foto antonio  1.jpgDenuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, calunnia o pazzia le accuse le provo con inchieste testuali tematiche e territoriali. Per chi non ha voglia di leggere ci sono i filmati tematici sul 1° canale, sul 2° canale, sul 3° canale Youtube. Non sono propalazioni o convinzioni personali. Le fonti autorevoli sono indicate.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.

 Dr Antonio Giangrande  

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INCHIESTE IN TESTO: TEMA - TERRITORIO

 

 

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(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA   

 

CI GOVERNANO LOBBY E CASTE ?!?!

"L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

di Antonio Giangrande

(Inchiesta basata su atti pubblici e/o di pubblico dominio. Le fonti sono lincate).

LOBBIES, GOVERNO E PARLAMENTO. QUALE MAFIA?

 

LIBERALIZZAZIONI: LA MAFIA DI CASTE E LOBBIES

MEDICI ED AVVOCATI GLI AVVOLTOI DELLA SALUTE

 


IL POTERE DELLE CASTE E DELLE LOBBIES

SOMMARIO

INTRODUZIONE

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

SE NASCI IN ITALIA…

AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO.

IL MONDO SEGRETO DELLE LOBBIES.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

LEI NON SA CHI SONO IO!

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

TUTTI DENTRO CAZZO!

VADEMECUM DEL CONCORSO TRUCCATO.

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

STATO DI DIRITTO?

CHI E’ IL POLITICO?

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

ITALIA DA VERGOGNA.

ITALIA BARONALE.

CASA ITALIA.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

ITALIA: PAESE ZOPPO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

NON VI REGGO PIU’.

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

SE NASCI IN ITALIA…

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

IL SUD TARTASSATO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

ROMA E I MACCHINISTI DELLA METROPOLITANA: CASTA TRA LE CASTE ITALIANE.

LA SUPER CASTA DEI BUROCRATI E LA LOBBY DELLA BUROCRAZIA.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

PARLAMENTO E DINTORNI COME DIVENTARE RICCHI CON LO STIPENDIO FISSO.

ATTORI E REGISTI: UNA CASTA DI IDIOTI DI SINISTRA RACCOMANDATI.

TAXI. AUTISTI E NOLEGGIO: ROBA NOSTRA. SIAMO SOLO NOI.

LECCE E CAGLIARI: AVVOCATI CON LE PALLE.

GIUSTIZIA ALTERNATA. GIUDICI SENZA PALLE.

LA CASTA SI RIBELLA. DIFFAMAZIONE, NIENTE CARCERE, MA NON PER TUTTI.

LE SPUTASENTENZE. LA GOGNA MEDIATICA, GLI AVVOLTOI DELL'INFORMAZIONE E LA POTENTE LOBBY GAY.

MEDICI ED AVVOCATI GLI AVVOLTOI DELLA SALUTE.

LOBBIES E GOVERNO: FINANZIARIA E LEGGE MANCIA.

MEGLIO LA CASTA REGIONALE DI QUELLA PARLAMENTARE?

AVVOCATI: DIAMO I NUMERI?

CI SONO AVVOCATI ED AVVOCATI.

BASTA CON LA TIRITERA DEI TROPPI AVVOCATI IN ITALIA.

FUGA DALLA PROFESSIONE.

PROFESSIONISTI SENZA DIGNITA’.

AVVOCATI PERMALOSI E TRAFFICHINI. STRANO MODO DI FARE LOBBY.

GLI AVVOCATI SONO UNA CASTA ED UNA LOBBY: PUNTO E BASTA!

ED I MAGISTRATI SONO PEGGIO. SONO FUNZIONARI E SI APPELLANO "POTERE"!

SERVIZI PUBBLICI E SPESA PUBBLICA.

PARLIAMO DELLE TOGHE IN FERIE.

SERVIZI PUBBLICI E SPESA PUBBLICA.

COSTITUZIONE ITALIANA: COSTITUZIONE MASSONICA.

APOLOGIA DELLA RACCOMANDAZIONE. LA RACCOMANDAZIONE SEMPLIFICA TUTTO.

ED I LIBERALI? SOLO A PAROLE.

POPULISTA A CHI?!?

LA BANCA D’ITALIA E LE SPECULAZIONI DELLE BANCHE.

LE LOBBIES E LE CASTE IMMOBILIZZANO IL PAESE.

QUAL’E’ LA VERA CASTA?

MAFIOSO E' CHI TI OBBLIGA OD IMPEDISCE DI ESSERE O DI FARE.

ASSOCIAZIONI DEI CONSUMATORI: 47 MILIONI DI FINANZIAMENTO DI STATO PER FARE ANTISTATO.

POTERE E PRIVILEGI DEI SINDACATI.

L’OLIGARCHIA DEGLI ALTI BUROCRATI.

LE CASTE. LA MAFIA DEGLI ORDINI PROFESSIONALI: "I VERI INTOCCABILI".

A come ASSICURAZIONI.

A come AUTOTRASPORTATORI.

A come AVVOCATI, i veri potenti d'Italia.

B come BANCHE.

B come BENZINAI.

C come COMMERCIALISTI e RAGIONIERI.

C Come COMMESSI PARLAMENTARI.

C come CONFINDUSTRIA.

C come CONTROLLORI DI VOLO.

D come DIRIGENTI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE.

E come EDITORI.

F come FARMACISTI.

F come FORZE DELL'ORDINE.

G come GIORNALISTI.

G come GONDOLIERI.

L come LIRICA.

M come MAESTRI DI SCI.

M come MAGISTRATI.

M come MILITARI.

N come NOTAI.

O come OMOSESSUALI.

P come POLITICI.

P come PREFETTI.

P come PRIMARI.

P come PROFESSORI UNIVERSITARI.

S come SINDACATI.

T come TASSISTI.

V come VATICANO.

CASTE E LOBBY FUORI AL PARLAMENTO.

CASTE E LOBBY IN PARLAMENTO.

LA CASTA DELLA POLITICA.

LA CASTA DEI DIRIGENTI PUBBLICI.

LA CASTA DEI SINDACATI.

LA CASTA DELLE ASSOCIAZIONI DEI CONSUMATORI.

LA CASTA DEI GIORNALI.

LA LOBBY CLERICALE.

LA LOBBY DEI GAY E LESBICHE.

LA CASTA DEI MAGISTRATI.

LA CASTA DEGLI AVVOCATI.

 

 

 

INTRODUZIONE

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

L'Italia in mano a lobby e conflitti di interesse. Il rapporto europeo ci boccia senza appello. Il report di Transparency International parla chiaro: troppe carenze e aree grigie sul fronte legislativo ci relegano nelle ultime posizioni nel continente e ci rendono deboli alle pressioni di gruppi di interesse privato. Ma qualcosa, forse, si sta muovendo in Parlamento, scrive Claudio Lindner su “L’Espresso”. Solidità dei paesi rispetto al lobbyng indebito (Più scuro = legislazione più forte) L'Italia non è solo uno dei paesi più corrotti al mondo, come Transparency International ha decretato ancora una volta in dicembre collocandoci al 69esimo posto per trasparenza, ma anche uno di quelli più arretrati nel combattere i conflitti di interesse e il potere delle lobby. A confermarlo è sempre l'agenzia internazionale in un rapporto sul “Lobbying in Europa” , nel quale si analizza la legislazione di 19 paesi del continente più quella dei tre principali organismi europei (Commissione, Europarlamento e Consiglio Ue) stilando una classifica che parte da tre macroindicatori: la trasparenza al pubblico delle relazioni tra politici e lobbisti; la regolamentazione sulla condotta etica degli stessi, diciamo la loro integrità; l'apertura del potere pubblico al pluralismo di voci e interessi, in pratica una sorta di pari opportunità di accesso. Per costruire il loro giudizio i ricercatori si sono basati da un lato sull'apparato di norme e leggi in vigore e dall'altro su colloqui avuti in ciascun paese. Ebbene, l'Italia risulta galleggiare verso la fine della classifica. Prendiamo per esempio il livello di trasparenza: in un punteggio da zero a cento siamo a quota 11 e dietro di noi ci sono soltanto Spagna, Ungheria e Cipro, mentre la graduatoria dei più virtuosi vede sul podio Slovenia, Irlanda e la Commissione europea. Lobby in Europa: a una percentuale più alta corrisponde maggiore qualità delle leggi. A zero siamo sul piano legislativo e molto indietro su quello dell'accesso alle informazioni. Va detto che, dopo anni e anni di assenza, potrebbe esserci ora una svolta alla Commissione affari costituzionali del Senato, dove si sono tenute le audizioni e proprio all'inizio del mese è stato deciso di assumere come testo base di discussione il disegno di legge sulle lobby presentato da Alberto Luis Orellana, ex grillino e ora nel gruppo misto, e Lorenzo Battista, anche lui al Misto. Ne parleremo più avanti, ora torniamo al confronto europeo di Transparency International dando un po' di numeri. Se per trasparenza l'Italia merita uno “score” dell'11 per cento, la media dei 19 paesi è oltre il doppio, al 26 per cento, mentre la Slovenia è l'unica che va oltre il 50, al 58 per cento. Se si prendono come riferimento i meccanismi che consentono comportamenti etici tra lobbisti e decisori l'Italia è a quota 27 contro una media di 33 e il record di 58 sempre della Slovenia. Se infine si tiene conto delle norme per promuovere una pluralità di voci nel sistema politico l'Italia si ferma al 22 per cento contro una media del 33 e qui una performance molto positiva della Commissione europea (63 per cento) davanti a Lituania e Slovenia. I risultati complessivi del rapporto spingono Transparency a esprimere preoccupazione e a suggerire standard etici più aperti per governi e lobbisti, anche perchè quelli in vigore risultato inefficaci. Prevalgono tuttora influenze nascoste e informali. Alcuni gruppi di interesse hanno un accesso privilegiato alle stanze del potere ed esistono seri conflitti di interessi. Il rischio di pressioni indebite resta alto – commenta Transparency International – e ha conseguenze negative su economia, ambiente, coesione sociale, sicurezza pubblica e diritti umani. In sostanza il sistema appare assolutamente inadeguato e occorre uno sforzo congiunto del potere politico e dei gruppi privati per regolare le lobby e garantire migliore etica e trasparenza. L'Europa è arretrata in questo campo rispetto a Stati Uniti e Canada e solo sette paesi tra quelli esaminati hanno una qualche norma sulle lobby. Si tratta di Austria, Francia, Irlanda, Lituania, Polonia, Slovenia (unico paese, come abbiamo visto, che ha uno “score” superiore al 50 per cento) e Gran Bretagna, sistemi nei quali è presente una forma di registrazione delle lobby e, nella maggioranza dei casi, anche un obbligo di comunicare periodicamente le proprie attività. Il rapporto nota poi che buona parte dei paesi al centro di una crisi finanziaria negli ultimi anni figurano in fondo alla classifica di trasparenza, vale a dire Cipro, Spagna, Portogallo e naturalmente l'Italia. A Palazzo Madama si sta cercando finalmente di rimediare al vuoto legislativo. E quindi, dopo che il governo ha istituito l'anno scorso l'Autorità nazionale anticorruzione guidata da Raffaele Cantone, al Senato fa passi avanti il disegno di legge che vuole creare presso la presidenza del Consiglio un comitato per il monitoraggio dei lobbisti, con un apposito Registro al quale tutti i rappresentanti di interessi dovranno iscriversi obbligatoriamente. Il ddl a firma Orellana-Battista si compone di quindici articoli, il primo dei quali dice che l'atticità di lobbying deve «conformarsi ai principi di pubblicità, partecipazione democratica, trasparenza e conoscibilità dei processi decisionali, anche al fine di garantire una più ampia base informativa su cui i decisori pubblici possono fondare le proprie scelte». C'è poi l'obbligo per i lobbisti di «predisporre una periodica relazione sull'attività svolta», mentre l'articolo 10 prevede l'obbligo per i decisori pubblici «di rendere nota l'attività di rappresentanza degli interessi, facendone menzione nella relazione illustrativa ovvero nel preambolo degli atti normativi e degli atti amministrativi». L'articolo 11 rende infine incompatibile l'attività di lobbying con quella di giornalista, stabilendo che «tale attività non possa essere svolta dal decisore pubblico nei due anni successivi alla cessazione del proprio incarico». E' ora da vedere se tale testo sarà condiviso e approvato nelle prossime settimane dalla Commissione del Senato. Sarebbe un passo avanti di buona volontà.

Legge sulla trasparenza, lo Stato gioca a nascondino. Siamo rimasti uno dei pochi Paesi al mondo senza una norma per far conoscere a tutti le informazioni in possesso del governo e della pubblica amministrazione. Una beffa ai cittadini, un favore ai corrotti: come spiega il nuovo libro-denuncia di Gilioli e Scorza, scrivono Alessandro Gilioli e Guido Scorza su “L’Espresso” È uscito per Baldini&Castoldi “Meglio se taci”, l’ultimo libro del giornalista de “l’Espresso” Alessandro Gilioli e del giurista Guido Scorza (168 pagine, 15 euro): un pamphlet su tutti i limiti alla libertà d’espressione e di circolazione delle informazioni che costringono il nostro Paese al 73° posto nel ranking 2014 del World Press Freedom Index. Ne anticipiamo qui un brano tratto dal capitolo sulla trasparenza dello Stato. La legge sulla trasparenza dello Stato approvata dalla Repubblica del Ruanda nel marzo del 2013 stabilisce che in quel Paese «chiunque ha il diritto di accedere all’informazione detenuta da ogni organismo pubblico». Il Ruanda è quindi uno tra i 90 Stati che hanno adottato un Freedom of Information Act, come vengono chiamate nel mondo le norme che impongono la pubblicità degli atti della pubblica amministrazione. Il primo ha visto la luce oltre due secoli fa, in Svezia (1776); la Finlandia ne ha uno dal 1951; negli Stati Uniti è stato approvato nel 1966, su pressione dell’opinione pubblica che voleva avere accesso a informazioni sull’andamento e i costi della guerra nel Vietnam. Norme simili sono in vigore dal Messico all’Uganda, dal Bangladesh allo Zimbabwe, dal Nepal alla Nigeria, dall’Angola alla Giordania, dall’Angola a Malta. E in Italia? In Italia no. A dispetto dei proclami sulla trasparenza che attraversano gli ultimi 25 anni di storia patria - ultimo quello di Matteo Renzi all’insediamento del suo governo - i cittadini possono accedere ai documenti in possesso della Pubblica Amministrazione solo con grandi difficoltà, quando ci riescono. Perché se da noi non c’è un Freedom of Information Act, esistono invece disposizioni che vanno in senso contrario. «Non sono ammissibili istanze di accesso preordinate a un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni», stabilisce ad esempio l’articolo 24 della legge n. 241 del 1990. Come dire che in Italia è vietato accedere a un documento amministrativo per verificare come viene gestita la cosa pubblica: lo Stato avverte l’esigenza di autotutelarsi rispetto al rischio che qualcuno chieda informazioni per controllarne l’operato. La stessa norma stabilisce che anche quando si può chiedere l’accesso ai documenti di un’amministrazione, bisogna essere «portatori di un interesse specifico». Nel caso di una gara pubblica, ad esempio, bisogna essere un soggetto che a quella gara ha partecipato o, almeno, avrebbe potuto partecipare. Come se non fosse “interesse specifico” di qualsiasi contribuente sapere se i suoi soldi sono spesi nel modo migliore! Inoltre la legge - sempre la stessa - prevede che «le pubbliche amministrazioni individuano autonomamente le categorie di documenti sottratti all’accesso». La norma cioè consente a ogni amministrazione di ergere invalicabili mura attorno ad alcune categorie di documenti, in modo del tutto arbitrario. Una possibilità che, purtroppo, è stata colta proprio dalla più alta delle amministrazioni italiane, la presidenza del Consiglio dei ministri, nel giugno 2011: quando l’allora premier Berlusconi e il suo ministro Angelino Alfano, firmarono un decreto - pochissimo notato - con il quale provavano a coprirsi la ritirata ormai prossima, secretando la maggior parte dei documenti e degli atti del governo. Il decreto contiene alcuni punti che fanno accapponare la pelle: vengono, ad esempio, sottratti all’accesso «i verbali del Consiglio dei Ministri, i documenti inerenti l’attività istruttoria riguardante le interrogazioni, le interpellanze (…) le risoluzioni, le mozioni e gli ordini del giorno del Parlamento, (…) i documenti inerenti l’attività di organizzazione delle presenze dei rappresentanti del Governo nel corso dei lavori parlamentari». Quindi, mentre nel resto del mondo si diffondeva la filosofia dell’open government, in Italia si andava in direzione opposta, ingegnandosi a nascondere anche le informazioni di più evidente rilievo pubblico. L’elenco delle notizie sottratte alla disciplina sul diritto di accesso con queste modalità è quasi interminabile: si va dalle direttive del Presidente del Consiglio dei Ministri ai verbali del Cipe, fino ai dati «riguardanti il conferimento di onorificenze, decorazioni e ricompense da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri e dei Ministri». Ma perché documenti di questo genere devono essere sottratti all’accesso dei cittadini, se non per nascondere qualche favore ad amici e amici degli amici? È il segreto, evidentemente, la miglior arma della peggiore politica. E si noti che nessuno dei governi che si sono succeduti a quello che ha prodotto questo mostro ha mai abrogato la norma in questione. Né Monti, né Letta, né Renzi. Il primo, anzi, ha fatto di peggio: gabellando per “legge sulla trasparenza” una norma-beffa che non ha aperto di un millimetro in più le stanze di Barbablù dello Stato, limitandosi a proclamare come libera la circolazione di informazioni che le singole amministrazioni avevano già deciso di rendere note. Per mettere fine a tutto questo, nella primavera del 2014 è nata una coalizione di 32 diverse associazioni che si sono unite per un Freedom of Information Act italiano, lanciata con un sito (Foia4italy.it) il cui manifesto è chiaro: «Conoscere le informazioni che ci riguardano (dai conti pubblici alla salubrità dell’ambiente) non deve essere un’impresa per pochi, ma una possibilità e un diritto di tutti. Avere accesso alle informazioni raccolte dallo Stato è un diritto universale ed è il presupposto di una piena partecipazione dei cittadini alla vita democratica. Perché i cittadini sappiano a che punto sono i piani per gli asili nido pubblici; perché si possa scoprire dove sono gli investimenti promessi per contrastare la violenza domestica; per avere dati certi sulla situazione sanitaria della propria regione; perché si possano avere cifre precise su quanti sono gli esodati; per sapere di finanziamenti, incarichi e conflitti di interessi; e per scoprire la corruzione che si cela dietro a un appalto prima che sia troppo tardi ed evitare così gli enormi sprechi e ritardi che abbiamo visto negli ultimi anni. Ma più semplicemente il Freedom of Information Act serve anche a te quando non sai a che punto è la tua richiesta di visita specialistica all’ospedale o quando un call center comunale ti lascia in attesa per ore». Spiega uno degli attivisti che da più anni si occupa del tema, l’avvocato Ernesto Bellisario: «La trasparenza serve a stimolare un controllo diffuso sull’operato della pubblica amministrazione, determina un miglioramento di efficienza delle scelte di governo ed è prerequisito indispensabile per poter consentire la partecipazione delle persone al processo decisionale (“conoscere per deliberare”, diceva Einaudi). Nel resto del mondo, l’esistenza di un Freedom of Information Act è ritenuta tassello fondamentale per il livello di democrazia di un Paese. Purtroppo, il legislatore italiano non sembra interessato al tema». Secondo Transparency International (un’organizzazione non governativa che pubblica un rapporto annuale sul livello di corruzione nei diversi Paesi del mondo), «l’accesso all’informazione detenuta dalla pubblica amministrazione è forse l’arma più importante per combattere contro la corruzione», sicché un Freedom of Information Act sarebbe un ottimo antidoto contro le mazzette a ogni livello dell’apparato pubblico. E viene il sospetto che forse anche per questo la classe politica italiana fa così fatica ad arrivare a una legge come quelle presenti in tanti altri Paesi. Con l’aggiunta che il costo della corruzione in Italia - calcolato attorno ai 60 miliardi di euro - è tale che anche un impatto minimo del Freedom of Information Act (poniamo, una riduzione delle dazioni illegali del 10-20 per cento) avrebbe robusti effetti di recupero di denaro pubblico. Senza dire che aumentare la trasparenza della pubblica amministrazione aiuterebbe a ricostruire un rapporto di fiducia tra amministratori e amministrati, tra i cittadini e lo Stato. Invece, restiamo dietro il Ruanda.

