Samsung, era impostato in lingua russa. Le strade, i punti chiave, le aree delle prime linee sarebbero tutte scritte in cirillico. Le mappe riguardavano in particolare Ain Zara e corrispondevano esattamente alle riprese di un drone salvate all’interno del tablet stesso. Altro elemento sono alcune parole, collegate a dei pallini rossi, che secondo l’inchiesta sarebbero nomi in codice di altri contractor russi. Nei file appare un’altra compagnia, la Evro Polis, e si parla di un “direttore generale” che sembra essere Yevgeny Prigozhin, noto alle cronache come il “cuoco di Putin”. L’uomo d’affari vicino al presidente russo va ricordato che ha sempre e puntualmente negato qualsiasi coinvolgimento all’interno della Wagner così come con la Evro Polis. Ci sono poi altri elementi particolarmente interessanti. Nel tablet sarebbe presente una “lista della spesa” con richieste che – secondo gli analisti interpellati dalla Bbc – potevano essere esaudite solo dalle forze armate russe. Oltre a questi, una serie di informazioni sull’uso delle mine, su determinati tipi di ordigni, fino addirittura a libri come il Mein Kempf, Il Trono di Spade e uno sulla produzione del vino. La scoperta del tablet rappresenta sicuramente un episodio importante per diverse ragioni. Innanzitutto perché sarebbe la prova pubblica e a livello giornalistico del coinvolgimento della compagnia di sicurezza russa Wagner nel conflitto libico. Un elemento che di per sé è sempre stato noto a osservatori e analisti, ma a cui è sempre stato legato un alone di mistero o comunque di indefinito. Gli stessi Stati Uniti hanno ribadito più volte la richiesta alle potenze coinvolte di ritirare tutti i mercenari dalla Libia ma senza specificare, recentemente, i nomi delle compagnie né i Paesi. Sono spesso notizie che si conoscono ma che restano avvolte in una forma di bolla protettiva. C’è poi un ulteriore elemento da non sottovalutare: la tempistica dell’inchiesta. Mohamed Gharouda, sostituto procuratore militare della Libia, avrebbe spiccato proprio la scorsa settimana un mandato di arresto contro Saif al-Islam Gheddafi, figlio dell’ex leader libico. Secondo Libya Observer, Saif è sotto accusa, tra le altre cose, per legami con i mercenari di Wagner e con la Russia. Il secondogenito di Gheddafi era poi balzato recentemente agli onori della cronaca perché aveva rilasciato un’intervista al New York Times dopo dieci anni di scomparsa dai media internazionali. E in questa intervista rivelava di essere pronto a candidarsi alle elezioni. Saif, oltre a questi campi di imputazione, è inoltre sempre ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini del 2011. Infine, non va dimenticato anche la questione dei rapporti molto tesi tra Russia e Regno Unito e le schermaglie legate a notizie e mosse di spionaggio che sono aumentate nel corso di questi ultimi tempi. Dopo le tensioni nel Mar Nero, con i colpi sparati dai russi verso una nave militare britannica al largo della Crimea, ieri c’è stato l’arresto in Germania di tale David Smith, cittadino britannico che secondo i magistrati tedeschi avrebbe consegnato diversi documenti ai servizi segreti russi. L’uomo era da tempo nel mirino dell’MI5. Lo scandalo del tablet russo ritrovato in Libia e ora “in mani sicure” dopo essere stato svelato dalla Bbc, confermerebbe quindi questa continua escalation di colpi a sorpresa tra Londra e Mosca. Una notizia che il ministero degli Esteri russo ha commentato parlando di dati “manipolati” per “screditare la politica russa” in Nord Africa. La Wagner, e questa è cosa nota, è da tempo uno degli obiettivi dei servizi Nato in Libia.

Il costo dell’ipocrisia. Francesca Mannocchi su L'Espresso il 2 agosto 2021. L’Italia continua a finanziare la Guardia Costiera in Libia Bisogna andare via? No. Ma si devono vincolare i fondi al controllo internazionale delle strutture. E scongiurare l’azione delle milizie che trasferiscono i migranti in campi illegali. L’esperienza di questi anni ci ha convinti della necessità di risolvere le criticità, proprio ad iniziare dall’urgente questione dei centri. Promuovendo l’intervento delle agenzie delle Nazioni Unite e il coinvolgimento di un ampio numero di Paesi e organizzazioni non governative”. Potrebbe sembrare una dichiarazione di due settimane fa, rilasciata a cavallo del rifinanziamento delle missioni all’estero. Invece no. Sono parole pronunciate dalla ministra Lamorgese alla Camera il 6 novembre del 2019, due anni fa. Si discuteva del Memorandum d’Intesa tra l’Italia e la Libia, delle necessarie modifiche da negoziare, degli abusi nei centri. Quali fossero le condizioni nei centri di detenzione – luoghi di reclusione arbitraria e indefinita - era già noto a tutti, l’ultimo rapporto ONU era stato pubblicato 15 giorni prima dell’audizione della ministra alla Camera, il segretario generale delle Nazioni Unite in persona, Antonio Guterres, si era detto allarmato per le sparizioni, le esecuzioni e le torture subiti dalle persone migranti. Erano ampiamente note le commistioni tra pezzi delle istituzioni libiche e la catena del traffico di uomini e per istituzioni si intendeva già – con prove e documenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU - la Guardia Costiera Libica. Aggiunse, la ministra Lamorgese, che era necessario ‘rafforzare le iniziative in difesa dei diritti umani, responsabilizzando le autorità libiche’. La sede per rafforzarle avrebbe dovuto essere la commissione congiunta italo-libica, l’organo preposto a cambiare il Memorandum. Sono passati due anni, due governi in Italia e altrettanti a Tripoli, eppure nessun tavolo negoziale è stato attivato. Quelle della ministra erano richieste doverose allora, restano richieste inascoltate oggi e suonano come un disco rotto ogni estate quando il Parlamento è chiamato a votare il decreto missioni, cioè i soldi dei contribuenti destinati al finanziamento delle missioni militari all’estero tra cui – naturalmente – le missioni in Libia. Tre mesi dopo le dichiarazioni della ministra Lamorgese del 2019 seguì il rinnovo del Memorandum senza sostanziali modifiche se non un generico impegno a inserire una clausola per consentire una rinegoziazione. L’impegno, però, negli anni si è tradotto in una simbolica cambiale. All’Italia tocca il tempo futuro del pagherò (e paga sempre), alla Libia quello del rinegozieremo (e non rinegozia mai). Quest’anno in Parlamento si è aggiunta la cambiale del ‘verificheremo’, mediazione raggiunta dal Pd col governo Draghi per scontentare tutti e non scontentare nessuno. Si decide cioè di non decidere. L’anno scorso il PD in Parlamento votò a favore del Decreto Missioni, di fatto disattendendo la pozione emersa dall’assemblea del partito (cioè il suo organo piu’ alto) che aveva chiesto di interrompere immediatamente i rapporti con la Guardia Costiera libica. Era il Pd di Zingaretti, sono passati dodici mesi e il Pd è quello di Letta, cioè il segretario a cui l’Italia deve la missione Mare Nostrum, l’operazione di salvataggio nel Mediterraneo che segui’ la strage del 3 ottobre 2013 al largo di Lampedusa. Il Pd di Letta, almeno idealmente piu’ vicino dei suoi predecessori al mondo dell’associazionismo e delle Ong, non poteva presentarsi all’appuntamento estivo col decreto missioni senza una proposta così, dopo numerose discussioni interne, è maturato il compromesso che dall’ “emergenza migranti” (che non esiste nei numeri) si esca solo trasformandola in una questione che riguardi tutti gli stati membri (coinvolgimento già fallito dopo la Conferenza di Malta). Così il PD ha chiesto e ottenuto di inserire nel testo un emendamento che prevede il ‘superamento della missione’ e il trasferimento delle responsabilità di addestrare la Guardia Costiera Libica alla missione militare IRINI, cioè all’Europa. Il testo dell’emendamento recita “con riferimento alla missione bilaterale di assistenza alla guardia costiera della Marina militare libica ed alla General administration for costal security si propone di autorizzarla, impegnando il Governo ad una verifica per superare, nella prossima programmazione, la suddetta missione, proponendo di trasferire le funzioni della stessa alla missione bilaterale Miasit Libia e alla missione Irini”. Al termine dei consueti giorni estivi di dibattito interno al Pd il Parlamento ha - prevedibilmente - approvato il rifinanziamento, il partito si è detto soddisfatto e la questione rimandata al prossimo anno. Ma è vera gloria? Non proprio. Le basi della proposta del Pd sono sostanzialmente due: 1) l’Italia non può farsi carico da sola della questione migranti, il problema deve essere gestito dall’Europa che deve istruire e equipaggiare la Guardia Costiera e gestire i flussi 2) non possiamo lasciare la Libia in mano ai Turchi e ai Russi, andarcene sarebbe un errore. Andiamo per gradi. L’Italia non si fa economicamente carico da sola della questione migranti perché l’Europa già finanzia le missioni in Nordafrica, fra il 2014 e il 2020 l’Unione Europea ha versato circa 698 milioni di euro alla Libia, mentre nel 2019 Euronews aveva calcolato che fra il 2017 e il 2019 – i primi anni di applicazione del memorandum – l’Italia aveva girato alla Libia circa 375 milioni di euro. In piu’ la missione IRINI - continuazione della controversa Operazione Sophia - ha come obiettivo principale quello di monitorare il rispetto dell’embargo sulle armi in Libia e contrastare il traffico di carburante e solo poi – come obiettivo secondario – quello di addestrare la Guardia Costiera Libica, obiettivo comunque mai posto in essere perché non sono state raggiunti gli accordi con le fragili istituzioni di Tripoli. La solidarietà degli stati membri sui corridoi umanitari è poi un’altra partita ancora, perché la rigidità dell’Europa sui ricollocamenti sembra non essere scalfita neppure dalla credibilità internazionale di Mario Draghi e il testo dell’emendamento che ha placato gli animi inquieti del Pd “impegnando il Governo ad una verifica” più che un compromesso è una mistificazione. Cosa bisogna verificare? E con chi? Con l’Europa del Patto sull’Immigrazione che ha come suo cardine la facilitazione dei rimpatri? Con i paesi scandinavi che hanno inaugurato le revoche della protezione umanitaria, o con il blocco di Visegrad? E in quanto tempo si verificherà? Più o meno del tempo che il Consiglio d’Europa ha destinato il 24 giugno scorso al fenomeno migratorio: otto minuti per stabilire che le politiche migratorie future debbano avere una ‘dimensione esterna’ cioè subappaltare la questione, come è stato fatto con la Turchia e come si continuerà a fare coi paesi del Nordafrica. Alla luce di queste premesse, certo, il ‘verificheremo’ è un’ipocrisia, come le modifiche sempre rimaste eventuali al Memorandum. Il Pd chiede anche di chiudere i centri di detenzione e spingere la Libia a firmare la Convenzione di Ginevra sui rifugiati. E’ evidente però, a quattro anni dall’accordo stretto dall’allora governo Gentiloni con l’allora governo Sarraj, che quei fondi abbiano rafforzato il sistema dei centri anziché aiutare a combatterlo. Nel dibattito pubblico le posizioni si dividono più spesso sulla Guardia Costiera, anche perché le poche navi delle ONG rimaste nel Mediterraneo continuano a documentare gli abusi dei libici a bordo delle motovedette fornite dall’Italia, come è accaduto al video registrato e diffuso da Sea Watch a cavallo del voto, ma si cita sempre troppo poco l’articolo del Memoradum che parla dei centri (ribadiamolo: definiti di accoglienza sebbene siano centri di detenzione per la legge libica). Recita il testo che le ‘Parti si impegnano all’adeguamento e al finanziamento dei centri di accoglienza già attivi, attingendo ai finanziamenti disponibili da parte italiana e a finanziamenti dell’Unione Europea. La parte italiana contribuisce attraverso la fornitura di medicinali e attrezzature mediche a soddisfare le esigenze di assistenza sanitaria dei migranti irregolari, per il trattamento delle malattie trasmissibili e croniche gravi.” Peccato però che come sottolineato più volte negli anni dalle organizzazioni umanitarie, dei soldi che arrivano in Libia si perda traccia, è impossibile monitorare come vengano spesi e in che mani finiscano. Per questa ragione quelle stesse organizzazioni chiedono da anni, senza ottenerla, l’istituzione di una commissione d’inchiesta parlamentare sui fondi in Libia. Quello che è certo è che quei soldi arrivino dall’altra parte del Mediterraneo, ogni anno a metà estate ed è quindi stravagante supporre che si possa da un lato rinnovare un finanziamento per i centri di detenzione e dall’altro chiedere al medesimo stato che riceve quei fondi, di chiuderli tutti e subito e organizzare qualche decina di corridoi umanitari. La verità, irritante ma limpida, è che il Memorandum Gentiloni-Sarraj ha rafforzato il sistema dei centri di detenzione, rendendolo una ufficiale fonte di entrata per istituzioni che già nel 2017 erano ampiamente compromesse. Oggi quelle istituzioni sanno che si guadagna non solo pattugliando il mare, ma anche costringendo in detenzione arbitraria migliaia di persone. E sanno, perché ogni anno la nostra inerzia lo ribadisce, che nessuno chiede conto dell’utilizzo di quel denaro. Oxfam, aggiornando i dati sulle spese militari dell’Italia in Libia, ha rilevato che nel 2021 sono cresciuti di mezzo milione di euro i finanziamenti destinati al blocco dei flussi migratori, da 10 milioni nel 2020 a 10,5 nel 2021. In totale sono 32,6 i milioni destinati alla guardia costiera libica dal 2017; salgono a 271 i milioni spesi dall’Italia per le missioni nel paese. Dice il Pd, poi, che non si può lasciare la Libia alle potenze straniere che l’hanno trasformata nel terreno di uno scontro per procura. Vero. Con un però. La Libia è già ampiamente influenzata dalla Turchia e dalla Russia, lo è economicamente (leggasi ricostruzione), lo è militarmente (nonostante gli accordi sul cessate il fuoco ci sono nel paese ancora ventimila mercenari e la Turchia addestra i militari libici nelle basi che ha saldamente stabilito nel paese), e lo è politicamente. E’ evidente che la strategia per evitare che queste potenze prendessero piede – se c’era – non ha funzionato. Come mediare, dunque? Andando via o restando? La riflessione che realisticamente dovrebbe fare il Parlamento non è se restare o meno, ma come. Smantellare le tifoserie, la retorica che ha ammantato e ammanta da anni il dibattito sul fenomeno migratorio e liberarsi dalle ipocrisie delle invasioni presunte ma anche da quelle dei buoni sentimenti. Possiamo andarcene dalla Libia? No. Ma prima di chiedere ad altri di assumersi delle responsabilità, dobbiamo assumerci il peso dei principi europei che sbandieriamo, cioè il rispetto dei diritti umani. Vogliamo la chiusura dei centri? Sì, ma da dove si comincia? Sbugiardando gli interlocutori. Vincolando l’erogazione dei fondi a delle condizioni su cui ci è impossibile negoziare, chiedendo – per esempio – la presenza nei centri di detenzione 24 ore al giorno, sette giorni su sette di uno staff internazionale, che possa monitorare la gestione delle strutture, l’accesso medico, e scongiurare la presenza di milizie che, come sappiamo, raggiungono i centri nottetempo per trasferire i migranti nelle strutture illegali. Chiedendo dei rapporti annuali sulla destinazione finale dei fondi erogati dall’Europa e dall’Italia. Dove finiscono, e come vengono spesi? Cominciamo a chiederlo, rifiuteranno di rispondere, possiamo prevederlo. Ma solo su questo rifiuto, su un velo di Maya davvero squarciato, l’Europa potrà agire con coscienza e lungimiranza in Libia. Con un piano e non con una cambiale. Con un ‘cambieremo’ a sostituire un "verificheremo". 

Domenico Quirico per "la Stampa" il 15 luglio 2021. Nella intimità delle cancellerie occidentali suona, per la Libia, la campana a stormo dell'ottimismo: la tregua regge si dice, le milizie sonnecchiano come balene pigre a poche dune l'una dall'altra, le miracolose elezioni, primo assaggio di un avvenire radioso, sono a un passo. Perfino il truce generale di Bengasi, Haftar, con le sue manie annessioniste, sembra sparito. Si impermaliscono gli ottimisti se qualcuno suggerisce prudenza, se disegna un paesaggio formicolante ancora di ombre. Il clou della questione è un numero: che si impiglia negli scenari confortevolissimi, fa raschiare i meccanismi con sinistri scricchiolii. Il numero che non si riesce a far rientrare nei calcoli è ventimila: quanti sono i mercenari che combattono nei due schieramenti della guerra civile, quello di Haftar e quello tripolino, malandata barca nelle mani del discutibile primo ministro Abdelhamid Dabaida. Per leggervi dentro, a quel numero, occorre il mappamondo: russi e ciadiani, siriani e turkmeni, sudanesi. Ben armati, agguerriti, mastini che sanno combattere la guerra con il diavolo in corpo, legati ai loro comandanti più che ai datori di lavoro: come i mercenari di tutti i tempi. La guerra è un bene di consumo, lo puoi comprare sul mercato se sei disposto a pagarne il prezzo. Gli dei e gli spettri di questi combattenti, le solidarietà fraterne e i massacri, l'avidità e le paure, sono invisibili agli estranei, una realtà silenziosa, enigmatica, che fa paura. Sarebbe splendido come ha auspicato, ahimè invano, la signora Najla Mangouch, ministro degli Esteri del governo di Tripoli, che i mercenari di entrambi gli schieramenti se ne andassero, smaterializzandosi dal suolo libico. Peccato che non ci sia nessuno in grado di renderla possibile, questa provvidenziale evaporazione. Certamente non le potenze occidentali che coccolano gli accordi di pace libici ma che non manderanno mai soldati per garantirli. Non lo faranno Russia, Turchia e Emirati che i mercenari hanno arruolato: è grazie a loro che sono riusciti a fissare sul terreno una redditizia situazione di parità, divisa da una sorta di Maginot nel deserto tracciata tra Sirte e Jufra. E con i mercenari combatteranno le nuove battaglie per confermare o ingrandire influenze geopolitiche, e arraffare petrolio, contratti di ricostruzione. Ma sono soprattutto i mercenari a non avere alcuna intenzione di chiudere il profittevole contratto libico: l'alternativa sarebbe tornare in Siria e in Darfur a morire di miseria e di guerra in conflitti molto più poveri e feroci di quello che combattono qui. Un salario mensile di duemila dollari è un tesoro per miliziani rintanati tra le rovine di Iblid dove il cielo diluvia bombe dell'esercito di Bashar Assad. O prelevati nei deserti del Darfur dove le divergenze tribali si regolano, dal 2003 almeno, in una mischia sacrilega. La Libia è ricca, immensamente ricca, e debole. Un affare perfetto per chi sa maneggiare un kalashnikov e un lanciagranate. Se i committenti si faranno avari si possono avviare ricchi traffici privati, controllo di pozzi o oleodotti, migranti, droga. Qui non c'è il contagio di furore omicida delle guerre del fanatismo e delle tribù. Semmai si segue la logica del profitto, dell'investimento redditizio. La privatizzazione della guerra, la globalizzazione della sicurezza? No, meglio rileggere la storia dei mercenari stranieri nell'Italia del trecento-quattrocento: inglesi e francesi rimasti senza lavoro per la fine della guerra dei cent' anni, disoccupati dei massacri tra borgognoni e armagnacchi. Li assoldarono i ricchi comuni italiani che farneticavano nei loro egoismi. Un buon affare, pensarono. Non se ne andarono più. Allora: chi sono, da dove vengono e chi la finanzia questa legione straniera dei ventimila? Il gruppo più numeroso è quello dei «siriani». Nel 2019 erano quattromila, ora secondo l'Osservatorio siriano per i diritti dell'uomo se ne contano 13 mila, forse più. La maggioranza combatte sotto le bandiere di Tripoli ma ce ne sono anche tra le fila di Haftar, duemila, reclutati dai russi nell'inestinguibile cainismo siriano. La Turchia li ha piluccati tra i disperati asserragliati nell'ultimo bastione ribelle di Iblid nella Siria occidentale che rimpicciolisce ogni giorno. Nel novembre del 2019 le roche bestemmie delle cannonate sfioravano ormai Tripoli; si chiese aiuto ai turchi. Rapido addestramento di tre mesi ad Afrin e ponte aereo per la Libia. Per duemila dollari di salario (promessa non sempre mantenuta) e una ipotetica concessione della nazionalità turca, fermarono Haftar e lo ricacciarono in Cirenaica. C'erano uomini delle formazioni jihadiste, sopravvissuti dell'Armata libera, ma anche turkmeni della divisione Sultan Murad. La prospettiva di andarsene li ha fatti infuriare. Hanno rifiutato di sciogliere il comando che riunisce i loro capi. Li ha appoggiati il gran mufti di Tripoli che ha definito l'irriconoscente ministro degli Esteri «donna cattiva e spregevole». Per gli islamisti e i fratelli musulmani i «siriani» sono una fanteria indispensabile da far pesare sul piano politico. L'altro contingente maggiore sono gli undicimila sudanesi, arruolati soprattutto tra le milizie del Darfur e pagati dal Qatar. Esperti come pochi in fatto di sacrifici, vessazioni, e dolori. Le loro alleanze sono mobili, sfuggono alle analisi e non sempre rispondono a una logica politica. Hanno combattuto contro il regime del deposto al Bashir, l'annuncio della amnistia in teoria li dovrebbe indurre a rientrare. In teoria. Per questi migranti del kalashnikov il nuovo governo di transizione è «una copia del dittatore». Tra loro anche coloro che sarebbero stati arruolati con l'inganno. Una compagnia privata del Qatar offriva un lavoro nella sicurezza nei ricchi e tranquilli Emirati. Invece sono stati rinchiusi in campi di addestramento simili a prigioni, e posti di fronte alla scelta tra combattere, nello Yemen o in Libia: scegliete voi. «Ridateci i nostri figli», gridavano i loro parenti in alcune manifestazioni di protesta svoltesi a Khartoum. Per ora presidiano in un disperato paesaggio color di cenere, in una immensità che confina con il nulla, la maginot della Sirte. 

La rivolta contro il rinnovo della missione. Il finanziamento alla Guardia costiera libica “foraggia attività criminali”. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 14 Luglio 2021. Questione di trasparenza. Di difesa dei diritti umani e dei principi stessi della nostra Costituzione. Per non essere complici di chi, a bordo di vedette regalate dall’Italia, spara contro i migranti in mare. Stop al finanziamento alla cosiddetta Guardia costiera libica. Il “finanziamento della vergogna”. Ieri mattina, durante una conferenza stampa alla Camera, il deputato Riccardo Magi, di Più Europa Radicali, insieme a Giorgia Linardi, portavoce di Sea Watch-Italia Valentina Brinis di Open Arms, Filippo Miraglia, responsabile immigrazione Arci Nazionale, Paolo Pezzati, Humanitarian Policy Advisor di Oxfam Italia e a parlamentari di diversi gruppi che voteranno contro il rinnovo delle missioni, hanno chiesto di bloccare ogni supporto alla cosiddetta Guardia costiera libica: «Non è accettabile che il nostro Paese continui a sostenere con risorse economiche e logistiche quella che a tutti gli effetti è una attività criminale, come dimostrano le innumerevoli denunce e video sull’operato della cosiddetta guardia costiera libica», afferma Magi. «Il rinnovo di questa missione – prosegue – costituirebbe una gravissima violazione di principi fondamentali del diritto internazionale e la nostra Costituzione. Per questo bisogna opporsi con forza dentro in parlamento e nel paese». Rilancia Paolo Pezzati (Oxfam): «Tra la riforma della giustizia e il ddl Zan, quest’anno sta passando sotto silenzio la discussione della proroga delle missioni internazionali, che contiene gli stanziamenti per l’aumento del sostegno italiano alla Guardia costiera libica, passato da 10 milioni nel 2020 a 10,5 nel 2021, per un totale di 32,6 milioni destinati al blocco dei flussi migratori dal 2017. Una strategia che governo dopo governo continua imperterrita, nonostante nel Mediterraneo si continui a morire, nonostante gli orrori nei lager libici». «Oggi (ieri per chi legge, ndr) abbiamo mostrato alla Camera le immagini della violenza delle autorità libiche contro chi fugge: i recenti spari e speronamenti e un naufragio causato dalla stessa motovedetta nel 2017. Tra due giorni la Camera voterà il rifinanziamento. Nessuno potrà dire che non sapeva», avverte Sea Watch su Twitter. «Nel Mediterraneo si continua a morire. La strage va fermata: il Governo cancelli il Memorandum con la Libia e non proceda al rifinanziamento della cosiddetta Guardia costiera libica. Domani (oggi, ndr) saremo in piazza a Roma», scrive in una nota la Cgil nazionale in cui si comunica l’adesione della Confederazione alla manifestazione organizzata dal Tavolo Nazionale Asilo e Immigrazione, di cui la Cgil fa parte, che si terrà oggi in Piazza Montecitorio, alle ore 17. Un sit-in di protesta e di proposta. Diverse ong, in rappresentanza della società civile, chiederanno al Governo lo stop al rinnovo della missione in Libia e alla prosecuzione della cooperazione con le autorità libiche, in assenza di garanzie concrete sulla protezione dei diritti umani di migranti e rifugiati; in particolare chiederanno di bloccare ogni collaborazione con la Guardia costiera libica, che come hanno mostrato gli ultimi eventi, si è resa protagonista di respingimenti illegali in Libia. Chiederanno inoltre la realizzazione di un piano per l’evacuazione immediata delle persone rinchiuse nei centri di detenzione libici, oltre all’estensione dei canali di ingresso regolari per persone migranti e rifugiati. Fondamentale inoltre il ripristino di un sistema istituzionale di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale, e il riconoscimento del ruolo essenziale svolto dalle ong per i soccorsi dei migranti in mare. Il sit-in ha una parola d’ordine inequivocabile: “Libia: una benda per non vedere?”. «La sensazione – si legge in una nota diffusa da AOI, l’Associazione delle Ong Italiane – è che il Governo Italiano, qualsiasi sia la sua composizione, vada avanti perseguendo le solite direttrici strategiche, in alcuni casi anche aumentando il suo impegno e in altri casi senza tenere sufficientemente conto degli impatti che tali strategie hanno prodotto». Non si affrontano le vere ragioni delle disuguaglianze. Le preoccupazioni maggiori – in sostanza – si concentrano nel quadrante del Mediterraneo, allargato dove le missioni navali, quelle in Libia e quelle del Sahel, sembrano rispondere più ad obiettivi di contenimento dei flussi, controllo delle frontiere e stabilizzazione, che ad altro. «L’Italia – si legge ancora nel documento – punta a giocare un ruolo militare sempre maggiore in quell’area cruciale. Pur sapendo che l’equilibrio tra sicurezza e sviluppo sia complicato da trovare, c’è bisogno di un approccio nazionale ed europeo che abbia al centro la pace e la protezione capace di dare maggior risalto ai veri fattori di conflitto nella regione, come la gestione opaca della cosa pubblica, le disuguaglianze e la violazione dei diritti umani. Questo vale per i Paesi del Sahel, la cui missione (oltre quella bilaterale col Niger) di riferimento – Takuba– ha visto triplicare i fondi destinati dal 2020 (15,6) ai 49 di quest’anno, ma anche e soprattutto per la Libia». Nel Mar Mediterraneo quest’anno andiamo a spendere 150 milioni – prosegue la nota di AOI – ma nessuna missione ha nei propri termini di riferimento il salvataggio e il soccorso delle persone in mare. Significativi aumenti, + 17 e + 15 milioni, ci sono stati anche nelle missioni navali nel mediterraneo Mare Sicuro e Irini. Sarebbe importante capire il motivo di questi aumenti e il Parlamento un ruolo su questo lo può giocare». Di fronte al malessere che attraversa il Pd, Enrico Letta gioca la carta “europea”: la condizione per approvare il decreto di rifinanziamento delle missioni internazionali passa attraverso una riscrittura del “nodo Libia”. Ecco quindi che addestramento e supporto della Guardia costiera libica devono essere affidati entro sei mesi alla Ue: è la richiesta che parte dai vertici dem. Lia Quartapelle e Enrico Borghi sono i dem che stanno trattando nelle commissioni Esteri e Difesa della Camera. Letta deve fare i conti con la combattiva pattuglia parlamentare “pacifista”, guidata dall’ex presidente del partito, Matteo Orfini, ma anche con un’onda di protesta che proviene dalla base. È il caso dei 300 militanti che hanno sottoscritto un post di Nella Converti del circolo dem romano dedicato al piccolo naufrago Alan Kurdi. Chiedono lo stop al sostegno alla Guardia costiera libica. Questo è l’incipit dell’appello rivolto a Letta e ai parlamentari Pd: «Caro Enrico Letta non barattiamo la vita degli esseri umani in nome della governabilità». «Intanto in Libia – ricorda in una nota Medici senza frontiere – migranti e rifugiati continuano ad essere sistematicamente esposti al rischio di detenzione arbitraria e ad altri gravi abusi dei loro diritti. Nei centri di detenzione, in cui vengono trattenuti illegalmente e a tempo indeterminato immediatamente dopo l’intercettazione in mare e lo sbarco in Libia, le condizioni di vita continuano ad essere disumane. Il numero delle persone detenute è cresciuto significativamente negli ultimi mesi, mentre continuano a venire documentati casi di torture, violenze sessuali e sfruttamento… Sollecitiamo il Parlamento a revocare qualsiasi sostegno alla Guardia costiera libica e alla Amministrazione Generale per la Sicurezza Costiera, condizionando qualsiasi intesa all’adozione da parte libica di concrete misure a garanzia dei diritti di rifugiati e migranti, compreso l’impegno a sbarcare persone soccorse in mare in un porto sicuro, che non può essere in Libia». Sit-in e non solo. Un digiuno è l’iniziativa lanciata da padre Alex Zanotelli. Il missionario comboniano si rivolge ai parlamentari: «È una violazione della nostra Costituzione, delle leggi internazionali e della nostra umanità. Chiediamo ai deputati di avere il coraggio di votare contro il rifinanziamento della Guardia costiera libica. Ricordiamo a tutti che un voto a favore significa avere le mani sporche di sangue innocente». C’è chi ricorda Letta con una felpa di “Open Arms”. Dalla felpa al voto: un passaggio cruciale per il segretario dem.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Lorenzo Cremonesi per corriere.it l'1 giugno 2021. Pranzo regale in puro stile libico il 29 maggio nella villona faraonica di uno dei più noti trafficanti di esseri umani della Tripolitania. Fuori guardie armate. All’interno piattoni di cuscus all’agnello, involtini di foglie di vite, la tradizionale «sciorba» (il brodo di carne e prezzemolo), dolci a base di miele ispirati dall’antica cucina turca: le fotografie postate sui social mostrano centinaia di ospiti venuti da tutto il Paese seduti ai tavoli imbanditi sotto tendoni bianchi immacolati. Posteggiata al marciapiede di fronte una Bmw spider nuova fiammante con appoggiata sul tetto una corona di ferro. «Monarca» dell’evento lui, sempre lui, il potente El-Bija come lo conoscono tutti, il 32enne Abdelrachman Milad, padrone controverso dei traffici marittimi legali, ma soprattutto illegali (non a caso è anche descritto come il boss della «Cosa Nostra» locale), attorno al porto di Zawia, sulla costa occidentale che da Tripoli arriva al confine con la Tunisia. Occasione dell’evento: il matrimonio di El-Bija. Della moglie i social non parlano. Non appare neppure una foto. Mentre lui è ripreso più volte tra gli ospiti, mentre telefona, intento a salutare gli amici. Nulla di strano. Nella più che conservatrice Libia, specialmente da dopo la defenestrazione sanguinosa di Muammar Gheddafi nel 2011, le donne si vedono poco. Nelle foto di Zawia non ci sono. La festa è stata divisa rigorosamente in due, donne e uomini separati come è tradizione in Afghanistan e spesso in Pakistan. Così El-Bija torna alla ribalta. La sua storia è strettamente legata al caos violento e criminale in cui è via via scivolato il Paese nell’ultimo decennio. «Quelli come lui sono personaggi scomodi. Ma con loro devono fare i conti tutti coloro che trattano di Libia», ammettono di continuo i commentatori e politici locali. Cinque anni fa era diventato comandante della Guardia Costiera locale, la stessa che il governo italiano aiuta ad operare con il regalo di motovedette, oltre a fondi, addestramento ed assistenza logistica. Nel giugno 2018 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu impose dure sanzioni contro di lui ed altri cinque trafficanti con l’accusa di contrabbandare esseri umani, petrolio ed armi. L’Onu lo imputò di essere «direttamente coinvolto nell’affondamento di barche cariche di migranti sparando con armi da fuoco». Ma poi si distinse nelle battaglie delle milizie della Tripolitania in difesa del governo di Fayez Sarraj (l’unico riconosciuto dall’Onu) contro l’aggressione militare guidata dall’uomo forte della Cirenaica, Khalifa Haftar, sin dal 4 aprile 2019. El-Bija divenne allora uno dei protetti dell’intervento turco contro Haftar, sostenuto a sua volta da Russia, Egitto ed Emirati. Fermato Haftar un anno dopo, Sarraj optò per arrestare il capobanda di Zawia nell’ottobre 2020. La sua milizia Al-Nasr stava diventando troppo aggressiva, rischiava di fomentare lo scontro interno alla Tripolitania e indebolire i successi contro Haftar. In prigione però c’è rimasto soltanto cinque mesi. Appena dopo la nomina a nuovo premier ad inizio aprile, è stato infatti il pragmatico Abdul Hamid Dabaiba a scarcerarlo e restituirgli l’incarico di ufficiale della Marina libica. La soldataglia della Al-Nasr minacciava altrimenti di assaltare il carcere di Mitiga per liberarlo. Il ritorno alla vita pubblica di El-Bija rivela tra l’altro il terreno molto scivoloso su cui opera il nuovo esecutivo. Dabaiba cerca di essere amico di tutti, anche dove gli interessi e le alleanze sono palesemente in contrasto tra loro. Una politica troppo inclusiva rischia però di implodere in ogni momento.