Lo Stato teocratico moderno secondo Travaglio, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Ormai, se provi a pronunciare in pubblico qualche parola garantista, o a difendere le libertà individuali, la riservatezza della persone, ti linciano. Ti mettono alla berlina. Proprio come facevano i fascisti, i nazisti, una settantina d’anni fa. Ieri Marco Travaglio ha scritto un lungo articolo sul ”Fatto” nel quale sbeffeggia un prestigioso e stimato esponente della politica italiana, Antonello Soru, che è anche il presidente dell’autorità sulla privacy, accusandolo ( e stavolta sulla base di prove certe) di essere il presidente dell’autorità della privacy. Travaglio lo considera un reato. E poi accusandolo di essere un medico, peggio, un dermatologo. Un’intera colonna, in prima pagina, è dedicata a sbeffeggiare l’ex parlamentare sardo e a metterlo in ridicolo, perché medico. Cosa ci fa un medico in parlamento? Se ne troni tra i malati di scabbia che fa meglio! L’essere medico secondo Travaglio è la prova del dilettantismo di questa politica. Ma chi dovrebbe sedere, invece, in Parlamento? Probabilmente nessuno, perché in fondo il Parlamento è abbastanza inutile. Sarebbe più che sufficiente costituire una giunta di magistrati (della corrente giusta, e tutti comunque sottoposti al giudizio di Giancarlo Caselli) e affidare ad essa la stesura delle leggi, la cancellazione di tutti i codici che prevedano diritti o sconti di pena, e infine l’esecuzione stessa delle leggi. Fuori dalle palle medici, avvocati, ingegneri, operai, autisti dei pullman. Che ne sanno loro di come si governa un paese o una prigione? Il motivo dell’attacco sfascisteggiante del ”Fatto” al malcapitato Soru è semplicemente che lo stesso Soru, visto che fa il garante della privacy, aveva fatto notare che la privacy, almeno un po’, va garantita, e che la vita privata della gente, specie quando non c’è alcuna notizia di reato, non può essere raccontata ai quattro venti da magistrati e giornalisti e trasformata in ”metriale” per costruire fango e merda da gettare addosso a chi ci sta antipatico. Travaglio respinge con sdegno l’ipotesi di salvaguardare la privacy , perché – spiega – misure di questo genere sfascerebbero il potere dei Pm, danneggerebbero le indagini _ cioè il bene supremo di uno Stato moderno – e ridurrebbero il nostro paese alla stregua degli Stati Uniti, o della Francia, o di altri libertini e lassisti paesi dell’Occidente corrotto. I processi devono essere fatti dal popolo, celebrati sui giornali e in Tv, e devono essere celebrati sulla base delle informazioni fornite dai magistrati, anche eventualmente – come spesso avviene – violando la legge vigente. Poi alla Corte toccherà ratificare la decisione presa dal tribunale della televisione e del popolo. E Soru, se si oppone, è un medicastro da mettere subito a tacere. Naturalmente Travaglio intuisce l’obiezione, perché ogni tanto se la sente fare: ma vuoi ridurre l’Italia come era una volta la DDR (la mitica Germania comunista di Ulbricht e Honneker, che nei decenni che precedettero l’89 viveva con l’intero ceto intellettuale o politico intercettato per 24 ore al giorno dalla polizia politica)?La Germania comunista era considerata, probabilmente a ragione, il paese più illiberale e poliziesco d’Europa. Naturalmente Travaglio, da buon anticomunista e allievo di Indro Montanelli (il quale però pare che fosse inconsapevole di questa ”discepolatura”) non può esaltare la Germania di Honneker. E allora mette nero su bianco questo ragionamento, francamente candidissimo e disarmante: una cosa – dice – sono ”le aberrazioni della Stasi, la polizia segreta della Germania comunista” e una cosa completamente diversa sono le intercettazioni nell’ambito ”delle doverose indagini della magistratura italiana”. Come fai a rispondere a uno che ti dice così? E’ esplicito, Travaglio, non lascia zone d’ombra: il problema non è cosa si fa, cosa si può fare, cosa è legittimo fare: il problema è chi lo fa. La stessa cosa, fatta dai cattivi è una aberrazione, fatta dai buoni è ”doverosa”. Perfino il linguaggio lascia un po’ senza commenti. Un tipo scanzonato e violento – nella polemica – come Travaglio, quando parla dei magistrati si trasfigura e assume toni da ciambellano, o da sagrestia: ”le doverose indagini...”. Manca solo che dica: ”delle vostre eccellenze…” Il punto è proprio questo (al di là del metodo fascista col quale si offende una brava persona come Soru, che però, essendo un intellettuale di livello, non si sarà neanche offeso di queste fesserie…): è la convinzione della ”superiorità della razza”, la razza dei magistrati (anzi, dei Pm, anzi, di un certo settore dei Pm…) e di alcuni giornalisti. Diciamo del partito giustizialista. Questa convinzione, e la certezza che un buono Stato non deve essere uno stato democratico ma uno Stato Etico, un po’ come il terzo Reich o l’Unione sovietica prima di Gorbaciov, risolvono qualunque questione o contrasto o dubbio politico. La ragione e il torto non sono né confuse tra loro e neppure possono essere ”divise” attraverso un dibattito o un approfondimento: la Ragione è del partito (del partito giustizialista) il torto è di tutti gli altri, in particolare del politici e della vil razza dannata dei garantisti. E’ una visione perfettamente teocratica, ma per fortuna molto meno sanguinaria della teocrazia immaginata dall’Isis…Ho usato due volte la definizione ”partito giustizialista”. Cos’è? Solo una frase fatta, solo propaganda? No, io credo che ormai il partito giustizialista sia strutturato, fortissimo, goda di un grande sostegno nell’opinione pubblica, possa contare su fortissimi strumenti di potere in tutti i campi: economia, editoria, politica, capacità repressiva e di persecuzione dei nemici. E’ un partito che ha il suo nerbo essenziale nella cordata dei Pm che fa capo all’Anm, ma ha anche molte altre componenti, correnti, strumenti. Sarebbe interessante disegnare una mappa di questo partito. Con la sua ala più vistosa, ma forse meno decisiva, che ovviamente sono i Cinque stelle, cioè la componente anarchica, con sfumature di sinistra. Poi c’è ”Il Fatto”, che è la corrente di destra, con una ideologia militaresca, un po’ fascista. Poi ci sono i vari pezzi della magistratura, dai caselliani (che mettono divisa ed elmetto e non sorridono mai) ai Brutisti-Bocassianiai, che vanno al sodo e pensano solo a come processare più gente possibile, ci sono i folcloristici (tipo quel mattacchione di Woodchock che però, simpatico simpatico, fa un sacco di guai), e infine la corrente più seria e ragionante (la meno reazionaria ma anche la più insidiosa, perché dotata di pensiero e conoscenze) che è quella di Sabelli, cioè del vertice dell’Anm. Dietro a questo esercito, che picchia duro e spara a raffica, ed è la mano armato del partito, c’è il potere economico, che dal 1992 ha fatto la scelta di usare la magistratura per demolire la politica. E ha mietuto successi, successi, successi. Ormai questo potere è diventato un potere assoluto, senza opposizione, senza concorrenti. La demolizione della politica, realizzata dal partito giustizialista, è stato il capolavoro del potere economico. E’ buffo che sia così. Travaglio forse non lo sa, e se lo sapesse inorridirebbe: lui ha sempre lavorato per conto del ”Corriere della Sera”, per i gruppi di potere che si aggruppano intorno al Corriere, si proprio così, all’odiato Corriere che fui di Paolo Mieli…Ahi, ahi, ahi.

I dinosauri della burocrazia che non vogliono cambiare. In un libro Corrado Giustiniani chiama dinosauri i 70 mila dirigenti pubblici italiani, che sono «i più pagati del mondo». Non solo: un viaggio nella cancrena dell’immobilismo, scrive Andrea Garibaldi su “Il Corriere della Sera”. Corrado Giustiniani, per 25 anni inviato speciale de «Il Messaggero», ha scritto un libro sui Dinosauri che non sono animali estinti, anzi. Giustiniani chiama dinosauri i 70 mila dirigenti pubblici italiani, che sono «i più pagati del mondo» nel Paese dove «i cittadini sono i peggio serviti». Giudizio generale, che fotografa un «sistema», senza condannare chi lavora con scrupolo. Secondo i dati di Carlo Cottarelli, ex commissario alla spending review, segretari generali, capi di gabinetto, capi dipartimento dei ministeri guadagnano due volte e mezzo i loro colleghi tedeschi, il doppio dei francesi. Nell’agosto del 2014 «The Economist» ha scritto: «Per guadagnare 136 mila euro l’anno una ricerca su Internet rivelerà che tu debba essere il direttore dell’information technology in una società inglese, il governatore dello Stato di New York o un usciere del Parlamento italiano». Il «caso dinosauri» ha un altro aspetto, oltre a quello economico: «Qual è il cuore della questione burocratica in Italia? L’assenza della cultura del risultato», ha detto il giurista Sabino Cassese. Nel libro Giustiniani annota: «Per allacciarsi alla rete elettrica in Germania sono necessari 17 giorni, in Italia 124. Per un permesso di costruzione in Finlandia bastano 66 giorni, in Italia 234». Nell’anno 2009 Renato Brunetta, ministro per la Pubblica amministrazione del governo Berlusconi, fece approvare un decreto «per favorire la produttività, l’efficienza e la trasparenza del pubblico impiego». Prevedeva premi per i migliori. Solo che l’applicazione delle norme non sempre corrisponde agli intenti. In molti casi gli obiettivi per ottenere i premi erano stabiliti dalle stesse amministrazioni. Prendiamo gli Esteri. L’Ufficio comunicazione viene premiato, scrive Giustiniani, se distribuisce almeno 10 mila rassegne stampa (fatte compilare, peraltro, da una società esterna) o esegue almeno 100 accrediti per giornalisti stranieri. La Direzione per la promozione del sistema Paese, che ha il compito di catalogare le opere d’arte nelle ambasciate, si dà metà del premio se visita almeno tre ambasciate in un anno e l’altra metà se le visite guidate alle collezioni della Farnesina staccano almeno 500 biglietti. Gratifiche per il minimo del proprio dovere. I dirigenti pubblici italiani guadagnano in media poco meno di 300 mila euro l’anno. Uno dei provvedimenti del governo Renzi è stato l’imposizione di un tetto a 240 mila euro lordi, prendendo come limite le retribuzioni più basse nel pubblico impiego, moltiplicate per dieci. Positiva inversione di tendenza, dunque, e Giustiniani ne segnala altre. Ecco gli avvocati dello Stato, che non possono più sommare gli alti stipendi alle parcelle obbligatorie che le amministrazioni da loro difese dovevano versare. Ecco, per gli stessi avvocati dello Stato, il divieto di partecipare ad arbitrati. Ecco i tagli alle retribuzioni dei dipendenti di Camera e Senato. Ed ecco, di contro, i ricorsi contro i tagli, quasi duemila nei due rami del Parlamento. Cambiamenti faticosi, da queste parti.

Dinosauri, burocrati che ci affossano. Tra proteste e proposte, un viaggio nell'Italia dei privilegiati, scrive Marzia Apice su “L'Ansa”.

CORRADO GIUSTINIANI, "DINOSAURI. Nessuna riforma ci libererà dai superburocrati di Stato" (Sperling & Kupfer, pp.206, 17 euro). "Li ho chiamati dinosauri nella speranza che si estinguano. Ma poiché hanno 50 anni di media, credo che dovremo aspettare". La prende con ironia il giornalista Corrado Giustiniani, mentre racconta all'ANSA del suo ultimo libro, chiamato per l'appunto "Dinosauri" (Sperling & Kupfer) in riferimento ai tanti burocrati che affollano le strutture dello Stato lasciando per lo più irrisolti i problemi dei cittadini. Stipendi alti, anzi i più alti del mondo nella Pubblica Amministrazione, a fronte di un Paese che oltre alla crisi economica ci mette del suo in tema d'inefficienza, servizi al cittadino inesistenti, per non parlare di corruzione, opacità e lentezze, e commissioni d'inchiesta che si risolvono in una bolla di sapone lasciando ogni cosa inalterata. Iniquità e ingiustizia dilaniano l'Italia, gravandola di una zavorra che sembra essere il primo ostacolo verso la tanto agognata ripresa. "Il problema - spiega il giornalista - è senza dubbio culturale, ma non solo. In Italia, ci sono persone che diventano ricche con i soldi pubblici, che hanno bonus e privilegi pur non raggiungendo i traguardi: questo non è più accettabile, e non si tratta di essere qualunquisti, perché la generazione dei giovani rischia di non avere un futuro". "Se i politici fissano gli obiettivi, i dirigenti pubblici hanno autonomia di realizzazione", continua, "è così dal '93, e non può essere sempre colpa degli altri se non si ottengono risultati. La vittoria di un concorso pubblico non può essere una giustificazione a vita. E' ora che gli uffici divengano fabbriche in cui produrre, come ha ben esemplificato Sabino Cassese". Snello nella struttura e nel linguaggio, appassionante come un'inchiesta, il libro prende per mano il lettore e lo trascina in un viaggio nelle storture italiane, raccontando dati e storie, citando nomi e fonti, enumerando alcuni di quei 70mila fortunati (tra giudici costituzionali, ambasciatori, avvocati dello Stato) che sembrano avere diritto a tutto, senza dover rendere conto del proprio operato. Se è senz'altro necessario agire su più fronti, anche "cambiando la cultura giuridica predominante nella scelta dei candidati dei concorsi - afferma ancora - a tutto discapito della chiarezza nel linguaggio con cui si scrivono i provvedimenti", forse la riforma della pubblica amministrazione targata Renzi-Madia "potrebbe addirittura far sperare in qualcosa di buono". "Ora c'è lo slogan delle riforme anche se non sempre sono una panacea - precisa - i tempi di risposta sono lunghi, ammesso che si riesca a penetrare in tutti i settori. In ogni caso, il ruolo unico della dirigenza e la maggiore mobilità dei dirigenti senza più paletti tra amministrazioni diverse sono un'opportunità, ma la precarizzazione dei candidati con l'incarico a 3 anni li porterà a produrre di più, o li legherà maggiormente al carro della politica?". Una domanda che resta senza risposta, almeno in attesa che la riforma si realizzi, e a cui ne seguono almeno altre tre: come organizzare una Scuola della Pubblica Amministrazione davvero efficace? Perché non si riesce in Italia a "fare i giapponesi", ossia a copiare - visto che da soli non se ne esce - quello che di buono in materia di amministrazione di Stato accade negli altri Paesi? E ancora, perché non ci si ispira ai criteri di assunzione adottati dall'Ue? Un ginepraio di problemi, eppure, da noi non è sempre stato così. "Quando iniziai a fare il giornalista negli anni '70 pensavo, guardando le retribuzioni di allora, che un alto dirigente pubblico avrebbe dovuto guadagnare anche di più, proprio per il difficile lavoro che lo attendeva", racconta Giustiniani con amarezza, aggiungendo che "negli anni '90 c'è stato però un boom retributivo a cui non è corrisposto un miglioramento nei servizi. Ora è tempo di darci una regolata e cambiare verso la trasparenza".

La burocrazia italiana è un dinosauro famelico, scrive Silvano Guidi su “Resegoneonline”. Per le scartoffie che non producono reddito, ma anzi lo consumano, ogni impresa, in media, spende 7.000 euro l'anno. Sembra che il presidente del Consiglio incaricato, Matteo Renzi, ne abbia consapevolezza: la vera metastasi che rallenta lo sviluppo dell'Italia, il tumore pernicioso e silente che succhia e neutralizza le energie vitali del Paese si chiama "burocrazia". Ma sarebbe ancora meglio passare dal terreno astratto di "categoria", che tutti e nessuno colpisce, ai singoli burocrati, agli uomini e donne degli uffici (dal francese bureau, ufficio), agli addetti, con nome e cognome, che esercitano il potere appunto degli uffici (di infimo, basso, medio, mediocre, alto, altissimo, supremo livello). Sono personaggi di potere, interpreti e strumento di regole e procedimenti che solo loro conoscono e manovrano, facendone leva vessatoria, e incentivo alla corruzione, per qualunque cittadino costretto a sottostare alle forche caudine dei bizantinismi normativi. Dall'addetto ad un ufficio pubblico a cui ci si rivolge per una pratica fino al megafunzionario di ministero, che scivola a suo agio fra leggi e regolamenti, i burocrati rallentano, impastoiano, imboscano, negano, concedono; spesso con discrezionalità sacrale. Il vero potere è il loro. I tempi li decidono loro. I costi che derivano dalla loro azione li determinano loro (ma li paghiamo noi). La Cgia di Mestre (associazione molto quotata , per la serietà dei suoi studi, di artigiani e commercianti) ha messo a confronto i servizi alle imprese, offerti dalle amministrazioni pubbliche dei diversi Paesi di Eurolandia, per giungere alla seguente conclusione: la burocrazia italiana è tra le meno efficienti (al 15mo posto in UE e addirittura al 65mo nel mondo), ma in compenso è tra le più onerose, costando ad ogni impresa, in media, 7.000 € l'anno. La burocrazia italiana è pessima fornitrice di servizi (in Europa fanno peggio solo Grecia e Malta) ed è anche la peggiore pagatrice del Continente, tanto che parecchie aziende italiane sono fallite e falliscono non per debiti, ma per crediti non riscossi. Ricorda Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia: "Il 74 per cento degli artigiani e commercianti lavora da solo; pertanto la gestione degli adempimenti burocratici viene svolta direttamente dal piccolo imprenditore oppure, in alternativa, da un fiscalista a cui lo stesso artigiano o commerciante è costretto a rivolgersi. In entrambi i casi perdendo tempo e denaro supplementare". Flavio Briatore non ha peli sulla lingua e accusa: "Il vero problema dell'Italia è la burocrazia: un dinosauro famelico che ha generato infiniti altri piccoli dinosauri che sono ovunque. Bisogna semplificare leggi, in modo che ogni cittadino possa capirle. Oggi invece per capire le leggi servono gli avvocati. E la burocrazia famelica ha creato, a proprio uso e consumo, un linguaggio incomprensibile per giustificare la propria essenzialità e sopravvivenza". Quanti siano i superburocrati in Italia è stima evanescente: il vero potere nasconde se stesso. E questo potere, da domani, lotterà contro Renzi e i suoi ministri, per la gran parte giovani, neofiti e inesperti; e quando non inesperti non sufficientemente grintosi. L'esercito dei burocrati è silenzioso, felpato, inossidabile e guadagna molto, a volte moltissimo. Sono eminenze grigie (ma chissà quanti giovani dinamici professionisti farebbero meglio di loro!) che si scambiano i posti, si coprono a vicenda, occultano gli errori, appartengono alla stessa rete di protezione. Dai, Matteo! Dimostra che hai davvero capito da dove cominciare il ripulisti.

Meglio se taci, scrivono Guido Scorza ed Alessandro Gilioli. Siamo un Paese in cui per aprire un blog bisogna obbedire a una legge del 1948, altrimenti si rischia un processo penale; siamo un Paese in cui non puoi fare il giornalista se non hai la tessera dell’Ordine, ma per avere la tessera devi fare il giornalista. Siamo un Paese in cui un’autorità amministrativa può chiudere un sito web senza nemmeno passare da un giudice. Siamo un Paese insomma nel quale tutto sembra suggerire che «è meglio se taci». Lo scrivere, diffondere e fare informazione è disincentivato dalla paura dei processi, dalla minaccia di risarcimenti milionari, dalla confusione delle norme e dalla burocrazia. Nel loro viaggio, Gilioli e Scorza ci raccontano e spiegano questo paradosso attraverso casi concreti, vergognosi e grotteschi. Non solo per denunciarli, ma soprattutto per cambiare le cose. Nell’interesse della democrazia. La rete è libera. Libera per natura, per definizione, si pensa spesso. Perché chiunque può aprire un blog o postare quello che preferisce sui social network. Chiunque può leggere on line le opinioni più diverse, comprese quelle strampalate, eccentriche, assurde, complottiste, perfi no razziste e violente. Chiunque può caricare o scaricare un video a piacimento, compresi quelli pornografi ci o quelli in cui ci si fa esplodere con una cintura esplosiva; e c’è tutto, in Internet, dal Ku Klux Klan al Califfato islamico, dai teneri gattini al gruppo Facebook che invita all’omicidio di Justin Bieber. E così via...

“Meglio se taci”, contraddizioni e censura della libertà di parola sul web in Italia. Nel libro di Alessandro Gilioli (L'Espresso) e Guido Scorza (avvocato e blogger de ilfattoquotidiano.it) il caos normativo in un Paese in cui chi fa informazione online è ancora soggetto alla legge sulla stampa del 1948. E dove il digital divide è aggravato per parte politica da una "radicata subcultura nemica della libertà della rete", scrive Eleonora Bianchini su “Il Fatto Quotidiano”. Ordine e contrordine, uguale disordine. Eccolo l’iter normativo che regola l’informazione sul web in Italia, dove i blog rischiano ancora di essere condannati per il reato di stampa clandestina e chi pubblica notizie può incorrere nell’esercizio abusivo della professione. Perché “non è possibile fare il giornalista senza tessera dell’Ordine, ma per averla bisogna fare il giornalista”. Sono solo la punta dell’iceberg delle contraddizioni riordinate in “Meglio che taci” (Baldini&Castoldi), il libro di Alessandro Gilioli (L’Espresso)e dell’avvocato e blogger de ilfattoquotidiano.it Guido Scorza. Un’inchiesta che attraverso esempi di cronaca mostra come spesso l’interpretazione delle norme si traduca in censura, obiettivo condiviso da disegni di legge presentati in Parlamento che puntano a imbavagliare il web, ignorando che i provvedimenti validi nel mondo reale sono già estesi anche in ambito digitale. Molto lontano dal “far west” immaginato da deputati e senatori, tra i quali prevale “spesso una radicata subcultura nemica della libertà della rete“. Un caso in cui la difesa del diritto d’autore è diventato pretesto per censurare l’informazione è la vicenda del forfait di Gabry Ponte raccontata dall’emittente locale “Vera Tv Abruzzo”, che si è vista rimuovere i video su YouTube dove aveva ricostruito la vicenda. E poi c’è la vicenda di Carlo Ruta, blogger siciliano condannato per il reato di stampa clandestina in primo grado e in appello prima che la Cassazione precisasse che a un blog non è applicabile la legge sulla stampa del 1948. Non ultima la storia di PnBox, web tv di Pordenone che dava semplicemente voce ai cittadini, segnalata all’ordine dei giornalisti per esercizio abusivo della professione. Un’accusa poi smontata davanti ai giudici: l’attività della web tv, hanno detto, “non è paragonabile a quella di un giornalista perché non prevede alcuna rielaborazione critica dei contenuti”. Stessa accusa anche per Pino Maniaci, direttore di TeleJato, tv antimafia di Palermo che dopo due rinvii a giudizio e altrettante assoluzioni, ha preso il tesserino dell’Ordine. Come se la “patente” da giornalista fosse la condizione indispensabile per denunciare fatti criminosi e infiltrazioni mafiose. E questo in cosa si traduce? Nel pagamento nel bollettino annuale all’Odg, che per Gilioli e Scorza è fatto di “burocrati e gabelle” e che “non ha più alcuna funzione se non quella di garantire stipendi, segretarie, uffici e brandelli di potere si suoi incravattati vertici”. Lasciando da parte i casi giornalistici, in Italia il 34 per cento della popolazione non ha “mai aperto un browser” in vita sua. In più, siamo penultimi in Unione Europea per velocità della connessione misurata. Il digital divide italiano però si spinge oltre i confini della banda larga e “della scarsa penetrazione della rete nelle abitudini sociali”. Come? Ad esempio con il compenso per la copia privata promosso dal Mibac di Franceschini, che disincentiva l’acquisto di device digitali. Ed è anche il Paese dell’ostacolo al wi-fi, dove gli esercenti possono rischiare multe da migliaia di euro se mettono a disposizione della clientela alcuni tablet. Perché in base all’articolo 110 del testo unico che disciplina la messa a disposizione del pubblico di apparecchi da gioco – “il cui impianto originario risale a un regio decreto del 1931″ – sono equiparabili alle slot-machine. E se sul fronte trasparenza andasse meglio? Magari. Perché in Italia manca un Free of Information Act (Foia), legge che esiste dalla Svezia al Ruanda, per garantire ai cittadini una pubblica amministrazione trasparente. A dire il vero, ad annunciare un Foia nazionale era stato il governo Monti. Ma il testo non aveva nulla a che vedere con il modello Usa a cui avrebbe dovuto ispirarsi e ribadiva solo quello che le norme già prevedevano. Se esistesse, potremmo, ad esempio, conoscere nel dettaglio il contenuto del famigerato dossier Cottarelli sulla spending review. Proprio quello che né Palazzo Chigi né il Ministero dell’Economia allo stato attuale riescono a trovare. Oltre i confini nazionali, poi, rimangono aperte le domande sulle policy arbitrarie di Facebook e Google, big player che godono di potere incontrastato sul mercato virtuale e che decidono anche quali notizie possono pubblicare gli utenti. In occasione della diffusione del video della decapitazione di James Foley, ad esempio, Dick Costolo di Twitter ha avvisato che la pubblicazione degli immagini avrebbe potuto causare la sospensione dell’account. Questioni in cerca di sintesi e risposte, che coinvolgono Europa e Stati Uniti. Senza spingersi tanto oltre, però, possiamo limitarci al recinto italiano. Per vedere che anche dentro i nostri confini c’è già – e ancora – molto da fare.

Alessandro Gilioli, alla faccia della rete libera, scrive Ilaria Bonaccorsi su “Left”. Meglio se taci. Alessandro Gilioli, giornalista de L’espresso, e Giulio Scorza, avvocato e docente di diritto delle nuove tecnologie, nel loro ultimo libro “istigano” alla rivoluzione, quella per la libertà d’informazione che passa per «un accesso libero, non discriminatorio e neutrale alla rete». Una rivoluzione già in atto, di cui protagonisti sono «tanti ragazzini pieni di estro, genio, creatività che all’estero danno vita a piattaforme di informazione dal basso, citizen journalism e whistleblowing in stile Wikileaks» ma che in Italia, raccontano i due autori, avrebbero gettato la spugna, patteggiato la minore delle pene possibile e rinunciato ad esprimersi. Troppo duro lo scontro contro il dinosauro a tre teste (malapolitica, tv e giornalismo della carta) che non ha intenzione di estinguersi, né di evolversi, e sbatte la coda per sfasciare tutto. Un colpo è, per esempio, l’ultimo ddl che riforma la legge sulla stampa, approvata al Senato e in discussione alla Camera. Per capire se è veramente l’ennesima «legge bavaglio», ne abbiamo parlato con Alessandro Gilioli. Il dubbio che questo ddl possa essere una difesa contro tanto pessimo giornalismo le è mai venuto? Certo che sì: la nostra categoria è sputtanata almeno quanto quella dei politici e l’Ordine renderebbe miglior servizio al Paese se si autodissolvesse, dato che serve solo a perpetuare se stesso e a mettere recinti alla libera comunicazione. La battaglia invece è per non far retrocedere ulteriormente un Paese che è già al 49° posto nel mondo per libertà di espressione: non per difendere una categoria scarsamente stimata.

Una delle cose che prevede questa riforma è che in caso di diffamazione non ci sia più il carcere per i giornalisti, ma multe fino a 50mila euro. Eppure giuristi e cronisti sono arrivati a dire: #meglioilcarcere. Perché?

«La nuova norma è stata pensata per mettere al sicuro politici e potenti del-l’economia non “dai giornalisti”, ma dalle critiche in genere, anzi soprattutto da quelle dei semplici cittadini, sui social  o nei blog. I giornalisti assunti in un’azienda non temono più di tanto quelle multe, che vengono pagate dagli editori che sono assicurati; al contrario, i cittadini che non hanno le garanzie dei giornalisti assunti si troveranno in una condizione di maggiore fragilità. Lì scatterà l’autocensura».

Altro punto contestato del ddl è il diritto all’oblio: chi crede di essere oggetto di diffamazione potrà scrivere a siti web e persino a motori di ricerca, chiedendo di eliminare quei contenuti ipoteticamente diffamatori.

«Sul diritto all’oblio la soluzione più intelligente mi pare quella indicata dal Garante per la Privacy, nel 2013, quando ha proposto di non cancellare nessuna notizia, anche se superata dai fatti, bensì di aggiornarla. Quindi se uno scrive che il signor Y è probabilmente un ladro e poi il signor Y viene prescritto o assolto, non si cancella l’accusa ma la si integra con un visibile “update”. Tutte le altre formule di diritto all’oblio, in questa legge così come nella sciagurata sentenza della Corte di giustizia dell’Ue che delega il potere di cancellazione a Google, sono violazioni del diritto alla conoscenza, alla cronaca, alla storia».

Ma le risposte vanno date. Le regole della comunicazione da noi sono ferme al 1948. Chi deve farlo e come?

«Contemperare il diritto alla privacy e all’onorabilità con il diritto di cronaca e di opinione non è facile, ma nemmeno impossibile. Pensare che la strada giusta sia quella penale, nel 2015, è fuori dal tempo. Oggi il patrimonio più importante per ogni cittadino è la reputazione: tanto quella di chi ha diritto a non vedersi attribuire pubblicamente fatti che non ha commesso, quanto quella di chi scrive le sue opinioni, sia giornalista o no. Quest’ultimo perde ogni autorevolezza e credibilità se viene identificato come “bufalaro”: quindi il modo migliore per contemperare i due diritti sarebbe semplicemente un sistema di rating (publico) che classifica sia chi scrive sia chi fa causa contro chi scrive. Dopo la quarta o quinta volta che un giudice stabilisce che Tizio è un bufalaro chi crederà più a quello che scrive Tizio? Dopo cinque o sei volte che Caio fa causa per diffamazione e il giudice gli dà torto, che reputazione avrà Caio, se non quella di chi tenta di censurare? Oltre questo scenario forse futuribile, già da subito si possono bilanciare meglio le cose. Ad esempio, se il querelante ha torto, alla fine paga lui, fino all’ultimo euro, rimborsando anche i danni morali di chi ha dovuto perdere il sonno per difendersi da un’accusa infondata».

Nel libro ripetete che «un “freedom of information act” sarebbe un antidoto contro le mazzette». Ma che l’unica cosa che si percepisce in Italia è un «ostruzionismo burocratico regolamentare». Domanda retorica: un’informazione poco trasparente serve a una politica poco trasparente?

«Un Freedom of information act costringerebbe alla più assoluta trasparenza su appalti e gare, e quindi sarebbe un colpo contro la corruzione a ogni livello. Ma, certo, è un po’ come con il famoso tacchino che difficilmente è felice quando arriva il Thanksgiving: non tutta la politica è così entusiasta di una norma che abbatte la corruzione».

Anche la rete non è un’oasi di libertà. facebook, twitter e google sono i padroni, noi gli ospiti. Da una parte loro garantiscono la comunicazione, dall’altra si riservano diritti e poteri assoluti.

«Siamo talmente imbevuti di mentalità proprietaria e privatista da considerare normale che Facebook ci possa censurare perché “tanto è un’azienda privata”. Sciocchezze: l’iniziativa privata non può prescindere dall’interesse pubblico. E l’articolo 21 della Costituzione non può essere calpestato da presunte policy aziendali e da censori che spesso non capiscono gli stessi contenuti perché scritti in altre lingue. Nel libro abbiamo raccontato tre o quattro casi di censura esilaranti, per la loro stupidità. Ma non c’è molto da ridere, se le corporation del web diventano i nuovi poliziotti della Rete».

A chi tocca decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato che il mondo veda? Sulla carta lo decidono l’editore e il direttore, ma è giusto che riguardi anche un intermediatore di contenuti altrui?

«Se l’intermediatore non ha responsabilità per i contenuti immessi da altri, com’è giusto e com’è stato stabilito a livello Ue, non si capisce perché poi debba avere il potere di filtrare e censurare contenuti. Se usa questo potere, assume implicitamente la responsabilità di quanto fa apparire e contraddice quella non responsabilità a cui tutti gli intermediatori tengono moltissimo. È una questione da risolvere con norme nazionali o internazionali che siano cogenti e rispettino i principi di libertà costituzionale: nessun intermediario, in nessun Paese, può essere più censorio delle leggi del Paese in questione. Ad esempio, in Italia: nessuna censura preventiva e la possibilità di oscurare un contenuto solo su decisione della magistratura, che valuta sentendo le parti e concedendo appelli. Sono principi di base. Oggi Fb, Twitter o Youtube invece sono allo stesso tempo poliziotti, giudici e legislatori».

«La poca democrazia dei network può indebolire quella della società reale», denuncia il filosofo Peter Ludlow. Sta accadendo questo?

«Ludlow fa presente che se ci abituiamo a pensare che è lecito e normale essere censurati da un’azienda digitale, disimpariamo a considerare la libertà d’espressione un valore inalienabile e rischiamo di finire per considerare accettabile essere censurati in genere. Temo non abbia torto».

Le cinque cose peggiori di quello che definite il bestiario della regolamentazione anti-digitale italiana?

«Più che di regolamentazione anti-digitale, anche se poi molte norme impattano soprattutto sulla rete, parlerei di norme contro la libertà d’espressione, che ci dicono appunto “meglio se taci”. Tra le varie brutture ci sono senz’altro la norma del 1948 sulla stampa clandestina, che oggi non so se fa ridere o piangere; il reato di esercizio abusivo della professione giornalistica, che è frutto del combinato tra l’articolo 348 del Codice penale e la legge sull’Ordine del 1963; la legge 41 del 1990, che è il contrario esatto di un Freedom of information act; il regolamento Agcom sul copyright, che rende il nostro Paese l’unica democrazia al mondo in cui un’autorità amministrativa e di nomina politica può oscurare dei siti Internet. Poi ovviamente ci sono infinite regole minori che, interpretate in modo stupido, producono risultati tragicomici. Nel libro raccontiamo la vicenda del titolare di una piadineria di Asti che è finito nei guai per aver messo a disposizione dei clienti quattro tablet: gli è arrivata la Finanza contestandogli di gestire “apparecchiature atte al gioco d’azzardo”, perché ovviamente con i tablet si può “anche” andare sui siti di scommesse.»

Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente” , ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri.  Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.

Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)

Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,

La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.

Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.

Mentre gli occhi seguono la salda carena,

la nave austera e ardita.

Ma o cuore, cuore, cuore,

O stillanti gocce rosse

Dove sul ponte giace il mio Capitano.

Caduto freddo e morto.

O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.

Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;

Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;

Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.

Qui Capitano, caro padre,

Questo mio braccio sotto la tua testa;

È un sogno che qui sopra il ponte

Tu giaccia freddo e morto.

Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;

Il mio padre non sente il mio braccio,

Non ha polso, né volontà;

La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.

Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,

Esultino le sponde e suonino le campane!

Ma io con passo dolorante

Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.

Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi  “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.

Chi sa: scrive, fa, insegna.

Chi non sa: parla e decide.

Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?

Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.

La calunnia è un venticello

un’auretta assai gentile

che insensibile sottile

leggermente dolcemente

incomincia a sussurrar.

Piano piano terra terra

sotto voce sibillando

va scorrendo, va ronzando,

nelle orecchie della gente

s’introduce destramente,

e le teste ed i cervelli

fa stordire e fa gonfiar.