La Libia è uno stato-mafia, ma l’Europa guarda altrove. In questi anni l’Unione e l’Italia, consapevoli ma incuranti del tragico gioco dell’oca cui sono costretti i migranti, mandano soldi a pioggia in Libia senza ottenere nulla. Alberto Negri su Il Quotidiano del Sud il 27 maggio 2021. Questa è un’Europa senza frontiere, dove non si gioca, né si fanno concorsi canori – con il ridicolo intervento del ministro degli esteri francese – ma per arrivarci si muore, ogni giorno. E se anche un moderato come il premier Draghi non ne può più della mancata solidarietà europea sul ricollocamento migranti e cerca di scuotere Bruxelles vuol dire che siamo già oltre i limiti. Ma l’Europa non si smuove neppure davanti alle foto, citate dallo stesso Draghi, dei corpi dei bambini che affiorano sulle spiagge di Zuara e volta la testa dall’altra parte. Ecco che cosa non vuol vedere l’Europa. La giornalista Nancy Porsia – esperta di Libia e più volte minacciata per la sue di inchieste sui trafficanti – ci informa sui giornali e i social media che nelle ultime due settimane da Zuara, città nell’estremo Ovest sulla costa libica, sono partiti almeno venti barconi. E per quale motivo lo sappiamo sempre in ritardo? Strano davvero, visto che le navi militari europee della missione Irini incrociano davanti alla Libia, che siamo dotati di aerei, radar, droni, sistemi sofisticati di intercettazione e controllare la costa non dovrebbe essere una missione impossibile. O siamo dei cialtroni che buttano quattrini a casaccio oppure non vogliamo vedere, che probabilmente è l’ipotesi più credibile. Se volessimo salvare i migranti o impedire le loro partenze sulle carrette del mare potremmo farlo subito, non aspettare che affoghino tra i flutti o arrivino a Lampedusa. In questi anni l’Unione e l’Italia, consapevoli ma incuranti del tragico gioco dell’oca cui sono costretti i migranti in Libia – buttati in mare dai trafficanti, ripresi a volte dalla guardia costiera e gettati in campi di concentramento – mandano soldi a pioggia in Libia senza ottenere nulla. E ora la mafia che governa i traffici ma anche il Paese si è rimboccata le maniche e in vista della stagione favorevole ha deciso che è il momento di rimpinguare il fatturato. Sarà un’altra magnifica estate. La questione dei migranti è emblematica di come l’Unione europea, pur di non fare nulla, sia disposta in Libia a tollerare un regime mafioso e fuorilegge. La Libia non accetta le convenzioni internazionali sui rifugiati e considera tutti i migranti dei clandestini, privi di ogni diritto, quindi ne fa quello che vuole. Eppure Paesi come la Francia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, che nel 2011 decisero di bombardare e far fuori Gheddafi, un minimo di responsabilità dovrebbero averla. Certo Usa e Gran Bretagna sono fuori dall’Unione ma non si vede perché questi Paesi della Nato non debbano essere chiamati a rimediare i danni enormi che hanno fatto precipitando non solo la Libia ma l’intero Sahel nell’anarchia più totale. Tra l’altro nel Sahel è in corso una guerra contro il jihadismo che sta volgendo al peggio, visto che l’area è sempre più instabile: in Chad è morto per le ferite riportate sul fronte il presidente Deby e tre giorni fa tra i golpisti del Mali c’è stata una resa dei conti che ha fatto fuori presidente e primo ministro. Qui se ne parla poco ma di tutto questo ce ne accorgeremo presto, visto che l’Italia sta aprendo una base militare in Niger, a Niamey, e manderemo elicotteri d’attacco in Mali. È per questa ragione che Macron adesso mostra una certa sensibilità alle posizioni italiane sui migranti: stiamo per dare una mano alla Francia che in Africa ha un contingente militare di 5mila uomini e dove Parigi ha registrato dozzine di morti tra i suoi soldati. Ma sulla Libia non si vuole intervenire e l’Europa è disposta pagare i libici, come già fa con la Turchia di Erdogan, che tra l’altro occupa la Tripolitania, pur di voltare la testa dall’altra parte. E’ disposta anche a pagare l’Italia, probabilmente, purché qui smettiamo di rompere le scatole sui migranti che muoiono in mare. Si continua a discutere di rinnovare gli accordi con la mafia libica e non importa la sofferenza delle vittime, le violazioni dei diritti, la morte. Diamo soldi a personaggi e governanti libici che – con noi complici – dovrebbero stare alla sbarra del tribunale dell’Aja per crimini contro l’umanità.

La verità sul ruolo della Guardia costiera libica. Sofia Dinolfo e Mauro Indelicato il 15 Maggio 2021 il 15 Maggio 2021 su Il Giornale. Secondo i dati resi noti dall'Oim, il numero di migranti respinti dalla Guardia Costiera libica è stato incisivo in questi primi cinque mesi dell'anno. Si trova spesso sotto i riflettori per via delle polemiche relative al suo operato e alla sua composizione. Eppure la Guardia Costiera libica ha un’incidenza molto importante nel controllo del flusso migratorio verso l’Italia. In questo 2021 peraltro, la rotta libica è tornata ad essere quella principale. Appare quindi chiara l’importanza del suo ruolo per evitare ulteriori emergenze migratorie nel nostro Paese.

L’attività Guardia Costiera libica. La stagione degli sbarchi dei migranti in Italia ha preso il via durante il pieno inverno, già all’inizio del nuovo anno. Quelli tracciati dal Viminale sono numeri che fanno capire come il fenomeno migratorio, a differenza degli altri anni, abbia fatto scattare il campanello d’allarme prima dell’arrivo della stagione più favorevole ai viaggi via mare. Sono 12.894 i migranti approdati nelle coste italiane ad inizio del mese di maggio contro i 4.184 dello stesso periodo dello scorso anno. Ma questi numeri sarebbero potuti essere il doppio se non fosse stato per l’intervento della Guardia Costiera libica. La funzione di quest’ultima è quella di intercettare i migranti che, in acque libiche o poco più distanti, cercano di attraversare il Mediterraneo e farli tornare indietro. L’Oim nei giorni scorsi ha rilasciato i dati dei migranti intercettati in mare e respinti in Libia: in totale il numero è di 6.992 stranieri dall’inizio dell’anno. Quelli dell’intero 2020 sono stati 11.891. I numeri parlano chiaro: in soli cinque mesi i migranti respinti sono quasi la metà di quelli dello scorso anno. Da una parte è possibile ravvisare un maggior impegno nelle attività di respingimento. Dall’altro invece, i dati confermano che grande parte degli stranieri giunta in Italia partendo dall’altra sponda del Mediterraneo proviene proprio dalla Libia.

Chi compone la Guardia Costiera libica. “La Guardia Costiera libica non è composta da Corpi scelti ma prevalentemente da milizie” , ha detto a IlGiornale.it l’analista ed esperta delle questioni libiche Michela Mercuri che prosegue: “Non si tratta di una novità, lo si sapeva già nel 2017 quando ci sono stati i primi accordi tra il governo Gentiloni e quello di Sarraj. Poi gli accordi sono stati rinnovati tacitamente tre anni dopo ma nulla è cambiato in merito alla sua composizione”. Secondo l’esperta delle questioni libiche la guardia costiera sta espressamente svolgendo il lavoro per cui l’Italia la sta finanziando, ovvero quello di ricondurre i migranti in Libia recuperandoli nelle acque territoriali libiche o, in alcuni casi, anche un poco al di fuori. Un ruolo significativo quello della Guardia Costiera considerando che ha contribuito in modo importante a ridurre l’afflusso degli arrivi in Italia in questi primi mesi dell’anno. Ma è pur vero che, in questi ultimi giorni, non sono mancati i malumori in merito alle modalità di persuasione adottate per far tornare indietro i migranti. In un video diffuso dalle Ong si è visto che un membro della Guardia Costiera ha usato un manganello contro alcuni migranti intercettati per farli tornare indietro. Un comportamento senza dubbio da condannare ma che al contempo sta divenendo uno degli strumenti di pressing per invitare Mario Draghi a cambiare la linea politica del governo sul fenomeno migratorio.

La linea di Mario Draghi sulla Guardia Costiera libica. Il presidente del consiglio già nel corso della sua visita a Tripoli del 6 aprile scorso è stato molto chiaro sui rapporti con le autorità libiche: “Noi esprimiamo soddisfazione per quello che la Libia fa per i salvataggi”, ha dichiarato durante il colloquio con il suo omologo libico, Abdelhamid Dbeibah. Parole inequivocabili sulla posizione dell'Italia: da Roma è emersa tutta la volontà di andare avanti sulla strada già inaugurata dal memorandum del 2017 e proseguire con il sostegno alla locale Guardia Costiera. Un punto che non ha mancato di innescare ulteriori polemiche. Le Ong hanno scritto una lettera il 26 aprile scorso indirizzata proprio a Mario Draghi, in cui si è chiesto un cambiamento di rotta a favore di una politica in cui privilegiare i soccorsi in mare. Un modo per ribadire la contrarietà degli interventi da parte dei libici. Le Ong hanno ottenuto, all'interno della maggioranza, la sponda del Pd. Enrico Letta, segretario dem, ha più volte sottolineato negli ultimi giorni la presenza di “questioni non negoziabili” in riferimento ai soccorsi in mare. Così come la questione relativa alla revisione degli accordi con la Libia è stata inserita nuovamente nell'agenda del Pd. Un pressing, quello di Ong e democratici, volto a far allontanare Draghi dalla sua linea di sostegno alla guardia costiera libica. Tuttavia da Palazzo Chigi non sembrano emergere indietreggiamenti. Così come spiegato dal politologo Corrado Ocone su IlGiornale.it, le intese con la Libia vanno al di là della questione immigrazione e sono da inserirsi nell'agenda politica internazionale progettata da Draghi. Al netto delle polemiche sulle forze libiche, i numeri parlano chiaro. In questa fase l'Italia incontrerebbe maggiori difficoltà sull'immigrazione senza gli interventi di Tripoli: “Con uno sguardo più pragmatico – ha dichiarato Michela Mercuri – dovremmo adesso cercare di capire cosa fare per i migranti respinti dalla Guardia Costiera libica”. E qui, sempre secondo l’analista, occorre pensare a politiche italiane ed europee volte a svuotare i centri di detenzione presenti in Libia: “Magari – ha proseguito Mercuri – con strategie di rimpatri e ricollocamenti da coordinare con l'Europa. Questo sarebbe il primo passo che peraltro ci darebbe il segnale dell'esistenza ancora in vita dell'Ue”. Ma il problema è ancora più a fondo: “Dobbiamo guardare oltre – è il pensiero di Michela Mercuri – perché se ci limitiamo ad osservare cosa succede nel Mediterraneo e lungo le coste libiche risolviamo solo il 10% dei problemi”. Il riferimento è alla peculiarità della rotta libica, usata non dagli stessi cittadini del Paese nordafricano bensì da coloro che arrivano dall'Africa sub sahariana. Serve, in poche parole, tagliare i ponti che legano le organizzazioni criminali operanti in Libia e nel Sahel: “Per farlo – ha sottolineato l’analista – l'Italia può sfruttare la credibilità in Europa di Mario Draghi e coordinarsi con la Francia. Parigi ha già dei contingenti in quest'area, italiani e francesi possono assieme infliggere duri colpi a chi lucra sull'immigrazione”. La Guardia Costiera libica altro non è quindi che l'ultimo anello di un problema ben più radicato e profondo.

Sofia Dinolfo. Sono nata il 30 marzo del 1982 ad Agrigento e sin da piccola ho chiesto ai miei genitori un microfono per avvicinarmi a chi mi stesse vicino e domandare qualsiasi cosa mi passasse per la mente. Guardavo i telegiornali e poi imitavo i giornalisti raccontando a modo mio quello che avevo appena ascoltato. Quella passione non mi ha mai abbandonato pur intraprendendo, una volta cresciuta, gli studi di Giurisprudenza. Appena laureata, non ho pensato di fare l’avvocato ma di andare avanti con il settore del giornalismo che nel frattempo non avevo mai accantonato coltivandolo come hobby. Ed ecco che poi sono arrivate le prime esperienze lavorative effettive: dalla conduzione di una trasmissione di calcio in una tv locale (dal 2006 al 2009), all’approccio con la cronaca tramite il quotidiano cartaceo La Sicilia (dal 2010 al 2012). Poi quella che, a livello personale, ha rappresentato una vera e propria palestra nella mia crescita lavorativa: il giornalismo televisivo. Dal 2011 al 2016, sempre ad Agrigento, mi sono occupata della stesura di servizi televisivi, della conduzione del telegiornale, della realizzazione e conduzione di programmi spaziando fra tutti i colori della cronaca, ma anche nel settore della medicina. Negli anni successivi ho intrapreso l’esperienza giornalistica in radio confrontandomi con una nuova metodologia di approccio al pubblico che mi ha spinto ad amare ancor di più questo lavoro. Scrivo per il Giornale.it assumendo con impegno ed orgoglio il dovere di raccontare ai lettori i fatti di cronaca di principale interesse…

Mauro Indelicato. Sono nato nel 1989 ad Agrigento, città in cui dirigo il locale quotidiano InfoAgrigento.it. Nel marzo 2017 conseguo la laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali presso l’Università degli Studi di Palermo, città dove sviluppo la mia curiosità per il Mediterraneo, per i suoi popoli e per le sue culture che da secoli arricchiscono una delle aree più suggestive del pianeta. Inizio la mia attività giornalistica nel marzo del 2009 con alcune testate locali, dal gennaio 2013 sono iscritto presso…

Francesco Semprini per "la Stampa" il 10 maggio 2021. Gli sbarchi dei migranti a Lampedusa tornano a essere un'emergenza per l' Italia, ma assai meno per la Libia. Il Paese nordafricano è impegnato in un percorso di transizione politica ed è distratto da vicende interne e regionali che mettono quotidianamente alla prova la solidità del Governo di unità nazionale (Gun). I traffici sono ripresi agevolati da miti temperature e favorevoli condizioni del mare, nonostante gli accordi vigenti sul controllo dei flussi contenuti nel Memorandum siglato col governo libico nel 2017 e alla luce dei recenti colloqui a Tripoli tra il premier Mario Draghi e il primo ministro Abdulhamid Dabaiba. È chiaro che l'esecutivo provvisorio in questo momento abbia altre priorità, traghettare il Paese alle elezioni del 24 dicembre, blindare il cessate il fuoco, unificare le istituzioni, smantellare le milizie e garantire l'erogazione di servizi pubblici essenziali come la fornitura di energia elettrica. Altra questione in agenda: l'uscita delle forze straniere dal proprio territorio con l'ingombrate presenza turca (nell' ovest dove controlla proprio quelle coste) sancita da un accordo Ankara-Tripoli che fa da contraltare a quella ufficiosa dei russi nell' Est. Nei giorni scorsi sono state invocate le dimissioni della ministra degli Esteri Najla El Mangoush perché, proprio durante la sua visita a Roma, ha paragonato i mercenari turchi (siriani) a quelli russi di Wagner. Mentre il Consiglio presidenziale di Tripoli è stato minacciato dopo la nomina a capo dell'intelligence di Hussein Muhammad Khalifa Al Ayeb, uno degli uomini più importanti del passato regime di Gheddafi e quindi poco gradito ad Ankara. C' è poi da mettere in conto anche il ritorno sulle coste di Zawia di Abdel-Rahman Milad, meglio noto come "Bija", ufficiale della Guardia costiera libica accusato di traffico di esseri umani e contrabbando di carburante, uscito di prigione ad aprile essendo cadute le accuse. Eppure, il memorandum siglato quattro anni fa dall' allora ministro degli Interni Marco Minniti pone innanzi l'accento sulla responsabilità allargata a tutti nel contrasto al traffico di migranti, tenendo presenti gli aspetti umanitari. Il tutto con un costo per l'Italia che a Tripoli ha inviato motovedette e non solo. Proprio da una di queste è partita la raffica di colpi che giovedì scorso ha ferito il comandante di uno dei pescherecci italiani accusati di trovarsi in acque che i libici rivendicano di loro competenza. Una vicenda che ha precedenti altrettanto drammatici come il sequestro degli equipaggi di altri due imbarcazioni avvenuto a settembre scorso. «Al di là degli sconfinamenti dei pescherecci, che la guardia costiera libica spari segnali di avvertimento ad altezza uomo è inaccettabile. Ma quelle acque sono pericolose e proibite, noi sconsigliamo di andarci, non da qualche mese ma da dieci anni», ha detto il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. Quelle acque sono però importanti per l'Italia vista la loro elevata pescosità, pertanto si tratta di un tema che richiedere un confronto tra governi al fine di individuare una soluzione condivisa e definitiva. In questo senso una prima inattesa apertura potrebbe arrivare presto da Tripoli come spiega Daniele Ruvinetti, consulente strategico e attento conoscitore delle dinamiche politiche libiche: «Posso dire che l'esecutivo di Dabaiba è pronto a sedersi a un tavolo e avviare un confronto franco e costruttivo per trovare una soluzione che possa venire incontro all' Italia salvaguardando al contempo le istanze libiche».

La storia dimenticata degli italiani di Libia a 50 anni dalla diaspora. Mauro Indelicato su Inside Over il 13 aprile 2021. Un pezzo di Italia non voluto in nord Africa, un pezzo di Africa non voluto in Italia: gli espatriati dalla Libia da mezzo secolo vivono in questa doppia condizione, la quale spesso non ha permesso loro di conoscere né la patria da cui sono dovuti scappare e né quella in cui sono dovuti andare. In fondo si tratta di italiani cresciuti in Libia, portando dentro di sé le atmosfere del Magreb. E, contestualmente, di libici buttati fuori dalla Libia solo perché italiani. Mezzo secolo non è bastato a chiudere le ferite. Vale per la generazione che nel 1970 è stata costretta a fuggire, così come per quelle successive oramai pienamente integrate nel nostro Paese ma con uno sguardo sempre rivolto all’altra parte del Mediterraneo.

7 ottobre 1970, l’inizio della diaspora. L’Italia ha messo piede in Libia per la prima volta nel 1911. Negli anni successivi ha consolidato il suo posizionamento nell’area, durante il fascismo poi Roma ha fatto del Paese nordafricano una delle sue più importanti colonie. La sconfitta nella Seconda guerra mondiale ha determinato la perdita del territorio, ma fino al 1969 erano più di ventimila gli italiani regolarmente residenti a Tripoli e in altre città della Libia. In quell’anno Muammar Gheddafi ha preso il potere. Per lui l’unico modo per chiudere la stagione coloniale era quello di cacciare via tutti i nostri connazionali rimasti. I quali nel Paese gestivano aziende, avevano proprie attività economiche e conducevano una normale quotidianità. Il 7 ottobre 1970 la decisione più dura: lo Stato libico decideva di confiscare tutti i beni agli italiani e obbligarli di fatto ad emigrare in Italia. Migliaia di famiglie hanno avuto giusto il tempo di raccogliere pochi oggetti personali e imbarcarsi verso il nostro Paese. Per molte di loro da quel momento in poi la vita è stata scandita dal ritmo dei campi profughi. L’anno scorso da quel difficile momento sono trascorsi 50 anni. L’Italia, distratta dell’emergenza Covid, non se n’è accorta: “Il 2020 è stato un anno particolare per tutti – ha dichiarato su InsideOver Daniele Lombardi, direttore della rivista Associazione Italiani Rimpatriati dalla Libia ed autore del libro “Profughi” – per via della pandemia mondiale che ha stravolto le vite di tutti noi. Gli italiani di Libia erano pronti a ricordare gli eventi che li hanno visti loro malgrado protagonisti. Ogni manifestazione, incontro pubblico o raduno è stato, però, reso impossibile dal COVID-19, che ha costretto in tono minore anche le manifestazioni in ricordo dell’espulsione avvenuta nel 1970″. Questo però non ha impedito alle famiglie cacciate dalla Libia di ricordare quanto accaduto. Non solo nel Paese nordafricano, ma anche nella stessa Italia. Anche qui da noi infatti chi ha iniziato a trascorrere la vita da profugo nella sua terra di origine è stato oggetto di discriminazioni: “In tanti sono stati vittime della contrapposizione politica – ha ricordato Lombardi – tra la sinistra, che li vedeva come residuati del fascismo e la destra, che li tirava per la giacca cercando di avvicinarli”. Non solo: chi ha ottenuto dei posti statali grazie allo status di profugo era accusato di rubare il lavoro agli italiani.

La situazione oggi. Il tempo non ha sanato né i dolori e né il senso di ingiustizia patito sia in Libia che in Italia. Questo nonostante alcuni importanti mutamenti occorsi negli anni. Nel 2004 Gheddafi ha permesso per la prima volta agli italiani cacciati o ai discendenti di visitare il Paese. La caduta del rais ha gettato la Libia nel 2011 nel caos da cui oggi non riesce ad uscire. Sono quindi due i sentimenti che avvolgono coloro che sono rimasti vittima della cacciata: “Per alcuni – ha dichiarato Daniele Lombardi – sarebbe insopportabile tornare nei luoghi dell’infanzia e della giovinezza e vederli devastati e deformati dalla dittatura e dalla guerra. Altri, al contrario, non vedono l’ora di rituffarsi nelle atmosfere uniche che possono ritrovare solo in Libia e rincontrare gli amici di una volta”. Dopo mezzo secolo sono ancora in piedi i contenziosi relativi ai risarcimenti spettanti alle famiglie italiane: “La legge di ratifica del trattato italo-libico del 2008, che il premier Dbeibah ha dichiarato a più riprese di voler riattivare – ha specificato il direttore Lombardi – prevede un articolo specifico (art. 4 l. 7/09) per il risarcimento dei beni espropriati. Esiste, però, un diritto complessivo che vogliamo far valere con il governo italiano, per poter essere annoverati tra coloro che parteciperanno ai progetti di cooperazione e ricostruzione della Libia nei prossimi anni”. E proprio in prospettiva futura potrebbero aprirsi interessanti scenari: “Per quanto riguarda le relazioni tra i due Paesi – ha infatti concluso Lombardi – a livello culturale, imprenditoriale, formativo gli italiani di Libia sono un valore aggiunto, unici nel loro legame affettivo con il popolo libico, essendo lì nati e vissuti. Privarsi del loro apporto nel ricostruire un vincolo privilegiato tra i due Paesi sarebbe un delitto, prima che un peccato, da parte dell’Italia”. In poche parole, una prima compensazione potrebbe derivare dal riconoscere il ruolo delle famiglie italo – libiche nella ricostruzione del Paese nordafricano. Per Roma, tra le altre cose, tutto ciò significherebbe una grande occasione in vista del paventato rilancio nell’asse con Tripoli. 