Dalla bocca fuori uscendo

lo schiamazzo va crescendo:

prende forza a poco a poco,

scorre già di loco in loco,

sembra il tuono, la tempesta

che nel sen della foresta,

va fischiando, brontolando,

e ti fa d’orror gelar.

Alla fin trabocca, e scoppia,

si propaga si raddoppia

e produce un’esplosione

come un colpo di cannone,

un tremuoto, un temporale,

un tumulto generale

che fa l’aria rimbombar.

E il meschino calunniato

avvilito, calpestato

sotto il pubblico flagello

per gran sorte va a crepar.

E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò

La coscienza

Volevo sapere che cos'è questa coscienza 

che spesso ho sentito nominare.

Voglio esserne a conoscenza, 

spiegatemi, che cosa significa. 

Ho chiesto ad un professore dell'università

il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si, 

ma tanto tempo fa. 

Ora la coscienza si è disintegrata, 

pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,

vivendo con onore e dignità.

Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.

Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande, 

il gigante, quelli che sanno rubare. 

Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?

Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare. 

L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere, 

la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.

Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle, 

se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere. 

E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,

mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.

Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)

perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,

adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare. 

Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare, 

la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,

vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)

SE NASCI IN ITALIA…

Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO

Facile dire: sono avvocato. In Italia dove impera la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una professione?

Ecco perché dico: italiani, popolo di corrotti! Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che tratta degli esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o truccabili. Nessuno si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza diretta, quello che succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la fiera delle vanità fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la cronistoria di questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che meriti, devi darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di successo.

Anche perché i furbetti sanno come cavarsela. Francesco Speroni principe del foro di Bruxelles. Il leghista Francesco Speroni, collega di partito dell’ing. Roberto Castelli che da Ministro della Giustizia ha inventato la pseudo riforma dei compiti itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali, a suo dire troppo permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima roboante voce del curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a Milano e dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un problema nel processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie all’immunità parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere verdi e a insultare l’Italia durante il discorso di Ciampi qualche anno fa, quando gli italiani hanno bocciato, col referendum confermativo, la controriforma costituzionale della devolution. E così commentò: “Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole essere moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto l’abilitazione alla professione forense in Belgio (non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria) dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. Speroni dunque potrà difendere “occasionalmente in tutta Europa” spiega lo stesso neoavvocato raggiunto telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il Fatto quotidiano”.

Perché Bruxelles?

Perché in Italia è molto più difficile mentre in Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.

La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E  in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di  compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare?  ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino.  E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso  e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour  Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.

Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.

Vittoria delle lobby di avvocati e commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini. “…il governo formulerà alle categorie proposte di riforma.” con questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di abolizione degli ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto appello ai deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del Ministero dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era inserita la norma su avvocati e commercialisti.  Tra questi, Raffaello Masci, deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha ottenuto l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani, tutti accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima volta ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei giorni scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai inutile recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di riforma in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche si legge nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non sarà espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o messi in discussione.

GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.

Devo dire, per onestà, che il mio calvario è iniziato nel momento in cui ho incominciato la mia pratica forense. A tal proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua e veritiera, mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula non corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche, che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi. Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero “Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento, contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato. A dar loro manforte, sempre nelle commissioni d’esame, vi erano e vi sono i magistrati che io ho denunciato per le loro malefatte.

Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati, me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano valutati in modo difforme.

Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000. Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce  il Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli avvocati è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà socio economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv. Pasquale Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è confermato dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997 afferma: “ E' indubbio che, nel controllo dell'esercizio della professione, si sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli Ordini e che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai professionisti già presenti sul mercato.”

Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001, 36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame, perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello, si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei; Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce, eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR, con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che obbliga ad  accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato, garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del 1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza. Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza non si è degnata di sentirmi.

Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame. A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di Avvocato,  mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data 03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche, di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però, acclamata  istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per abuso d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad essere Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma è allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura, il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando, l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR. Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle spese di giudizio?” 

Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale, ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni. Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi. Il Tar di Salerno, Ordinanza n.1474/2006, conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che l’esame forense è truccato. I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti perché non vi è stato tempo sufficiente, perché non vi sono correzioni,  perché mancano le motivazioni ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti, anche in presenza di compiti copiati e non annullati. Si è presentata l’ulteriore denuncia a Trento e a Potenza. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45, 11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame. Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari, in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno 15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese, in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione; giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta esposto penale contro le commissioni di  Palermo, Lecce, Bari, Venezia, presso le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari, Venezia, Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente, iscrivendo il procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente indicati i 5 nomi dei Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce disertano in modo assoluto l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in altre Corti di Appello vi è stata ampia adesione, che ha portato a verificare, comparando, modi e tempi del sistema di correzione. Il tutto a confermare le illegalità perpetrate, che rimangono impunite.

Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte: le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari, per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato: insabbiamento dell’inchiesta.

Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6 pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno, per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria. Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica, risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi, senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane, viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”: la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la decadenza per il ricorso al Tar.

Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’ la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko. Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta. Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il provvedimento non è mai arrivato.  Intanto il Ministro della Giustizia nomina ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25 anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria: non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti. Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che, venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato). Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato perché scrive e dice tutto quello che si tace.

Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv. Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”. Antonio De Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si sente dire dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni denunciate, successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel procedimento 1240/2011, in cui si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei giudizi (come in allegato), il TAR rigetta il ricorso del presente istante, riferendosi alla sentenza della Corte Costituzionale, oltre ad addurre, pretestuosamente, motivazioni estranee ai punti contestati (come si riscontra nella comparazione tra le conclusioni e il dispositivo in allegato). Lo stesso TAR, invece, ha disposto la misura cautelare per un ricorso di altro candidato che contestava un solo motivo, (procedimento 746/2009). Addirittura con ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza cautelare entrando nel merito dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.

Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012. Tutto come prima. Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv. Nicola Stefanizzo, Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione: Salerno. Dal sito web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le statistiche dell'anno 2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533 Femmine 744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti 1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304; non Ammessi dalla Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata denuncia penale a tutte le procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie di nomina della Commissione centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di Palermo, in quanto questa ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del Dr Antonio Giangrande, dando un 25 senza motivazione agli elaborati non corretti. Contestualmente si è denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il ricorso indicanti molteplici punti di nullità al giudizio dato ai medesimi compiti. Oltretutto motivi sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso Tar ha ritenuto ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta valutando il merito degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un giudizio sull’operato di un certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è affinata trovando sponda istituzionale. La Corte Costituzionale il 7 giugno 2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il giudizio non motivato, basta il voto. Alla faccia della trasparenza e del buon andamento e della legalità. Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. D'altronde la Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar può sindacare i loro giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico, mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si allontana sempre più da un certo modo di fare informazione. Il fatto che io non trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il fatto che i miei scritti sono letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la verità, se non quella prona al potere. Dopo 15 anni, dal 1998 ancora una volta bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame sia uguale a quello della magistratura (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni), del notariato (tracce già svolte), dell’insegnamento accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti grandi e piccoli concorsi nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate (inizio dell’esame con ore di ritardo e con il compito già svolto) e del concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio. Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove, tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il peggio di sé: censura ed omertà. Per qualcuno forse è meglio che a me non sia permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi, magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i concorsi truccati in qualità di commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei 10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte, non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di Giovanni Vantaggiato, autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa. L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché l’esasperazione della gente non travolga i giornalisti, come sedicenti operatori dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E gli operatori dell’informazione se non se ne sono accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì a ricordarglielo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è chiaro che si annida. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Quindi abolizione dei concorsi truccati e liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero mercato a decidere chi merita di esercitare la professione in base alle capacità e non in virtù della paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la nostra battaglia ed abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in tanti a testimoniare il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei perdenti, inviti altri ad aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo essere migliaia e contare politicamente per affermare la nostra idea. Generalmente si è depressi e poco coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di un concorso pubblico. Se già sappiamo che è truccato, vuol dire che la bocciatura non è a noi addebitale. Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci attraverso facebook. Se siamo in tanti saremo appetibili e qualcuno ci rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci rappresenteremo da soli. Facciamo diventare questo dissenso forte di migliaia di adesioni. Poi faremo dei convegni e poi delle manifestazioni. L'importante far sapere che il candidato perdente non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere una nuova classe dirigente capace e competente.

Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti, Principe del Foro di Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo con una semplice soluzione: il posto assegnato. Ma ciò non ha evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare da fonti non autorizzate o da compiti stilati forse da qualche commissario, oppure smascherato perché scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito di auricolare. Peccato per loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così come hanno fatto al loro esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è inutile ogni tentativo di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono presentati alla Nuova Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di abilitazione forense 2012. I candidati si sono presentati all'ingresso del secondo padiglione della Fiera sin dalle prime ore del mattino, perchè a Roma c'è l'obbligo di consegnare i testi il giorno prima, per consentire alla commissione di controllare che nessuno nasconda appunti all'interno. A Lecce sono 1.341 i giovani (e non più giovani come me) laureati in Giurisprudenza. Foro competente alla correzione: Catania. Un esame di Stato che è diventato un concorso pubblico, dove chi vince, vince un bel niente. Intanto il mio ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro la valutazione insufficiente data alle prove scritte della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben altre due sessioni successive, il cui esito è identico ai 15 anni precedenti: compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo, in quanto dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non dai singoli commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che magari sono anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata da un intero sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e corretto, ma lo si affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al mondo. Per raccontare, insomma, una realtà sottaciuta ed impunita. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.  A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME? Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi. La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato? «Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati. Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465). E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati.  Naturalmente anche in questa sessione un altro tassello si aggiunge ad inficiare la credibilità dell’esame forense. "La S.V. ha superato le prove scritte e dovrà sostenere le prove orali dinanzi alla Sottocommissione". "Rileviamo che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali". Due documenti, il secondo contraddice e annulla il primo (che è stato un errore), sono stati inviati dalla Corte di Appello di Lecce ad alcuni partecipanti alla prova d’esame per diventare avvocato della tornata 2013, sostenuta nel dicembre scorso. Agli esami di avvocato della Corte di Appello di Lecce hanno partecipato circa mille praticanti avvocati e gli elaborati sono stati inviati per la correzione alla Corte di Appello di Palermo. (commissari da me denunciati per concorsi truccati già in precedente sessione). L’errore ha provocato polemiche e critiche sul web da parte dei candidati. La vicenda sembra avere il sapore di una beffa travestita da caos burocratico, ma non solo. Che in mezzo agli idonei ci siano coloro che non debbano passare e al contrario tra gli scartati ci siano quelli da far passare? E lì vi è un dubbio che assale i malpensanti. Alle 17 del 19 giugno nella posta di alcuni candidati (nell’Intranet della Corte di Appello) è arrivata una comunicazione su carta intestata della stessa Corte di Appello, firmata dal presidente della commissione, avvocato Luigi Covella, con la quale si informava di aver superato "le prove scritte" fissando anche le date nelle quali sostenere le prove orali, con la prima e la seconda convocazione. Tre ore dopo, sul sito ufficiale corteappellolecce.it, la smentita con una breve nota. "Rileviamo – è scritto – che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali. Le predette comunicazioni e convocazioni non hanno valore legale in quanto gli esiti delle prove scritte non sono stati ancora pubblicati in forma ufficiale. Gli esiti ufficiali saranno resi pubblici a conclusione delle operazioni di inserimento dei dati nel sistema, attualmente ancora in corso". Sui forum animati dai candidati sul web è scoppiata la protesta e in tanti si sono indignati. "Vergogna", scrive Rosella su mininterno.net. "Quello che sta accadendo non ha precedenti. Mi manca soltanto sapere di essere stato vittima di uno scherzo!", puntualizza Pier. Un candidato che si firma Sicomor: "un classico in Italia... divertirsi sulla sorte della povera gente! poveri noi!". Un altro utente attacca: "Si parano il c... da cosa? L’anno scorso i risultati uscirono il venerdì sera sul profilo personale e poi il sabato mattina col file pdf sul sito pubblico della Corte! La verità è che navighiamo in un mare di poca professionalità e con serietà pari a zero!". Frank aggiunge: "Ma come è possibile una cosa simile stiamo parlando di un concorso!". Il pomeriggio di lunedì 23 giugno 2014 sono stati pubblicati i nomi degli idonei all’orale. Quelli “giusti”, questa volta. E dire che trattasi della Commissione d’esame di Palermo da me denunciata e della commissione di Lecce, da me denunciata. Che consorteria tra toghe forensi e giudiziarie. Sono 465 i candidati ammessi alla prova orale presso la Corte di Appello di Lecce. E' quanto si apprende dalla comunicazione 21 giugno 2013 pubblicata sul sito della Corte di Appello di Lecce. Il totale dei partecipanti era di 1.258 unità: la percentuale degli ammessi risulta pertanto pari al 36,96%. Una percentuale da impedimento all’accesso. Percentuale propria delle commissioni d’esame di avvocato nordiste e non dell’insulare Palermo. Proprio Palermo. Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».

Sessione d’esame d’avvocato 2014-2015. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco De Jaco, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Sede di Corte d’appello sorteggiata per la correzione è Brescia. Mi tocca, non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria, dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Io dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a lui di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. A Bari avrebbero tentato di agevolare la prova d'esame di cinque aspiranti avvocati ma sono stati bloccati e denunciati dai Carabinieri, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È accaduto nella Fiera del Levante di Bari dove è in corso da tre giorni l'esame di abilitazione professionale degli avvocati baresi. In circa 1500 hanno sostenuto le prove scritte in questi giorni ma oggi, ultimo giorno degli scritti, i Carabinieri sono intervenuti intercettando una busta contenente i compiti diretti a cinque candidati. Un dipendente della Corte di Appello, con il compito di sorvegliante nei tre giorni di prova, avrebbe consegnato ad una funzionaria dell'Università la busta con le tracce. Lei, dopo alcune ore, gli avrebbe restituito la busta con all'interno i compiti corretti e un biglietto con i cinque nomi a cui consegnare i temi. Proprio nel momento del passaggio sono intervenuti i Carabinieri, che pedinavano la donna fin dal primo giorno, dopo aver ricevuto una segnalazione. Sequestrata la busta i militari hanno condotto i due in caserma per interrogarli. Al momento sono indagati a piede libero per la violazione della legge n. 475 del 1925 sugli esami di abilitazione professionali, che prevede la condanna da tre mesi a un anno di reclusione per chi copia. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dal pm Eugenia Pontassuglia, verificheranno nei prossimi giorni la posizione dei cinque aspiranti avvocati destinatari delle tracce e quella di altre persone eventualmente coinvolte nella vicenda. Inoltre tre aspiranti avvocatesse (una è figlia di due magistrati), sono entrate nell’aula tirandosi dietro il telefono cellulare che durante la prova hanno cercato di utilizzare dopo essersi rifugiate in bagno. Quando si sono rese conto che sarebbero state scoperte, sono tornate in aula. Pochi minuti dopo il presidente della commissione d’esame ha comunicato il ritrovamento in bagno dei due apparecchi ma solo una delle due candidate si è fatta avanti, subito espulsa. L’altra è rimasta in silenzio ma è stata identifica. Esame per avvocati, la banda della truffa: coinvolti tre legali e due dirigenti pubblici. Blitz dei carabinieri nella sede della Finanza. E la potente funzionaria di Giurisprudenza sviene, scrive Gabriella De Matteis e Giuliana Foschini su “La Repubblica”. Un ponte telefonico con l'esterno. Tre avvocati pronti a scrivere i compiti. Un gancio per portare il tutto all'interno. Sei candidati pronti a consegnare. Era tutto pronto. Anzi era tutto fatto. Ma qualcosa è andato storto: quando la banda dell'"esame da avvocato" credeva che tutto fosse andato per il verso giusto, sono arrivati i carabinieri del reparto investigativo a fare saltare il banco. E a regalare l'ennesimo scandalo concorsuale a Bari. E' successo tutto mercoledì 17 dicembre 2014 pomeriggio all'esterno dei padiglioni della Guardia di finanza dove stava andando in scena la prova scritta per l'esame da avvocato. Mille e cinquecento all'incirca i partecipanti, divisi in ordine alfabetico. Commissione e steward per evitare passaggi di compiti o copiature varie. Apparentemente nulla di strano. Apparentemente appunto. Perché non appena vengono aperte le buste e lette le tracce si comincia a muovere il Sistema scoperto dai carabinieri. Qualcuno dall'interno le comunica a Tina Laquale, potente dirigente amministrativo della facoltà di Giurisprudenza di Bari. E' lei a girarle, almeno questo hanno ricostruito i Carabinieri, a tre avvocati che avevano il compito di redigere il parere di civile e di penale e di scrivere l'atto. Con i compiti in mano la Laquale si è presentata all'esterno dei padiglioni. All'interno c'era un altro componente del gruppo, Giacomo Santamaria, cancelliere della Corte d'Appello che aveva il compito di fare arrivare i compiti ai sei candidati che all'interno li aspettavano. Compiti che sarebbero poi stati consegnati alla commissione e via. Ma qui qualcosa è andato storto. Sono arrivati infatti i carabinieri che hanno bloccato tutto. Laquale è svenuta, mentre a lei e a tutte quante le altre persone venivano sequestrati documenti e soprattutto supporti informatici, telefoni in primis, che verranno analizzati in queste ore. Gli investigatori devono infatti verificare se, come sembra, il sistema fosse da tempo organizzato e rodato, se ci fosse un corrispettivo di denaro e la vastità del fenomeno. Ieri si è tenuta la convalida del sequestro davanti al sostituto procuratore, Eugenia Pontassuglia. Ma com'è chiaro l'indagine è appena cominciata. Per il momento viene contestata la truffa e la violazione di una vecchia legge del 1925 secondo la cui "chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito". È molto probabile infatti che l'esame venga invalidato per tutti. Certo è facile prendersela con i poveri cristi. Le macagne nelle segrete stanze delle commissioni di esame, in cui ci sono i magistrati, nessuno va ad indagare: perché per i concorsi truccati nessuno va in galera. Concorsi, i figli di papà vincono facile: "E noi, figli di nessuno, restiamo fuori". L’inchiesta sul dottorato vinto dal figlio del rettore della Sapienza nonostante l'uso del bianchetto ha raccolto centinaia di commenti e condivisioni. E ora siamo noi a chiedervi di raccontarci la vostra storia di candidati meritevoli ma senza parenti eccellenti. Ecco le prime due lettere arrivate, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A chi figli, e a chi figliastri: è questa la legge morale che impera in Italia, il Paese della discriminazione e delle corporazioni. Dove va avanti chi nasce privilegiato, mentre chi non vanta conoscenze e relazioni rischia, quasi sempre, di arrivare ultimo. Alla Sapienza di Roma l’assioma è spesso confermato: sono decine i parenti di professori eminenti assunti nei dipartimenti, con intere famiglie (su tutte quella dell’ex rettore Luigi Frati) salite in cattedra. A volte con merito, altre meno. La nostra inchiesta sullo strano concorso di dottorato vinto dal rampollo del nuovo magnifico Eugenio Gaudio, al tempo preside di Medicina, ha fatto scalpore: la storia del compito “sbianchettato” (qualsiasi segno di riconoscimento è vietato) e la notizia del singolare intervento dei legali dell’università (hanno chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, che ha invitato la Sapienza a “perdonare” il candidato ) hanno fatto il giro del web. Il pezzo è stato condiviso decine di migliaia di volte, con centinaia di commenti (piuttosto severi) di ex studenti e docenti dell’ateneo romano. Tra le decine di lettere arrivate in redazione, due sono metafora perfetta di come la sorte possa essere diversa a seconda del cognome che si porta. Livia Pancotto, 28 anni, laureata in Economia con 110 e lode, spiega che la storia del pargolo di Gaudio le ha fatto «montare dentro una rabbia tale da farmi scrivere» poche, infuriate righe. «Nel 2012, dopo la laurea, decisi di partecipare al concorso per il dottorato in Management, Banking and Commodity Sciences, sempre alla Sapienza», scrive in una lettera a “l’Espresso”. «Dopo aver superato sia l’esame scritto che l’orale ricevetti la buona notizia: ero stata ammessa, sia pure senza borsa». Dopo un mese, però, la mazzata. «Vengo a sapere dal professore che il mio concorso è stato annullato, visto che durante lo scritto ho utilizzato il bianchetto. Come nel caso del figlio del rettore Gaudio, nessuno aveva specificato, prima dell’inizio del compito, che il bando prevedesse che si potesse usare solo una penna nera». Se per il rampollo dell’amico che prenderà il suo posto il rettore Frati mobiliterà i suoi uffici legali, la Pancotto viene silurata subito, senza pietà. Oggi la giovane economista vive in Galles, dove ha vinto un dottorato con borsa all’università di Bangor. Anche la vicenda di Federico Conte, ora tesoriere dell’Ordine degli psicologi del Lazio, è paradossale. Dopo aver completato in un solo anno gli esami della laurea specialistica nel 2009, la Sapienza tentò di impedire la discussione della sua tesi. «Mi arrivò un telegramma a firma di Frati, dove mi veniva comunicato l’avvio di una “procedura annullamento esami”: il magnifico non era d’accordo nel farmi laureare in anticipo, ed era intenzionato a farmi sostenere gli esami una seconda volta». Conte domandò all’ateneo di chiedere un parere all’Avvocatura, ma senza successo. Il giovane psicologo fu costretto a ricorrere al Tar, che gli diede ragione permettendogli di laurearsi. «Leggendo la vostra inchiesta ho la percezione di un’evidente diversità di trattamento rispetto al figlio del rettore. Provo un certo disgusto nel constatare come le nostre istituzioni siano così attente e garantiste con chi sbianchetta, mentre si accaniscano su chi fa il proprio dovere». Magari pure più velocemente degli altri. Ma tant’è. Nel paese dove i figli “so’ piezz’ e core”, la meritocrazia e l’uguaglianza restano una chimera. Anche nelle università, luogo dove - per antonomasia - l’eccellenza e il rigore dovrebbero essere di casa. Se poi l’Esame di Avvocato lo passi, ti obbligano a lasciare. Giovani avvocati contro la Cassa Forense. Con la campagna "'Io non pago e non mi cancello". I giuristi più giovani in rivolta sui social network per la regola dei minimi obbligatori, che impone contributi previdenziali intorno ai 4 mila euro annui alla cassa indipendentemente dal reddito. Così c'è chi paga più di quello che guadagna. E chi non paga si deve cancellare dall'Albo, venendo escluso dalla categoria, scrive Antonio Sciotto su “L’Espresso”. Chi pensa ancora che la professione di avvocato sia garantita e ben retribuita dia in questi giorni uno sguardo attento ai social network. Twitter e Facebook da qualche giorno sono inondati da 'selfie' che raccontano tutta un'altra storia. "Io non pago e io non mi cancello" è lo slogan scelto dai giovani legali per la loro rivolta contro i colleghi più anziani e in particolare contro la regola dei "minimi obbligatori", che impone di pagare i contributi previdenziali alla Cassa forense in modo del tutto slegato dal reddito. Molti spiegano che la cifra minima richiesta – intorno ai 4 mila euro annui - è pari o a volte anche superiore ai propri redditi. E visto che se non riesci a saldare, devi cancellarti non solo dalla Cassa, ma anche dall'albo professionale. Il risultato è che ad esercitare alla fine restano tendenzialmente i più ricchi, mentre chi fa fatica ad arrivare a fine mese viene di fatto espulso dalla categoria. E' vero che per i primi 8 anni è prevista una buona agevolazione per chi guadagna sotto i 10 mila euro l'anno, ma al pari le prestazioni vengono drasticamente ridotte. Per capirci: è come se l'Inps chiedesse a un operaio e a un dirigente una stessa soglia minima di contributi annui, non calcolata in percentuale ai loro redditi. Mettiamo 5 mila euro uguali per tutti: salvo poi imporre la cancellazione dall'ente a chi non riesce a saldare. "Dovrei salassarmi oggi per ricevere un'elemosina domani – protesta Antonio Maria - mentre i vecchi tromboni ottantenni si godono le loro pensioni d'oro, non pagate, conquistate avendo versato tutta la vita lavorativa (ed erano altri tempi) il 10 per cento ed imponendo a me di pagare il 14 per cento". "Il regime dei cosiddetti minimi è vergognoso – aggiunge Rosario - Pretendere che si paghi 'a prescindere' del proprio reddito è una bestemmia giuridica. Basta furti generazionali. Basta falsità". Uno dei selfie addirittura viene da un reparto di emodialisi, a testimoniare la scarsa copertura sanitaria assicurata ai giovani professionisti. La protesta si è diffusa a partire dal blog dell'Mga - Mobilitazione generale avvocati , ha un gruppo facebook pubblico dove è possibile postare i selfie, mentre su Twitter naviga sull'onda dell'hashtag #iononmicancello. La battaglia contro le casse previdenziali non è nuova, se consideriamo gli avvocati una parte del più vasto mondo delle partite Iva e degli autonomi: già da tempo Acta, associazione dei freelance, ha lanciato la campagna #dicano33, contro il progressivo aumento dei contributi Inps dal 27 per cento al 33 per cento, imposto dalla legge per portarli al livello dei lavoratori dipendenti. Il regime dei minimi obbligatori della Cassa forense non solo darebbe luogo a una vera e propria "discriminazione generazionale", ma secondo molti giovani avvocati sarebbe anche incostituzionale, come spiega efficacemente Davide Mura nel suo blog: "E' palesemente in contrasto con l'articolo 53 della Costituzione, che sancisce il principio della progressività contributiva. Ma si viola anche l'articolo 3, quello sull'uguaglianza davanti alla legge, perché le condizioni cambiano a seconda se stai sopra o sotto i 10 mila euro di reddito annui". La soluzione? Secondo l'Mga sarebbe quella di eliminare l'obbligo dei minimi e passare al sistema contributivo, come è per tutti gli altri lavoratori. Vietando possibilmente agli avvocati già in pensione di poter continuare a esercitare. Un modo insomma per far sì che i "tromboni" lascino spazio ai più giovani.

IL MONDO SEGRETO DELLE LOBBIES.

Ecco l'Italia che trasforma il Tricolore in uno straccio. La bandiera nazionale va esposta per legge davanti a scuole e uffici pubblici. Ma nessuno se ne cura. E lo spettacolo è avvilente, scrive Nino Materi su “Il Giornale”. L'Italia è l'unico Paese al mondo in cui la Bandiera nazionale, invece che garrire al vento, rantola in aria. Come un impiccato sul pennone più alto. Tanto in alto che nessuno si premura di prendersene cura. Triste, tristissima la vita del nostro glorioso Tricolore: tradizionale simbolo di (dis)amor di Patria. Un vessillo di cui ci ricordiamo solo in occasione dei Mondiali di calcio, almeno quelli in cui gli Azzurri non fanno figuracce. Ma poi nella vita di tutti i giorni il vessillo Bianco, Rosso e Verde tende a virare in commedia, assumendo i toni del bianco, rosso e verdone. Un film tragicomico (più tragico che comico) che va «in onda» quotidianamente su ogni edificio pubblico: scuole, biblioteche e uffici. Da Nord a Sud l'Unità d'Italia è fatta, ma si incarna in quel pezzo di stoffa che viene vergognosamente esposto alla stregua di uno straccio con cui si è appena smesso di fare le pulizie. E dire che nella Costituzione figura un preciso dettato normativo sancito dalla Legge 5-02-1998 n.22 e dal Dpr 07-04-2000 n. 121, il cui capo IV (punto 9) recita testualmente: «Le Bandiere vanno esposte in buono stato e correttamente dispiegate». Roba che se la violazione venisse effettivamente perseguita, dovrebbe essere denunciata la maggior parte dei funzionari statali. Non fanno eccezione neppure gli edifici sedi di istituzioni «prestigiose» come prefetture, questure, tribunali. Ma anche qui il Tricolore sventolante appare in salute come un moribondo. Non c'è spettacolo più avvilente per un cittadino orgoglioso di essere italiano che vedere la Bandiera della propria nazione ansimare sporca e stracciata. Fateci caso. Quando entrate in un ufficio alzate lo sguardo e, nove volte su dieci, sulla vostra testa vedrete curvo su se stesso un Tricolore sdrucito e sozzo. Nessun direttore, funzionario, dirigente, impiegato, segretario (fin giù a all'ultimo degli inservienti) che si ponga il problema non dico di lavare una bandiera annerita o sostituirne una a brandelli. No. Si cambiano con periodica perizia le merendine dalle macchinette degli uffici, ma del Tricolore non frega nulla a nessuno. Lui può morire d'inedia nell'indifferenza generale. Beh, quasi generale. Considerato che, almeno una persona, ha deciso di levare un urlo di dolore in difesa di un simbolo per il quale sono morti migliaia di soldati. Si tratta del Maggiore Gennaro Finizio, dell'Unuci (Unione ufficiali in congedo) che in una lettera aperta al sito Basilicata24 denuncia lo scandalo-Bandiera: «Se si vuol valutare l'orgoglio di un Popolo e pesarne il livello di diffusione e condivisione del concetto di identità nazionale, è sufficiente osservare se, ed in quale modo, espone la propria Bandiera; nel nostro caso, il Tricolore. Ebbene, le condizioni in cui sono esposte le nostre Bandiere, sulle facciate degli edifici pubblici e sedi di Istituzioni, riflettono chiaramente il livello di crisi sociale e di sfiducia, segnalando la dimensione di un Paese che ha perso i suoi punti di riferimento; un Paese impoverito nei Valori». Chi disonora il Tricolore, infanga la propria Storia. E poi: «Non sfuggirà, all'osservatore attento, che un po' ovunque sono presenti Tricolori laceri, sporchi e, nella migliore delle situazioni, esposti in modo errato; Bandiere offese indecorosamente sino al punto da sembrare private della forza di sventolare. Come si legge questo degrado sociale? Abbiamo, forse, perso la nostra dignità e la volontà di sentirci orgogliosamente italiani? Forse non crediamo più nel nostro simbolo, perché derubricato a semplice icona della Nazionale di calcio?». Il Maggiore Finizio prova anche a dare delle risposte: «Temo che tutto questo sia da ascrivere a semplice, ma deleteria, incuria e mancanza di sensibilità. Quella stessa sensibilità che troviamo ad esempio negli statunitensi, negli inglesi, francesi e tedeschi». Da noi, invece, fino a qualche tempo fa, l'ex leader della Lega poteva impunemente urlare in piazza contro una signora che esponeva il Tricolore alla finestra: «Signora, con quella bandiera può anche pulirsi il culo...».

Un Paese invivibile, scrive Livio Caputo su “Il Giornale”. Nei due mesi scorsi mi sono dedicato a un esercizio che si è rivelato molto deprimente: ho chiesto a cinquanta amici e conoscenti quanti di loro avessero subito, negli ultimi tre anni, scippi, furti in casa o in strada, truffe, vandalismi, violenze,richieste di pizzi o tangenti, o altri “attacchi” da parte dei vari tipi di delinquenza, organizzata e non. Ebbene, il risultato è stato 47, cioè quasi il 95 cento. Tra i racconti che ho raccolto c’era di tutto e di più, perfino quello di due sedicenti dipendenti comunali che si sono introdotti con un pretesto nell’abitazione di una signora e, forse ipnotizzandola, forse drogandola, l’hanno persuasa a consegnare “spontaneamente” tutti i suoi preziosi. Comunque, il campionario dei reati subiti, che peraltro avrei potuto mettere insieme anche compulsando attentamente la cronaca nera dei giornali, era talmente vario da poterci scrivere un trattato di criminologia.  L’impressione complessiva, comunque, era che il Paese, nonostante le statistiche che danno un certo numero di reati in calo, sia sempre più fuori controllo e che un senso di insicurezza si sia ormai impadronito della maggioranza dei cittadini. Un altro dato inquietante emerso dalla mia indagine è che buona parte delle vittime ha ormai rinunciato a denunciare i reati subiti se non ci sono esigenze assicurative di mezzo. Che senso, infatti, ha perdere tempo a denunciare il furto di una bicicletta, lo scippo subito in un parco, una casa svuotata dagli zingari, quando le possibilità di recuperare la refurtiva sono pari a zero? E, comunque, che soddisfazione ricava il cittadino se l’autore del reato, nell’ipotesi remota che venga individuato e arrestato, viene poi subito messo in libertà, libero di reiterare il suo crimine anche l’indomani? O, se anche viene processato, se la cava con pene lievi con la condizionale, o esce comunque di galera assai prima di quanto dovrebbe per condoni, buona condotta, eccessivo affollamento delle carceri o quant’altro? Una delle mie interlocutrici si è particolarmente infuriata leggendo che una donna rom che l’aveva derubata è stata arrestata – mi pare – una dozzina di volte e sempre rilasciata. In effetti, una delle cause principali per cui non solo aumenta la delinquenza nazionale, ma bande di ladri, rapinatori e scassinatori arrivano da ogni parte d’Europa per operare nel nostro Paese è la quasi impunità di cui, alla fine, finiscono di godere. Come reagiamo di fronte a questi fenomeni, che ci rendono tutti più timorosi e insicuri?  Riducendo i mezzi a disposizione delle forze dell’ordine, abbastanza numerose se confrontate con quelle degli altri grandi Paesi occidentali, ma spesso impegnate in altre funzioni, come le scorte a politici, ex politici e compagnia cantante, che li distolgono dai loro compiti primari. Depenalizzando una serie di reati cosiddetti minori, che in realtà colpiscono la cittadinanza nella sua esistenza quotidiana anche peggio di altri. Svuotando periodicamente le carceri perché eccessivamente affollate e non in grado di garantire i diritti dei detenuti, invece di costruirne di nuove o utilizzando quelle già esistenti, ma lasciate vuote per carenza di guardie penitenziarie. Tenendoci gli innumerevoli stranieri che delinquono (la loro percentuale tra i detenuti è molto superiore a quella degli italiani) invece di espellerli appena espiata la pena. Se la percentuale di cittadini carcerati rispetto alla popolazione è metà di quella della Francia e della Gran Bretagna e addirittura un decimo di quella degli Stati Uniti non ci si può poi meravigliare se il tasso di delinquenza, denunciata e non denunciata, è così alto. Un altro scandalo è quello dello scarsissimo numero di cosiddetti colletti bianchi, e in particolare di esponenti di rilievo della burocrazia e della finanza, anche accusati di reati infamanti, di furti e truffe milionari o di reati particolarmente dannosi per la comunità che finiscono effettivamente in galera. Tra appelli, prescrizioni, condoni, sono pochissimi, e nei (rari) casi in cui ciò avviene fa addirittura notizia. La maggior parte, anche se, sulla carta, condannata ad anni di reclusione, continua a godersi la vita in perfetta libertà, con un effetto negativo sulla credibilità della giustizia, specie tra i giovani, che può riuscire devastante. La durata infinita dei processi, e i mille cavilli che la nostra legislazione consente di usare agli avvocati difensori, non fanno che rendere la situazione ancora più insostenibile. Potrei continuare per pagine e pagine, riprendendo episodi incredibili che si incontrano quasi ogni giorno sui giornali, ma sarebbe superfluo. La conclusione sarebbe comunque la stessa, che la qualità della vita dei cittadini onesti va continuamente peggiorando. Ricordo che, ormai molti anni fa, un mio amico inglese, corrispondente di un grande giornale da Roma, soleva dirmi:”Il vostro è il Paese in cui si vive meglio in Europa, basta non avere a che fare con l’autorità (intendendo fisco, burocrazia, vigili, tribuanli, ecc.). Oggi non è più vero. Bisogna aggiungere “….se si ha la fortuna, sempre più rara, di non imbattersi in qualche malfattore”.