Nelle fosse comuni della Libia il mattatoio del Nordafrica. Migranti e detenuti hanno scavato 17 sepolcri. Lì sono spariti i nemici delle milizie di Haftar. Un potere costruito sul terrore che ora rappresenta un’ipoteca per la ricostruzione alla quale partecipa l’Italia. Francesca Mannocchi su L'Espresso il 16 aprile 2021. Il vortice di vento alza una polvere rossa che copre le case, le strade, la moschea che si affaccia su un pendio. Il lembo di terra che si estende dalla moschea alla fine della piccola valle è della famiglia di Hamza Abdullah. Hamza procede a passi lentissimi, al tramonto, le sue parole si confondono col sibilo del vento, via via più forte, via via più acuto. Ripete sempre le stesse parole, rimestate col vento sembrano una preghiera, ma non lo sono: «Era la sua terra. Era casa sua. Lui voleva essere sepolto qui», dice Hamza. Lui era suo padre e quel frammento di terra all’estremità della città era il suo angolo di riposo. Oggi è il sepolcro privato di cinque persone. Il padre di Hamza, i suoi tre fratelli e un cugino. Portati via una notte d’inverno e uccisi. La casa di famiglia è diventata una casa di sopravvissuti. Lui si è salvato perché non era in Libia, ma in Scozia per un dottorato di ricerca. Hamza è un ingegnere civile. O almeno lo era. Quando hanno rapito gli altri uomini della sua famiglia è tornato a casa a prendersi cura di quello che restava: le donne e gli interrogativi sulla scomparsa. Mentre varca la porta di ingresso evoca i movimenti di quella notte: le macchine nere ferme all’esterno ad aspettare, un gruppo di uomini armati che si arrampica sul tetto e gli altri che entrano buttando giù le porte di ogni stanza e portando via gli uomini, uno dopo l’altro. Hamza conosce ogni dettaglio perché lo raccontano, ogni giorno, la madre e le sorelle che si muovono ancora come fantasmi, tra i panni stesi ad asciugare e i resti di una vita infranta. «Mio padre era un manager al ministero dei Trasporti, un giorno gli hanno chiesto di firmare dei documenti per approvare dei progetti, appalti affidati illegalmente a “loro”. Mio padre si è rifiutato. Gli hanno detto solo: ti facciamo saltare la testa. Ha preso le sue cose, ha lasciato l’ufficio e ha cominciato a temere per la vita di tutti. Li hanno portati via prima che riuscissero a lasciare la città». Quando dice «loro» Hamza intende la milizia al-Kani, lo spietato gruppo armato che ha gestito ogni aspetto di Tarhouna per anni. «Tutti sapevano cosa accadeva qui, il governo precedente di Sarraj, il governo attuale. È stato sempre noto a tutti eppure nessuno li ha fermati». Hamza continua ancora oggi a ricevere minacce, anche a distanza. Mostra il telefono: «Ti prenderemo», gli scrivono utenti anonimi a nome degli al-Kani. Continua a non dormire, come le sue sorelle e i bambini. Come sua madre che da quella notte parla a stento, a stento mangia, a stento esce di casa. «Ci difenderanno dagli assassini prima o poi, o lasceranno per sempre il paese in mano alle milizie?», lo dice Hamza più a sé stesso che alle persone presenti nella stanza, lo dice pensando alla sua paura degli al-Kani che invece sono in salvo, fuggiti a est, in Cirenaica e lì protetti dalle forze di Haftar. Ad aspettare, forse, che il vento cambi ancora. A capire, forse, come riposizionarsi, per l’ennesima volta. Basterebbe la storia di Tarhouna a raccontare cosa è stata la Libia, cosa è oggi, cos’è il timore di quella che sarà. Basterebbe la storia recente della città e i segreti sepolti nelle fosse comuni, finora diciassette, scoperte dopo la fine dell’ultimo conflitto, la scorsa primavera. Tarhouna è stata dominata dalla tribù al-Kani, sette fratelli - Abdul-Khaliq, Mohammed, Muammar, Abdul-Rahim, Mohsen, Ali e Abdul-Adhim - che per otto anni hanno imposto a migliaia di persone un regime di terrore. Gheddafiani e dunque controrivoluzionari nel 2011, gli al-Kani hanno saputo riposizionarsi ogni volta che è cambiato il vento. Hanno organizzato una potente brigata militare che contava migliaia di combattenti e preso il controllo della città. Come la maggior parte delle milizie hanno beneficiato dell’accesso ai fondi statali e costruito il consenso sul potere delle armi. L’altro volto del potere seguiva le regole della vendetta tribale e dell’estorsione. Hanno sugellato la propria autorità seminando terrore, a Tarhouna ricordano la sfilata di un convoglio dei loro veicoli militari, nel 2017. Un camioncino bianco trasportava sul tetto due leonesse come simbolo della paura che i fratelli al-Kani intendevano ispirare. Raccontano qui, a voce bassa, che per sfamarle i sette fratelli usassero i corpi dei nemici. Gestivano ogni aspetto della vita civile, uno stato nello stato. Controllavano la polizia, hanno rilevato il cementificio e lo stabilimento della fabbrica di acqua minerale di Qasr Ben Ghechir e tutte le altre società situate nel sud di Tripoli fino a Tarhouna, hanno costruito un impero commerciale imponendo ai negozianti di intestare loro ogni attività, e hanno costruito un tesoretto con i rapimenti. Ricevevano segnalazioni dalle filiali delle banche sui titolari di conti correnti e li prelevavano a casa di notte. Tenevano in vita i rapiti per fargli ritirare tutti i risparmi dai conti correnti e poi li uccidevano, lasciando il corpo esposto all’incrocio stradale all’ingresso della città che da allora si chiama «il triangolo della morte».

Si facevano pagare anche dai trafficanti di uomini e dai contrabbandieri di carburante, perché Tarhouna è sul tragitto che dal deserto conduce alla costa. Chi passava per la città doveva pagare il pedaggio, cioè una tangente. Hanno usato i soldi raccolti per rafforzare il loro arsenale militare e per portare mercenari locali e stranieri, anche ciadiani e sudanesi. In questa città-stato ogni fratello ricopriva un ruolo, Abdul Rahim per esempio era a capo dell’apparato di sicurezza, Moshen era il responsabile della milizia armata. È suo il volto che campeggia sul muro di una caserma. Era un murale celebrativo. Oggi è crivellato di colpi. Nel 2016 gli al-Kani hanno sostenuto (e, nei fatti, sono stati sostenuti anche economicamente) il governo di Fayez al Sarraj. Allora Khalifa Haftar li definiva una milizia legata a Lifg, cioè i qaedisti locali, poi, all’inizio della guerra di Tripoli, con l’ennesimo riposizionamento, sono diventati i principali alleati di Khalifa Haftar, hanno cambiato casacca e hanno appoggiato chi fino al giorno prima era stato loro nemico. Sono stati celebrati dai media di Haftar come «forze militari delle unità d’elite» e hanno combattuto la guerra di Tripoli con esecuzioni esemplari, come quella di dodici prigionieri delle truppe di Sarraj, li hanno rapiti, torturati, hanno tagliato loro i genitali, hanno brutalizzato i loro corpi, smembrandoli. Haftar ha trasformato la città, ottanta chilometri a sud est di Tripoli, in un punto strategico per attaccare la capitale, prendere Tarhouna poteva significare lanciare attacchi cruciali per conquistare la capitale, perdere Tarhouna significava perdere la guerra. E infatti quando lo scorso anno i turchi hanno esteso la presenza di uomini e mezzi in difesa del governo di Tripoli, gli al-Kani hanno lasciato la città e sono fuggiti a est, in Cirenaica, dall’alleato Haftar, senza combattere una battaglia che sapevano già persa. Ma dietro di loro hanno lasciato una scia di sangue e morte che porta dritta alle campagne della città, alle diciassette fosse comuni. Ai duecento corpi ritrovati. Ai cinquanta riconosciuti. Alle centinaia che mancano ancora all’appello. Muhammad Ali Kosher, è il sindaco ad interim di Tarhouna. La sua tribù è stata storicamente antagonista degli al-Kani, per questo casa sua è stata distrutta e gli uomini della sua famiglia fatti sparire. Il suo ufficio è un viavai di persone, sono i membri dell’associazione delle persone scomparse, gli sfollati che fanno ritorno a casa, i soldati che tornano dalle campagne a riferire il lavoro delle squadre che lavorano nelle fosse comuni. «Hanno trovato tre corpi anche oggi, per fortuna uomini, adulti», dice. Si imbarazza per quelle due parole «per fortuna» ma lo dice perché i suoi occhi hanno visto corpi di donne, una incinta, corpi di bambini torturati e «corpi seppelliti con le maschere di ossigeno, i dispositivi medici. Prelevati dagli ospedali e portati in mezzo ai campi, chissà. Forse sepolti vivi». La maggior parte delle fosse comuni è in un’area chiamata Machrou al Rabt, a una decina di chilometri dalla città, sono state scoperte alla fine della guerra, la scorsa primavera. Gli abitanti di Tarhouna hanno cominciato a chiamare le forze dell’ordine, raccontare cosa avevano udito – il rumore delle scavatrici, di notte – e visto – intere famiglie trascinate via alle prime luci dell’alba e poi scomparse. Così da sette mesi la terra rossastra di Tarhouna ha cominciato a parlare, hanno cominciato a parlare i rettangoli ordinati segnati dal nastro rosso e bianco, hanno cominciato a parlare le donne sole, le superstiti della città fantasma. «Le fosse sono state scavate dai migranti, abbiamo trovato le prove nelle loro prigioni»: Farj Ashgheer è un membro dell’Associazione delle famiglie degli scomparsi, racconta come un miliziano degli al-Kani abbia confessato che i migranti detenuti sono stati usati per scavare le fosse comuni e caricare le munizioni. Ne hanno trovato prova sugli archivi delle prigioni. Gli al-Kani segnavano la data in cui i migranti venivano prelevati e portati via. Il giorno della liberazione ce n’erano decine, chiusi a chiave nel centro di detenzione illegale, terrorizzati, affamati. Non mangiavano da giorni. È passato un anno dalla liberazione della città e i fantasmi continuano a uscire dalle prigioni. Parla l’aria stantia che esce dalle celle. E parlano i sopravvissuti. Tarek Mohammed Dhaw al-Amri è stato detenuto nella struttura militare di Da’am per sette mesi, insieme ad altre settanta persone. Gli al-Kani sospettavano che fosse un traditore, che inviasse informazioni alle truppe di Sarraj. I primi dieci giorni l’hanno torturato, due persone lo tenevano fermo e altre due lo bastonavano con i tubi di plastica o lo frustavano, contemporaneamente. Poi l’hanno chiuso nella cella numero uno. Tre metri per due, la dividevano in dieci, dormivano a turni. Cinque in piedi e cinque stesi. Era buia e fredda ma, avrebbe capito col passare delle settimane, almeno non era la cella dei destinati a morire, la numero 2, quella con niente luce e poca aria. «Ogni giorno prelevavano qualcuno dalla cella n. 2, lo bendavano e dopo due, tre minuti sentivamo uno sparo, in poco tempo abbiamo capito che quella era la cella dei condannati». Quando gli al-Kani hanno capito che la guerra era persa hanno cominciato a uccidere a caso, senza motivo e brutalmente. «Ogni giorno pensavo che sarebbe arrivato anche il mio turno, ogni volta che aprivano la porta della cella pensavo: tocca a me». Il suo turno non è arrivato, la città è stata liberata prima. Farj è vivo ma ha visto morire parenti e amici, come Ezzedine Bouzwaida. Quando ricorda le sue ultime parole, «chiedi alle donne rimaste di perdonarmi», Farj piange, le sue lacrime scorrono sul viso, e cadono sulla divisa. Le asciuga col pudore del sopravvissuto, di chi conserva la memoria. E insieme alla memoria trattiene il desiderio di vendetta. Oggi Farj fa parte delle forze di sicurezza della città. Ma la parte del protagonista, a Tarhouna, oggi, la gioca un’altra milizia. Uscita di scena la brigata al-Kani, non è ancora il turno delle forze governative, ammesso che questa parola abbia un senso, in Libia. È la volta di un’altra milizia, la 444. Sono loro, incappucciati e armati, a presidiare l’entrata e l’uscita dalla città. A marzo i ministri degli Esteri dell’Unione Europea hanno imposto sanzioni per gravi violazioni dei diritti umani ai fratelli al-Kani. C’era già il nuovo governo della Libia finalmente unita. Ma l’unità nazionale era ed è ancora solo sulla carta. La Libia resta un paese spezzato, gli al-Kani vivono indisturbati e al sicuro a Bengasi, ancora sotto il controllo di Haftar, e continuano a minacciare anche a distanza chi è rimasto a Tarhouna, aspettando forse di tornare, aspettando di capire in quale direzione cambierà il vento e come posizionarsi. Aspettando di capire come ricompattare il gruppo armato, nel balletto, nella staffetta delle milizie. Farj sull’uscio di quella che è stata la sua cella dice: «La nostra religione ha come obiettivo la pace ma la pace con gli assassini non è possibile. Nessuna riconciliazione con chi ha sterminato Tarhouna. Nessun perdono per gli uomini di Haftar».

Cosa ci racconta della Libia di oggi la scarcerazione del trafficante Bija. Francesca Mannocchi su L'Espresso il 13 aprile 2021. Accusato dall’Onu di gestire la tratta umana e il contrabbando di petrolio, l’ufficiale della Guardia Costiera è stato rilasciato dopo sei mesi e promosso. Un evento che racconta molto dei nuovi equilibri interni del Paese. Scarcerato e promosso per essersi distinto in battaglia, durante l’Operazione Vulcano di Rabbia per liberare Tripoli. Dopo sei mesi di carcere Abdul Rahman Milad, noto come Bija, ieri pomeriggio è tornato a casa, a Zawya, città costiera nell’ovest della Libia, dove ha gestito – sebbene fosse a capo della Guardia Costiera locale – traffici illeciti, contrabbando di carburante e traffico di uomini. Il procuratore generale di Tripoli ha emesso un ordine di scarcerazione sostenendo che, per la legge libica, non ci sarebbero prove di un suo coinvolgimento nei traffici di cui viene accusato. La figura di Bija ha rappresentato negli ultimi anni diversi livelli di comprensione del paese: da un lato il funzionamento delle dinamiche interne, dall’altro le relazioni e i patti bilaterali che l’Europa – con l’Italia in testa – ha stretto con il paese nordafricano. Bija è stato infatti protagonista (come svelato dal quotidiano Avvenire) di una riunione al Cara di Mineo, a Catania, in cui le autorità italiane e quelle libiche avrebbero discusso di politiche migratorie e sistemi di accoglienza. La riunione faceva parte di un progetto finanziato dalla Comunità Europea che prevedeva una serie di visite studio in Italia da parte di una delegazione, i cui componenti erano stabiliti dagli stessi libici. Ufficialmente inserito nella lista degli invitati a quell’incontro dall’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), che facevano seguito alle indicazioni delle autorità libiche, Bija ottenne un regolare visto per entrare in Italia dopo un colloquio in una sede distaccata della nostra rappresentanza diplomatica al dodicesimo piano delle Tripoli tower. L’Espresso è stato in grado nel 2019 di verificare l’autenticità di queste informazioni, visionando e pubblicando sia l’invito ufficiale dell’OIM, sia verificando a Tripoli nell’autunno del 2019, i documenti di Bija, durante un’intervista nella sede della Marina di Tripoli. Nel 2017, ai tempi dell’incontro ufficiale al Cara di Mineo, Bija non era stato ancora inserito nella lista delle persone coinvolte nel traffico di uomini e pertanto sanzionate, tuttavia erano già noti i suoi coinvolgimenti nelle attività illecite della costa occidentale della Libia. Bija era ed è uno dei tasselli di una potente rete, gestita dai suoi cugini, i Koshlaf, che controlla tutte le attività dell’area, dal traffico di carburante, al traffico di uomini e ha la gestione del centro di detenzione per migranti della zona. Bija è accusato dall’Onu e dalla Corte internazionale dell’Aja di crimini contro l’umanità per essere uno degli organizzatori del traffico di migranti, e aver ridotto in schiavitù centinaia di persone in Libia. La lista degli ufficiali promossi per aver partecipato a 'Vulcano di Rabbia', l'operazione militare per liberare Tripoli. Tra questi anche Bija. Le Nazioni Unite lo considerano “uno dei più efferati trafficanti di uomini in Libia, padrone della vita e della morte nei campi di prigionia, autore di sparatorie in mare, sospettato di aver fatto affogare decine di persone, ritenuto a capo di una vera cupola mafiosa ramificata in ogni settore politico ed economico dell’area di Zawya”. Dopo essere stato sanzionato dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, Bija era stato almeno formalmente estromesso dal suo ruolo. Nonostante questo, durante l’intervista con L’Espresso più di un anno dopo le sanzioni, vestiva ancora i panni ufficiali del corpo della Guardia Costiera. L’allora Ministro dell’Interno libico Fathi Bashaga, spinto dal forte imbarazzo suscitato dalle sue dichiarazioni, sollevò dall’incarico l’allora portavoce della Marina ed emanò un comunicato ricordando che da sei mesi pendesse sulla testa di Bija un mandato d’arresto. Mandato che, fino ad allora non si era mai concretizzato. Solo il 14 ottobre del 2020, ancora un anno dopo, Bija è stato arrestato dalle forze di sicurezza del governo sostenuto dalle Nazioni Unite e presieduto da Fayez al-Sarraj. Per capire alcune delle ragioni di queste contraddizioni è necessario inquadrare la città di Zawya all’interno dei delicati, fragilissimi, equilibri della Tripolitania. Zawya è una città cruciale perché è stata a lungo uno dei più attivi punti di partenza per migranti e snodo delle esportazioni dei prodotti petroliferi.Non solo, le milizie di Zawya sono state parte attiva e fondamentale nella guerra per difendere Tripoli dalle forze del generale Khalifa Haftar (Bija è più volte comparso in alcune foto dal fronte che lo ritraevano a bordo di veicoli militari circondato dai suoi uomini). Ai tempi della disputa tra il primo ministro Sarraj e il ministro dell’interno Bashaga, la milizia di Zawya si era opposta alla figura di Bashaga, che era emanazione del potere e dell’influenza della città di Misurata. Le milizie di Zawya, durante la guerra, avevano supportato le truppe del governo di Sarraj, Bija tuttavia non esitava a manifestare la propria ostilità al ministro dell’Interno. In un video pubblicato nel giugno del 2019, Bija aveva apertamente ringraziato la Turchia di Erdogan per il supporto logistico dato alle truppe di Tripoli e aveva accusato le mafie e i potentati di Misurata (leggasi Bashaga) città con la quale le milizie di Zawya sono storicamente in conflitto. Ed è proprio in queste frasi che andava ricercata la radice del suo arresto. Dopo la notizia della sua cattura nei pressi di Janzour, un convoglio militare dei gruppi armati di Zawya parti’ in direzione di Tripoli prima di essere bloccata dalle forze di sicurezza di Rada, la milizia salafita che controlla l’aeroporto della capitale. L’arresto di Bija si inseriva dunque in complesse dinamiche interne. Da un lato la rivalità tra Tripoli e Misurata e gli equilibri del governo precedente, dall’altro l’impossibilità durante la guerra di arrestare uno dei capi dei gruppi armati di Zawya che stavano combattendo per difendere la capitale. Con Tripoli sotto assedio delle forze di Haftar, non era pensabile eseguire al mandato d’arresto. Quelle forze servivano al fronte e serviva la loro fedeltà. A guerra finita, invece, Fathi Bashaga ha potuto dare seguito al suo tentativo di accreditarsi come interlocutore affidabile per i governi europei, anche arrestando i trafficanti sanzionati dall’Onu. Bashaga voleva presentarsi come l’unica persona in grado di far applicare la legge e contrastare, sanzionare, punire, gli abusi delle milizie. Come quella di cui fa parte Milad, membro della tribu’Awlad Buhmeira, la potente tribù di Zawya. Si avvicinavano gli incontri di riconciliazione nazionale tenuti in Tunisia, sarebbe poi stata la volta del Forum di Ginevra. Bashaga voleva presentarsi con tutte le carte in regola per uscirne vincitore. Invece il Forum ha scelto un altro uomo e ha eletto Primo Ministro Abdul Amid Dabeibah. Oggi, dunque, la figura di Bija e la sua scarcerazione raccontano altri equilibri. Le foto del suo arrivo in città, ieri, lo ritraggono in una tuta blu, circondato dai suoi sostenitori. Si riconosce suo cugino, Koshlaf, noto alle cronache per essere uno degli uomini più potenti e pericolosi della costa, coinvolto nel contrabbando di carburante e nel traffico di uomini. Anche lui nella lista delle sanzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. L’anno scorso per l’arresto di Bija si complimentarono in molti, diplomazie europee, le Nazioni Unite e la Compagnia Petrolifera Nazionale (NOC) che in una nota diramata poche ore dopo sostenne di "aver ricevuto con piacere la notizia dell'arresto di Bija, legato alla sua attività criminale di contrabbando di carburante e che anche noi stavamo perseguendo penalmente". Aggiungeva, il NOC, la speranza che tutti i ricercati per attività di contrabbando di carburante fossero chiamati a rispondere dei loro crimini. E i loro crimini sono il controllo delle infrastrutture, pozzi e raffinerie. E questo è l’altro, decisivo, pezzo delle sfumature che Bija rappresenta. L’area di Zawya, Zawara e Sabratha resta una zona ad altissima tensione. Martedì scorso l’impianto di Mellitah (gestito da Eni e NOC) è stato attaccato da un gruppo armato di miliziani di Zuwara. Il sindacato dei lavoratori del complesso ha denunciato che un gruppo di miliziani ha impedito per due giorni l’accesso chiudendo con la forza gli ingressi dell’impianto, dopo l’arresto del responsabile della sicurezza locale Imad al Din Masoud. Il procuratore generale ha dichiarato che l’arresto del generale di brigata Masoud è avvenuto “su ordine del pubblico ministero”, perché Masoud è ritenuto responsabile dei traffici illeciti di Zuwara. È così che funziona in quell’area. I capi brigata impongono la loro presenza come responsabili della sicurezza degli impianti, e in forza della posizione che ricoprono allargano la loro influenza. Che prende, sempre, la forma del contrabbando e delle richieste, sempre più alte di denaro.Se non ricevono quello che vogliono, bloccano gli impianti. Così funziona a Zuwara, così funziona a Zawya, dove la tribù di Bija controlla ogni traffico. Lecito e illecito. Non è il solo campanello d’allarme nell’ovest del paese. Nei siti dell’operazione militare "Vulcano di Rabbia" (quella che è valsa la promozione a Bija) cominciano a comparire messaggi violenti verso il nuovo Governo di Unità Nazionale di Dabeibah, e il capo del consiglio presidenziale Menfi. È presto per dire quale sarà il prezzo della quiete, per le milizie a ovest, ma è altamente probabile che la scarcerazione di Bija faccia parte del pacchetto. Una fonte vicina a Bija, pochi giorni prima della sua scarcerazione ci ha detto – a condizione di anonimato – che “Bija non è stato arrestato sei mesi fa, Bija si è consegnato, sapeva che sarebbe stata una permanenza breve, la sua in carcere e che avrebbe trovato doni e benefici una volta uscito di galera”. Per ora è stato promosso Maggiore, solo il tempo ci dirà quali altri benefici ha ottenuto.

«Dai centri di detenzione in Libia sono scomparse migliaia di persone». Francesca Mannocchi su L'Espresso il 12 aprile 2021. I dati di coloro che vengono soccorsi in mare e intercettati dalla guardia costiera non combaciano ». Parla Federico Soda, il capo missione dell’organizzazione internazionale per le migrazioni

Corrisponde a verità che come agenzia delle Nazioni Unite siete tornati in Libia dopo gli accordi del 2017?

«No, siamo operativi senza interruzioni in Libia dalla firma dell’accordo di sede del 2005. Ci sono stati degli anni in cui il personale internazionale non era presente ma i nostri programmi continuano ininterrotti dal 2005».

In questi anni avete ribadito che la Libia non è un porto sicuro, è ancora la vostra posizione?

«Sì, è la nostra posizione perché manca una continuità di protezione dal momento del soccorso e sul territorio libico. Non esistono i meccanismi per garantire la protezione delle persone a rischio. Lo ribadiamo di continuo».

Quando dice protezione delle persone a rischio cosa intende?

«Siamo in un paese dove da dieci anni manca un’autorità centrale, le persone vulnerabili sono state esposte a conflitti e restano esposte alla presenza di gruppi armati e milizie dunque al rischio di tratta, abusi e sfruttamento lavorativo».

Come Oim, riuscite a monitorare lo stato dei centri di detenzione?

«Abbiamo accesso ai centri di detenzione gestiti dal ministero dell’Interno per fornire assistenza umanitaria e ridurre la sofferenza, sono centri in condizioni pessime, soffrono la mancanza di acqua potabile, impianti igienici, cibo e assistenza medica. Qualche anno fa si parlava di 15 mila persone in detenzione, c’erano 30 centri nel paese. Attualmente ci sono 17 centri ufficiali con una popolazione di 4 mila migranti».

Avete un’idea di dove siano finiti gli altri? Le persone che erano nei centri di detenzione che sono stati chiusi nel 2017? Dove sono andati?

«Ogni anno perdiamo traccia di migliaia di persone. I dati delle persone che vengono soccorse e intercettate dalla guardia costiera libica non combaciano con il numero di quelle in detenzione».

Cioè le persone vengono recuperate in mare e poi che succede?

«Possono essere trasferite nei centri o lasciate andare al punto di sbarco, per questioni operative o perché non c’è capacità nei centri. La logica vorrebbe che se vengono recuperate 6 mila persone questi numeri dovrebbero corrispondere alla capienza dei centri, però i conti non tornano. L’anno scorso sono state soccorse 12 mila persone dalla guardia costiera libica, e il numero di persone nei centri era sempre 4 mila. Quindi dove sono andate queste persone entrate nei centri e di cui abbiamo perso traccia?».

Possiamo ipotizzare che siano finite in mano a gruppi armati?

Qualcuno è uscito per assistenza Oim per rimpatri volontari, qualcuno è riuscito a scappare. Su altri c’è il punto interrogativo e siamo molto preoccupati di non riuscire a tracciare questi spostamenti».

Se il vostro staff si rende conto che da un centro di detenzione sono scomparse delle persone, cosa potete fare nella pratica?

«Non molto, è una questione che solleviamo con le autorità e che discutiamo con le Nazioni Unite. Da un punto di vista concreto non c’è niente che possiamo fare». 