I nuovi mostri dei Soliti Idioti "L'Italia? Un inferno da ridere". Biggio e Mandelli rivisitano Dante nel film: «Abbiamo raccontato con affetto le deformità di ciascuno di noi», scrive Cinzia Romani su “Il Giornale”. Nati non foste a viver come bruti. Lo rammentano i Soliti Idioti con la rappresentazione plastica degli abominevoli peccati italiani al giorno d'oggi. Tipo abbruttirsi al bar alle otto di mattina, uccidere per questioni di traffico all'ora di punta, travolgere gli altri al supermercato, stare sempre connessi o farsi irretire dalla pubblicità invasiva. Per forza, poi, ci vuole il Ministero della Bruttezza a dirimere le controversie dei consumatori di laidume. Così col loro terzo film, La solita Commedia. Inferno (da giovedì in sala), Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli puntano alla versione 2.0 de I nuovi mostri , accatastando sketch e personaggi come in pista sul web, dal quale provengono. Pur essendo relativamente giovani (Biggio è classe '74, Mandelli è del '79), gli infernali registi, qui in tandem con Martino Ferro, nonché protagonisti e sceneggiatori d'un racconto corale, rimpiangono il passato. Quando si usava il telefono a gettoni, come fa Minosse (Mandelli) per chiamare il suo superiore, un Dio che tracanna whiskey e fuma. O quando si picchiavano i tasti della macchina per scrivere, come fa un tenente (Biggio), pronto a scagionare due poliziotti dal reato di abuso di potere nei confronti d'una macchinetta che non dà resto. Perché prima era tutto più bello, ancora non ci aveva invasi la Grande Bruttezza: altro che Isis. Siamo dalle parti della surrealtà più dichiarata, con tanti attori che interpretano dai 21 ai 7 ruoli a testa per raccontare una società malata. E c'è pure Tea Falco, già musa di Bertolucci, nei panni d'un Gesù tosto, quando sequestra a un precario di nome Virgilio (ancora Biggio) i suoi attributi. Che riavrà se accompagnerà Dante (ancora Mandelli) a catalogare i nuovi peccati commessi sulla terra, segnatamente a Milano, postaccio caotico zeppo di hackers, pornomani e tecno-incontinenti. «Volevamo raccontare con affetto l'Italia e gli italiani. E la mostruosità di ognuno di noi, guardando a I nuovi mostri », dice Biggio. Ironia a parte, alcune categorie vengono prese di petto. Quella dei poliziotti, per esempio, raffigurati come paranoici violenti. Diverte l'interrogatorio stile Csi della macchinetta del caffè, rea di non rendere gli spicci ai piedipiatti, ma fa pensare a un certo tipo di giudizio. «Ci piace provocare e dar fastidio, però non vogliamo descrivere tutta la polizia così. Come ci piace l'idea d'un Dio indaffarato nei suoi casini. Il nostro padre Pio, non me ne voglia Castellitto, è il migliore. Non temiamo le risposte dei cattolici», spiega Mandelli. E in effetti, l'idea d'intruppare i santi in una specie di Camera, a decidere come procedere per catalogare nuovi peccati terreni, non è male. «Ci piace forzare il pubblico, vedere come rispondono i cattolici», butta lì Biggio. Di sicuro, il duo comico è maturato e cerca un nuovo sbocco. «Ci avevano proposto di fare il terzo film dei Soliti idioti , ma ci siamo messi alla prova con una cosa diversa. Chi fa il nostro mestiere, cerca sempre di uscire dalla zona comfort. Come abbiamo fatto a Sanremo: stare su quel palco, è stata una sfida», puntualizza Mandelli. Colpisce, a ogni modo, che per smarcarsi dall'ennesima commedia all'italiana, i Soliti Idioti abbiano realizzato un'idea semplice e geniale: sciorinare i più brutti vezzi italioti contemporanei, in stile Nanni Loy, dopo aver riferito tic e nevrosi del Bel Paese nei loro lavori precedenti. È andato in questo senso pure Maccio Capatonda con Italiano medio e non a caso il duo pensa a una collaborazione col comico abruzzese. Costato 3 milioni e finanziato pure dalla Film Commission del Lazio (la maggior parte delle scene, tuttavia, si svolge a Milano),il film è prodotto dalla Wildside di Mario Gianani, marito della Madia e di Lorenzo Mieli, figlio di Paolo. E non a caso il Ministero della Bruttezza Biggio&Mandelli lo affiderebbero «a Gasparri, Alfano e Salvini», che non è gente di sinistra.

L’italiano medio è volgare e squallido, ma diverte. La recensione di Marita Toniolo su “Best Movie”. Sbarca al cinema l’opera prima del comico Maccio Capatonda, che vuole farci ridere e vergognare di come siamo diventati. Dopo i successi stratosferici di Zalone al botteghino, si torna a puntare forte su un volto “televisivo” con Maccio Capatonda e il suo Italiano medio, prossimo a sbarcare al cinema con 400 copie al suo esordio (il 29 gennaio). Maccio Capatonda, al secolo Marcello Macchia, è un fenomeno di culto del web amatissimo dai cinefili grazie ai suoi trailer parodia: un centinaio di secondi e poco più in cui Capatonda riesce a comprimere mirabilmente genio e follia, cinefilia e non-sense, giochi di parole e travestimenti, raggiungendo una popolarità che lo ha portato a sbarcare anche su MTV con la serie Mario. Lo attendeva al varco la sfida più tosta: il lungometraggio. Riuscire a essere altrettanto esplosivo in un tempo dilatato. Italiano medio, diretto, scritto e interpretato da Maccio, è infatti lo sviluppo del finto trailer di Limitless con Bradley Cooper: due minuti, in cui era un uomo intelligente e socialmente responsabile, che assumeva una pillola che gli cambiava totalmente la vita. Parodisticamente, rispetto alla Lucy di Besson che si ritrova ad avere a disposizione il 100% del cervello, Maccio deve capire cosa riuscire a fare con solo il 2%… E proprio da questa domanda prende il via il racconto. Giulio Verme è il perfetto emblema dell’uomo socialmente impegnato: allergico alla televisione sin da bambino, avverso a ogni massificazione, vegano convinto, sempre pronto ad aiutare gli emarginati, con la fissa per l’ambiente e le scelte etiche ed ecosostenibili. Addetto allo smistamento dei rifiuti a Milano, cerca di inculcare un po’ di senso civico nei colleghi, che gli rispondono a suon di scoregge. La radicalità delle sue scelte finisce per creare un muro tra lui e le persone che lo circondano: i genitori in primis, gli amici, i vicini e persino la fidanzata Franca, esasperata dal suo atteggiamento da uomo frustrato e ostile, ma fondamentalmente passivo. Giulio si ritrova isolato e disperato, sopraffatto dal “lerciume” che lo circonda, sempre più nevrotico e ansioso. Finché nella sua vita non approda l’amico Alfonzo, un ex compagno antipatico  delle elementari che gli offre una pillola straordinaria, che gli permetterà di usare solo il 2% del cervello, invece che il 20%. La metamorfosi sarà da Dottor Jekyll e Mr Hyde: da attivista rompiscatole e fanatico, Giulio diventerà un tronista beota con il mantra fisso dello “scopare”, della disco e del lusso cafonal, volgare e ignorante, carnivoro e menefreghista, guadagnandosi – impresa becera dopo l’altra – il diritto alla partecipazione al reality show più di culto del momento. L’apoteosi dell’italiano medio. Capatonda ha messo tutto se stesso in questa opera prima e il primo punto a favore gli deriva dall’enorme cura del dettaglio che il film mostra. Nulla è lasciato al caso, a partire dagli esilaranti titoli di testa (Tratto da una storia finta), che fanno partire in quinta il film e che denunciano da subito il pedigree cinefilo dell’autore. Che ha di fatto disseminato tutto il film citazioni filmiche facili da riconoscere via via. Tuttavia, il triplo salto carpiato dai video di 1/2 minuti al lungo di 100 equivalgono a passare dallo sguazzare in una piscina a nuotare nell’oceano. C’è un traccia coerente di fondo, ma i raccordi tra una scena comica e l’altra si stiracchiano troppo, portando con sé come conseguenza negativa la reiterazione di situazioni e tormentoni per allungare il brodo (amechemmenefregame, Sant’Iddio, Scopare…). Raccontare una metamorfosi in un video di 130 secondi risulta efficace, dilatarla con un continuo sdoppiamento di personalità ed esplicitando la lotta interiore sempre più opprimente che Verme si ritrova a combattere tra i suoi istinti primari da bifolco e gli intenti nobili, produce l’effetto di frammenti anche geniali, ma non ben incollati in un mosaico coerente. Se la struttura narrativa è il punto debole più evidente di Italiano medio, va invece segnalata – come altro punto a suo favore – il peso specifico delle riflessioni, per nulla superficiali. Lo sguardo di Maccio sull’Italia e i suoi concittadini è amaro e disilluso, quasi crudele. Con un disgusto e un disprezzo maggiore di quello dello storico Fantozzi verso l’impiegato piccolo piccolo, Maccio non risparmia colpi a colti e ignoranti, ricchi e poveri, impegnati e menefreghisti. Giulio Verme sdoppiato sintetizza le sublimi vette dell’arte del compromesso toccate dell’italiano, capace di essere vegano e mangiare il pollo fritto; andare in chiesa e avere mogli e amanti; difendere il bio e inquinare. Opposti apparentemente inconciliabili, che – come vedremo nel finale – invece, per gli abitanti del Bel Paese sono assolutamente ricomponibili, abituati come siamo ad accettare obbrobri edilizi che radono al suolo parchi bio, scandali sexual-politici, indecenze cultural-mediatiche dei reality (memorabili lo scandalo del bianchino nel privè, che ha portato all’esclusione di Kevin, e la “prova pippotto”), come se fossero parte integrante e inalienabile del sistema. Maccio non ce le manda a dire, ma stigmatizza tutti i nostri vizi, costringendoci a ridere (amaramente) di essi. Come sempre, è circondato dai soliti attori fidati: l’inseparabile Herbert Ballerina, che si trasforma in tre personaggi diversi; Rupert Sciamenna, imprenditore squalo con i capelli rosa; Ivo Avido, anche lui triplice. Molti i colleghi  che si sono prestati per differenti camei: lo Zoo di 105, Raul Cremona, Andrea Scanzi, Pierluigi Pardo e il principe assoluto del non sense Nino Frassica. L’impiego degli stessi attori in più ruoli e con costumi diversi, pur se giustificato dal surrealismo che ìmpera, genera spesso un effetto cabaret innestato nel cinema che non giova alla dimensione estetica del film. Sebbene gli vada anche riconosciuta una fotografia curata (di Massimo Schiavon), che alterna colori diversi quando la personalità di Giulio cambia, non abbiamo sempre la sensazione di trovarci di fronte a un film tout court, limite più forte dei comici italiani importati dalla Tv. Eppure, pensiamo che l’opera prima di Maccio vada premiata (anche per incoraggiamento, affinché continui a perfezionarsi, per giungere a una scrittura più equilibrata), perché regala sane risate, momenti di genio surreale (il folle “piano” finale degli attivisti) ed è una satira feroce che invita alla riflessione, come non accadeva da tempo in un film comico italiano. Da Rodotà-tà-tà a onestà-tà-tà, viaggio pre-Quirinale nella spaesata piazza grillina senza capo né nome, scrive Marianna Rizzini su “Il Foglio”. Da Rodotà-ta-tà a onestà-tà-tà. Dopo quasi due anni di Parlamento e alla vigilia di una nuova elezione presidenziale, la piazza a Cinque Stelle parla d'altro ( la "mafia capitale" da non dimenticare: da cui la pubblica lettura delle intercettazioni tratte dall'omonima inchiesta – per la gentile interpretazione di Claudio Santamaria e Claudio Gioè, attori e volti da romanzi criminali su piccolo e grande schermo). Onestà-tà-tà, dunque, al posto del nome che non si farà, non si vuole fare e non si vuole neanche ascoltare (il deputato e membro del direttorio a Cinque Stelle Alessandro Di Battista a un certo punto legge e fa leggere alla pizza la dichiarazione-gran rifiuto: caro Renzi ecco la risposta del popolo – e pare quasi di sentir parlare un robot, la famosa futuribile app che renderà possibile conversare con amici virtuali come nel film "Her" con Scarlett Johansson nella parte dell'amante fatta di web, solo che qui il tono non è suadente: lei ha già deciso, Renzi, e al Nazareno non veniamo). Onestá-tá-tá, e altre parole di un lessico chiama-applauso in una Piazza del Popolo che all'inizio era mezza vuota e percorsa da interesse per l'altrove del sabato pomeriggio: gente che faceva vedere l'acquisto da saldo e giovani rapper -break dancer con tappeto di plastica per performance estemporanea sul selciato. "La gente è arrivata", esclama una signora quando il suo wishful thinking, finalmente, diventa realtá, e arriva pure Sabina Guzzanti comica non più comica, ché, prevale, nel suo intervento, l'invettiva-imitazione in teoria civile in realtá elitaria contro Maria De Filippi, emblema del paese in cui da vent'anni, dice Guzzanti, si è perduto ogni " stimolo intellettuale", e sembra impossibile fare qualcosa: le persone colte riescono a stare insieme per combinare qualcosa, è il concetto espresso da Sabina, le persone ignoranti no. Colpa della tv, è la sentenza che alla fine dell'invettiva tutti si aspettano, e le ragazze del bar all'angolo della piazza si domandano perché mai "Sabina se la prenda con la De Filippi". Ma gli applausi a quel punto sono già stati tributati alla divinità nascosta che la piazza omaggia a intervalli regolari: l'onestà, rieccola, parola buona per tutto e piena in fondo di niente, se non della generica riprovazione per le altre bestie nere della serata (persino il rapper Fedez le dice e non le canta: corruzione, resistenza, vergogna, marciume, e mafia mafia mafia). Tutto è mafia, dicono i deputati, senatori e consiglieri comunali grillini che sfilano sul palco (Roberta Lombardi, la veterana dei primi streaming a Cinque Stelle, dice che una mattina si è svegliata e ha trovato non l'invasore ma una città che diventa proprio quello che ora, chissà perchè, tutti evitano di ricordare: il teatro della mafia capitale. La senatrice stornellista Paola Taverna, in strana inversione di ruoli con Fedez, pare quasi una rapper quando intona lo slogan degli slogan: fuori la mafia dallo Stato. Fedez invece, sempre senza cantare, dice la frase che qualcuno nel pubblico trova "un po' cosi" nel giorno in cui l'Isis decapita un altro ostaggio, di nazionalità giapponese: abbiamo il nemico in casa ma non è di fede musulmana, dice Fedez, e le grandi stragi sono di matrice italiana. Il più grande nemico  dell'Italia sono gli italiani, continua, e a quel punto l'applauso arriva, forse per riflesso condizionato (sono già due ore che gli astanti sentono dire peste e corna dell'universo mondo nazionale). "Fuori i nomi, Renzi"', grida il tribuno Di Battista, e alla fine Beppe Grillo esce per dire la stessa cosa, ma con il marchio di fabbrica: vaffanculo! (Vaffanculo e fate i nomi). Il resto è uso traslato (e a volte insensato) di termini impossibili a odiarsi: valori, costituzione, libertà, partecipazione (povero Gaber), cultura. Grillo invece parla di sottocultura, insultando qui e lì Giorgio Napolitano per non aver riconosciuto "il miracolo" a cinque stelle, anche se il miracolo Grillo se l'è sfasciato da solo. Resta solo da dire no al "Nazareno", demone antropomorfo. Ed è subito sabato sera mentre gli attivisti sbaraccano, e sulla piazza che si svuota si diffonde, incongrua, la più classica canzone dei Pink Floyd ("another brick in the wall").

È la bestia nera delle banche. "Errori nei conteggi e usura". Giovanni Battista Frescura: "Ho visto fallire bellissime aziende per insolvenze inesistenti. Le Procure archiviano le denunce perché colluse con il potere finanziario: è un cancro", scrive Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. «Tutti i conti delle banche sono sbagliati. Le prime a saperlo sono le banche stesse». Con tale premessa, s'intuisce perché Giovanni Battista Frescura, consulente tecnico nei processi sul contenzioso bancario, sia diventato la bestia nera degli istituti di credito. Quando lo denunciò, una decina d'anni fa, gli italiani disposti ad assumersi l'onere di un'affermazione così temeraria si contavano sulle dita della mano sinistra di Capitan Uncino. In pratica, lui solo. E subito ne aggiunse un'altra: «Tutte le banche hanno praticato o praticano l'usura». Era più scusabile, all'epoca, una bestemmia in duomo. A sconsacrare le chiese laiche dove la religione dei soldi celebra i suoi riti è stato Frescura, che in questo momento sta seguendo circa 200 casi di clienti presi per il collo da Bolzano a Messina. Lo ha fatto dapprima con il libro Usura e anatocismo nelle operazioni di credito finanziario e poi con un secondo tomo di 698 pagine, L'usura nei prestiti di banche e finanziarie, che nel sottotitolo in latino riprende la definizione attribuita a Carlo Magno nel capitolare di Nimega dell'anno 806, Usura est ubi amplius requiritur quam datur, si ha usura quando si richiede più di quanto si dà. Quasi 2 connazionali su 10 hanno qualche problema con le banche. La stima è di un banchiere, Dino Crivellari, amministratore delegato di Uccmb, gruppo Unicredit, che si occupa di crediti deteriorati. Per l'esattezza il contenzioso coinvolge 10 milioni di cittadini su 60. Frescura, 61 anni, residente a Valdagno (Vicenza), sposato, tre figli ormai adulti, è uno di questi. «Nel 1995 comprai una casa con un mutuo di Unicredit, poi rimborsato in 15 anni. Per ristrutturarla, chiesi un finanziamento quinquennale di 40 milioni di lire ad Antonveneta. Ebbi qualche difficoltà a pagare le rate. Dopo tre anni il debito era salito a 60 milioni. Avete sbagliato i conti, protestai, e ne restituii 40. Invece, secondo loro, l'anatocismo, cioè il calcolo degli interessi sugli interessi, pesava solo per 1 milione di lire. Per cui mi fecero un decreto ingiuntivo di 19 milioni. Con le spese legali, la somma da restituire superava addirittura i 20 che, a loro dire, ancora gli dovevo. Mi rifeci da solo i conteggi. Alla mia minaccia di denunciarli per usura, reagirono con violenza: "La quereliamo per diffamazione". Querela mai arrivata. In compenso, per un contenzioso da 10.000 euro, mi hanno venduto all'asta la casa, che ne vale 350.000. Ho denunciato per usura ed estorsione la banca, l'avvocato dell'ingiunzione, il notaio che ha gestito l'asta e anche l'acquirente. Per il momento abito ancora dentro la mia abitazione, in attesa che il tribunale di Vicenza decida chi ha torto e chi ha ragione». A differenza dei giudici, quasi tutti usciti dal liceo classico e quindi impermeabili alle formule matematiche, Frescura sa far di conto, avendo frequentato lo scientifico: «Non è un vantaggio da poco, mi creda». All'abilità contabile unisce una solida preparazione giuridica: si è laureato in giurisprudenza quando all'Università di Padova ancora insegnava Giuseppe Bettiol, docente di diritto penale che attirava l'attenzione degli studenti picchiando il bastone da passeggio sulla cattedra. Concluso un master al Politecnico di Torino, è diventato perito e consulente tecnico del tribunale di Vicenza. Si occupava di immobili messi all'asta dagli uffici giudiziari, argomento sul quale ha scritto un libro per le edizioni del Sole 24 Ore. Poi la crociata contro le banche. «Nonostante in Italia siano in corso innumerevoli inchieste penali - 300 solo nel Veneto - a carico degli istituti di credito, con centinaia di amministratori, dirigenti e funzionari coinvolti, finora le condanne pronunciate sono state appena quattro».

Cane non mangia cane, è questo che mi sta dicendo?

«Sì. Le Procure di solito archiviano con la motivazione che l'usura c'è stata però non si può dimostrare il dolo da parte della banca. Siamo arrivati all'assurdo per cui a Vicenza un caso di usura su un mutuo casa, già sanzionato in sede civile, non approda alla sentenza penale perché il Pm non sa a chi affibbiare l'imputazione. Ma come? È così difficile sapere il nome del presidente di una banca? E guardi che l'usura è un reato gravissimo».