Grandi affari in Libia: una torta da 450 miliardi di dollari. E l’Italia prova a giocarsi la partita. Turchi e russi in prima fila. Ma nel business della ricostruzione a 10 anni dalla caduta di Gheddafi il nostro Paese è in corsa: rinsalda i rapporti e tace sui diritti umani. Francesca Mannocchi su L'Espresso il 9 aprile 2021. La strada che conduce dall’aeroporto di Mitiga al centro città è un sentiero di luci intermittenti. Sono le luci al neon di una città, Tripoli, che prova a rinascere credendo, per l’ennesima volta, che la diplomazia riesca a vincere sugli egoismi tribali e la bramosia del potere armato, dopo la formazione del primo governo di unità nazionale dal 2012. Un’autorità ad interim guidata dall’imprenditore di Misurata Abdul Hamid Dbeibah ha assunto il potere lo scorso 5 febbraio, durante il Forum Libico di Ginevra che ha riunito 73 personalità provenienti da varie regioni sotto la guida delle Nazioni Unite. I governi antagonisti di ieri – quello di Fayez al Sarraj in Tripolitania e di Abdullah al Thinni in Cirenaica – hanno consegnato il mandato al nuovo gabinetto che oggi è insieme, per i libici, euforia e timore di un ennesimo inciampo. Il quartiere di Dara’a affaccia sul porto, dal cavalcavia che lo sovrasta la vista per la prima volta dopo tanto tempo è nitida. I giovani sono fermi lungo la strada a osservare il mare, il traffico è quello rumoroso di una comunità che aspetta l’inizio del Ramadan, il mese del digiuno. La frenesia dei negozi ancora aperti a tarda sera è insieme fiduciosa aspettativa e ubriacatura di libertà, gli hotel sono di nuovo aperti e di nuovo pieni. Tante le famiglie che si riuniscono dopo la riapertura dei voli da Bengasi, nell’est del paese. Tanti gli imprenditori, tanti anche i diplomatici. Quella italiana era l’unica ambasciata europea dal 2017, durante la guerra civile del 2014 tutti gli altri erano scappati via. Oggi Tripoli assiste invece alla corsa diplomatica delle riaperture. Torna la delegazione francese, torna quella maltese, e anche l’Europa tutta, per voce del presidente del Consiglio Europeo Charles Michel che, in una recente visita ha annunciato che la delegazione dell’Unione Europea sarà stabilmente in Libia dalla fine di aprile. Talmente tanti gli incontri diplomatici che l’agenda del nuovo primo ministro Abdul Hamid Dbeibah è una staffetta. Lo è stata anche il 6 aprile, il giorno della visita del Presidente del Consiglio Mario Draghi. Sono le undici e trenta del mattino, la bandiera italiana e quella libica montate alle spalle dei due premier. Una dichiarazione congiunta breve a rivendicare un antico sodalizio. Per Draghi è la prima visita fuori dall’Europa «a dimostrazione dell’importanza del legame storico tra i due Paesi», dice, ricordando il momento «unico per la Libia, per ricostruire l’antica amicizia che non ha conosciuto pause». Parla di tutto Draghi, antichi accordi, gli investimenti imprenditoriali e le risorse energetiche. E poi certo, il tema dei temi, il flusso migratorio: «Esprimiamo soddisfazione per quello che fa la Libia nei salvataggi e, nello stesso tempo, aiutiamo e assistiamo la Libia», ha detto di fronte a un soddisfatto Dbeibah. Certo c’è un problema umanitario, ha detto Draghi. Eppure nessuno dei due ha fatto menzione al rispetto dei diritti umani nei centri di detenzione per migranti, luogo di abusi e torture. Dalla firma del memorandum di intesa del 2017, quando presidente del Consiglio era Paolo Gentiloni e ministro dell’Interno Marco Minniti, l’Italia ha finanziato la guardia costiera libica con oltre 20 milioni di euro, di cui 10 approvati nel 2020. Un flusso di soldi, quello destinato alla guardia costiera e al presunto miglioramento delle condizioni nei centri di detenzione, impossibile da monitorare. Soldi partiti dalla sponda nord del Mediterraneo, finiti a sud e spesso spariti dai radar. Un pezzo dell’affare libico legato, l’esternalizzazione dei confini, sulla pelle dei migranti. Un pezzo del legame storico che lega la Libia all’Italia. È un legame storico anche quello che si rinnova oggi, e parla di ricostruzione e di affari. Lo sanno le imprese, lo sa bene Dbeibah. Per lui invece è l’ennesimo incontro diplomatico e economico insieme: «Auspichiamo la partenza al più presto dei lavori della Commissione economica comune», dice introducendo Draghi. Il terreno è fertile, avanti tutta. Ha fretta Dbeibah, ha fretta la Libia, così tanto che quando Draghi esce di scena si sostituiscono le bandiere. Esce quella italiana, entra quella greca. Alle 17 dello stesso giorno, dalla stessa sala parlerà di nuovo il Primo ministro libico con l’omologo greco Kyriacos Mitsotakis. Arriva da Atene a ribadire il ritorno del consolato e a chiedere garanzie sulle trivellazioni del Mediterraneo centrale, minacciate dalla Turchia. Sarà staffetta anche nel pomeriggio. Esce la bandiera greca, entra quella maltese. La corsa al ritorno è la mappa del dopoguerra, leggerne le dinamiche e i chiaroscuri significa capire quali influenze agiranno nel Paese e come ne determineranno gli sviluppi. Perché il dopo di una guerra che conta trecentomila sfollati e vaste aree in macerie significa anche questo: il grande affare della ricostruzione. È l’altra faccia della rinascita, e chi prima arriva prima guadagna. Questo suggerisce il viavai di imprenditori, questo suggerisce la fretta della diplomazia. All’esterno del palazzo presidenziale i problemi della Libia restano sospesi. La coda ai distributori di benzina racconta una Libia che fatica a garantire elettricità costante, sono danneggiate le strade e danneggiate le infrastrutture, all’esterno dei palazzi del governo c’è un paese in cui secondo le stime delle Nazioni Unite, mezzo milione di persone tra cui 60 mila sfollati, 135 mila migranti e 40 mila rifugiati sono a rischio di contaminazione per gli ordigni inesplosi lasciati dall’ultima guerra. Due settimane fa un ragazzino di quattordici anni è stato ucciso da una mina nel quartiere di Ain Zara, periferia sud della capitale e i suoi fratelli minori sono rimasti feriti. Camminavano nelle macerie tra resti di ordigni inesplosi. La strada 83 è una via polverosa che collega il centro di Tripoli alle periferie, più cresce la distanza dal centro più i sobborghi ricordano le atrocità dell’ultima guerra. Edifici distrutti dai colpi di artiglieria, case violate che un tempo ospitavano famiglie e oggi sono la scenografia malinconica di una tragedia appena finita che gli spettatori hanno fretta di dimenticare. Yousef Abdullah è sul ciglio della strada, aspetta un operaio per consegnarli cento dinari per un lavoro di edilizia da poco concluso. Sventola i cento dinari e dice: «Mi sono rimasti solo questi». La periferia meridionale di Tripoli sfocia nei campi, Yousef aveva una coltivazione di datteri di cui resta poco e niente. È tornato a casa da due mesi perché non sosteneva la vita da sfollato, e quando cala la sera e si affaccia dal muro appena riverniciato della sua fattoria vede silenzio e macerie di chi non è sopravvissuto o non riesce a tornare. Anche il suo vicino è tornato a casa, ha cinque figli ma non permette loro di uscire per paura delle mine. E ha un fratello sulla sedia a rotelle, colpito da un’embolia per paura dei colpi delle truppe che si avvicinavano a casa sua, oggi riesce solo a dire: «Haftar cane, Haftar cane». Ain Zara, Wadi Rabia, Abu Salim sono i quartieri più colpiti dall’ultimo conflitto, l’offensiva lanciata nella primavera di due anni fa da Khalifa Haftar per conquistare la capitale. Allora, l’uomo forte della Cirenaica controllava la maggior parte dei giacimenti del paese e boicottava ogni passo della diplomazia, sostenuto da Egitto, Russia e Emirati Arabi. «Libereremo Tripoli dai terroristi e dalle milizie», era stato il mandato di una guerra annunciata come un’operazione lampo. Le cose sono andate diversamente. La guerra è durata più di un anno, il coinvolgimento degli attori esteri si è moltiplicato e la Libia è diventata terreno di un conflitto regionale per procura, mentre l’Europa era troppo divisa da aspirazioni in competizione per attuare una vera agenda unitaria. Negli ultimi due anni la Libia ha visto un aumento del livello di coinvolgimento esterno nel conflitto, 330 aerei russi sono entrati nel paese negli ultimi 18 mesi, la Turchia, dal canto suo, ha effettuato 145 voli cargo nel solo 2020. Le posizioni antagoniste di Italia e Francia a sostegno dei due opposti governi hanno a lungo indebolito gli sforzi delle Nazioni Unite e lasciato un vuoto che è stato riempito da paesi meno timidi, e politiche più aggressive. Come quella di Erdogan, a cui Tripoli deve la sua liberazione. L’azione turca che ha segnato la vittoria della guerra di Tripoli rischia di determinarne il futuro. Senza il supporto militare turco, l’allora premier al-Sarraj non avrebbe vinto. Questa è la chiave per capire la sciarada del dopoguerra e del nuovo governo, che prima di essere una conquista delle negoziazioni diplomatiche ne segna la sostanziale fragilità. Non ci sarebbe stato nessun successo del Forum a Ginevra se Haftar non fosse uscito militarmente sconfitto da un’offensiva troppo audace che aveva lanciato su Tripoli, e Haftar ha perso la guerra solo perché la Turchia è intervenuta con uomini, addestramento, droni e mercenari siriani in supporto di Tripoli. Ecco perché, oggi, la Turchia è la più titolata a chiedere il posto in prima fila nella spartizione del grande affare del dopoguerra. Ankara vuole capitalizzare la vittoria di Dbeibah e ha tutte le ragioni per pensare di farcela, i legami del nuovo Primo Ministro libico con la Turchia sono noti, non a caso il suo primo viaggio, nemmeno una settimana dopo la sua elezione, è stata una visita ad Ankara. E una visita in forma privata. Nel 2020 la Turchia ha esportato in Libia beni per 1,6 miliardi di dollari e aspira a raggiungere presto il traguardo dei dieci miliardi. Non solo progetti ma anche compensazioni. Le aziende turche erano in Turchia prima della caduta di Gheddafi, dieci anni fa. Oggi chiedono conto, vogliono essere ripagate dei 29 miliardi di dollari di progetti incompiuti. Abdelmajid Khosher, presidente dell’Unione degli appaltatori libici e vicepresidente dell’Unione degli appaltatori arabi ha dichiarato che la ricostruzione vale 450 miliardi di dollari e che è necessario dialogare con tutti. È intorno al tavolo dei miliardi della ricostruzione che gli ex antagonisti tornano se non amici almeno non nemici armati. Alla Turchia i porti, all’Italia l’aeroporto internazionale distrutto dalla guerra e il ripristino del vecchio progetto dell’autostrada costiera, all’Egitto la forza lavoro. Il ministero del lavoro egiziano ha annunciato a marzo di aver tenuto colloqui con l’omologo libico per discutere la partecipazione dei lavoratori egiziani alla ricostruzione «servono più di due milioni di lavoratori egiziani per ricostruire le città colpite», ha detto. Dbeibah finora è stato scaltro, ha cercato di trovare accordi tra le fazioni, e di non sbilanciare gli equilibri delle forze regionali protagoniste del conflitto, sebbene non sia noto – almeno non ancora - quale sia il prezzo di questa calma apparente e se e quando alcuni gruppi armati decideranno di alzare la posta. In mezzo c’è sempre il petrolio. La Libia è una delle principali riserve petrolifere del continente africano, il settore petrolifero costituisce il 97 per cento delle entrate pubbliche delle valute estere nel paese. Più petrolio si estrae e più petrolio si vende, più petrolio si vende più circola denaro contante e più si possono riparare le infrastrutture energetiche distrutte dalle guerre. Controllare il petrolio significa controllare il consenso, e significa controllare la Libia che resta, se non nella forma, in sostanza ancora divisa a metà. Bengasi, la capitale della Cirenaica, regno di Haftar, è afflitta da un’ondata di violenze da un mese. Il 18 marzo in città sono stati trovati 12 corpi crivellati di proiettili. Una settimana dopo è stato assassinato Mahmoud al-Werfalli, un fedelissimo delle forze di Khalifa Haftar, il 25 marzo, Hanine al-Abdali - figlia di Hanane al-Barassi, l’avvocato e attivista per i diritti delle donne assassinato in una strada a Bengasi a novembre - è stata rapita. Haftar ha sempre meno fondi e sempre più nemici interni. Però alcune cruciali infrastrutture restano nelle sue mani. I pozzi intorno a Sirte sono ancora controllati delle milizie legate ad Haftar, che già durante la conferenza di pace di Berlino le aveva usate per fare pressione sull’Europa, chiudendo giacimenti per mesi e determinando una perdita per le casse dello stato di dieci miliardi di dollari. Il governo Dbeibah non ha ancora un ministro della Difesa, sintomo che non ci sia una reale unificazione delle forze armate. Le milizie sono state e purtroppo ancora sono la leva di pressione politica. Arginare il potere delle milizie, il loro controllo su traffici illeciti e infrastrutture, deve essere la prima vera sfida di Dbeibah. Vincerla significa essere il Presidente della Libia unita o solo il nuovo sindaco pro tempore di Tripoli.

Italia e Libia, un atlante occidentale. Massimo Giannini per “La Stampa” il 7 aprile 2021. Dopodomani Mario Draghi volerà in Libia. Incontrerà il nuovo responsabile del Consiglio presidenziale, Mohamed al Menfi, e il nuovo primo ministro ad interim, Abdul Dbeibah. È la prima vera missione a Tripoli di un capo di Stato straniero e soprattutto di un premier italiano, dopo le ritirate indecorose e i falsi movimenti di questi anni. Ed è una missione cruciale, non solo per la difesa del nostro interesse nazionale, ma in parte anche per la ridefinizione del nuovo Ordine Mondiale, la riaffermazione dei valori dell’Occidente, la ricostruzione del ruolo dell’Europa. Il senso sta nelle parole con le quali il presidente del Consiglio ha annunciato l’iniziativa in Senato il 24 marzo, alla vigilia del Consiglio Ue: “In Libia l’Italia difende i propri interessi internazionali e la cooperazione. Se vi fossero interessi contrapposti, non dobbiamo avere timori reverenziali verso qual che sia partner. Nel corso della mia vita mi pare di aver dimostrato estrema indipendenza nella difesa dei valori fondamentali dell’Europa e della nazione”. C’è un gigantesco strappo geo-strategico da ricucire. Le ultime pezze a colori improvvisate da Giuseppe Conte nel Corno d’Africa e nella Penisola Arabica hanno portato più malefici che benefici. I due incontri ad Abu Dhabi con Mohammed bin Zayed, tra il novembre 2018 e il marzo 2019, furono talmente inutili sul dossier libico che lo sceicco emiratino diede ordine ai suoi diplomatici di non organizzargli mai più altri colloqui con l’Avvocato del Popolo. Il blitz a Bengasi del 17 dicembre 2020, organizzato come uno spot di bassa propaganda solo per riportare a casa i pescatori mazaresi previa photo-opportunity con Haftar, è stato ancora più imbarazzante. L’ultimo premier che volò di persona a Tripoli fu Mario Monti, poco più di nove anni fa. E questo arco temporale dà già la misura di quanto terreno abbiamo perso in quell’area. Era il 23 gennaio 2012, e il Professore portò in dono all’allora presidente Abdurrahin al-Keeb una testa di Domitilla trafugata a Sabratha nel ’69 e 15 fuoristrada da pattugliamento per i pozzi petroliferi. Poca cosa, rispetto alle attese. E soprattutto rispetto ai predecessori Berlusconi e D’Alema, che più di tutti gli altri e per motivi completamente diversi erano quasi di casa in Libia (le immagini ufficiali dei due erano esposte al Museo Assaraya Alhamra del Castello Rosso). Il Cavaliere, nella sua nuova residenza romana di Villa Grande, custodisce ancora due volumi in pelle di foto che lo ritraggono con tutti i capi delle quasi 100 tribù libiche. Volò a Tripoli tra il settembre del 2008 e l’agosto 2009, a suggello dell’amicizia personale con Gheddafi e nonostante le aspre polemiche suscitate in Europa dalla liberazione di uno dei terroristi condannati per la strage di Lockerbie. Ci tornò il 13 giugno 2010, con tanto di visita nella tenda del Rais montata all’interno della caserma Bad el Azyzyia, per negoziare la liberazione di tre motopescherecci siciliani. E poi il 29 novembre 2010, per il vertice Africa-Europa e subito dopo le clamorose rivelazioni di Wikileaks sulle relazioni pericolose del dittatore. Dalla caduta del regime innescata dalle bombe della “coalition of the willing” guidata da Sarkozy, a parte i viaggi estemporanei dei ministri degli Esteri di turno (da Gentiloni a Di Maio), i nostri capi di governo si sono tenuti alla larga da quel delicatissimo crocevia di intrighi diplomatici, dividendi economici e disastri umanitari. La stessa cosa hanno fatto i leader europei e i penultimi presidenti americani. Questa ignavia la stiamo pagando cara, in ogni senso. Per l’Italia, c’è il costo della provvista energetica (da quei deserti l’Eni continua a pompare quasi il 30 per cento delle sue attività) e il prezzo della destabilizzazione politica (su quei territori si è consumata la frattura tra Tripolitania e Cirenaica, la guerriglia tra le milizie e la mattanza dei migranti in transito dal Continente sub-sahariano). Per la Ue e gli Usa, c’è la perdita di ruolo strategico e di presidio “fisico” di una zona del pianeta che vede specularmente risorgere un doppio sogno imperiale: da una parte quello russo, dall’altra quello ottomano. Approfittando dell’eclissi italiana in epoca Lega-Stellata, del declino dell’asse Merkel-Macron e dell’America First trumpiano, Putin e Erdogan hanno trasformato il Mediterraneo nel teatro di una inedita, reciproca “volontà di potenza”. Mosca ha piazzato i contractor della Wagner e avviato la costruzione del “vallo di Putin” per proteggere a Est i pozzi della “mezzaluna petrolifera” dai raid dei generali ancora fedeli a Sarraj. Ankara ha dislocato le sue truppe scelte e ottenuto in concessione il porto di Misurata. Noi, nel frattempo, abbiamo fatto poco o niente. Niente per difendere il Mare Nostrum dalle influenze esterne delle “democrature” asiatiche illiberali. Niente per supportare la fragilissima tregua libica e l’ancora più fragile governo provvisorio ma unitario di Dbeibah. Niente per far pesare i nostri principi e i nostri interessi in una partita globale nella quale, insieme a Russia e Turchia, giocano potenze intermedie come l’Egitto, gli Emirati, il Qatar, mentre sullo sfondo si ridefiniscono i rapporti e le sfere di influenza tra sunniti e sciiti. La “Pace di Abramo” del 15 settembre 2020, in fondo, è anche e forse soprattutto questo: il tentativo di stabilire la suprema armonia tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti sedendosi al tavolo degli affari, e contrastando così la filiera dello sciismo che parte dal Libano, incrocia la Siria e arriva fino al Grande Iran. Ecco perché la missione di Draghi è importante. Si salda alla ripresa delle relazioni transatlantiche innescata dalla vittoria di Joe Biden, che dopo i deliri autarchici di Trump punta a rimettere finalmente la “chiesa americana” al centro del villaggio globale. Riflette a sua volta una nuova centralità dell’Italia, impegnata in una collaborazione-competizione con gli alleati europei che insistono sugli stessi terreni, confliggono sugli stessi business, inseguono le stesse concessioni di “Oil and Gas”. Non possiamo aspettarci risultati immediati, nel rilancio di un Piano italiano per la ricostruzione politica, istituzionale, economica e sociale della Libia, che permetta il consolidamento del processo democratico e lo svolgimento ordinato delle elezioni del prossimo 24 dicembre. Meno che mai possiamo aspettarci il via libera a un Piano euro-americano per la liberazione del Paese dalle presenze militari straniere, la ripresa dell’industria petrolifera, la repressione dei nuclei residui di terrorismo jihadista, la gestione dei flussi migratori nel pieno rispetto dei diritti umani. Ci vorrà tempo, perché l’Italia possa tornare a essere tanto forte e credibile da convincere l’America a fidarsi e l’Europa a riprendersi il suo Mare. Arrestare una spia dei russi, e gonfiare il petto di fronte a Washington, non basterà a farci perdonare la sbandata putiniana del primo governo gialloverde, tra cene leghiste al Metropol e brindisi salviniani sull’annessione della Crimea o l’attacco all’Ucraina. Ma almeno questo possiamo riconoscerlo: è un buon inizio, per l’Italietta che finalmente si risveglia dalla sbornia nichilista, sovranista e anti-occidentale di questi ultimi tre anni.

Lettera di Giuseppe Conte a "la Stampa" il 7 aprile 2021. Gentile Direttore, da alcune settimane sono impegnato nel compito di rifondare il Movimento5Stelle, in modo da rilanciarne la carica innovativa e renderlo pienamente idoneo a interpretare una nuova stagione politica. Anche per questa ragione sto evitando di rilasciare dichiarazioni e di intervenire nell' attualità politica. Ritengo prioritario preparare al meglio una nuova agenda politica, da condividere con la massima ampiezza, che sappia esprimere un progetto di società rispondente ai bisogni più urgenti dei cittadini, ma fortemente proiettata su un modello di sviluppo che coinvolga anche le generazioni future. Ma sono costretto a intervenire per correggere alcune falsità riportate nel lungo editoriale, che Lei ha offerto ai lettori del suo giornale il giorno di Pasqua, dedicato ai vecchi e ai nuovi scenari di politica estera del nostro Paese, con particolare riguardo al conflitto libico, dal titolo «Italia e Libia. Un atlante occidentale». Non posso tacere perché queste notizie false, essendo attinenti alla politica estera perseguita dall' Italia negli ultimi anni, non riguardano solo la mia persona, ma anche un buon numero di nostri professionisti, della filiera diplomatica e dell' intelligence, che hanno condiviso gli sforzi e profuso grande impegno in questa direzione. Non entro, peraltro, nel merito delle varie considerazioni da Lei formulate. Sono sue, opinabili valutazioni. Non Le scrivo per aprire una discussione sui complessi scenari di geo-politica. Ma trovo palesemente fuorviante riassumere tutte le iniziative di politica estera poste in essere dai due governi da me presieduti con l' immagine di un'«Italietta che finalmente si risveglia dalla sbornia nichilista, sovranista e anti-occidentale di questi ultimi tre anni». Sono rimasto colpito dall' incipit del Suo editoriale. Con un accorto espediente retorico ha messo in relazione tre notizie: la prima vera, la seconda e la terza completamente false. La prima notizia, vera, è che «Dopodomani Mario Draghi volerà in Libia». Questa notizia è seguita da un suo commento, pienamente legittimo: «è una missione cruciale, non solo per la difesa del nostro interesse nazionale, ma in parte anche per la ridefinizione del nuovo Ordine Mondiale, la riaffermazione dei valori dell' Occidente, la ricostruzione del ruolo dell' Europa». Subito dopo ci sono due notizie false, che non riguardano solo me personalmente quanto la politica estera perseguita dall' Italia. Queste due falsità sono precedute da un suo commento molto malevolo: «Le ultime pezze a colori improvvisate da Giuseppe Conte nel Corno d' Africa e nella Penisola Arabica hanno portato più malefici che benefici».

La prima falsità: «I due incontri ad Abu Dhabi con Mohammed bin Zayed, tra il novembre 2018 e il marzo 2019, furono talmente inutili sul dossier libico che lo sceicco emiratino diede ordine ai suoi diplomatici di non organizzargli mai più altri colloqui con l' Avvocato del Popolo».

La seconda falsità: «Il blitz a Bengasi del 17 dicembre 2020, organizzato come uno spot di bassa propaganda solo per riportare a casa i pescatori mazaresi previa photo-opportunity con Haftar, è stato ancora più imbarazzante».

La prima notizia è smentita dal fatto che dopo le date che Lei ricorda ho avuto ulteriori colloqui con lo sceicco Mohammed bin Zayed, che hanno confermato non solo l' eccellente rapporto personale instaurato, ma anche le ottime relazioni tra i nostri due Paesi. Mi permetta poi di sottolineare che la sua falsità suona davvero ingenua: in pratica ha tentato di convincere i Suoi lettori che lo sceicco emiratino avrebbe informato solo lei che non avrebbe più accettato colloqui con il sottoscritto, quando invece abbiamo sempre operato, anche a tutti i livelli della filiera diplomatica e di intelligence, nella reciproca consapevolezza che i nostri rapporti fossero molto buoni.

La seconda falsità è non meno sorprendente, in quanto già all' epoca dei fatti chiarii che volai in Libia non per piacere, ma perché fu l' unica condizione per ottenere il rilascio dei diciotto pescatori. L' ho fatto. Lo rifarei. Dopo un lungo negoziato e dopo avere respinto altre richieste che giudicai non accoglibili, atterrai all' aeroporto di Bengasi, dove Haftar mi accolse e firmò in mia presenza il decreto di liberazione dei diciotto pescatori.

Quanto alla photo opportunity, caro Direttore, la informo che ho ricevuto più volte Haftar a Roma, anche nel pieno di quest' ultimo conflitto libico. Aggiungo che non troverà in giro nessuna mia foto con i pescatori: a loro e a tutti i cittadini di Mazara ho mandato un saluto a distanza. Ho evitato di incontrarli proprio per non dare adito a speculazioni inopportune. Ma vedo che con Lei questa premura, ancora a distanza di tempo, non è servita.

Concludo. Ci auguriamo tutti che il viaggio del premier Mario Draghi in Libia possa rivelarsi utile. Il dossier libico rimane strategico per gli interessi italiani ed europei ed è estremamente rilevante negli equilibri geo-politici mondiali. Non credo che nessuno abbia difficoltà ad aderire al suo auspicio che questa possa essere la svolta che l' intero mondo occidentale attende da anni. Ma non serve e non vale a rafforzare questi auspici la denigrazione di chi è venuto prima.

Gentile Direttore, Lei e l' intero gruppo editoriale a cui il Suo giornale fa riferimento avete abbracciato convintamente una causa. Ora, non dico che debba fidarsi di me. Ma dia retta almeno a un raffinato stratega quale Talleyrand, che ai suoi collaboratori raccomandava sempre: «Surtout pas trop de zèle» («Soprattutto non troppo zelo»). Quando si eccede in fervore si rischia di servire male la causa.

DAGONOTA il 7 aprile 2021. A Palazzo Chigi non è affatto piaciuta la lettera di Giuseppi su ‘’La Stampa’’. C’è chi l’ha definita un autentico autogol istituzionale. Qualcun altro parla di invidie e gelosie verso SuperMario. Lo sfogo del Rosi-Conte avrebbe sorpreso (è un eufemismo) persino il Colle. In casa 5Stelle, idem con patate. Grillo, poi, non ha ancora trovato un‘Alka Seltzer per digerire il discorso di Conte all’assemblea pentastellata della scorsa settimana e gliel’ha detto: meno democristiano, più assertivo, non puoi stare sempre nel mezzo, devi prendere i tuoi rischi, svegliati! che siamo vicini alle Amministrative di ottobre e i malumori nel movimento crescono, se perdi le comunali rischi davvero di tornare a fare l’azzeccagarbugli da Alpa. Sulla “Stampa” di oggi c’è la paginata di Massimo Giannini che disintegra la politica estera dello schiavetto di Casalino ma dimentica di aggiungere un lato oscuro dell’ex premier allorché, come autorità delegata ai Servizi, autorizzò il capo del DIS, generale Gennaro Vecchione, di ricevere nel silenzio romano di Ferragosto William Barr, asserendo che come ministro della Giustizia degli Stati Uniti era anche a capo della CIA. Una supercazzola utile per ingraziarsi Donald Trump dell’endorsement alla sua persona («spero che Giuseppi resti primo ministro!»), impegnatissimo com’era a farsi riconfermare al Palazzo Chigi.

Massimo Giannini per "La Stampa" il 7 aprile 2021. Caro Presidente Conte, La ringrazio per la Sua lettera e per la Sua attenzione. Capisco le ragioni che la spingono a replicare ai contenuti del mio editoriale. Ma mi corre l'obbligo di replicare a mia volta, per ribadire i fatti che Lei considera «falsità» e che invece, purtroppo, non lo sono. Scrivo «purtroppo» perché le questioni di cui stiamo parlando riguardano non già le baruffe chiozzotte tra i partiti di casa nostra, ma la politica estera del Paese, che è materia delicata ed essenziale a definirne il profilo e a tutelare l' interesse nazionale. Il primo «fatto» è il severo giudizio di Mohammed bin Zayed, emiro di Abu Dhabi, sulla «sostanziale inutilità» dei due incontri ufficiali avuti con Lei a proposito della Libia e sulla sua ferma volontà di non replicarne altri. Per bollare come «falsità» questo mio resoconto Lei spiega che dopo quei due incontri ha avuto con lo Sceicco «ulteriori colloqui», a conferma dell'«eccellente rapporto personale instaurato». Io non so se dopo il marzo 2019 vi siano state conversazioni telefoniche tra voi: non ce n' è traccia nelle comunicazioni ufficiali di Palazzo Chigi. Ma so per certo e ribadisco quello che ho scritto, e che mi è stato riferito da una fonte primaria e autorevolissima che, sul terreno, ha istruito e segue da sempre il dossier libico-emiratino. Il secondo «fatto» è il blitz del 17 dicembre 2020 per liberare i 18 pescatori mazaresi sequestrati dai libici. Qui non ci dividono «falsità», come Lei dice, ma semplicemente opinioni. La mia rimane quella che ho scritto: il volo improvvisato a Bengasi e le modalità con le quali è stato organizzato il rilascio dei sequestrati, con tanto di photo-opportunity pretesa da Haftar, restano una pagina opaca della nostra storia diplomatica. Comprendo il "movente": dopo aver respinto «altre richieste non accoglibili» (sono parole Sue) quella foto era evidentemente l' unica che ritenne di accogliere per raggiungere il risultato, cioè il rilascio dei pescatori. Fu dunque un gesto di realpolitik. Ma l' evidenza rimane: come ho scritto, fu comunque un episodio imbarazzante. Detto tutto questo, Caro Presidente Conte, La voglio rassicurare sugli ultimi due punti della Sua lettera. Da parte mia non c' è nessuna intenzione di denigrare chi c' era ieri per lodare chi è arrivato oggi. Lei ha guidato l' Italia in una stagione infausta, soprattutto per la nostra collocazione geopolitica. Sa meglio di me che sulla credibilità del Paese che Lei rappresentava nei consessi internazionali hanno pesato fortemente le sbandate filorusse della Lega e le intemerate filocinesi dei Cinque Stelle. Diciamo che non solo la tela delle relazioni transatlantiche, ma più in generale tutta la politica estera (in particolare con il Suo primo governo gialloverde) ha subito strappi di ogni tipo. Come dimenticare la missione del ministro degli Interni e vicepremier Salvini al Cremlino, quando il Capitano attaccò ferocemente Francia e Germania e concluse dicendo «qui a Mosca mi sento a casa mia, mentre in alcuni Paesi europei no»? Era il 16 ottobre 2018, e dopo il varo delle sanzioni contro Putin per l' annessione della Crimea e l' aggressione dell' Ucraina noi scaricavamo così Parigi e Berlino, per schierarci al fianco del nuovo Zar di tutte le Russie. E come dimenticare la missione del vicepremier e ministro dello Sviluppo Economico Di Maio proprio a Parigi, quando insieme all' allora suo scudiero Di Battista incontrò il leader dei gilet gialli Christophe Calencon e ne sostenne pubblicamente la battaglia, in nome «delle posizioni e dei molti valori comuni che mettono al centro delle nostre battaglie i cittadini»? Era il 5 febbraio 2019, e nel pieno di una protesta violenta che ogni weekend metteva a ferro e fuoco la capitale francese, noi prendevamo a schiaffi così l' alleato Macron. In tanta confusione identitaria, se me lo consente, Lei talvolta ci ha messo del Suo. Un esempio su tutti: l' atteggiamento un po' troppo appiattito su Trump, che del resto le valse un endorsement fondamentale per il Suo secondo governo. Era il 27 agosto 2019 e, subito dopo la pazza crisi del Papeete, The Donald cinguettò il famoso «spero che Giuseppi resti primo ministro!». Un "abbraccio" non mortale ma certo soffocante, che forse spiega il ritardo col quale il 17 gennaio scorso sono infine arrivate le congratulazioni telefoniche con il neo-eletto presidente Joe Biden. Ma a parte questo, Lei ha fatto quel che ha potuto. E di una cosa, decisiva per noi e per l' intero Occidente, Le do atto volentieri: ha tenuto la barra dritta sull' elezione di Ursula Von Der Leyen alla presidenza della Commissione Ue. Una mossa non scontata, persino miracolosa, nelle assurde condizioni politiche di allora, che ha messo all' angolo le destre populiste e sovraniste e ha cambiato il corso degli eventi in Europa. Era il 16 luglio dello stesso 2019, e forse proprio quella svolta (che a Strasburgo i Cinque Stelle condivisero con i popolari e i socialisti europei) convinse definitivamente Salvini a rompere un mese dopo il patto di governo. Dunque, come vede, da parte mia nessuna denigrazione preconcetta e nessuna critica «a prescindere». Infine, nella Sua lettera Lei parla di una «causa abbracciata» da me e «dall' intero gruppo editoriale». La citazione di Talleyrand sull' eccesso di zelo è bella, ma fa torto alla Sua intelligenza e alla Sua cultura. Per quel poco o tanto che ci conosciamo, dovrebbe aver capito che delle scelte fatte e della "linea" del mio giornale (sulle quali il mio gruppo editoriale non mi chiede e non mi ha mai chiesto conto) rispondo solo a me stesso e ai miei lettori. E dovrebbe anche aver capito che in politica ho le mie idee, ma non abbraccio «cause» a priori, dove per cause si intendono capi di governo o leader di partito. Dunque, se oggi Lei per «causa» intende Mario Draghi, certo, Le confermo che apprezzo e stimo l' attuale premier. Ma l' apprezzamento e la stima (come del resto capitava anche per Lei) non mi fanno velo quando ne giudico gli atti di governo. Per averne prova, vada a leggere gli ultimi editoriali che ho scritto, sui troppi silenzi di Palazzo Chigi, sui troppi ritardi nei vaccini, sui troppi errori nei viaggi consentiti all' estero, sulle troppe promesse mancate per la scuola. Concludendo, possiamo forse venirci incontro. Io prometto che non cadrò nella trappola dello zelo di cui scriveva Talleyrand, Lei prometta di non cadere nella Schadenfreude di cui parlava Schopenhauer. Non renderebbe un buon servizio al Paese. E soprattutto non La aiuterebbe nel compito impegnativo di cui si è fatto responsabilmente carico: e cioè (come Lei stesso mi scrive) «rifondare il Movimento 5 Stelle» e «renderlo pienamente idoneo a interpretare una nuova stagione politica». Segno evidente che finora non lo è stato.

La difesa “non richiesta” di Conte sulla sua fallimentare politica in Libia. Mauro Indelicato su Inside Over il 6 aprile 2021. Giuseppe Conte è piombato (quasi) per caso in politica, ma da questo mondo non sembra più volerne uscire. Fin qui nulla di male. C’è però un problema: nel voler continuare la sua avventura nell’agone politico, continua ad usare metodi e toni da avvocato. La lettera con la quale in questo martedì ha replicato a un editoriale del direttore de La Stampa, Massimo Giannini, assomiglia a un’arringa difensiva in un processo che, per la verità, nessuno gli ha posto. Conte ha difeso il suo operato in politica estera allo stesso modo di come difenderebbe un suo cliente da un’accusa. Questo però non lo salva da precise responsabilità politiche, soprattutto per quanto concerne il dossier libico.

Le responsabilità di Conte sulla politica italiana in Libia. Tutto è partito dalle considerazioni espresse da Massimo Giannini alla vigilia del viaggio del nuovo presidente del consiglio Mario Draghi a Tripoli. Considerazioni sulle quali si può essere o meno d’accordo. Il principio di base dell’editoriale apparso su La Stampa è riferito all’auspicio che la missione del nuovo inquilino di Palazzo Chigi serva a rilanciare il ruolo dell’Italia e dell’Europa. Qui è emerso un primo implicito attacco alla linea politica tenuta dai governi Conte I e Conte II. L’avvocato a guida degli ultimi due esecutivi si è risentito però soprattutto su due precisi passaggi: da un lato la descrizione dei rapporti personali tra lo stesso Giuseppe Conte e il principe ereditario di Abu Dhabi, Mohammed Bin Zayed, definiti pessimi da Giannini, dall’altro il riferimento di quest’ultimo al volo compiuto dall’ex premier il 17 dicembre scorso a Bengasi dove, per portare a casa i pescatori di Mazara del Vallo, l’allora capo del governo ha incontrato il generale Khalifa Haftar. Il direttore de La Stampa ha descritto quel colloquio come “uno spot di bassa propaganda solo per riportare a casa i pescatori mazaresi previa photo-opportunity con Haftar”. Da qui l’arringa di Conte: “Già all’epoca dei fatti chiarii che volai in Libia non per piacere – si legge nella risposta dell’avvocato – ma perché fu l’unica condizione per ottenere il rilascio dei diciotto pescatori. L’ho fatto. Lo rifarei”. Non solo: “Dopo un lungo negoziato e dopo avere respinto altre richieste che giudicai non accoglibili atterrai all’aeroporto di Bengasi, dove Haftar mi accolse e firmò in mia presenza il decreto di liberazione dei diciotto pescatori. Quanto alla photo opportunity, caro Direttore, la informo che ho ricevuto più volte Haftar a Roma, anche nel pieno di quest’ultimo conflitto libico”. Una difesa in piena regola. Forse anche, dal punto di vista prettamente tecnico, ineccepibile. La descrizione dei fatti è precisa, in effetti è vero che il generale più volte è stato incontrato nella nostra capitale. Ed è proprio questo il problema. Giuseppe Conte dal 2018 in poi, prima per la buona riuscita del vertice organizzato dal suo primo governo a Palermo e poi per seguire la sua linea “dell’equidistanza” in Libia, ha corteggiato lungamente Haftar. Rischiando, in più di un’occasione, incidenti diplomatici con il governo ufficialmente riconosciuto guidato fino al 15 marzo scorso da Fayez Al Sarraj. Sta qui la precisa responsabilità dell’avvocato nel dossier libico. L’episodio del 17 dicembre altro non è stato che l’apice, in negativo, di una politica sulla Libia seguita distrattamente. Una superficialità che l’Italia ha rischiato di pagare caro.

Un dossier che deve tornare ad essere cruciale. Mario Draghi ha un vantaggio rispetto al predecessore: a Tripoli ha potuto incontrare un nuovo premier, il misuratino Abdul Hamid Ddheiba, che almeno sulla carta rappresenta l’intera Libia. Giuseppe Conte si è dovuto dividere tra est ed ovest, Tripoli e Bengasi, governi legittimi ed eserciti non riconosciuti ma in grado di avere in mano il territorio. Da avvocato l’ex presidente del consiglio forse parlerebbe di “attenuante“. Da politico però Conte dovrebbe oramai aver imparato che di attenuanti in questo ambito non ne esistono. I suoi governi si sono mossi in Libia in modo disorganizzato, non continuativo e, soprattutto, spesso si sono fatti cogliere di sorpresa. É stato così nell’aprile del 2019, quando dopo aver corteggiato Haftar e aver vantato l’equidistanza italiana, il generale ha iniziato la sua battaglia per la presa di Tripoli. Da allora l’Italia in Libia ha rischiato seriamente di sparire. Il nostro peso nel Paese nordafricano è stato soppiantato dall’attivismo di altri attori, a partire dalla Turchia di Erdogan, divenuta prima alleata di Al Sarraj, e dalla Russia. Il rapimento per tre mesi di due pescherecci italiani ad opera di Haftar, altro non è stato che il simbolo del fallimento della politica estera di Roma negli ultimi anni, includendo anche i governi precedenti a quelli dell’avvocato. Soltanto una serie di circostanze, quali ad esempio la necessità di Tripoli di avere altri alleati oltre Ankara e l’insediamento in Libia di un nuovo governo, stanno permettendo di avere nuove chance di reinserimento nel dossier. Palazzo Chigi deve ripartire proprio da questi ultimi due elementi. La visita di Mario Draghi nella capitale libica, assieme alle visite già tenute dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio, hanno rappresentato un primo passo. Non certo però l’ultimo. L’Italia deve provare a dare centralità alla questione libica. Per farlo occorre continuità, seguire da vicino ogni ambito del percorso politico intrapreso dal Paese nordafricano. Non sarà semplice e, al contrario, la sfida è di quelle complicate. In ballo ci sono interessi nazionali molto forti, oltre che il complessivo ruolo dell’Italia del vitale contesto mediterraneo e mediorientale.

Clamorosa gaffe sui salvataggi in mare di Tripoli. La campagna libica di Draghi: esautora Di Maio ma dimentica i diritti umani. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 7 Aprile 2021. Aver scelto la Libia per il suo primo viaggio all’estero da presidente del Consiglio, ha per Mario Draghi una doppia valenza politica: riaffermare la centralità del Mediterraneo nella politica estera dell’Italia e confermare, se ce ne fosse ancora bisogno, che proprio perché centrale, il premier ha di fatto “commissariato” il titolare della Farnesina, Luigi Di Maio. Certo, Di Maio ha accompagnato Draghi, e ci mancava pure che lo lasciasse a casa, ma il messaggio è chiaro: sulle questioni che contano, sui dossier che scottano, la partita la gioca Super Mario mentre il giovane Luigi sta in panchina. E la Libia per noi è davvero cruciale. «È un momento unico per la Libia, c’è un governo di unità nazionale legittimato dal Parlamento che sta procedendo alla riconciliazione nazionale. Il momento è unico per ricostruire quella che è stata un’antica amicizia». Così Draghi nelle dichiarazioni congiunte con il Primo Ministro libico Abdulhamid Dabaiba da Tripoli. «Un requisito essenziale – rimarca il premier italiano – per procedere con la collaborazione è che il cessate il fuoco continui». «È un momento unico per guardare al futuro e per muoversi con celerità e decisione. C’è la volontà di riportare quello che era l’interscambio culturale ed economico con la Libia ai livelli di cinque, sei, sette o otto anni fa e la conversazione di oggi mi assicura che si vuole anche superarlo», spiega Draghi. «È stato un incontro straordinariamente soddisfacente. Abbiamo parlato della cooperazione in campo infrastrutturale, energetico, sanitario e culturale. L’Italia aumenterà le borse di studio per gli studenti libici e l’attività dell’Istituto di Cultura italiano». «Si vuole fare di questa partnership una guida per il futuro nel rispetto della piena sovranità libica», aggiunge. «Sul piano dell’immigrazione noi esprimiamo soddisfazione per quello che la Libia fa nei salvataggi e nello stesso tempo aiutiamo e assistiamo la Libia. Ma il problema non è solo geopolitico, è anche umanitario e in questo senso l’Italia è uno dei pochi Paesi che tiene attivi i corridoi umanitari”. Morale geopolitica della visita: il futuro? È un ritorno al passato. Si deve ripartire dall’accordo di amicizia del 2008, quando al potere del Paese nordafricano c’era ancora Muammar Gheddafi, per ricostruire una forte alleanza tra Roma e Tripoli e sperare in una rapida rinascita e crescita della Libia che riporti l’Italia a essere, come all’epoca del Rais, uno degli attori con la maggiore influenza nel Paese nordafricano. Una riabilitazione politicamente postuma del Cavaliere Berlusconi. La volontà di sfruttare il momento storico che appare favorevole a una pacificazione anche sul terreno viene più volte rimarcata dai due premier. La presa di coscienza da parte dell’uomo forte della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar, che una fine del conflitto sia possibile solo con un accordo politico e non con una mossa militare ha frenato le ambizioni di conquista dell’uomo forte di Bengasi. Inoltre, la creazione di un nuovo governo, condiviso dalla maggior parte degli attori in campo, risarcisce la spaccatura formata dall’instaurazione dell’ex esecutivo tripolino guidato da Fayez al-Sarraj, che molti gruppi locali avevano visto come un’imposizione e che più volte hanno tentato di sconfiggere. Oggi, con le elezioni fissate per dicembre e con l’apparente disponibilità dei principali attori impegnati nella lotta di potere scatenatasi già dal 2011, anche Draghi è concorde sul fatto che questo, come rimarcato nella dichiarazione finale, «è un momento unico per la Libia, c’è un governo di unità nazionale legittimato dal Parlamento che sta procedendo alla riconciliazione nazionale. Il momento è unico per ricostruire quella che è stata un’antica amicizia». Un’amicizia che Draghi rilancia con la diplomazia degli affari. Tra questi, la ricostruzione dell’aeroporto di Tripoli, da alcuni anni semidistrutto e in gran parte inattivo, che dovrebbe essere affidata al consorzio di aziende italiane Aeneas (il consorzio avrebbe dovuto cominciare la ricostruzione tre anni fa, ma l’opera fu interrotta dalla guerra civile) e il sostegno alla costruzione di una lunghissima autostrada costiera che dovrebbe attraversare il paese e collegare il confine egiziano a quello tunisino (la costruzione dell’autostrada fu promessa da Silvio Berlusconi al Colonnello Gheddafi ma fu realizzata solo in piccola parte). Ma la diplomazia degli affari non s’intreccia con quella dei diritti umani. Tema, quest’ultimo, che per Draghi, come è stato per i suoi predecessori a Palazzo Chigi, resta un corollario. Qui l’ex presidente della Bce scivola, e di brutto, spingendosi, sulla questione dell’immigrazione, fino al punto di fare i complimenti alla Libia per i “salvataggi in mare”, uscita che gli è già costata alcune critiche visti i numerosi episodi di violenza da parte della Guardia Costiera di Tripoli e in special modo all’interno dei centri di reclusione dove i naufraghi vengono sistematicamente riportati e dove si continuano a registrare casi di tortura e uccisioni. «Il problema dell’immigrazione per la Libia – ha proseguito il presidente del Consiglio – non nasce solo sulle coste libiche ma si sviluppa sui confini meridionali della Libia e c’è un dialogo per aiutare il governo libico anche in quella sede. Terrorismo, crimine organizzato e traffico di esseri umani sono questioni comuni tra di noi che dobbiamo risolvere insieme, lavorare insieme per trovare meccanismi pacifici». Il primo a rispondere è stato il segretario nazionale di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni: «Draghi esprime soddisfazione per il lavoro della Libia sui salvataggi? Evidentemente gli sfugge la differenza tra salvataggio e cattura. In Libia i migranti vivono in condizioni inumane e atroci, come confermato da tutte le organizzazioni internazionali. Esprimere soddisfazione per il lavoro della Libia su questo fronte mi pare francamente inaccettabile». Dello stesso avviso il deputato Pd Matteo Orfini: «Significa dirsi soddisfatti della sistematica violazione dei diritti umani». Tra le fila dei dem è critica anche Laura Boldrini: «L’Italia deve contribuire alla stabilizzazione e alla pace della Libia, dopo la terribile guerra civile fomentata anche da potenze straniere. Grave che Draghi abbia ignorato le violenze e le torture, subite dai migranti nei campi di detenzione, denunciate dall’Onu». Riccardo Magi, radicale di Più Europa sottolinea che «Il futuro di stabilità e benessere di cui ha parlato Draghi a Tripoli non può essere costruito sulla base dei fallimentari accordi Italia-Libia del 2017, che hanno contribuito a rendere sistematiche le violazioni dei diritti umani. Quei patti vanno profondamente rivisti, vorremmo sentire parole chiare da parte del governo anche su questo». Va giù duro Riccardo Noury, storico portavoce di Amnesty International Italia: «Salvataggi e Guardia costiera libica sono un ossimoro – dice a Il Riformista -. Quello che è noto a tutti è che la Guardia costiera libica, grazie al rafforzamento della sua capacità operativa da parte dell’Italia, negli ultimi cinque anni ha riportato in Libia decine di migliaia di migranti e richiedenti asilo. Ammesso che li abbia salvati da una morte in mare, li ha consegnati in buona parte a un rischio elevato di morire in terra libica. Per la tutela dei diritti dei migranti e dei richiedenti asilo in Libia tutto ci vorrebbe meno che complimentarsi con le autorità di quel Paese». «Amnesty International – sottolinea ancora Noury – continua a sostenere che i centri di detenzione in Libia debbano essere evacuati. E che l’Italia debba avere un ruolo in questa operazione. Quanto poi al tema dei corridoi umanitari, pur potenzialmente importante non può sostituire la necessità di togliere al più presto queste persone dai luoghi di violenza, tortura, stupri e schiavitù».

Il premier Draghi ringrazia Tripoli per i “salvataggi”, lite a sinistra. Giovanna Casadio su La Repubblica il 6 aprile 2021. Nel Pd monta la protesta: “I centri di detenzione sono dei veri e propri lager”. Draghi ha "ricucito" con la Libia ma spacca il Pd e fa insorgere la sinistra. Se nessuno mette in discussione l'importanza della missione del presidente del Consiglio a Tripoli, sono le parole di lode che rivolge al premier libico Dbeibah sui migranti e i salvataggi in mare a scatenare reazioni durissime, rinviando la resa dei conti al voto in Parlamento sul rifinanziamento della missione in Libia tra circa un mese. O anche prima, con la richiesta di decidere su una commissione d'inchiesta sulle morti nel Mediterraneo, che per ora giace nei cassetti di Montecitorio, presentata sia dall'ex capogruppo del Pd, Graziano Delrio che dal radicale Riccardo Magi. Al contrario il centrodestra apprezza. Giorgia Meloni ritiene che Draghi stia ripartendo "dal 2011 e da quanto lasciato dal centrodestra" in fatto di politiche del Mediterraneo. Per il sottosegretario alla Difesa, il forzista Giorgio Mulè è la strada giusta, tracciata da Berlusconi. La dichiarazione di Draghi che solleva il putiferio è: "Noi esprimiamo soddisfazione per quello che la Libia fa, per i salvataggi e nello stesso tempo aiutiamo e assistiamo la Libia". Reagisce Matteo Orfini, ex presidente del Pd, che già un anno fa guidò la fronda alla Camera contro il patto Italia-Libia sui migranti: "Dirsi soddisfatti della sistematica violazione dei diritti umani è inaccettabile. Draghi ha commesso un errore, perché le parole hanno un peso. Persino Marco Minniti, il padre degli accordi libici per fermare i migranti, ha preso le distanze da quel "modello"". I punti nevralgici sono gli aiuti economici alla guardia costiera (su cui ci sono ombre di complicità con i trafficanti di esseri umani) e i centri di detenzione in Libia, veri lager. È Pietro Bartòlo, il medico di Lampedusa, oggi eurodeputato dem a ricordare lo stato dei fatti: "Bene ha fatto Draghi a recarsi in Libia, però la Libia quando opera, anche supportata da Frontex, riprende i migranti in fuga e li riporta nei centri di detenzione, veri e propri lager". La richiesta è che Draghi venga in Parlamento a illustrare le politiche su immigrazione e Libia. Dalla sinistra è un tam tam di proteste. Il Movimento delle Sardine con Jasmine Cristallo attacca: "Le parole di Draghi sono in linea con Salvini". Nicola Fratoianni (SI) giudica l'affermazione "indecente e grave", così Loredana De Petris, i dem Marco Furfaro e Laura Boldrini, Elena Grandi e Luana Zanella dei Verdi, Erasmo Palazzotto di Leu. Anche le associazioni umanitarie protestano, a cominciare da Medici senza frontiere-Italia. È Lia Quartapelle, che il neo segretario Enrico Letta ha voluto responsabile Esteri del Pd, a tentare di riequilibrare il giudizio: "Bisogna inserire quelle parole di Draghi nel nuovo approccio: stabilità libica e lotta ai traffici illeciti".    

Sinistra anti premier: linciaggio sui migranti. Assalto dai Verdi al Pd dopo la visita in Libia: ignora le violenze segnalate dalle Nazioni Unite. Chiara Giannini - Mer, 07/04/2021 - su Il Giornale. Che la sinistra avesse una posizione pro accoglienza era ormai chiaro a tutti, ma che arrivasse addirittura a strigliare il premier in pochi se lo aspettavano. Ieri, durante il suo viaggio in Libia, il presidente del Consiglio Mario Draghi, al termine dell'incontro con il primo ministro libico Abdel Hamid Dabaiba ha sottolineato il forte impegno del Paese nel contrasto all'immigrazione clandestina. L'Italia esprime «soddisfazione - ha detto - per quel che la Libia fa per i salvataggi» in mare, confermando poi «l'aiuto e il sostegno» da parte della nostra Nazione. Per proseguire: «Il problema non è solo geopolitico, ma anche umanitario. E da questo punto di vista l'Italia è uno dei pochi, forse l'unico Paese, che continua a tenere attivi i corridoi umanitari». Draghi ha ricordato «che il problema dell'immigrazione per la Libia non nasce solo sulle coste, ma si sviluppa anche sui confini meridionali. L'Unione europea - ha chiarito - è stata investita del compito di aiutare il governo libico anche in quella sede». Le polemiche non hanno tardato ad arrivare, con l'armata Brancaleone al completo indignata per la posizione del premier. Il segretario nazionale della Sinistra italiana, Nicola Fratoianni, ha commentato: «Draghi esprime soddisfazione per il lavoro della Libia sui salvataggi? Evidentemente gli sfugge la differenza tra salvataggio e cattura. In Libia i migranti vivono in condizioni inumane e atroci, come confermato da tutte le organizzazioni internazionali. Esprimere soddisfazione per il lavoro della Libia su questo fronte - conclude - mi pare francamente inaccettabile». A fargli eco l'eurodeputato Pd Pierfrancesco Maiorino. «Il fatto che pure la persona più prestigiosa e autorevole di cui disponga il nostro Paese - ha detto - ignori il disastro compiuto negli anni dalla Guardia costiera libica e il dramma dei campi di concentramento mi delude molto». Un altro esponente della sinistra, il deputato Pd Matteo Orfini, tiene a dire: «Draghi ha espresso soddisfazione per quello che la Libia fa sul salvataggio dei migranti. Significa dirsi soddisfatti della sistematica violazione dei diritti umani. Era inaccettabile quando lo dicevano i suoi predecessori. È inaccettabile anche oggi che a dirlo è lui». E non poteva mancare il commento di Laura Boldrini (Pd): «L'Italia deve contribuire alla stabilizzazione e alla pace della Libia, dopo la terribile guerra civile fomentata anche da potenze straniere. Grave che Draghi abbia ignorato le violenze e le torture, subite dai migranti nei campi di detenzione, denunciate dall'Onu». Elena Grandi e Luana Zanella dei Verdi, in una nota chiariscono: «Siamo amaramente sorpresi dalle parole del Presidente Draghi in visita in Libia. Dichiararsi soddisfatti del lavoro del governo libico in tema di salvataggi vuol dire ignorare i crimini compiuti in questi anni dalla guardia costiera libica e il dramma dei campi di concentramento». Marco Furfaro della Direzione nazionale del Pd scrive sui social: «Rinchiudere migliaia di persone in campi di concentramento, torturarle, violentarle e usarle come oggetto di riscatto lo definirei violazione dei diritti umani più che salvataggio. Fuori da ogni ipocrisia: di soddisfacente ci sono soltanto i canali umanitari». Da chiedersi se qualcuno dei rappresentanti della sinistra si sia mai recato in Libia a vedere con i propri occhi come stanno le cose, anziché affidarsi ai luoghi comuni per affossare i tentativi del premier di portare avanti un dialogo costruttivo con quel Paese.

 (ANSA il 20 gennaio 2021) Il Copasir ha chiesto l'audizione del premier Giuseppe Conte, del capo ufficio stampa di Palazzo Chigi Rocco Casalino e del ministro degli Esteri Luigi Di Maio in relazione alla vicenda dei pescatori trattenuti per alcuni mesi in Libia. Il Comitato ha anche chiesto l'audizione del senatore Matteo Renzi "al fine di arricchirsi di ulteriori ed eventuali notizie relative alla vicenda riguardante la visita nel 2019 del procuratore generale degli Stati Uniti, William Barr". (ANSA).

Luca Roberto per ilfoglio.it il 20 gennaio 2021. Il Comitato Parlamentare della Sicurezza della Repubblica (Copasir) ha reso noto che ha intenzione di calendarizzare l'audizione di Rocco Casalino, portavoce del presidente del Consiglio Giuseppe Conte. E lo farà, come scrive in un comunicato diffuso in mattinata, sulla base di "tematiche emerse nella contingenza". Due in particolare. La geolocalizzazione, diffusa da Casalino, all'aeroporto di Bengasi durante la missione italiana per liberare i pescatori di Mazara del Vallo detenuti in Libia, come aveva raccontato per primo il Foglio. E il presunto hackeraggio denunciato da Palazzo Chigi solo qualche giorno fa, quando dall'account ufficiale di Giuseppe Conte era stata pubblicata una storia che recitava: "Clicca qui se vuoi mandare a casa Renzi". Contenuto da cui il responsabile web e social media della presidenza del Consiglio, Dario Adamo, si era dissociato, parlando per primo di presunti tentativi di intrusione nei sistemi informatici del governo. A tal proposito viene richiesta l'audizione anche del Segretario generale della presidenza del Consiglio, Roberto Chieppa. Come richiesto dal Copasir, sarà audito anche Matteo Renzi, "al fine di arricchirsi di ulteriori ed eventuali notizie relative alla vicenda riguardante la visita nel 2019 del Procuratore Generale Barr".