Non lo metto in dubbio.

«Non mi riferisco all'aspetto etico. Gravissimo per le conseguenze sul reo: da 2 a 10 anni di reclusione. E nel caso delle banche sono contemplate tre aggravanti specifiche che possono portare a una condanna fino a 20 anni».

Ma le condanne scarseggiano.

«Già. A parte il caso Parmalat, in cui quattro funzionari dell'Ubs hanno patteggiato e il presidente della Banca di Roma è stato assolto in Cassazione per prescrizione. Il rappresentante italiano di Bank of America è ancora sotto processo a Parma. Nel frattempo la Svizzera, dove costui ha subìto una condanna per reati finanziari, l'ha fatto estradare dalla Slovenia e l'ha sbattuto in galera. Giusto per darle un'idea delle differenze tra la giustizia elvetica e quella italiana».

Il suo mestiere precisamente qual è?

«Aiuto i clienti ad accertare se i calcoli degli interessi presentati dalle banche sono esatti oppure no. Vado a caccia di tassi usurari e costi occulti. All'inizio lo facevo per passione civile, una forma di volontariato che è diventata un mestiere».

Lei sostiene che le banche sbagliano i conti intenzionalmente.

«È così. Vuole un piccolo esempio? Il conteggio degli interessi sui mutui va fatto con divisore 365. Invece alcune banche arrotondano a 360. È illegale. Un anno ha 365 giorni, non 360. Pensi che mostruose cifre complessive genera quest'arbitraria decurtazione».

Sarà perché tre dei miei quattro fratelli ci lavoravano, ma ho sempre pensato le banche fossero infallibili con la calcolatrice.

«Fino agli anni Novanta lo pensavano tutti, perché gli imbrogli venivano compensati dall'inflazione alta. Con l'avvento dell'euro, la gente s'è messa a leggere gli estratti conto con più attenzione e sono venuti alla luce gli imbrogli».

Che genere di imbrogli?

«L'uso piazza, l'anatocismo e l'usura. Tralascio la commissione massimo scoperto, che pure incide parecchio».

Parla ostrogoto. Andiamo per ordine. L'uso piazza che cos'è?

«Pochi sanno che tutti i contratti per i conti correnti aperti prima del 1992 erano standard. L'articolo 7 rinviava a un inesistente tasso "uso piazza" per il calcolo degli interessi a debito e a credito. Però la magistratura non l'ha mai contestato. Nel 1992 una legge ha stabilito che o nel contratto viene fissato un tasso preciso oppure va applicato il tasso legale. Questo significa che i conteggi a partire da allora, su tutti i contratti stipulati prima di 23 anni fa, vanno rifatti. Crede che le banche abbiano avvisato la clientela? All'epoca il tasso legale era del 5 per cento, mentre loro applicavano sui passivi un'aliquota dal 15 al 20 per cento».

Uno sbilancio pazzesco.

«Le dico solo questo: il mio elettrauto è andato in pensione e le tre banche con cui lavorava pretendevano da lui la restituzione di debiti per 100.000 euro. Rifatti i conteggi solo sull'ultimo decennio, perché le carte precedenti le aveva buttate via, è andato a credito. Devono dargli indietro parecchi soldi».

Veniamo all'anatocismo.

«Era ritenuto lecito nei conti correnti, ma nel 1999 la magistratura ha precisato che è vietato. Le banche lo calcolavano ogni tre mesi sugli interessi a debito e una volta l'anno su quelli a credito, quindi a svantaggio del cliente. Una legge ha stabilito che l'anatocismo è valido solo se applicato paritariamente. Per i contratti antecedenti al 2000 i conteggi sono tutti da rifare. Solo che gli istituti di credito si rifiutano di pagare anche quando perdono le cause».

Be', esiste il pignoramento.

«Lo sa come sfuggono quando il cliente lo chiede? Si fanno pignorare un assegno circolare con l'importo che dovrebbero versargli. Ma, anziché a suo favore, lo intestano alla cancelleria del tribunale. Quindi, finché non arriva la sentenza della Cassazione, il cliente non vede un euro».

Parliamo dell'usura.

«In Italia fu reintrodotta come reato penale dal codice Rocco del 1930 per punire lo sfruttamento dello stato di bisogno. Dal 1996 la tutela è estesa anche ai soggetti in stato di necessità economica o finanziaria. Ma le banche si sono prontamente autoescluse, sostenendo che la normativa non le riguardava».

Possibile che istituti quotati in Borsa, vigilati dalla Banca d'Italia e dalla Consob, si arrischino a praticare tassi fuori legge? Vuol dire che pensano di poter contare sull'impunità.

«È così. Giustizia e sistema bancario sono collusi, è questo il grande cancro».

Ma i tassi usurari vengono applicati da singoli dipendenti oppure costoro obbediscono a ordini di scuderia?

«Entrambi i casi. Vincenzo Imperatore, un ex funzionario di Unicredit, lo ha confessato in un libro, Io so e ho le prove. Ma si guarda bene dal restituire il maltolto».

Qual è il tasso d'interesse oltre il quale scatta l'usura?

«Magari ce ne fosse uno soltanto. Sono una trentina. Dipendono dall'importo in ballo e dalla categoria del prestito: mutui ipotecari, leasing, prestiti personali, cessioni del quinto, anticipi e via di questo passo. Nel primo trimestre del 2015 il più basso è quello dei mutui ipotecari a tasso variabile: 8,33. Il più alto è quello delle carte di credito revolving: 24,9. L'usura scatta sostanzialmente quando gli interessi applicati da banche e finanziarie superano del 50 per cento il tasso medio rilevato ogni tre mesi».

Rilevato da chi?

«Dovrebbe essere il ministero dell'Economia. Ma, con un abuso, ha delegato a computarlo la Banca d'Italia».

Il carnevale di Viareggio.

«No, è una guerra civile, questa dell'usura. Per non parlare della grande rapina chiamata cessione del quinto».

Di che si tratta?

«Di un prestito che il lavoratore riceve e che è garantito dallo stipendio. Fino al 2005 lo potevano chiedere solo i dipendenti pubblici, con un tasso d'interesse molto basso. Ma ora lo concedono anche al personale delle imprese private e ai pensionati, con un tasso soglia che va dal 18,55 al 19,57. Si sono infilate nel business finanziarie e mediatori senza scrupoli. Bankitalia sarebbe dovuta intervenire, ma fino al 2010 non ha mosso un dito. Nello spingere la povera gente a farsi tosare ci hanno guadagnato tutti, persino i sindacati, che ricevono cospicue provvigioni dalle banche, e l'Inps, che per ogni pratica evasa incassa 10 euro».

Conosce casi di imprenditori portati al fallimento o, peggio, al suicidio?

«Parecchi. Le banche hanno fatto fallire un orafo di Trissino che aveva 50 dipendenti. Una ditta bellissima. Ho rifatto i conteggi e ci siamo accorti che l'insolvenza non esisteva. Ma è molto difficile rimediare: il fallimento è come una sentenza passata in giudicato. Ha quasi perso il lume della ragione, poveretto».

Però anche le banche hanno problemi con la clientela insolvente. In sette anni di crisi le sofferenze hanno raggiunto i 181 miliardi di euro.

«Ma sarà vero credito? I conteggi sono stati fatti tenendo conto degli errori? Perché Unicredit ha messo prudenzialmente a bilancio un passivo di 17 miliardi di euro per cautelarsi da brutte sorprese? È l'unica banca ad averlo fatto».

Come si fa a chiudere questo buco?

«Ci vorranno dieci anni».

Esisterà pure una banca virtuosa.

«No, tutte applicano gli stessi trucchi. Le uniche sarebbero le banche arabe, che non possono compiere operazioni con gli interessi, come prescritto dal Corano, ma in Italia non le lasciano entrare».

E di che campano le banche arabe?

«Invece dei mutui, fanno vendite con patto di riscatto. La banca acquista una casa, me la consegna, per 20 anni pago l'affitto, trascorso il termine diventa mia. Non molto diverso da quanto fece Amintore Fanfani all'epoca del boom, senza bisogno degli arabi».

Il caso più clamoroso di cui s'è occupato?

«Due fratelli di Empoli che hanno dovuto chiudere un'azienda di pelletteria per colpa dell'anatocismo. Si sono ritrovati indebitati per 300.000 euro con la banca e per altri 300.000 con Equitalia. Ho rifatto i calcoli. La prima ha dovuto riconoscere d'aver praticato l'usura. Perciò s'è detta disposta a rinunciare ai 300.000 euro di credito, a versarne al fisco altri 300.000 al posto dei clienti e a offrirne 100.000 a titolo di risarcimento».

Ma lei si fida delle banche?

«Certo. Basta non chiedergli prestiti».

Quindi i nostri soldi depositati nelle banche sono al sicuro.

«Sì, perché il denaro non esiste. È una creazione normativa».

Il mondo segreto delle lobby. Negli Usa sono legittimi e radicati nella cultura nazionale, in Italia agiscono nell'ombra e in assenza di regole. Nel racconto di un "insider", ecco come i gruppi di interesse riescono a influenzare la vita politica del Paese, e, in assenza di norme chiare, rischiano di restringere il diritto di rappresentanza democratica, confondendo il legittimo lavoro dei lobbisti con quello ambiguo dei faccendieri, scrive “La Repubblica”.

Terra di nessuno in attesa di regole, scrive Carmine Saviano. L'accordo è raggiunto. Il testo è scritto. Il voto in aula è solo una formalità. Poi ecco l'emendamento dell'ultimo minuto, la modifica che non ti aspetti. E la legge passa mentre il coro pronuncia una sola parola: "Lobby". Lo abbiamo visto nell'ultimo decreto sulle liberalizzazioni: "Vincono le lobby", "perdono le lobby", "colpa delle lobby". Ne è piena la storia recente, almanaccarle tutte un'impresa: le pressioni, indebite o meno, cui sono sottoposi i decisori pubblici rappresentano un capitolo a sé della prassi politica. Aziende di stato sospettate di scrivere interi decreti - il caso Enel, smentito, sul taglio degli incentivi alle energie rinnovabili - multinazionali che finanziano in modo bipartisan, aziende che cercano di influenzare l'iter dei provvedimenti. Ordini professionali con il loro "paladini" tra i parlamentari. E poi tassisti, case farmaceutiche, operatori del gioco d'azzardo. Una terra di nessuno, quella dei rapporti tra politica e lobby. Di nessuno perché nessuno l'ha mai regolata: in Italia non esiste una legge per questi rapporti. Una zona grigia in cui solo il 20% - i dati sono di una ricerca ancora inedita dell'Università Unitelma Sapienza - delle attività di lobbying è parzialmente in chiaro, riconducibile a determinati soggetti: dalle società di lobbying ai lobbisti in house, i rappresentanti di grandi gruppi economici, pubblici o privati. Il restante 80% è coperto dall'ombra: qui ricostruire l'identità dei lobbisti che l'hanno generata è impossibile se non per macro-categorie: dalle società di comunicazione (circa il 60% del totale dei casi), ai grandi studi legali (il 30%) o da liberi professionisti individuali (il 10%). Ma come si svolge la giornata di un lobbista? A raccontarlo a Repubblica è Luigi Ferrata, di SEC relazioni pubbliche ed istituzionali, una delle società che opera in chiaro e che chiede al più presto una legge sui gruppi di pressione. Lo incontriamo nel suo studio, centro di Roma. Sommerso da giornali, da monitor accesi sui siti di Camera e Senato, diagrammi e grafici, telefoni che non smettono di squillare, Ferrata racconta: "Il nostro lavoro è legato all'attività del Parlamento e del governo. Durante l'approvazione della Legge di Stabilità c'è molto da fare. E nelle ultime settimane c'è stata grande attenzione sul tema delle liberalizzazioni". Si inizia raccogliendo informazioni. "Si parte con l'analisi dei provvedimenti presentati. Dopo possiamo contattare un eventuale cliente per proporre un'attività di lobbying. Ovviamente capita anche il contrario: le aziende a cui interessa sottoporre il proprio punto di vista ai parlamentari o ai membri del governo, ci chiamano e ci commissionano il lavoro". Alla fine di questa fase è tutto pronto per l'aggancio: si individuano i soggetti che possono influire sul processo decisionale e si parte alla ricerca del contatto. "Attualmente l'approccio migliore, quello più efficace, è durante la discussione nelle Commissioni: ci sono meno persone, i provvedimenti vengono discussi sul serio e c'è maggior interesse a recepire ulteriori informazioni dai soggetti che possono essere coinvolti dall'eventuale legge". Ma quello parlamentare è solo uno dei piani. Un piano secondario. Perché il reale obiettivo è l'esecutivo. Ancora Ferrata: "Qui ci si muove su due livelli: quello dei dirigenti del ministero e quello dello staff del ministro. Il nostro compito è sollecitare l'interesse, raccontare una storia, suggerire modi possibili per affrontare determinate tematiche". E dopo l'analisi dell'oggetto e l'individuazione del soggetto è tempo dell'aggancio vero e proprio. "L'approccio avviene in molti modi. Mail, telefonate, messaggi. Di solito però cerchiamo il contatto personale, magari durante un incontro in cui sappiamo che sarà presente l'uomo che ci interessa". Poi ci si siede intorno a un tavolo: "In genere si organizza un convegno sul tema d'interesse. O si pranza insieme in qualche posto". Dopo l'incontro, se si è fortunati, la posizione del portatore di interesse particolare viene "accolta" in un disegno o in una proposta di legge. Più spesso in qualche emendamento. E nell'assenza della possibilità di tracciare il lavoro del lobbista, esistono alcuni segnali che possono far comprendere se una "pressione" è stata attuata. "Non c'è un metodo per scoprire un'attività di lobbying", conclude Ferrata. "A occhio ci si può accorgere di un lavoro simile quando emergono delle posizioni trasversali che coinvolgono parlamentari di diversi schieramenti. O quando il progetto di legge presentato è molto specifico". "A occhio". Perché nel Paese dove la logica diventa ossimoro il processo che conduce alla formazione delle decisioni pubbliche non è pubblico, si può solo intuire. Non esiste un registro dei lobbisti. Ministri e politici non hanno nessun obbligo di rendere pubblici i loro incontri con rappresentanti di interessi particolari. E le porte tra grandi aziende e politica sono sempre aperte: nessuno vieta a un manager di diventare capo di gabinetto di un ministero e viceversa. Negli altri paesi il periodo di raffreddamento, il cooling off, è di due anni: in questo periodo di tempo le porte tra pubblico e privato devono restare chiuse. Perché le informazioni acquisite durante il proprio incarico governativo potrebbero essere utilizzate per favorire la propria azienda. E i rapporti costruiti al di fuori del pubblico potrebbero influenzare decisioni e scelte che riguardano la totalità dei cittadini. Eppure, una legge sul lobbying è stata spesso ricercata. Cinquantotto disegni di legge presentati nella storia della Repubblica, quasi uno all'anno: tutti lasciati marcire in attesa di finire nel dimenticatoio. Nelle ultime settimane la Commissione Affari Costituzionali del Senato, guidata da Anna Finocchiaro, sta procedendo all'esame congiunto di ben sei proposte che arrivano da tutte la parti politiche. La volontà è quella di arrivare a un testo unico da portare in aula. Perché oramai la necessità è stringente: stabilire quelle regole in grado di eliminare ogni ambiguità nel rapporto tra chi decide e chi si batte per portare al tavolo delle decisioni interessi determinati e particolari. L'obiettivo delle proposte di legge è dare un abito giuridico a chi ogni settimana compie il proprio pellegrinaggio nel Transatlantico di Montecitorio e nelle sale d'attese delle aule delle Commissioni Parlamentari. A chi incontra, giorno dopo giorno, decine di deputati, senatori, dirigenti dei ministeri, staff dei capi dei dicasteri. Distinguere, insomma: mettere dei paletti che possano aiutare a tracciare una linea di separazione tra chi offre competenza e chi traffica relazioni. Tra lobbista e faccendiere, appunto. Una legge che servirebbe a fare chiarezza, contribuendo a illuminare un contesto reso ancora più indecifrabile grazie anche all'assenza del vincolo di rendicontazione per le donazioni di privati ai partiti politici: fino a 100 mila euro e per quattro mesi, sempre che il privato acconsenta a rendere pubblico il suo nome. In definitiva: l'assenza di questa legge è un'eccezione alla trasparenza che non ha simili nel contesto dei paesi democratici. In Europa è prevista l'esistenza di un registro dei lobbisti: gli italiani iscritti, tra persone fisiche e giuridiche, sono oltre 650. Nel nostro Paese niente di simile. L'unico caso a livello nazionale è l'elenco previsto dal ministero dell'Agricoltura: lanciato con il governo Monti con gli ultimi due esecutivi è semplicemente scomparso. E negli ultimi mesi il viceministro Nencini ha messo online l'agenda dei suoi incontri. Un primo passo. Per il resto, solo promesse. L'ultima in ordine di tempo è quella del governo Renzi: nel Def la legge sul lobbying era prevista per giugno del 2014. Otto mesi fa. Perché su questo terreno la politica professa trasparenza ma sceglie di far proliferare l'opacità?

"Un comodo capro espiatorio per i politici", scrive Carmine Saviano. Ci prova da anni. Da quando fu coinvolto dall'ultimo governo di Romano Prodi per lavorare a una legge che regolasse i gruppi di pressione. Pier Luigi Petrillo è professore associato di Diritto pubblico comparato all'Università Unitelma Sapienza di Roma. E da 8 anni insegna Teoria e tecniche del lobbying alla Luiss Guido Carli. Non solo: è consulente per l'OCSE in materia di lobbying e trasparenza. Con il governo Letta il suo ultimo impegno nelle istituzioni: era l'estate del 2013 e la legge sui lobbisti sembrava realmente a un passo dal vedere la luce.

Professor Petrillo, cosa comporta la mancanza di questa legge per il tessuto democratico del Paese?

"Questa assenza consente alla politica di scaricare la responsabilità della propria inefficienza proprio sui lobbisti. Un provvedimento non viene approvato? Colpa delle lobby. Un disegno di legge si ferma? Colpa delle lobby. Le lobby sono diventate un paravento della politica che non vuole scontentare taluni soggetti e non vuole assumersi la responsabilità della scelta".

Con una normativa sul tema la politica guadagnerebbe in efficienza?