Libia e presunto hackeraggio: perché Il Copasir vuole sentire Casalino. Andrea Muratore su Inside Over il 21 gennaio 2021. Rocco Casalino, il più influente spin doctor della Repubblica italiana e portavoce del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, è nel mirino del Copasir. Perché mai, ci si potrebbe chiedere a primo impatto, il comitato di vigilanza sui servizi segreti dovrebbe sentire l’ex concorrente del Grande Fratello divenuto comunicatore in capo dei Cinque Stelle prima e stratega della comunicazione di Conte poi? Che rilevanza potrebbe mai avere l’uomo asceso dal Gf al G7 per l’istituzione di Palazzo San Macuto, così attenta a trincerarsi in difesa della sicurezza nazionale in ambito economico e geopolitico? Il fatto è che Casalino è stato nelle ultime settimane coinvolto in due casi sospetti che hanno allertato chi si occupa da tempo di sicurezza nazionale e ora vuole vederci chiaro, sentendo il consulente politico 48enne in audizione. Come riporta Il Foglio, il primo è legato al caso libico svelato proprio dal quotidiano diretto da Claudio Cerasa: il 17 dicembre scorso, dialogando telefonicamente con i giornalisti che chiedevano informazioni sulla missione italiana per completare la liberazione dei 18 pescatori tenuti in ostaggio da 108 giorni dalle milizie del generale Haftar, il portavoce del premier ha mandato la sua geolocalizzazione da Bengasi durante il viaggio al seguito di Conte e Luigi Di Maio, giunti in Cirenaica per la “passerella” politica finale. Il solitamente loquace Casalino affermò allora di non aver mai inviato alcun messaggio, per quanto gli screenshot pubblicati e poi rimossi da Il Foglio sul suo sito indicassero platealmente sulla mappa, l’aeroporto dove la delegazione italiana si trovava in quel momento, e una scritta eloquente: “Municipalità di Benghazi”. Il secondo caso è più recente e ha a che fare con la querelle della crisi di governo. Dopo la rottura di Matteo Renzi con Giuseppe Conte del 13 gennaio scorso, seguita dalla dimissione compatta della coalizione di Italia Viva dal governo, per qualche minuto i profili social di Conte hanno visto comparire nelle storie un’immagine rimandante a una pagina di sostegno al premier con la scritta “Clicca qui se vuoi mandare a casa Renzi” che indirizzava a un gruppo appena costituito. Di fronte a questo avvenimento Renzi era insorto, accusando il premier di abusare dei suoi canali social, mentre il responsabile web e social media della presidenza del Consiglio, Dario Adamo, si era trincerato dietro la giustificazione di un possibile hackeraggio degli account di Conte.

Facebook ha smentito prove di un hackeraggio, mentre il giornalista David Carretta, corrispondente da Bruxelles di Radio Radicale, su Twitter ha fatto notare che la scelta era tra due alternative altrettanto gravi: o un account di un presidente del Consiglio di uno Stato del G7 era stato facilmente “forato” oppure il suo staff di comunicazione stava palesemente mentendo. Dello stesso tenore le accuse del deputato renziano Michele Anzaldi, secondo il quale il fatto che Conte non abbia presentato alcuna denuncia per l’accaduto aumenta i sospetti di un possibile depistaggio mediatico compiuto dal team di comunicazione di Palazzo Chigi.

Ascesa e declino di Casalino. Casalino è dunque al centro del mirino. Lo spin doctor di Conte è stato in grado, per diversi mesi, di controllare tempi e ritmi dell’agenda mediatica: nel governo Conte I, egli ha costruito gradualmente l’immagine pubblica di un presidente del Consiglio ignoto al grande pubblico. Partito vicepremier di due vicepremier, Conte si è guadagnato spazio anche grazie a una comunicazione indubbiamente impeccabile: presenza scenica negli eventi, toni da “avvocato del popolo”, vicinanza alla gente. Nel secondo governo Conte, dopo il disarcionamento di Matteo Salvini, la comunicazione guidata da Casalino ha creato l’immagine di un premier progressista, europeista, punto di sintesi della coalizione M5S-Pd, uomo di establishment e di popolo al tempo stesso. Le interviste ben preparate, i post social tesi a avvicinare l’immagine dell’inquilino di Palazzo Chigi a una prospettiva rassicurante del potere, la dichiarata affermazione del primato della presidenza del consiglio sui partiti di governo si sono sommate e hanno avuto, durante l’emergenza pandemica, un ulteriore spinta ad accelerare. Marcello Foa nel suo saggio Gli stregoni della notizia ricorda con puntualità che, alla lunga, la vera sfida per uno spin doctor è continuare a mantenere il controllo sull’agenda mediatica. Operazione che Casalino ha voluto compiere coordinando le strategie di Palazzo Chigi: decreti annunciati in conferenza stampa prima di essere scritti, anticipazioni tramite veline e comunicazioni “riservate”, dirette Facebook centrate sull’occupazione della scena da parte del premier, parole d’ordine immaginifiche (“potenza di fuoco” docet). Ma gradualmente la frontiera dell’interventismo di Casalino si è spinta sempre più in là, e come Foa ricorda “troppo spin danneggia lo spin”. Quando la manovra da spin doctor arriva a coinvolgere i decisivi dossier della sicurezza nazionale, non c’è più narrazione che conta: capire se per nutrire l’immagine comunicativa del premier Casalino e il suo team si sono spinti o meno fino ad anticipare una missione diplomatica segreta via telefono o a simulare un gravissimo hackeraggio alle utenze di Palazzo Chigi è questione rilevante per le attività del Copasir.

Bulimia di potere e bulimia comunicativa. Capire questo aiuterebbe, in tal senso, a comprendere meglio le linee guida su determinati dossier da parte della presidenza Conte: dall’intelligence al Recovery Plan, molto spesso, la partita di Conte è stata ispirata alla volontà di personalizzare la gestione di asset e programmi che sono di comune interesse del Paese, al di là della maggioranza politica momentanea. L’ardito stile comunicativo di Casalino non è temprato, come l’azione istituzionale di Conte, dal contrappeso di una rodata cultura politica capacedi capire pesi e contrappesi dell’agire istituzionale. In nome della bulimia di potere, il duo Conte-Casalino ha indubbiamente creato una vorticosa accelerazione del ritmo di comunicazione di Palazzo Chigi e delle istituzioni collegate che a lungo ha nutrito gli elevati tassi di consenso del premier, ma troppo spesso si è scontrato con la necessità di calma e posatezza che la tutela dell’interesse nazionale richiede. Dunque, ben venga l’audizione di Casalino al Copasir per capire se sul dossier libico si sia trattato di un errore in buona fede o di un atto voluto e quale delle due gravi ipotesi teorizzate da Carretta per il caso “storie social” sia più realistica. In ogni caso, quella di fronte al comitato per l’ex concorrente del Grande Fratello divenuto spin doctor si preannuncia un’esperienza complessa. L’agenda sarà dettata da coloro che condurranno l’audizione, non dal braccio destro di Conte. E come un agente segreto, uno spin doctor, persuasore occulto per definizione, è forte delle sue prerogative finché non è riconosciuto come tale: l’idea che, comunque vada, la stella di Casalino sia prossima a calare di magnitudine nel contesto di un governo sempre più zoppicante non è affatto peregrina.

Ecco cosa ha veramente detto Gheddafi a proposito delle epidemie. Mauro Indelicato su Inside Over il 22 gennaio 2021. Quando un evento sconvolge il corso della storia immancabilmente arrivano, soprattutto sui social, riferimenti a possibili premonizioni giunte direttamente dal passato. L’emergenza coronavirus in tal senso ha scatenato la diffusione di una serie di reazioni e teorie volte, in alcuni casi, a rintracciare anche un elemento “artificiale” nell’esplosione della pandemia. Tra queste, è da annoverare la circolazione di una frase attribuita al leader libico Muammar Gheddafi. Per tutto il 2020 ha infatti circolato sui social un’immagine del fondatore della Jamahirya ucciso nel 2011 con una didascalia riportante una sua affermazione sui virus risalente al 2009: “Creeranno virus da soli e ti venderanno antidoti e poi faranno finta di aver bisogno di tempo per trovare una soluzione quando già ce l’hanno”. Cosa c’è di vero in questa ricostruzione?

Cos’ha detto Gheddafi nel 2009. Per chi ha veicolato soprattutto su Facebook questo post, la frase del rais sarebbe una premonizione dell’attuale emergenza coronavirus. Gheddafi cioè avrebbe anticipato i tempi e già 11 anni prima della comparsa del Covid-19 è stato in grado di prevedere cosa sarebbe accaduto nel 2020. In realtà, il leader libico non ha mai nominato il coronavirus e non ha mai fatto riferimento all’attuale pandemia. Il discorso da cui sono state estrapolate le sue parole è quello da lui tenuto in sede di assemblea dell’Onu a New York nel settembre 2009. Si tratta di uno degli interventi più sentiti dallo stesso rais e che meglio può sintetizzare il suo repertorio retorico/politico. Per la prima (e ultima) volta si trovava negli Stati Uniti, sapeva che tutti gli altri leader lo stessero ascoltando e aveva davanti una platea mondiale in cui esternare il proprio pensiero politico. Un’occasione unica per Gheddafi, che ha infatti parlato per un’ora e mezza, stravolgendo la scaletta della seduta assembleare e spesso non ha prestato attenzione ai suoi stessi appunti, andando a braccio e parlando in alcuni passaggi direttamente con il suo dialetto arabo – libico. Di quell’intervento AfricaNews ha ancora in archivio la sua trascrizione integrale in inglese. Andando alla parte relativa ai virus, un primo cenno all’argomento è stato fatto all’inizio quando ha dichiarato che “forse l’influenza H1N1 era originariamente un virus creato in laboratorio di cui si è perso il controllo”. Una frase contenuta in un passaggio del suo discorso dove parlava delle sfide da affrontare per la comunità internazionale. Tra quelle sfide, vi erano anche le epidemie e da qui il suo riferimento all’influenza da virus H1N1, per la quale pochi mesi prima l’Oms aveva dichiarato la pandemia. Successivamente Gheddafi è tornato su quell’argomento: “Forse domani ci sarà l’influenza dei pesci, perché a volte produciamo virus controllandoli – si legge nel discorso – È un’attività commerciale. Le aziende capitaliste producono virus in modo che possano generare e vendere vaccinazioni. Questa è un’etica molto vergognosa e povera. Vaccinazioni e medicine non dovrebbero essere vendute”. “Nel Libro Verde – ha poi proseguito – sostengo che i farmaci non dovrebbero essere venduti o soggetti a commercializzazione. I farmaci dovrebbero essere gratuiti e le vaccinazioni fornite gratuitamente ai bambini, ma le società capitaliste producono virus e vaccinazioni e vogliono realizzare un profitto. Perché non sono gratuiti? Dovremmo darli gratuitamente e non venderli”.

Il significato delle parole di Gheddafi. La morte violenta del rais due anni dopo quel discorso ha aggiunto, agli occhi di molti, una certa suggestione nel leggere le sue parole sull’argomento relativo ai virus. Da qui forse la diffusione di un post in cui la frase a lui attribuita non è esatta e non è pienamente contenuta nel suo discorso all’Onu del 2009. L’immagine di un Gheddafi come “uomo scomodo” della scena internazionale ha in poche parole aggiunto una certa drammaticità al suo passaggio dedicato alle epidemie. Come detto però, nelle sue frasi non c’è stata alcuna premonizione. Il suo riferimento era alla pandemia da H1N1 in corso in quel momento. E il suo discorso è stato incentrato a una critica verso il modo di gestione della sanità da parte delle multinazionali. Un argomento caro al rais e su cui spesso anche in precedenza si era soffermato. La visione sociale di Gheddafi prevedeva infatti farmaci e vaccini gratuiti per la popolazione, con il settore sanitario non soggetto a privatizzazioni e commercializzazioni. Da qui anche la sua provocazione in riferimento ai virus come arma batteriologica o come prodotti commerciali delle case farmaceutiche. Il rais dunque ha “semplicemente” dato, nel mezzo di una discussione da lui molto sentita, la sua versione politica e il proprio pensiero sul funzionamento della sanità. Criticando duramente, come del resto fatto durante il suo percorso politico, il sistema capitalistico. Nelle sue parole c’è quindi molta politica. Nessuna premonizione legata al coronavirus dunque e nessuna avvisaglia di svariati complotti sanitari.

Libia, che fine ha fatto il tesoro di Gheddafi? Alessandro Scipione su Inside Over il 19 gennaio 2021. C’era una volta la Libia di Muammar Gheddafi, un Paese ricco di petrolio, gas, quote azionarie di banche e industrie occidentali ma soprattutto ingenti quantità di oro. Talmente tanto oro che il colonnello aveva pianificato un piano tanto ambizioso quanto pericoloso: creare una valuta panafricana in grado di soppiantare il Franco delle colonie francese (Cfa). Di quanto oro stiamo parlando? Secondo i dati del Fondo monetario internazionale, nel 2011 le riserve auree della Banca centrale libica ammontavano a circa 144 tonnellate d’oro: un valore pari a circa 6,5 miliardi di dollari. L’intervento armato spinto soprattutto dalla Francia di Nicolas Sarkozy pose fine al regime e alla vita di Gheddafi, braccato dall’intelligence francese e ucciso il 20 ottobre 2011 da alcuni ribelli nella sua roccaforte, Sirte. Secondo un rapporto del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 2017, prima della sua fine Gheddafi riuscì a spostare denaro, diamanti e lingotti d’oro per oltre 8 miliardi di dollari in Paesi come il Burkina Faso, il Kenya e il Sudafrica. Parte di queste ricchezze sono state riconsegnate, ma il vero tesoro è un altro: si tratta della Libyan Investment Authority (Lia), un maxi-fondo sovrano del valore totale stimato in 67 miliardi di dollari.

Il maxi-fondo bloccato dall’Onu. L’Autorità per gli investimenti libica esiste ancora oggi, ma le cose sono cambiate rispetto a dieci anni fa. Diverse importanti partecipazioni, tra cui il 7 per cento circa di UniCredit (Lia + Banca centrale) che dava addirittura diritto a un vicepresidente, si sono via via diluite e alcuni investimenti sono come evaporarti. Come quasi tutte le istituzioni libiche, oggi la leadership della Lia è contesa fra le autorità di Tripolitania e Cirenaica, anche se la maggior parte degli asset sono sotto il controllo dell’amministratore delegato nominato dal Governo di accordo nazionale di Tripoli, Ali Mahmoud Hassan. Il fondo sovrano è sotto regime sanzionatorio dal marzo 2011, quando era ancora controllato dalla famiglia Gheddafi, e i suoi investimenti sono teoricamente congelati. Eppure tra i 3 e i 5 miliardi di euro sono ugualmente finiti nelle tasche delle milizie per almeno sette anni, stando a un’inchiesta dell’emittente belga “Rtbf”. Si tratterebbe dei profitti maturati dalle partecipazioni azionarie della Lia e gestiti dalla banca belga Euroclear. Secondo l’interpretazione dei libici, infatti, il blocco riguarderebbe solo i fondi e non gli interessi maturati. Ma gli esperti dell’Onu la pensano diversamente e le autorità del Belgio sono state costrette a interrompere il flusso di denaro e a fornire spiegazioni.

Un “mostro” con 500 teste. La Conferenza di Berlino auspicava ormai un anno fa “’l’integrità e l’unità della Lia, anche attraverso una revisione globale credibile delle sue filiali”. La scorsa estate, il fondo libico aveva chiesto degli “aggiustamenti” delle sanzioni per investire almeno una parte dei fondi congelati, lamentando ingenti perdite dovute alla volatilità dei mercati durante la crisi del coronavirus. L’Onu, da parte sua, chiede maggiore trasparenza non solo degli investimenti internazionali, ma anche nelle innumerevoli ramificazioni della Lia. Secondo Tim Eaton, Senior Research Fellow, Middle East and North Africa Programme del centro studi britannico Chatham House, l’Autorità per gli investimenti libica vanta ben circa 550 sussidiarie, molte delle quali con i propri Consigli di amministrazione. “E’ una vera e propria ‘piovra’ con tutti i tipi di investimenti in banche europee, hotel in Africa, investimenti in Svizzera e conti offshore”, ha spiegato l’esperto ad Agenzia Nova. “Diversi asset continuano a funzionare e a operare al di fuori del blocco Onu. Si tratta di una cifra importante, ma sconosciuta, che non sarà chiara fino a quando la Lia non rivelerà la sua valutazione delle attività. Alcuni stimano il valore delle filiali intorno ai 25 miliardi di dollari”, ha aggiunto Eaton, che pubblicherà a breve un report su questo tema.

Prospettive di riunificazione. Intanto la Lia sta cercando di fare dei passi in avanti verso la revisione dei conti, passaggio comunque indispensabile per rimuovere le restrizioni internazionali. Un accordo per verificare il bilancio del 2019, ad esempio, è stato recentemente raggiunto con Ernst & Young. Basterà a convincere l’Onu a sbloccare i beni? Molto probabilmente no. La verità è che senza un accordo politico per la riunificazione della Libia – un Paese de facto diviso fra Tripolitania (ovest) e Cirenaica (est), con il Fezzan (sud-ovest) a sua volta frazionato in municipalità che sostengono talora le autorità di Tripoli, talora il governo non riconosciuto di Bengasi – è prematuro parlare di un ripristino maxi-fondo libico. Per quanto la Lia si professi un’autorità indipendente, nella Libia di oggi falcidiata da lunghi anni di conflitti, dove i proventi petroliferi sono ancora bloccati, il tesoro di Gheddafi fa gola a molti. Il rischio che questi fondi vengano risucchiati in un vortice corruzione e guerra, invece che nella disponibilità del popolo libico, è ancora molto alto. 

Il giro di nomine di inviati speciali che ha coinvolto la Libia. Mauro Indelicato su Inside Over il 19 gennaio 2021. Girandola di inviati speciali in Libia, in attesa che qualcosa di importante si muova. L’inizio del 2021 ha comportato, in relazione al dossier relativo al Paese nordafricano, un vero e proprio walzer di nomine. E questo dopo il fallimento dell’iniziativa volta a portare l’ex ministro degli Esteri bulgaro Nicolay Mladenov a capo della missione Onu in Libia, il quale ha rinunciato all’incarico dopo il via libera a dicembre da parte del consiglio di sicurezza. Nel giro di poche settimane molti equilibri, in seno ai principali attori internazionali impegnati sul campo, sono mutati e altri hanno trovato una certa stabilizzazione. Segno di come forse la crisi libica cammini, seppur lentamente, verso importanti punti di svolta.

Gli inviati in Libia di Italia e Unione Europea. Qualcosa di importante si è mosso certamente a Roma. Le ultime settimane del 2020 hanno lasciato il segno. La magra figura internazionale fatta dal nostro Paese in relazione al sequestro dei pescatori italiani, rimasti in balia del generale Haftar per più di tre mesi e liberati solo dopo la passerella di Giuseppe Conte a Bengasi, ha imposto delle contromisure. L’occasione è arrivata dritta da Tripoli all’inizio del nuovo anno: qui il premier libico Fayez Al Sarraj ha ben notato tutti i limiti di essere al soldo esclusivo del presidente turco Erdogan. Quest’ultimo è il principale sponsor del suo governo, ha inviato in Tripolitania i mercenari siriani addestrati dalle sue forze di sicurezza per respingere l’assalto di Haftar ed ha promesso importanti investimenti militari. Tuttavia da sola la Turchia non può essere garante dei sempre più fragili equilibri interni dell’ovest della Libia. Per questo Al Sarraj lo scorso 8 gennaio è volato a Roma, prima di recarsi ad Ankara. Nella capitale ha incontrato Giuseppe Conte e Luigi Di Maio. L’Italia si è resa conto che potrebbe tornare a giocare un seppur piccolo proprio ruolo in questa delicata fase, dove peraltro a Tripoli ci si aspetta anche un cambio di governo in attesa delle possibili elezioni del 24 dicembre 2021, fissate ma ancora ben lungi dal poter essere concretamente organizzate. Non dovrebbe quindi essere frutto del mero caso la nomina, pochi giorni dopo la visita di Al Sarraj a Roma, di Pasquale Ferrara quale inviato italiano in Libia. Negli ambienti diplomatici già da diversi mesi si parlava della volontà dell’Italia di avere un proprio inviato. L’accelerazione di questo inizio di gennaio potrebbe essere stata dettata dalla consapevolezza di poter tornare in gioco. Ferrara, è stato chiarito da fonti della Farnesina, non sarà una sorta di “vice ambasciatore”, visto che l’Italia a Tripoli ha già Giuseppe Buccino quale rappresentante diplomatico. Ex portavoce di Massimo D’Alema quando nel governo Prodi II quest’ultimo era ministro degli Esteri, Ferrara probabilmente opererà da Roma per fare da raccordo tra le varie istanze che seguono il dossier libico. Da Roma a Bruxelles, anche nella sede delle istituzioni europee si sta lavorando per la nomina di un inviato speciale. Già da dicembre il nome più gettonato è quello Daniel Mitov. Ex ministro degli Esteri bulgaro, dovrebbe essere lui l’uomo scelto dalla diplomazia comunitaria per seguire più da vicino le vicende libiche. La volontà europea di nominare un inviato speciale, potrebbe indicare anche in questo caso altre imminenti svolte nel panorama del Paese nordafricano.

La designazione di Jan Kubis. Nella girandola di nomine di nuovi inviati speciali, si è aggiunta anche l’Onu. La missione delle Nazioni Unite in Libia da marzo era retta ad interim dalla diplomatica statunitense Stepanie Williams. Quest’ultima era la vice di Ghassan Salamè, diplomatico libanese dimessosi nella scorsa primavera. Serviva dunque l’arrivo di un nuovo inviato, in grado di avere pieni poteri dal Palazzo di Vetro. A dicembre sembrava fatta per il bulgaro, ex inviato Onu in Palestina, Nicolay Mladenov. Dopo la designazione del Consiglio di Sicurezza però, il diretto interessato ha rifiutato: motivi familiari e personali le ragioni ufficiali. La scelta da parte delle Nazioni Unite è caduta così verso un altro diplomatico dell’Est Europa: lunedì scorso è stato infatti nominato l’ex ministro degli Esteri slovacco Jan Kubis. Si tratta di un uomo di esperienza, visti i suoi precedenti incarichi come inviato speciale in Iraq, Afghanistan e, più di recente, in Libano. Dovrà essere adesso lui a dirigere, per conto delle Nazioni Unite, la delicata fase attuale vigente in Libia. A partire dal dialogo tra i vari attori interni che dovrebbe portare nelle prossime settimane alla compilazione di una difficile road map in vista delle elezioni. Il dossier libico si sta muovendo adesso nella stessa direzione dei diversi cambiamenti internazionali delle ultime settimane: dalla vittoria negli Usa di Biden, fino agli accordi tra Arabia Saudita e Qatar. Da qui l’accelerazione nella nomina di nuovi inviati speciali. Difficile dire se tutti questi movimenti si tradurranno in immediati reali cambiamenti all’interno del Paese.

·        Cosa succede in Tunisia?

Da nova.news il 23 novembre 2021. E’ polemica in Tunisia dopo che una ragazza tunisina di 18 anni, molto popolare sui social network Instagram e Tiktok, ha pubblicato sui social il filmato della traversata del Mediterraneo verso l’Italia. La ragazza di nome Sabee Al Saidi, originaria della città di Sfax, cuore industriale della Tunisia, ha pubblicato delle “stories” nel suo profilo Instagram da 280 mila follower in cui spiegava che si stava recando illegalmente in Italia a bordo di una piccola imbarcazione da pesca insieme ad una decina di altri giovani. La ragazza ha pubblicato anche delle foto in “posa” sorridente a bordo del natante, presumibilmente poco dopo la partenza dalle coste tunisine. In seguito alle polemiche scoppiate in Tunisia, la ragazza ha pubblicato un secondo video dopo il suo arrivo in Italia, a Lampedusa, affermando di non incoraggiare i giovani ad emigrare illegalmente e aggiungendo di non essere la prima a filmare la traversata clandestina. La 18enne ha spiegato nel video di essere stata “costretta” a lasciare il suo Paese a causa delle difficili condizioni sociali. L’instagrammer tunisina ha raccontato nel video di aver passato due giorni a bordo della barca diretta verso le coste italiane, descrivendo l’esperienza come “terribile” e spiegando di essere stata “molto vicina alla morte”. Alla luce delle dure condizioni economiche, sociali e la recente crisi politica, la Tunisia sta assistendo ad un aumento dei flussi migratori, soprattutto tra i giovani provenienti da diverse regioni del Paese. Secondo i dati diffusi giovedì scorso 11 novembre dal Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes), nel mese di ottobre 1.470 migranti tunisini sono arrivati sulle coste italiane, di cui 296 minori e 62 non accompagnati. Il rapporto ha rivelato che il totale dei minori giunti in Italia nel 2021 è di 2.483, di cui 1.922 non accompagnati. Secondo Ftdes, il numero totale di tunisini che hanno raggiunto le coste italiane dall’inizio di quest’anno ha superato quota 14.300, circa il 27 per cento del totale dei migranti irregolari arrivati in Italia. Nel mese di ottobre, le autorità tunisine hanno sventato 263 operazioni di migrazione clandestina fermando circa 2.740 persone mentre cercavano di raggiungere le coste italiane, portando il numero totale dei migranti fermati dall’inizio dell’anno a circa 22.150 persone. Nello stesso periodo, il 29 per cento dei tentativi bloccati sono partiti dalle coste del governatorato di Sfax, il 21 per cento da Mahdia, il 10,6 per cento da Monastir, il 9,8 per cento da Tunisi e l’8,3 per cento da Nabeul.

L'assalto alle coste italiane diventa un vergognoso show. Andrea Indini il 23 Novembre 2021 su Il Giornale. La traversata verso l'Italia come in un reality postata dalla influencer tunisina Sabee al Saidi. Bufera sulle foto in posa e i video-show. Il volto acqua e sapone baciato dal sole. Il trucco che le ravviva le sopracciglia e i lineamenti della bocca. La giacca di jeans a svelare il color crema della maglietta e sotto una tuta rosa. L'influencer posa davanti all'obiettivo dello smartphone e subito dopo posta tutti gli scatti sui social, Instagram e Tik Tok, dove è seguitissima. Le immagini fanno subito il giro della rete: si moltiplicano i like e le condivisioni, ma anche i commenti di fuoco, gli attacchi e le accuse. Perché foto, video e storie non sono stati fatti mentre Sabee al Saidi sta solcando il mare calmo della Costa Azzurra, magari a bordo di un lucente e lussuoso yacht affittato in piena estate, ma insieme a una dozzina di immigrati clandestini sta cercando di raggiungere le coste italiane a bordo di uno dei tanti barchini di fortuna che ogni giorno partono dalla Tunisia e dalla Libia e sui quali ogni anno muoiono migliaia di disperati nell'indifferenza dell'Unione europea che non fa nulla per fermare queste partenze. Sabee al Saidi ora dovrebbe trovarsi a Lampedusa. Secondo fonti de ilGiornale.it "starebbe facendo la quarantena" proprio sull'isola delle Pelagie. Non sappiamo molto della sua vita in Tunisia. Solo che sui social è seguitissima: conta oltre 300mila follower su Instagram e altrettanti su Tik Tok. Follower che nelle ultime settimane stanno continuando a crescere. La prima a raccontare questa drammatica storia su una testata europea è stata Amira Souilem, corrispondente di Radio France Internationale (leggi qui l'articolo), ma solo dopo che a Tunisi la polemica infiammava con ferocia già da alcuni giorni. A scatenarla è stato appunto il video in cui la 18enne si riprende sul barchino con gli altri immigrati (tutti imbacuccati per il freddo, lei l'unica in posa da diva) e la cui veridicità non è stata ancora confermata. Non si sa infatti quando sia stato girato né quando sia stato postato per la prima volta sui social. Probabilmente a metà mese o giù di lì, in concomitanza con la traversata del Mediterraneo (c'è un articolo di EuroNews datato 16 novembre). Ma tant'è: lo show a bordo e la canzone in sottofondo, che canta la harqa (la traversata illegale), sono bastati a far fioccare critiche a non finire ovunque. "Sembra che tu sia su uno yacht...", ha commentato un follower. Altri l'hanno, invece, accusata di favorire l'immigrazione clandestina tacendo i rischi che i viaggi della speranza comportano. Travolta dalle polemiche Sabee al Saidi si è vista costretta a pubblicare un altro video per cercare di placare gli attacchi. Qui, come nella traduzione riportata dall'agenzia Nova, spiega di aver lasciato la Tunisia "a causa delle difficili condizioni sociali" e racconta di essere stata "molto vicina alla morte" nei "due giorni (passati, ndr) a bordo della barca diretta verso le coste italiane". Ormai, però, il danno è fatto. Dipingere la traversata del Mediterraneo come uno show o, ancora peggio, come un reality manda un messaggio pericolosissimo a tutti i disperati che vogliono lasciare l'Africa alla volta del nostro Paese. E cioè che il viaggio non è rischioso e che in Italia c'è posto per tutti. Non è la prima volta che questo avviene. Su Instagram Matteo Salvini ha commentato che le foto "gaudenti e sorridenti" dell'influencer vanno aggiunte "all'album 'Scherzi a parte' dopo lo sbarco con il barboncino, la pecora e la comune tenuta da 'turista per sempre'". Immagini che non fanno affatto bene alla lotta contro l'immigrazione clandestina.

In Tunisia incantesimi ed ex voto per non morire in mare. Floriana Bulfon e Francesco Bellina su L'Espresso l'11 Novembre 2021. Chi ce la fa dice: “Ho bruciato la frontiera”. E i parenti celebrano la grazia ricevuta. Mentre i pescatori scavano fosse per morti sconosciuti. E dal Paese al collasso le partenze aumentano.

Un profumo d’incenso intenso, in cui si riconoscono lo zafferano, il sandalo, l’ambra.

Odore di sacro, in cui si mescolano aromi del Mediterraneo, per celebrare il rito più antico di tutti: la preghiera per placare il mare e far sì che non ti divori. Mbarca Gdiri ha 89 anni, ma per tutti è Hajja, come colei che fa il pellegrinaggio che deve essere compiuto almeno una volta nella vita da ogni musulmano. Un nome che significa l’obbligatorietà di mettersi in viaggio. Che si tratti di arrivare alla Mecca o, come accade sempre più spesso oggi, di attraversare il Canale di Sicilia, la partenza non è scelta ma necessità. E le persone vanno da lei per cercare una protezione invisibile e potente, la stessa invocata da Enea, il primo profugo a lasciare la Tunisia diretto verso l’Italia.

Hajja è cresciuta a Ben Gardane, al confine con la Libia, e ricorda ancora quando andava a Tripoli a piedi a prendere i datteri che erano una fonte di ricchezza. Il volto ricoperto di tatuaggi berberi fatti in gioventù e gli occhi neri che penetrano nell’anima altrui: ogni giorno qualcuno si presenta alla sua porta. Tutti giovani, come Ahmed. Ha 19 anni ed è pronto a salpare per l’Europa. Ha messo da parte 600 euro e tra tre giorni se ne andrà: «È la prima volta che tento e ho paura della traversata, ma qui non c’è futuro. Lo Stato ci ha abbandonati. Mi affido a Hajja».

Hajja è seduta a terra, stretta nella sua elegante fouta (l’abito tradizionale) con il khelel, la spilla d’argento, che le trattiene la stoffa azzurra e oro. Le gambe incrociate e, accanto, una foto del marito morto vent’anni fa. Ascolta in silenzio poi chiede ad Ahmed se sia di Zarzis. Conosce la sua famiglia, ricorda sua nonna. Cala il silenzio.

Lo scruta di nuovo e gli chiede di avvicinarsi. All’orecchio gli sussurra dei versetti del Corano. Ahmed ha ricevuto la sdiga, la benedizione. Gli è stato augurato il bene. «Non è per tutti, lo faccio a chi è degno», rivela Hajja.

Ogni giorno altri ragazzi bussano alla sua porta, tutti con la stessa richiesta. Lei ricorda le sue due figlie emigrate: «Una è in Italia e l’altra in Francia. Mia nipote vive a Modena e si è laureata ma per il vostro Paese non è una cittadina italiana». Partire è sempre stato un destino comune, ma adesso è diverso: adesso sembra che vogliano partire tutti.

Poco più in là si scorge il mare. Davanti alla caletta di Hassi el Jerbi, c’è una fghira, un santuario. Una mamma è china a pregare per il figlio: non dà notizie da una settimana; un uomo accende una candela; altri lasciano un pezzetto di bsissa, il dolce delle feste. Offerte votive per non naufragare e il nome scritto con l’henné sugli scogli, impresso insieme all’impronta della mano perché «serve per togliere la sventura: le cinque dita hanno la stessa simbologia della mano di Fatima», chiarisce una ragazza.

Dall’altra parte del Canale di Sicilia, in quella Lampedusa che per loro significa speranza, dentro alla grotta della Madonna di Porto Salvo per quasi mille anni musulmani e cristiani hanno deposto i loro ex voto. Anche l’Islam venera Maria, come madre di un profeta. E lì tanti schiavi finiti ai remi delle galere pregavano ciascuno il loro Dio sperando di salvarsi dalle tempeste e di tornare liberi. Perché prima bisogna sopravvivere alle onde, poi si può cominciare a credere nel futuro. 

A Zarzis e di fronte, sull’isola di Djerba, i villaggi vacanze sono vuoti ed è rimasta solo la disoccupazione. Prima il terrorismo, poi la pandemia hanno cancellato i turisti. Sono cresciuti invece gli harraga: quelli che si imbarcano illegalmente. Haraqa in arabo significa bruciare. «Ho bruciato la frontiera», dice chi ce l’ha fatta, ma in quella parola c’è anche il rischio di perdere tutto.

A Djerba lungo la strada romana si scorgono le cupole della moschea di Louta, la porta di un mondo sotterraneo. Per entrare occorre chinarsi e scendere una scala ripida. Il santuario medievale non è più un luogo di culto e sui muri compaiono le suppliche dell’era contemporanea: «Fa che mio padre possa avere il visto», «Fammi ricongiungere con mio marito in Francia», «Fammi arrivare vivo». 

Quest’anno quel tratto di mare ha inghiottito mille e cento persone, in sette anni i morti sono stati più di 18mila. A Zarzis c’è la memoria viva. I pescatori escono per ritirare le reti e si trovano a fare la conta dei sommersi e dei salvati. Succede ormai quasi tutti i giorni. Chamseddine Marzoug raccoglie i pochi resti che le onde restituiscono. Fede e nazionalità non gli interessano: ogni essere umano trova il riposo e gli viene restituito il rispetto del ricordo. «Ormai dieci anni fa, mentre andavo a pesca con mio fratello, ho visto i primi pezzi di cadavere e ho deciso che bisognava ridare dignità a quei corpi seppellendoli», racconta. L’unica che ha un’identità è Rose Marie. Aveva 28 anni ed è morta il 25 maggio 2017: faceva l’insegnante e nel suo Paese aveva lasciato un bambino piccolo.

Desiderava arrivare in Italia, trovare un buon lavoro, e tornare in Nigeria a prendere suo figlio. Il suo sogno è finito su quella barca alla deriva: è morta poche ore prima dei soccorsi, con lei c’era la sorella che si è salvata. Ora sulla sua tomba e sulle altre ci sono sempre i fiori. 

Nel 2018 Marzoug è stato invitato al Parlamento europeo: nel canale che bagna il palazzo a Strasburgo ha usato un pupazzo dalle sembianze di un bambino per mostrare come raccoglie, pulisce e depone le vittime del mare nelle bare di fortuna. Accanto a lui c’è Christopher, un ventenne ghanese fuggito dalla Libia. Lo aiuta a prendersi cura dei corpi e Marzoug gli mostra come farlo: «Pulisci piano e con attenzione perché qui ci sono le nostre sorelle e i nostri fratelli». Centinaia di vite che continuano ad accatastarsi, tanto che più in là hanno fatto un nuovo cimitero «questa volta grazie all’aiuto di ong e del governo hanno cominciato a prendere il dna, così un domani i familiari potranno dargli un nome», spiega.

I figli di Marzoug sono partiti in modo illegale due anni fa e anche sua moglie. Vivono in Francia. Lui però vuole restare: «Devo aiutare le persone morte e anche quelle che vogliono partire». E così incontra alcuni ragazzi che sognano l’Europa e li avverte: «Non date i soldi prima di salire a bordo e assicuratevi che ci siano anche tunisini». Perché? «Se sono solo subsahariani spesso caricano troppo la barca e il rischio aumenta». Una gerarchia dello sfruttamento. 

Mohsen Lihidheb invece faceva il postino e voleva tenere pulite le spiagge dai rifiuti ma qui le onde portano a riva solo morte. «Era il 1995 quando ho trovato il primo “Mamadou” sulla spiaggia», spiega. Mamadou, li chiama così i migranti senza vita. Lui invece si definisce un uomo semplice che ha deciso «di non restare solo a guardare». Raccoglie memorie di plastica delle vittime invisibili.

Centinaia di scarpe con le suole consumate che raccontano l’esodo attraverso il deserto, rattoppate a più riprese e ora accantonate l’una sopra l’altra, altre appese a un filo. Le sfiora e le fa dondolare «per dar loro un po’ di vita». Un giubbotto di salvataggio in cui ha riposto due boe rotonde, una più grande e una più piccola: una mamma e il suo bambino abbracciati e svaniti nel mare. Il giardino della sua casa è diventato il Museo della memoria del mare. «Mamadou non si può fermare. Le migrazioni non si sono mai fermate. Sono delle persone che vogliono lavorare, che vogliono stare bene: partire non è un crimine», scandisce. 

Il resto del sacrario è al largo. Qualche miglia dopo il confine tra Tunisia e Libia la poseidonia quasi affiora dall’acqua. C’è una grande secca da cui emergono gli scafi affondati. Scheletri sventrati che restano in bilico. «È il cimitero delle barche, dalla Libia ogni giorno ci sono le barche madri che passano in Tunisia e caricano altre persone. È la polizia libica a contattare gli scafisti, facendosi dare soldi in cambio. Ormai c’è una tratta Libia-Tunisia-Lampedusa», avverte Mohammed che qui viene a pescare.

Al porto di Zarzis, nei cantieri invece ci sono centinaia di imbarcazioni tutte uguali e alcuni operai ne stanno completando altre. Sono piccole e costruite in serie: «Dal 2011 le richieste sono aumentate sempre. Sono quelle che usano i tunisini per le traversate: a volte è un investimento che fa una famiglia o un gruppo di amici». Poco lontano, al Triplex lounge, una comitiva di ragazzi guarda una serie tv sui migranti. Sono riuniti in un’associazione, Zarzis Al Ghalia, che significa Zarzis la preziosa. «Questo è un fenomeno sociale, come si fa a definirlo illegale», ragiona una ragazza che lavora nella reception di un hotel quasi sempre vuoto. «Molte persone che conosco sono partite: non c’è lavoro, c’è instabilità politica. È l’inflazione che costringe ad andare via», aggiunge un altro. Il presidente dell’associazione, Wassen Belhiba, 27 anni e un’impresa di giardinaggio, ha un obiettivo: «Mi voglio impegnare in politica per cambiare questa situazione di abbandono. Al momento però non vedo un partito in cui riconoscermi». Ad ottobre si è insediato il governo guidato da Najla Bouden Romdhan.

Per la prima volta una donna ricopre la carica di primo ministro: una scelta importante, che molti temono sia solo uno spot per nascondere la profondità della crisi istituzionale. Dal 25 luglio infatti il presidente Kaïs Saied ha congelato i lavori del Parlamento, assumendo pieni poteri. Il punto limite di una democrazia fragile, squassata dalla dissoluzione dell’economia: prezzi e disoccupazione aumentano, senza sosta.  

Fuori dal caffè anche il poliziotto, trent’anni e un figlio piccolo, ha un’unica speranza: partire. 

Una premier per la Tunisia. Prima volta per gli arabi. Chiara Clausi il 30 Settembre 2021 su Il Giornale. Per la prima volta una donna guiderà il governo tunisino. Il presidente, Kais Saied, ha incaricato Najla Bouden di formare l'esecutivo. Alla fine di luglio, dopo mesi di stallo politico, Saied ha licenziato il precedente governo, ha congelato il parlamento e ha anche assunto il potere giudiziario. I provvedimenti successivi, del 22 settembre, hanno concentrato ancor più i poteri nelle sue mani, con la prosecuzione del congelamento del parlamento e la possibilità che il presidente legiferi con decreto. Ma ora siamo di fronte a una svolta. Najila Bouden, nata nel 1958 e laureata in ingegneria, con un dottorato in geologia a Parigi, ha la stessa età del presidente, viene dalla città di Kairouan, ma è sconosciuta al grande pubblico. Professore di geologia presso la Scuola Nazionale degli Ingegneri di Tunisi, prima della sua nomina a sorpresa, era amministratore delegato di un progetto di riforma dell'istruzione superiore. È la prima volta che una donna assume la guida del governo in Tunisia, anche se i poteri concessi a questo ruolo sono stati diminuiti dalle «misure eccezionali» adottate dal presidente che sospendono l'applicazione di parti chiave della Costituzione. Saied ha più volte insistito sul carattere «storico» della nomina per la prima volta di una donna alla guida del governo tunisino. «È un onore per la Tunisia e un tributo alle donne tunisine». La missione principale del futuro governo sarà «porre fine alla corruzione e al caos che ha pervaso molte istituzioni statali» ha dichiarato Saied. Tuttavia, il presidente, considerato un conservatore, era stato criticato durante la campagna che ha portato alla sua elezione alla fine del 2019, per la sua opposizione a una legge che consente l'uguaglianza tra uomini e donne nell'eredità. Fin dalla presidenza di Habib Bourguiba, che aveva predisposto un codice sullo statuto personale nel 1956 - che vieta la poligamia e il ripudio e autorizza il divorzio - la Tunisia è considerata il Paese del Maghreb in prima linea per l'emancipazione delle donne. Il direttore del media online tunisino Espace, ha fatto notare che Bouden è la «prima donna araba a guidare un governo». Chiara Clausi

Tunisia, il Presidente Saied incarica Néjla Bouden premier: prima volta di una donna nel mondo arabo. Antonio Lamorte su Il Riformista il 29 Settembre 2021. Néjla Bouden è stata incaricata di formare un governo: è la prima volta di una donna nella storia della Tunisia e in tutto il mondo arabo. E forse potrebbe essere un passo verso la fine dell’impasse politico nel quale il Paese è precipitato dallo scorso luglio. Ovvero da quanto il Presidente tunisino Kais Saied ha destituito il predecessore all’esecutivo Hichem Mechichi e sospeso il Parlamento. È una nomina storica quindi, come sottolineano i media locali. Néjla Bouden Romdhane diventa l’11esimo capo di governo dopo la rivoluzione del 2011, quella dalla quale partì la cosiddetta Primavera Araba che portò alle dimissioni del presidente Ben Ali. È nata nel 1958 a Qayrawan, capitale dello Stato omonimo e sede della più antica moschea del Maghreb e sito Unesco. Ha studiato da ingegnere, è docente di scienze geologiche alla Scuola nazionale di ingegneri di Tunisi. Alle spalle ha una lunga esperienza accademica e di ricerca, in particolare nella valutazione degli eventi sismici, sulle conseguenze sugli edifici e nella gestione delle catastrofi.

Al momento la capo del governo incaricata è responsabile dell’attuazione del programma della Banca Mondiale presso il ministero dell’Istruzione Superiore e della Ricerca Scientifica. Precedentemente era stata la principale consigliera di sette ministri dell’Istruzione superiore e della ricerca scientifica oltre a essere incaricata del controllo qualità presso lo stesso ministero. Lei stessa aveva istituito il primo programma di finanziamento competitivo e innovatore a sostegno dei progetti che vertono sulla garanzia di qualità, il buon governo, l’innovazione e l’imprenditoria. Néjla Bouden è stata anche co-presidente del Gruppo consultivo mondiale sulla scienza e la tecnologia dell’Ufficio delle Nazioni Unite per la riduzione dei rischi di catastrofi (Undrr) e ha partecipato a diverse missioni e gruppi di lavoro nella regione Medio Oriente Nord Africa. La decisione di Saied è stata comunicata in uno stringato comunicato adottato ai sensi dell’articolo 16 del decreto presidenziale 117 relativo alle misure eccezionali. Il mandato incarica Bouden di “formare un governo nel più breve tempo possibile”. A Tunisi e in altre città nelle ultime settimane si erano verificate delle manifestazioni di piazza che gridavano al “colpo di stato” all’autoritarismo del presidente dopo la decisione dello scorso luglio e dopo il decreto del 22 settembre che ha ulteriormente rafforzato i poteri della Presidenza, a scapito del governo e del parlamento, che legifererà per decreto. “Non è a quest’età che comincerò una carriera di dittatore”, aveva commentato Saied. L’opposizione bolla la scelta di Bouden come una decisione di facciata. Proprio dalla Tunisia sono partiti negli ultimi mesi gran parte dei migranti sbarcati in Italia dopo aver attraversato il Mediterraneo. La ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ha dichiarato oggi che “negli ultimi 15 giorni, dalla Tunisia, sono arrivate 400 persone rispetto ai precedenti 15 in cui ne sono arrivate 1.500. C’è stata una riduzione notevole” grazie ai canali di dialogo aperti con il governo tunisino, ha spiegato la ministra al “Festival delle città” in corso a Roma. “Ora c’è un interesse da parte della Tunisia a collaborare e a dare un segnale all’Europa: oggi, ad esempio, abbiamo tre voli di rimpatrio rispetto ai due del passato, e c’è la disponibilità per arrivare a quattro”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

TUNISIA SULL’ORLO DEL CAOS E DEL FALLIMENTO. Il presidente Saied ha invocato l'articolo 80 della Costituzione e sciolto il governo di Mechichi congelando anche il Parlamento per un mese. Alberto Negri il 27 luglio 2021. La Tunisia, un’unica democrazia sopravvissuta alle primavere arabe del 2011, è sull’orlo del fallimento. Con il pronunciamento del presidente Kais Saied, il processo di democratizzazione, già in crisi profonda, si è bloccato, il progresso economico post-rivoluzione non è mai nemmeno iniziato e la crisi economica accoppiata con le conseguenze devastanti Covid sta sprofondando il Paese. La crisi tunisina è arrivata alla resa dei conti. Il presidente Kais Saied ha invocato l’articolo 80 della Costituzione e sciolto d’autorità il governo di Hichem Mechichi – tra l’altro un suo ex consigliere – “congelando” anche il Parlamento per un mese, in attesa di formare un nuovo gabinetto. La norma parla di “pericolo grave e malfunzionamento delle istituzioni”. A spingere il capo dello Stato verso una decisione così radicale sono state le manifestazioni di domenica, anniversario della fondazione della Repubblica, con decine di migliaia di persone in piazza a invocare le dimissioni del premier e la formazione di un nuovo governo. Ai cortei la polizia è intervenuta con gas lacrimogeni e manganelli, ma questo non è bastato a fermare l’assalto alle sezioni del partito islamico Ennadha in diverse città. Mentre in tutto il Paese dilaga la pandemia con un tasso di mortalità che è il più alto di tutta l’Africa e ha messo in situazione disastrosa le strutture ospedaliere, stracolme e senza mezzi e personale per la terapia intensiva: in Tunisia è stata vaccinata meno dell’otto per cento della popolazione. Allo stesso capo del partito islamico, Rashid Ghannouchi, attuale presidente del Parlamento, è stato impedito l’acceso al Parlamento. Ghannouchi dopo la riunione d’emergenza del movimento ha dichiarato “che il Parlamento non è sciolto e rimarrà in seduta permanente. Il capo dello Stato ha applicato erroneamente le disposizioni dell’articolo 80. Ciò che il capo dello Stato ha appena annunciato non può essere qualificato come altro che un colpo di Stato. È un colpo di Stato contro la costituzione e le istituzioni statali”. La mossa a sorpresa del presidente della Repubblica, Kais Saied, getta nel caos la Tunisia ma il capo dello Stato assicura che “non si tratta di un colpo di Stato” e di aver agito nei limiti della Costituzione del Paese. “Ho deciso di assumere il potere esecutivo con l’aiuto di un capo di governo che nominerò io stesso” ha detto Saied in un intervento alla tv di Stato. Ma il presidente ha fatto chiudere anche la sede locale della tv panaraba del Qatar al-Jazeera, storicamente vicina alla Fratellanza Musulmana che a sua volta è legata anche al partito islamista Ennadha che in queste ore si sta opponendo alle mosse del capo dello Stato. Una decisione che può essere interpretata come un tentativo di silenziare le voci critiche in Tunisia. È inoltre fonte di preoccupazione il fatto che Saied abbia deciso di avocare a sé la carica di Procuratore generale della Repubblica, con la facoltà dunque di poter esercitare l’azione penale. Una mossa che gli potrebbe consentire di arrestare anche i deputati, visto che è stata tolta loro l’immunità. Sempre secondo le stesse fonti, nei confronti di Ghannouchi e di altri 64 deputati, che hanno cause pendenti con la giustizia, sarebbe già stato comunicato il divieto di viaggiare all’estero. Ancora non è chiara la sorte del primo ministro Mechichi che, dopo l’annuncio del capo dello Stato, non si è più fatto vedere in pubblico. Secondo alcuni media locali, i dirigenti di Ennadha sostengono che si trovi in stato di arresto. Il partito islamico, secondo le stesse fonti, sta riflettendo sul deposito di una mozione di sfiducia contro Saied con l’obiettivo di destituirlo mentre i militari e gli elicotteri delle forze dell’ordine monitorano la situazione nella capitale per paura di una sommossa popolare che potrebbe portare a pesanti scontri. Oltre che politica e istituzionale – con la mancata nomina della corte istituzionale per dirimere i contrasti tra i poteri dello stato – la crisi tunisina è economica: il Paese ha bisogno per non fallire di 7,2 miliardi di dollari di cui 5,8 sarebbero già impegnati per ripagare i debiti i debiti precedenti. Pericoloso, soprattutto, lo stallo nelle trattative con il Fondo monetario per ottenere un prestito da quattro miliardi di dollari, condizionato a riforme che per il momento nessun governo tunisino negli ultimi due anni è stato in grado di accettare. Così come non si sono conclusi i negoziati commerciali con l’Unione europea dove in realtà i Paesi più interessati a un’intesa sono Italia e Francia, storicamente legati alla Tunisia. Tra l’altro l’Italia a Bruxelles hanno promesso più investimenti europei nel Paese nordafricano, a patto che questo fermi le partenze dei tunisini e faciliti i rimpatri dei propri cittadini. L’attuale caos tunisino non fa pensare che si profili, a breve, un’intesa. Ed ecco che ora al disastro libico, e del Nordafrica in generale, si aggiunge l’instabilità e il dissesto della Tunisia, un processo di degrado non imprevedibile al quale l’Europa non ha saputo dare finora una risposta strategica.

Claudio Del Frate per corriere.it  il 27 luglio 2021. Si aggrava la crisi politica in Tunisia, travolta da una grave crisi economica e da un’ondata di contagi di Covid. Il presidente della repubblica Kais Saied ha destituito il primo ministro Hichem Mechichi e sospeso i lavori del parlamento per trenta giorni. «Non è un colpo di stato, verranno prese misure necessarie per salvare il Paese» ha detto Saied, sceso in strada tra la folla per le strade della capitale. Il presidente ha anche decretato il coprifuoco a partire da questa sera dalle 19 alle 6 del mattino fino al 27 agosto 2021. Vietati anche gli spostamenti tra le città al di fuori degli orari di coprifuoco, salvo necessità. Proibiti gli assembramenti di più di tre persone nei luoghi e spazi pubblici. Saied ha disposto anche la sospensione del lavoro nelle amministrazioni centrali per due giorni a partire da domani per poter consentire ai dirigenti l’organizzazione del lavoro a distanza dei propri agenti. Il presidente ha motivato la sospensione, per un mese, con l’articolo 80 della Costituzione. Il ricorso a queste norme sarebbe permesso nel caso di pericolo imminente per il Paese. Saied ha detto che nominerà un nuovo capo di governo nei prossimi giorni. Ci sono stati scontri e arresti ma una parte della classe politica denuncia il golpe: «È un colpo di Stato contro la rivoluzione», ha accusato il partito islamista moderato Ennahda. Immediata la replica di Saied, per il quale «chi parla di colpo di Stato dovrebbe leggere la Costituzione o tornare al primo anno di scuola elementare, io sono stato paziente e ho sofferto con il popolo tunisino». Saied ha nominato un suo fedelissimo al vertice del ministero dell’interno; altrettanto sarebbe intenzionato a fare per i dipartimenti della difesa e della giustizia. Una nota del Parlamento invece ritiene che tutte le decisioni assunte da Saied siano nulle alla luce della Costituzione del Paese. La crisi si sta trasformando in un braccio di ferro istituzionale: il presidente del parlamento Rachid Gannouchi si rifiuta di accettare la destituzione e resta davanti alla sede dell’assemblea, secondo quanto riferiscono le radio locali. Vengono segnalati disordini, tra opposte fazioni, proprio all’esterno del parlamento. Ci sono alcuni feriti. In tarda mattinata l’esercito è stato schierato davanti alle principali sedi politiche. Anche la sede a Tunisi della tv araba Al Jazeera è stata presa d’assalto da reparti della polizia; il personale, secondo una nota della stessa tv, è stato costretto a lasciare il lavoro. Anche ai dipendenti è stato impedito di entrare. Gannouchi ha detto che il Parlamento non è stato consultato e ha paragonato la decisione del presidente della repubblica «a un colpo di Stato». La Tunisia è alle prese con la sua più grave situazione dal 2011, anno delle cosiddette «primavere arabe». Il partito di governo Ennahda, di orientamento islamico moderato, non è riuscito a fronteggiare nè la crisi economica, nè la pandemia che nel Paese ha fatto oltre 18.000 morti. A questa situazione è legata la ripresa degli sbarchi di cittadini tunisini in Italia (oltre il 40% degli arrivi nel 2020) che sta proseguendo da oltre un anno. L’anno scorso sono stati circa 14.000 contro i 3.600 del 2019. Nei giorni scorsi c’erano state numerose manifestazioni di protesta in piazza ed erano state chieste le dimissioni del governo. Vengono segnalati assalti in diverse città del Paese a sedi del partito Ennahda.

Fausto Biloslavo per “il Giornale” il 21 maggio 2021. Italia e Tunisia apriranno «una linea diretta dedicata» per lo scambio di informazioni sulle partenze dei natanti carichi di migranti. Assieme combatteremo le reti di trafficanti e investiremo in Tunisia per dare lavoro ai giovani evitando che si imbarchino verso l' Italia. Pure i rimpatri dei tunisini che arrivano da noi saranno più flessibili. Il tutto suggellato da un grande accordo di partenariato strategico fra l' Unione europea e Tunisi, che però si chiuderà, se va bene, a fine anno, dopo l' estate. La solita beffa, così subiremo i 15mila arrivi (3mila sono già sbarcati) previsti dalla Tunisia nel 2021, grazie ad analisi e fonti di intelligence. La stessa commissaria europea per gli Affari interni, Ylva Johansson, in missione ieri a Tunisi con il ministro dell' Interno, Luciana Lamorgese, aveva poche ore prima dichiarato a Repubblica che l' accordo «non lo firmeremo durante questa visita, ma spero di arrivarci entro la fine dell' anno». Lamorgese e Johansson hanno incontrato il capo del governo tunisino, Hichem Mechichi, responsabile ad interim del ministero dell' Interno e il presidente, Kais Saied. Purtroppo i due si fanno da tempo una guerra politica, che ha provocato lo stallo con il capo dello Stato che non riconosce la formazione del nuovo governo. Stallo che si riflette sulla crisi economica e sociale, favorendo l' esodo verso l' Italia. Lamorgese ha annunciato l' attivazione immediata di una «linea diretta dedicata» con l' Italia per segnalare i «bersagli» ovvero i natanti che partono e dovrebbero venire intercettati e riportati indietro. «Non basta - spiega una fonte del Giornale in prima linea nella lotta all' immigrazione clandestina dal mare - Bisogna lanciare una collaborazione importante con nostri uomini in Tunisia e loro personale a bordo delle unità navali italiane a ridosso delle acque territoriali. L' obiettivo è che i tunisini portino indietro i migranti». Lo scorso autunno sul tavolo del Viminale e della Difesa c' era un piano per dispiegare aerei e navi al fianco della Marina tunisina per fermare i migranti. Non solo: era pronto un mini contingente che avrebbe dovuto affiancare la catena di comando e controllo a Tunisi, ma poi saltò tutto perché non si trovò l' accordo sullo status diplomatico dei militari. «Basterebbe una settimana di operazioni ben fatte con i tunisini e non parte più nessuno» dichiara la fonte del Giornale. Lamorgese ha ribadito «il comune interesse dell' Italia e della Tunisia a smantellare il business criminale dei trafficanti di migranti». E l' obiettivo di dare speranza al futuro dei giovani tunisini «incentivando lo sviluppo delle realtà economiche». Il grosso dovrebbe farlo l' Europa. «Con la commissaria Johansson abbiamo affrontato questa seconda missione - spiega Lamorgese che era già stata a Tunisi lo scorso 17 agosto - per poter finalmente tracciare insieme alle autorità tunisine le grandi direttrici politiche lungo le quali si dovrà sviluppare il partenariato strategico tra Unione europea e Repubblica tunisina». Il problema è che la Tunisia, dopo i 6 miliardi di euro concessi alla Turchia, per arginare la rotta balcanica, vuole un accordo economico adeguato. Nel frattempo Johansson continua ad inseguire la chimera della «ricollocazione volontaria» dei migranti da parte dei paesi Ue. La riesumazione degli accordi di Malta auspicata da Lamorgese è altrettanto inutile. Grazie al tanto citato patto dall' ottobre 2019 al marzo 2021 l' Italia ha ricollocato nella Ue un ridicolo 2,2% dei migranti sbarcati.

Chi soffia sulle proteste in Tunisia? Alessandro Scipione su Inside Over il 23 gennaio 2021. A dieci anni dalla rivoluzione dei gelsomini, la Tunisia è nuovamente sull’orlo del baratro, con possibili conseguenze negative anche per l’Italia sul versante migratorio. La pandemia di Covid-19 sta ricreando le stesse condizioni che hanno scatenato la primavera araba: assenza di lavoro, tensione sociale e misure restrittive sono tutti episodi ricorrenti. Fa specie vedere centinaia di giovani tunisini che dieci anni fa erano solo dei bambini saccheggiare supermercati e incendiate negozi. Le autorità sembrano ancora in grado di contenere quelli che – per ora – appaiono come disordini non strutturati. L’impressione, tuttavia, è che ci sia qualcuno che abbia interesse a sobillare le proteste per mettere in imbarazzo la coalizione di maggioranza guidata dal partito islamico Ennahda, sia all’interno che all’esterno del Paese. L’asse Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita ed Egitto non ha mai nascosto la propria avversione per l’esperimento democratico tunisino. Se il governo dovesse cadere e si andasse alle elezioni anticipate, guarda caso il partito reazionario dei nostalgici del regime di Ben Ali (molto apprezzato nel Golfo) risulterebbe di gran lunga il più votato.

Occhi puntati su Biden. “I media del Golfo soffiano sul fuoco in Tunisia, ma non so quanto Abu Dhabi o Riad abbiano interesse a pestare i piedi agli Stati Uniti in un Paese dove Washington ha investito moltissimo in questi anni”, ha detto a InsideOver Umberto Profazio, associate fellow presso l’IISS e analista esperto di Maghreb della Nato Foundation. “D’altra parte, questo può rappresentare un primo importante test per la nuova amministrazione statunitense e per capire quale direzione intenderà prendere nella regione”, ha aggiunto l’esperto. “È ipotizzabile che Joe Biden voglia salvaguardare l’unico esperimento democratico sopravvissuto alla primavera araba, con tutti i difetti e le carenze che abbiamo visto al livello sociale ed economico: le proteste di oggi ne sono un esempio lampante”, ha spiegato ancora Profazio. A ben vedere, il rischio di instabilità non riguarda non solo la Tunisia, ma l’intero Nord Africa. Con l’eccezione forse dell’Egitto, unico Paese della regione che ha visto una crescita economica nel 2020, la pandemia di coronavirus ha duramente colpito tutti i Paesi rivieraschi. Il Marocco si è visto azzerare gli introiti del turismo. L’Algeria ha subito un brusco calo dei prezzi del petrolio e del gas su cui si poggia l’intera economia. Nella Libia falcidiata dai conflitti potrebbe scoppiare una nuova rivolta del pane, causata dalla svalutazione del dinaro e dalla carenza di farina.

Cambio di governo. Il premier tunisino Hichem Mechichi ha recentemente varato un profondo rimpasto di governo cambiando ben undici ministri: fuori gli esponenti vicini al capo dello Stato Kais “Robocop” Saied, dentro dei tecnici vicini allo stesso capo del governo, al movimento islamico Ennahda e al partito populista Qalb Tounes. L’Assemblea dei rappresentanti del popolo voterà la fiducia il 26 gennaio. Il premier ha bisogno del voto favorevole di 109 deputati su 217. Sulla carta il governo Mechichi II ha già la fiducia in tasca, ma nell’attuale contesto di forte instabilità nulla è impossibile. Lo scenario alternativo, quello delle elezioni, porterebbe al potere i nostalgici dell’ex presidente Ben Ali. Stando a un recente sondaggio di Tunisia Survey sulle intenzioni di voto, infatti, il 23 per cento degli intervistati sceglierebbe il Partito dei costituzionalisti liberi (Pdl) della vulcanica Abir Moussi; il 9,4 per cento voterebbe per Ennahda; il 9,1 per cento voterebbe per la coalizione islamica radicale di Al Karama guidata da Seifeddine Makhlouf, accusato in patria di essere “l’avvocato dei terroristi”.

AAA cercasi leader. Secondo il giornalista, scrittore, drammaturgo e analista politico tunisino, Soufiane Ben Farhat, la Tunisia sta attraversando una crisi che mette in discussione l’intero apparato statale post-rivoluzione. “C’è uno stupore generale, non tanto per il fallimento del governo, come era all’epoca di Ben Ali, ma anche dello Stato”, afferma il giornalista ad Agenzia Nova. Una vera e propria crisi di legittimità che la politica fatica ad affrontare, anche per l’assenza di leader carismatici . “Il presidente della Repubblica parla di complotti, ma nello stesso tempo non ha un partito, né possibilità di manovrare il governo. Anche la classe politica è in crisi, al punto che si parla di partitocrazia come era una volta in Italia”, aggiunge il giornalista e analista politico. “In Tunisia c’è una situazione che assomiglia molto a quello del Libano: abbiamo tre presidenze disunite, una crisi strutturale e una delusione generale per una rivoluzione che dopo dieci anni ci ha fatto guadagnare libertà di stampa e di parola, ma al livello economico e sociale è stata un fallimento”.

E l’Italia? Per l’Italia la priorità numero uno è scongiurare un vuoto di potere che potrebbe portare a un ulteriore incremento dei flussi migratori, già aumentati del +385 per cento nel 2020 anno su anno (da 2.654 a 12.883 ingressi illegali via mare). Il governo di Roma ha bisogno di parlare con un esecutivo tunisino compatto e unito, in grado di prendere decisioni rapide e possibilmente con un allineamento internazionale simile. La compagine governativa che si sta delineando in Tunisia ha al suo interno una forte componente dei Fratelli musulmani, rappresentata dal movimento Ennahda che per quanto si professi indipendente proviene dalla stessa famiglia del Partito di Giustizia e costruzione (Akp) del presidente-sultano Recep Tayyip Erdogan. Non a caso a dicembre la Tunisia ha raggiunto un accordo per l’acquisto di tre droni “Anka-S” della Turkish Aerospace Industries (Tai). L’intesa da 80 milioni di dollari (interamente finanziato dalla Turk Eximbank), spiega un report della Nato Foundation, comprende anche tre stazioni di terra e l’addestramento di 52 piloti e personale di manutenzione dell’Aeronautica militare tunisina, in Turchia. Un accordo “che rischia di creare ulteriori attriti a Tunisi e che va ad aggiungersi alle difficoltà esistenti tra il presidente Kais Saied e il primo ministro Hichem Mechichi”, sottolinea infine Profazio. Se il governo della Tunisia dovesse cadere, a rimetterci sarebbe dunque anche e soprattutto la Turchia.

Dieci anni dopo la primavera araba, la Tunisia torna a sognare l’uomo forte. La rivoluzione non ha mantenuto le promesse: la disuguaglianza è cresciuta e la nuova generazione non spera più in un cambiamento, ma cerca solo di emigrare in Europa (Foto di Alessio Romenzi per L'Espresso). Francesca Mannocchi da Tunisi su L'Espresso l'8 febbraio 2021. «Da dove vieni?», Gli hanno chiesto i poliziotti dopo averlo fermato in avenue Bourguiba, in centro a Tunisi, durante un corteo di protesta. Firas ha risposto: Ettadhamen. «E poi hanno riso di me, mi hanno detto: e che ci fai qui?». avenue Bourguiba, in centro a Tunisi, durante un corteo di protesta. Firas ha risposto: Ettadhamen. «E poi hanno riso di me, mi hanno detto: e che ci fai qui?». Ettadhamen è uno dei quartieri più poveri di Tunisi , zona popolare distante dodici chilometri dalla città. Firas è un ragazzo, disoccupato, come la metà dei giovani che abitano le zone popolari. E quella frase, “Che ci fai qui?”, Racconta lo stigma della sua povertà e anche la doppia anima delle proteste tunisine. Quelle di città, e quelle degli emarginati dei confini. Firas è un ragazzo, disoccupato, come la metà dei giovani che abitano le zone popolari. E quella frase, “Che ci fai qui?”, racconta lo stigma della sua povertà e anche la doppia anima delle proteste tunisine. Quelle di città, e quelle degli emarginati dei confini. FirasFiras ha vent'anni, è minuto, magrissimo. Ha il viso scavato e gli occhi inquieti in cui si mischiano ostilità e rassegnazione, noia e rabbia, sentimenti che a Ettadhamen compongono la mappa che porta dritta alle proteste delle scorse settimane. Ettadhamen compongono la mappa che porta dritta alle proteste delle scorse settimane. La sua tana è una stanza di pochi metri quadrati illuminata da neon intermittenti. Firas è un rapper e quelle luci lo ispirano, dice, quando si chiude dentro con gli amici del quartiere e scrive la collera di chi non sa che parole associare all'idea di futuro.Firas è un rapper e quelle luci lo ispirano, dice, quando si chiude dentro con gli amici del quartiere e scrive la collera di chi non sa che parole associare all’idea di futuro. Quando gli chiedi di raccontare la vita a Ettadhamen, Firas accende il telefono, lascia partire la base del suo rap . Che stia per cantare si capisce dall'oscillazione delle sue gambe e delle sue braccia, gli occhi chiusi a concentrarsi, la voce che si schiarisce. Ettadhamen, concentrarsi, la voce che si schiarisce. «La mia mente è stanca / perché il mio cuore è buono / sorrido per nascondere la tristezza / ma è così, la vita è un orologio e le persone sono scorpioni». Firas canta la sua forza e la sua stanchezza. «La mia energia è grande / ma il mio cuore è esausto / non so dove andare / se incontri la mia fortuna dille di tornare da me». Firas vive con i suoi genitori e le sue due sorelle in un appartamento umido e malridotto. L'unica a lavorare è la madre, per poco più di 300 dinari tunisini al mese, un centinaio di euro. Firas canta la sua forza e la sua stanchezza. «La mia energia è grande/ma il mio cuore è esausto/non so dove andare/ se incontri la mia fortuna dille di tornare da me». Il padre dorme di giorno e beve di notte, per non pensare alla disoccupazione. Quando è sveglio maledice il governo e la polizia, rappa con suo figlio e nutre il suo risentimento. Nel 2011 Firas aveva dieci anni e di quei giorni ricorda suo padre in strada, già disoccupato, gli zii, i familiari lontani arrivati ??dalla campagna perché «tutti avevano qualcosa per cui valeva la pena combattere». Firas aveva dieci anni e di quei giorni ricorda suo padre in strada, già disoccupato, gli zii, i familiari lontani arrivati dalla campagna perché «tutti avevano qualcosa per cui valeva la pena combattere». Il resto è un racconto di vite appese ai margini. E giorni tutti uguali fatti di niente. Per spiegare la distanza tra il 2011 e oggi, Firas dice che la rivoluzione non ha mantenuto le promesse. E lo dice con l'ingenuità - finalmente apparsa sul suo viso - di un bambino cui sia stato negato il regalo di Natale tanto desiderato. E ha ragione, perché il riscatto delle periferie, a Ettadhamen, come in altre zone ad alta tensione sociale, non è mai arrivato. Firas dice che la rivoluzione non ha mantenuto le promesse. E lo dice con l’ingenuità - finalmente apparsa sul suo viso - di un bambino cui sia stato negato il regalo di Natale tanto desiderato. E ha ragione, perché il riscatto delle periferie, a Ettadhamen, come in altre zone ad alta tensione sociale, non è mai arrivato. Lo stigma qui equivale all'immobilità. «Ci ??sono ragazzi che non possono lasciare il quartiere perché non hanno soldi per spostarsi, c'è gente che ha vent'anni come me e non ha mai superato i confini di Ettadhamen. Non puoi uscire, non puoi fare nulla, vivi pensando che tutto dipenda dai soldi e quando non ne puoi più te la prendi con chi non ti fa uscire dal quartiere. Picchi duro sul confine ».Ettadhamen. I confini sono due. Uno è geografico e un altro porta l'uniforme nera delle forze dell'ordine. Lo scorso 26 gennaio le forze di polizia erano schierate al confine nord del quartiere per impedire che i giovani raggiungessero il Bardo, sede del Parlamento, e si unissero alle proteste "cittadine", al corteo che arrivava dal centro di Tunisi. E lo stigma non vale solo per le proteste, vale anche se cerchi lavoro. «Dichiari che arrivi da Ettadhamen e nemmeno ti considerano. Troppa droga, dicono, troppi pochi mezzi di trasporto, troppa ignoranza ». Così la vita trascorre nei bar. Gli angoli dei vicoli presidiati da chi controlla lo spaccio.Ettadhamen e nemmeno ti considerano. Sulla strada principale i segni delle proteste della notte: pneumatici dati alle fiamme. Qualche vetrina scheggiata. Firas ha passato la notte di protesta in strada con suo padre. A guardarli dall'esterno i ruoli sono ribaltati. Il padre inveisce e Firas spiega. Firas spiega. Il padre grida e rivendica la violenza: « Certo che spacchiamo i bancomat, perché portano qui i bancomat che tanto non abbiamo soldi bancomat, perché portano qui i bancomat che tanto non abbiamo soldi », e il figlio la spiega: «Non ci sono soldi in banca, qui, ma ci sono soldi ovunque, perché c'è lo spaccio. Dicono che rubiamo, rapiniamo, saccheggiamo. È solo un pezzo piccolo della verità. Quello grande è che ci hanno lasciati soli, quaggiù dove non c'è niente da fare e niente da sperare ».saccheggiamo. È solo un pezzo piccolo della verità. Quello grande è che ci hanno lasciati soli, quaggiù dove non c’è niente da fare e niente da sperare». Il 14 gennaio scorso, anniversario della rivoluzione, il primo ministro Hichem Mechichi ha annunciato un rigoroso lockdown di quattro giorni, formalmente per arginare il contagio dovuto all'epidemia di Covid-19. La decisione è stata, però, percepita come un blocco politico per evitare le manifestazioni di piazza, una strategia per far sì che i cittadini non protestassero per le mancate riforme, l'ennesima crisi governativa, la mancanza di aiuti economici. E quando il giorno successivo un video ha mostrato un agente di polizia nell'atto di aggredire un pastore a Siliana, regione nord occidentale del paese, la rabbia è esplosa nelle strade ea due settimane di distanza le proteste continuano in tutto il paese.Hichem Mechichi ha annunciato un rigoroso lockdown di quattro giorni, formalmente per arginare il contagio dovuto all’epidemia di Covid-19. La decisione è stata, però, percepita come un blocco politico per evitare le manifestazioni di piazza, una strategia per far sì che i cittadini non protestassero per le mancate riforme, l’ennesima crisi governativa, la mancanza di aiuti economici. E quando il giorno successivo un video ha mostrato un agente di polizia nell’atto di aggredire un pastore a Siliana, regione nord occidentale del paese, la rabbia è esplosa nelle strade e a due settimane di distanza le proteste continuano in tutto il paese. Sono passati dieci anni da quando Mohammed Bouazizi, un giovane fruttivendolo di Sidi Bou Zid, si è dato fuoco per protestare contro gli abusi della polizia che aveva confiscato la sua carriola. Gesto simbolo delle condizioni di vita delle aree rurali e periferiche che ha spalancato la vista sulle disuguaglianze sociali, l'oppressione dei regimi, e la strada aperta al "thawrat al-karama", la rivoluzione della dignità.Mohammed Bouazizi, un giovane fruttivendolo di Sidi Bou Zid, si è dato fuoco per protestare contro gli abusi della polizia che aveva confiscato la sua carriola. Gesto simbolo delle condizioni di vita delle aree rurali e periferiche che ha spalancato la vista sulle disuguaglianze sociali, l’oppressione dei regimi, e aperto la strada al “thawrat al-karama”, la rivoluzione della dignità. In questi dieci anni la Tunisia ha sostituito la parola rivoluzione con la locuzione transizione democratica, e ha sostituito anche i governi, undici volte, una media di uno ogni dodici mesi. Nessuno però ha avuto una strategia convincente per rispondere alla questione centrale del mercato del lavoro. Quello che non è cambiato, o almeno che non è cambiato ancora, è il destino di isolamento di chi vive ai margini della società. I numeri parlano chiaro: lo scorso anno, secondo l'agenzia di rating Fitch, l'economia tunisina ha subito una contrazione di circa l'8 per cento, il calo più significativo dalla dichiarazione di indipendenza del 1956. Fitch prevede anche che il debito pubblico tunisino raggiungerà l'anno prossimo quasi il 90 per cento del prodotto interno lordo, con un aumento del 20 per cento rispetto a due anni fa. A questo si aggiungono i numeri della disoccupazione: il 36 per cento dei giovani è senza lavoro e la situazione rischia di peggiorare Fitch, l’economia tunisina ha subito una contrazione di circa l’8 per cento, il calo più significativo dalla dichiarazione di indipendenza del 1956. Fitch prevede anche che il debito pubblico tunisino raggiungerà l’anno prossimo quasi il 90 per cento del prodotto interno lordo, con un aumento del 20 per cento rispetto a due anni fa. A questo si aggiungono i numeri della disoccupazione: . Secondo il governo e le organizzazioni internazionali la pandemia ha decimato l'industria turistica del paese e tagliato il verso l'Europa, il principale partner commerciale della Tunisia, provocando la chiusura di migliaia di aziende. Nel 2020 le entrate legate al turismo sono crollate del 65 per cento ea seguito della crisi sanitaria, e secondo un recente rapporto dell'International Finance Corporation, il 5 per cento delle aziende tunisine ha chiuso definitivamente. Finance Corporation, il 5 per cento delle aziende tunisine ha chiuso definitivamente. È senz'altro vero che la nuova Tunisia post-rivoluzionaria ha ereditato il debito di quella precedente di Abidine Ben AliAbidine Ben Ali(il 43 per cento delle leggi approvato durante il primo parlamento - novembre 2014-agosto 2019 - riguardava contratti di prestito, alcuni destinati a finanziare il rimborso del debito contratto dal regime di Ben Ali), ma è altrettanto vero che le città che erano emarginate nell'inverno del 2010-2011, lo sono ancora. E sono ancora, proprio per questo, i governatorati più colpiti dalle proteste: la regione del centro orientale che comprende i governatorati di Kairouan e di Sidi Bou Zid e Kasserine (entrambe le culle della rivoluzione) che ha ancora i tassi di povertà più alti del Paese , con una media del 29,3 pe cento, rispetto al 6,1 per cento di Tunisi e appunto le zone popolari della capitale, Kram e Ettadhamne, Kabaria dove i giovani non studiano e non sperano. Kairouan e di Sidi Bou Zid e Kasserine (entrambe culle della rivoluzione) che ha ancora i tassi di povertà più alti del Paese, con una media del 29,3 pe cento, rispetto al 6,1 per cento di Tunisi e appunto le zone popolari della capitale, Kram e Ettadhamne, Kabaria dove i giovani non studiano e non sperano. Olfa Lamloum è una politologa, direttore dell'ufficio di Tunisi di Alert International, si occupa da anni delle zone più svantaggiate della Tunisia e insieme all'antropologo Michel Tabet ha diretto un documentario dal titolo “Feel What's Happening”, un'indagine sui quartieri popolari a dieci anni di distanza dalla rivoluzione, sulla giovinezza sacrificata che li anima, sulla mancanza di risorse messe in campo per colmare il divario tra i quartieri periferici e la città privilegiata. Il documentario racconta i giovani delle periferie e indaga i numeri: nel 2019 i fondi destinati allo sport a Ettadhamen sono stati pari a 10 mila euro, a fronte dei 150 mila di La Marsa, residenziale residenziale a nord est di Tunisi, meta delle vacanze dei benestanti della capitale. C'è un solo autobus che serve un quartiere di 150 mila abitanti, Lamloum è una politologa, direttore dell’ufficio di Tunisi di Alert International, si occupa da anni delle zone più svantaggiate della Tunisia e insieme all’antropologo Michel Tabet ha diretto un documentario dal titolo “Feel What’s Happening”, un’indagine sui quartieri popolari a dieci anni di distanza dalla rivoluzione, sulla giovinezza sacrificata che li anima, sulla mancanza di risorse messe in campo per colmare il divario tra i quartieri periferici e la città privilegiata. Il documentario racconta i giovani delle periferie e indaga i numeri: nel 2019 i fondi destinati allo sport a Ettadhamen sono stati pari a 10 mila euro, a fronte dei 150 mila di La Marsa, cittadina residenziale a nord est di Tunisi, meta delle vacanze dei benestanti della capitale. C’è un solo autobus che serve un quartiere di 150 mila abitanti, un ospedale e due sole cliniche di base, una casa della cultura che ha un budget annuale di 9.000 dinari, tremila euro. Quanto alle scuole, ci sono ma non servono. In quartieri come questo il tasso di abbandono scolastico cresce di anno in anno. Sono giovani cresciuti qui che riempiono le strade oggi, e anche le prigioni dopo gli arresti. Romdhane Ben Amor del Forum tunisino per i diritti sociali ed economici denuncia che non ci sono cifre esatte del Ministero dell'Interno ma la stima è che nelle ultime settimane ci sono stati circa 1.400 arrestati, e dal 30 al 35 per cento di chi è finito in prigione è minorenne. «È una repressione che si combina alla stigmatizzazione delle periferie», dice nel suo ufficio di Tunisi Ben Amor. «Molti ragazzi abbandonano la scuola dopo la primaria, in Tunisia ogni anno 100 mila ragazzi lasciano gli studi e questo corrisponde a un reclutamento nel commercio informale, nella criminalità e molti ragazzi finiscono per vedere nell'immigrazione illegale l'unico tentativo per cambiare le loro vite perché nessuno investe per integrarli nel tessuto sociale ». Le parole chiave delle proteste di oggi, le proteste cittadine almeno, non sono diverse da quelle di dieci anni fa. Lavoro, dignità, libertà. Le parole cambiano nella stanza di Firas, la stanza che diventa mondo. Quando prova a definire cosa sia per lui la democrazia, sorride. Dice che la sola cosa che sa della democrazia l'ha letta un giorno su un libro di scuola. Ma a scuola ha smesso di andare a tredici anni. Quando prova a definire il futuro invece, allarga le braccia come a dire: è tutto qui, è la mia stanza, fuori non c'è niente. «Questo è il passato, questo è il presente e questo è il futuro».Firas, la stanza che diventa mondo. Quando prova a definire cosa sia per lui la democrazia, sorride. Dice che la sola cosa che sa della democrazia l’ha letta un giorno su un libro di scuola. Ma a scuola ha smesso di andare a tredici anni. Quando prova a definire il futuro invece, allarga le braccia come a dire: è tutto qui, è la mia stanza, fuori non c’è niente. «Questo è il passato, questo è il presente e questo è il futuro». La sola cosa che lo fa sorridere è il rap, il solo bus che non è affollato, il solo mezzo per uscire dal luogo in cui sei costretto a vivere, «la sola cosa che mi fa essere paziente». Tre dei suoi amici sono finiti in prigione, catturati dalla polizia nelle notti di Ettadhamen. Due sono minorenni e ancora in carcere. «I soldi per l'esercito non mancano mai», dice. Ettadhamen. Due sono minorenni e ancora in carcere. «I soldi per l’esercito non mancano mai», dice. Durante le proteste Avenue Bourguiba era piena di mezzi della polizia antisommossa, furgoni blindati Arquus appena consegnati dalla Francia nel pacchetto dei sessanta mezzi utilizzati. «Lo Stato spende in sicurezza e non fa niente per risolvere la crisi economica e lontano fronte all'epidemia», gridava la piazza di Tunisi, solo una settimana fa.Avenue Bourguiba era piena di mezzi della polizia antisommossa, furgoni blindati Arquus appena consegnati dalla Francia nel pacchetto dei sessanta mezzi acquistati. «Lo Stato spende in sicurezza e non fa niente per risolvere la crisi economica e far fronte all’epidemia», gridava la piazza di Tunisi, solo una settimana fa. Il suo vicino di casa e amico, Amir, vent'anni anche lui, ha provato due volte a imbarcarsi per l'Italia e due volte è stato riportato indietro dalla guardia costiera tunisina. Vuole provarci ancora. Amir, vent’anni anche lui, ha provato due volte a imbarcarsi per l’Italia e due volte è stato riportato indietro dalla guardia costiera tunisina. Vuole provarci ancora. A volerla guardare superficialmente l'equazione è presto fatta. Sono gli emarginati a prendere la via del Mediterraneo per raggiungere l'Europa e questo spiega gli arrivi del 2020. Dodicimila a fronte dei poco più di duemila dell'anno precedente. La crisi economica, certo, aggravata dalla pandemia. Eppure c'è un pezzo del racconto che manca e coinvolge le politiche di contenimento delle migrazioni, l'approccio europeo verso i paesi partner nel Nordafrica. Vendere la via del Mediterraneo per raggiungere l’Europa e questo spiega gli arrivi del 2020. Dodicimila a fronte dei poco più di duemila dell’anno precedente. La crisi economica, certo, aggravata dalla pandemia. Eppure c’è un pezzo del racconto che manca e coinvolge le politiche di contenimento delle migrazioni, l’approccio europeo verso i paesi partner nel Nordafrica. «L’Unione Europea sta adottando con la Tunisia, come con altri paesi dell’area, un approccio di aiuti funzionali e condizionati dal contenimento e riassorbimento dei migranti», dice Clara Capelli, economista dello sviluppo ed esperta di Nordafrica che ha lavorato dal 2014 al 2017 per la Banca Africana di Sviluppo a Tunisi. «I modelli di sviluppo proposti in questi anni sono stati sbagliati. Le infrastrutture rendono possibile lo sviluppo ma non lo creano e in Tunisia non esistono ancora tavoli di ragionamento sulle politiche industriali. E i fondi per le politiche securitarie creano un circolo vizioso, perché la sicurezza è un settore economico polarizzante. C’è tanta bassa manovalanza ma i proventi vanno a pochi». Significa che gli investimenti europei, anziché contribuire allo sviluppo, continuano a vincolarlo al controllo delle frontiere, bloccando le politiche di redistribuzione delle risorse. Tanti soldi a pochi individui. Tanti fondi a poche istituzioni. Fattori che continuano a promuovere il disagio sociale e dunque le proteste e dunque il tentativo di migliaia di giovani di cercare fortuna in altri Paesi, giovani stanchi di sperare che arrivi lavoro in un Paese in cui il controllo dei rimpatri vincola lo sviluppo economico. Questo favorisce, inevitabilmente, la fortuna di politici che si propongono come lo strumento più fidato per garantire le politiche che i governi europei vogliono, gestire arrivi e sbarchi, più che politiche industriali e riforme. Come Abir Moussi, parlamentare dal 2019, ex funzionaria del partito di Ben Ali, che cavalca ormai da mesi l'onda lunga della frustrazione dei giovani per le mancate risposte dei governi democraticamente eletti e si fa rappresentante della nostalgia per il regime. Nega la rivoluzione, Moussi, si schiera contro il partito islamista Ennahda e chiede una presidenza e un apparato di sicurezza solido.Moussi, parlamentare dal 2019, ex funzionaria del partito di Ben Ali, che cavalca ormai da mesi l’onda lunga della frustrazione dei giovani per le mancate risposte dei governi democraticamente eletti e si fa rappresentante della nostalgia per il regime. Nega la rivoluzione, Moussi, si schiera contro il partito islamista Ennahda e chiede una presidenza e un apparato di sicurezza solido. In sostanza il ritorno dell'uomo forte. FirasFiras ricorda poco del regime, subiva l'eco delle ingiustizie da ragazzino e subisce l'eco della nostalgia oggi. Quando gli chiedi cos'è Ben Ali per un ventenne di Ettadhamen a dieci anni dalla rivoluzione risponde che era un dittatore, certo, e che la rivoluzione è stata giusta e almeno oggi tutti possono protestare. «Ma è secondario, vedi, prima non aveva fame e stavamo zitti per paura del regime. Oggi possiamo parlare ma abbiamo la pancia vuota. Capisci la differenza? ».Ettadhamen a dieci anni dalla rivoluzione risponde che era un dittatore, certo, e che la rivoluzione è stata giusta e almeno oggi tutti possono protestare. «Ma è secondario, vedi, prima non avevamo fame e stavamo zitti per paura del regime. Oggi possiamo parlare ma abbiamo la pancia vuota. Capisci la differenza?».