"Una legge sul lobbying, rendendo pubblici gli interessi particolari contrapposti, toglierebbe alla politica qualsiasi alibi: il decisore dovrebbe decidere, sotto gli occhi di tutti. Nei 18 paesi dove il processo decisionale pubblico è regolato dalla legge avviene tutto in trasparenza: gli incontri con i portatori d'interesse sono pubblici e la politica alla fine deve assumersi la responsabilità di indicare quale o quali interessi soddisfare. La zona d'ombra che esiste nell'ordinamento del nostro paese consente alla politica di non scegliere: e quindi di non scontentare nessuno, salvo i cittadini ai quali si fa credere che è colpa delle lobby anziché della politica".

Nel 2013 il governo guidato da Enrico Letta sembrò a un passo dall'approvazione di un decreto legge...

"Da marzo 2013 a maggio 2013 il governo chiese a un gruppo di esperti, di cui facevo parte, un lavoro preparatorio per un disegno di legge. Alla fine della fase di studio, maggio 2013, presentammo il nostro lavoro, basato essenzialmente sui principi indicati dall'Ocse. Successivamente, per redigere il testo, furono incontrati, il 5 giugno, a Palazzo Chigi, alcuni lobbisti così da analizzare l'impatto delle norme ipotizzate sui destinatari della stessa. Il provvedimento venne calendarizzato per essere approvato dal consiglio dei ministri del 5 luglio. Fino a ventiquattro ore prima sembrava filare tutto liscio. Ma durante la seduta, il Consiglio decise di rimandarlo senza approvarlo. E la successiva crisi del governo Letta mandò in soffitta il lavoro fatto".

Da dove arrivano le maggiori resistenze alla legge?

"Oggi ci sono dei soggetti facilitati nell'accesso ai decisori perché, ad esempio, rappresentano interessi di società pubbliche o a partecipazione pubblica. Una legge sul lobbying metterebbe sullo stesso piano questi lobbisti 'privilegiati' con gli altri: per questo l'OCSE ha più volte detto che una legge in materia serve per assicurare la concorrenza".

Un privilegio che esiste solo finché esiste una zona d'ombra...

"Uno studio realizzato dall'Università Unitelma Sapienza evidenzia come solo il 20% delle attività di lobbying è in chiaro nel senso che è possibile conoscere chi ha fatto lobbying e per cosa. L'altro 80% è composto da lobbisti 'di fatto': da chi gestisce le relazioni esterne delle aziende fino agli studi di comunicazione o legali. Questo 80% non è tracciabile".

La soluzione legislativa più veloce?

"Il governo potrebbe intervenire in materia senza nemmeno aspettare la legge. Con un decreto del premier - che necessita solo di una veloce approvazione in Consiglio dei ministri - finalizzato a regolamentare l'attività di lobbying diretta verso tutta l'amministrazione esecutiva, dal governo agli enti pubblici economici. Se solo si volesse...".

Allarme corruzione: "Urgenti norme chiare", scrive Carmine Saviano. Tra pochi mesi non si potrà più farne a meno. Perché l'assenza di una legge sul lobbying rischierà di incidere in modo negativo sul sistema degli appalti pubblici. Le nuove norme, infatti, sono contenute in un disegno di legge delega presentato dal governo e in discussione al Senato che recepiscono tre direttive europee: la 2014/23, la 2014/24 e la 2014/25. Tra i principi contenuti in queste direttive si prevede la "partecipazione di portatori qualificati d'interesse nell'ambito dei processi decisionali finalizzati all'aggiudicazione di appalti e concessioni pubbliche". Vale a dire: lo Stato potrà coinvolgere privati nella stesura stessa dei provvedimenti che danno il via ai lavori. La legge sui gruppi di interesse diventa quindi essenziale: è inimmaginabile, infatti, non mettere al corrente l'opinione pubblica circa i rapporti tra istituzioni e portatori d'interesse in relazione alla realizzazione di opere pubbliche. E' necessario prevedere registri consultabili, agende e resoconti degli incontri. Apparentemente: niente di più semplice se i nuovi strumenti di cui si avvale anche la comunicazione politica fossero presi sul serio: la pubblicità che la rete può fornire è enorme. Un veicolo di trasparenza. E la regolamentazione delle attività lobbistiche è un'esigenza avvertita anche - e soprattutto - dall'Anac, l'Autorità Anti Corruzione presieduta da Raffaele Cantone. Il cui team sta lavorando a un Libro Bianco da presentare al governo. Proposte e indirizzi per migliorare la gestione della cosa pubblica. Michele Corradino è uno dei quattro consiglieri di Cantone. E non utilizza mezze misure: "Dobbiamo parlarci chiaro: le lobby entrano nelle stanze della politica, nei luoghi dove vengono prese le decisioni che riguardano la totalità dei cittadini". E più i gruppi di pressione sono forti "più riescono a incontrare interlocutori che sono ai vertici delle istituzioni". Una proporzione diretta: al massimo di forza economica corrisponde la massima capacità di influenzare il decisore pubblico. Una legge che regolamenti questi incontri, che riesca a mettere in luce il percorso incontrato da una legge diventa quindi essenziale anche in relazione alla lotta contro la corruzione: "Abbiamo stabilito una sorta di equazione, accettata da tutti: l'arma migliore per combattere la corruzione è la trasparenza". E se la trasparenza è un metodo, questo metodo non può essere circoscritto alla retorica politica.

Diamanti: "Trasparenza significa democrazia", scrive Carmine Saviano. Dalle cause storiche che possono spiegare l'assenza in Italia di una cultura delle lobby alle classi in cui possono essere divisi i gruppi di influenza. Metodi di pressione, impatto sull'opinione pubblica, il ruolo del governo. La zona d'ombra tra scena e retroscena delle decisioni pubbliche. Ne abbiamo parlato con Ilvo Diamanti, professore di Scienza Politica all'Università di Urbino e di Régimes Politiques Comparés a Paris 2, Panthéon Assas. Partendo da come incide, in questo contesto, l'assenza di norme sulla qualità della democrazia italiana.

Professor Diamanti, regolamentare le lobby innalzerebbe il grado di democraticità del nostro sistema?

"Assolutamente sì. La democrazia ha diverse facce ma tutte prevedono forme di controllo sulle decisioni della politica. E' evidente che quando esistono ambiti di discrezionalità sottratti al controllo dei cittadini viene indebolita la possibilità di controllo sui decisori. Viene indebolita la rappresentanza".

Nell'opinione pubblica, lobbista è sinonimo di faccendiere...

"E' una questione di tradizione politica e culturale. E mi riferisco sia a quella cattolica che a quella comunista che condividono un'idea negativa della ricchezza. Quasi fosse necessariamente un peccato. Peraltro, scontiamo un approccio fariseo: il denaro lo si fa ma non ci importa come. Così il lobbista è un peccatore e fare lobby significa raggiungere risultati con ogni mezzo. Più o meno lecito".

Un governo non dovrebbe porre tra i suoi obiettivi primari una legge sui gruppi di pressione?

"Dovrebbe. Se non avviene è perché le lobby all'italiana sono molto forti".

Lobby all'italiana, appunto. Abbiamo provato a dare i voti...

Possiamo indicare due classi diverse. Esistono grandi sistemi di interessi che riguardano prodotti e servizi di largo interesse pubblico. Come quelli che gestiscono le fonti energetiche: risorse che dipendono da regole e concessioni della politica. E nella percezione generale questi gruppi sono sicuramente quelli in grado di influenzare maggiormente il potere politico".  

L'altra classe?

"Le professioni: dispongono di altri mezzi, possono mettere in campo altre forme di lotta. Forme 'materiali' che però riguardano beni immateriali. Pensiamo ai tassisti: gestiscono la mia 'mobilità'. Possono interromperla. E con questo possono bloccare la mia possibilità di comunicare. Anzi, possono bloccare i movimenti e la mobilità del Paese. Come, peraltro, i camionisti".

Cosa accomuna queste due classi?

"Entrambi le classi hanno lo stesso bersaglio. Intervengono sugli stessi attori politici. Tendono a esercitare pressione sulle decisioni e i decisori politici".

Ma, a oggi, la maggior parte di questi interventi resta nell'opacità...

"Naturalmente c'è differenza fra chi esercita una pressione esplicita attraverso scioperi e forme di lotta aperte e chi, invece, agisce esercitando pressioni e influenza sul ceto politico, nel retroscena. Il problema italiano è qui. E dipende dall'assenza di una cultura delle lobby. E quindi dall'esistenza di lobby implicite. Che non sono regolate ma sono contigue con il potere politico. Contiguità che è difficile da modificare: rendere pubbliche determinate procedure - pensiamo agli appalti - farebbe saltare la procedura stessa. E metterebbe in discussione gli interessi e le posizioni di potere esistenti. Per questo rendere trasparente il mercato è operazione difficile".

Usa, scandali a raffica ma è nel Dna del paese, scrive Alberto Flores D'Arcais. "Ero coinvolto profondamente in un sistema di corruzione. Corruzione quasi sempre legale". Quando alla fine del 2010 - dopo aver scontato quattro anni di carcere e aver lavorato per sei mesi a 7,5 dollari l'ora in una pizzeria - Jack Abramoff chiuse i suoi conti con la giustizia, affidò a quelle poche parole il riassunto di cosa fosse il lobbyism negli Stati Uniti. Il pentimento (con relativo libro di denuncia) del più famoso lobbista americano degli ultimi venti anni - al centro di un altrettanto famoso scandalo che avrebbe coinvolto 21 potenti uomini della Washington politica (compresi un paio di funzionari della Casa Bianca di George W. Bush) - diede il via a feroci polemiche, accuse e contraccuse, editoriali indignati e (spesso) ipocriti, su una delle attività che più condizionano (nel bene e nel male) la vita politica e finanziaria del più potente paese del pianeta. Attività del tutto legittima e legale ma che ha offerto spazio, nei dettagli di regole complicate, anche ad azioni che hanno sfiorato la soglia della criminalità. Negli Stati Uniti il lobbismo nasce insieme alla Costituzione e al free speech (protetto dal Primo Emendamento che tutela in generale la libertà di espressione e che vieta al Congresso di approvare leggi che limitino "il diritto che hanno i cittadini di inoltrare petizioni al governo") ed è un lavoro (ben remunerato) a tempo pieno grazie al quale i cosiddetti 'gruppi d'interesse' (politici, religiosi, morali e soprattutto commerciali) fanno pressione sul Congresso per approvare questa o quella legge, per difendere posizioni acquisite, per condizionare una scelta piuttosto che un'altra. Dagli anni Settanta è un fenomeno in costante crescita e oggi a Washington ci sono oltre 13mila lobbisti registrati come tali, più diverse altre migliaia che lavorano sotto-traccia e fanno spesso il lavoro 'sporco' e più rischioso. Con un volume di affari che, nel corso degli ultimi decenni, è cresciuto in modo esponenziale e che nel 2010 ha raggiunto la cifra record di 3,5 miliardi di dollari. Un'attività, quella di lobbying, che è talmente connaturata al sistema politico-costituzionale degli Stati Uniti da essere scherzosamente definita  (con una tipica espressione slang) as American as apple pie, americana come la torta di mele. Ma chi sono i lobbisti? In gran parte avvocati (o comunque persone uscite dalle Law School e dalle Business School dei migliori college degli Usa), assoldati da famose corporation (JP Morgan ha un team che costa oltre tre milioni di dollari all'anno), da grandi studi legali, sindacati e organizzazioni varie, ma soprattutto da società che nascono ed operano con l'unico scopo di fare lobbismo. La loro attività è riconosciuta da una legge bipartisan del 1995 (Lobbying Disclosure Act) - varata dopo una serie di scandali e azioni che vennero definite "poco chiare" - e i lobbisti (sulla carta tutti) devono registrarsi presso la Rules Committee, la commissione delle regole del Congresso, hanno un badge permanente che gli permette di girare tranquillamente negli uffici di deputati e senatori a Capitol Hill (può essere revocato in caso di violazioni di legge) e sono identificati come "gruppi portatori di interesse da tutelare", un giro di parole che rende bene l'idea. Un lavoro che ha come interlocutori membri del governo, parlamentari ed amministratori pubblici (a livello federale, statale e locale) e che è, o meglio dovrebbe essere, ben distinto da chi lavora in una campo contiguo come quello delle public relations. Ed è qui, quando questi due mondi si intersecano, che si trovano i confini tra il lobbismo 'buono' (e assolutamente legale) e il mondo 'grigio' del sottobosco politico-affaristico che, ogni tanto, sfocia in un grande scandalo come quello di Abramoff. Un sottobosco che (stando ad alcuni studi recenti) arriva ad impiegare una manodopera di quasi centomila persone e dove il cosiddetto metodo delle 'tre B' (booze, broads, bribes, ovvero alcol, donne e bustarelle) non è stato mai del tutto abbandonato. Un mondo che è stato combattuto in epiche battaglie da uomini come Ralph Nader, lo scrittore-avvocato-attivista (e cinque volte candidato senza speranza alla Casa Bianca) diventato un simbolo della difesa dei consumatori e una decennale spina nel fianco delle lobby anche più potenti. Un mondo (e i critici non mancano mai di ricordarlo) che deve il suo nome all'atrio degli alberghi: un posto visibile a tutti ma che nasconde qualche inconfessabile segreto.

Rosa o gay, una per ogni stagione, scrive Filippo Ceccarelli. Saranno ormai quarant'anni che si parla di regolamentare le lobby. Allora, era la metà degli anni 70, bisognava spiegare cosa significasse quella parola; nel frattempo "lobby" ha fatto a tempo a dilatarsi e insieme a rattrappirsi, comunque moltiplicando i suoi valori d'uso oltre ogni ragionevole significato. In questi casi, anche se il termine suona un po' ricercato, si dice che la lobby, anzi le lobby sono divenute polisemiche. I politici e i giornalisti, categorie per loro natura e vocazione abbastanza orecchianti, adorano le polisemie, specie quando gli lasciano le mani libere - un po' meno la testa, ma è un altro discorso. Può esistere dunque una lobby rosa, nel senso di un gruppo che favorisce gli interessi e il potere delle donne nelle istituzioni e nell'economia: "Emily", il "branco rosa" e così via. Ma anche esiste una agguerrita lobby delle armi, cioè gente che cerca di piazzare mine, cannoni e micidiali sistemi di puntamento in giro per il mondo, soprattutto ai paesi africani, cosa non proprio simpatica. Le aziende dispongono di professionisti ad hoc che battono anche il Parlamento. In una raccolta di vignette su Montecitorio, già alla metà degli anni 80 il disegnatore Vincino raffigurò "il lobbista dell'Aeritalia" che svolazzava per il Transatlantico con delle eliche che gli uscivano dal retro della giacca, come un drone ante litteram. Insomma tante cose diverse. Nell'economia la faccenda è più pacifica che in politica o nella cronaca giudiziaria. Si tratta di tutelare degli interessi, come spiegano benissimo i protagonisti dell'inchiesta di Carmine Saviano. Le Camere sono la palestra, il giacimento, l'arena, la serra, la taverna e il giardino zoologico dei lobbisti. Qualche mese fa i cinquestelle hanno beccato un ex funzionario di Montecitorio che scriveva, al volo e brevi manu, un emendamento per modificare un provvedimento in commissione, e l'hanno fatto cacciare. Hanno poi esposto il suo volto in aula con dei cartelli. Quello, poveretto, ha cercato di sminuire il suo ruolo, pure definendosi "un giuggiolone". Ma ai tempi in cui Marcello Pera presiedeva il Senato, 2005, nel depliant della sua fondazione "Magna Carta" era esplicitamente contemplata l'attività di lobbying; e l'ex presidente della Camera Irene Pivetti, adesso, cosa fa? Semplice, fa lobbying. Dal che si intuiscono gli effetti non tanto forse della mancata regolamentazione, ma della implicita e magari anche connaturata confusione che reca in sé l'ambiguo tragitto della parola "lobby", nella sua variante "all'italiana". Così alla caduta del governo Berlusconi l'ex ministro Mastella, l'ineffabile, evocò la "lobby ebraica"; ma qualche mese prima, quando alla presidenza della Rai era arrivata Letizia Moratti, venne lanciato un allarme contro la "lobby di San Patrignano", che sarebbe una nota comunità di recupero per tossicodipendenti, ma si disse così per intendere che direttori di rete o dei tg si diventava solo previo assenso della Moratti, appunto, che dell'iniziativa di Vincenzo Muccioli (poi con il figlio e la moglie hanno ferocemente litigato) era e seguita a restare la grande patrona e finanziatrice. Altre lobby entrate più o meno di straforo nella cronaca: la "lobby di Lotta continua" (ai tempi dei processi Sofri); la "lobby gay" (in Vaticano); la "lobby dei tesorieri di partito" (che continua a bussare a quattrini aggirando leggi e referendum). Si tratta di esempi per lo più negativi. Ma per anni il progetto educativo del cardinal Ruini è stato presentato anche dai suoi fautori come strutturalmente connesso a un'opera di lobbying a favore dei principi irrinunciabili. Bizzarro perciò è il destino dei grimaldelli semantici, sempre sul punto di trasformarsi in piè di porco. Questo, per dire, è un Lele Mora d'annata, già proteso a togliersi dagli impicci: "Io - diceva - non piazzo le starlette nei letti, faccio solo incontrare gente, lobbying, altro che festini!". Era la fine del 2006, poi è finita con qualche anno di galera. Nel frattempo le lobby crescono e si moltiplicano a loro indeterminato piacimento. E ciascuno le consideri un po' come meglio ritiene: se e quando verranno regolamentare, sarà probabilmente troppo tardi.

"Università, altro che merito. E' tutto truccato. Vi racconto come funziona nei nostri atenei". Fondi sperperati, concorsi pilotati, giovani sfruttati. Un ex dottorato spiega nel dettaglio come si muove il mondo accademico tra raccomandazioni e correnti di potere. E qualcuno non vuole che il libro in cui riporta tutti gli scandali venga pubblicato, scrive Maurizio Di Fazio su “L’Espresso” Non è un Paese per giovani docenti universitari. E' quanto ha scoperto sulla sua pelle da Matteo Fini, classe 1978, appena riemerso da quasi dieci anni di esperienza accademica come dottore di ricerca in statistica nel Dipartimento di scienze economiche dell’Università degli studi di Milano. “Tante illusioni svanite via via nel nulla”. Alla Statale si occupava di metodi quantitativi per l’economia e la finanza. “In pratica facevo tutto: lezioni, ricerca, davo gli esami, mettevo i voti – ci dice Fini – Ero un piccolo professore fatto e finito, senza titolo. E questa è una roba normalissima”. La sua è la storia di un giovane italiano che non ce la può fare nonostante tutto. “Non si sopravvive al sistema universitario italiano” aggiunge. E ne esce, e pensa di raccontarlo. Di dissacrarlo. Ne fa la sostanza del suo libro: la vita accademica vista dall’interno, nei suoi gangli ordinari. Episodi quotidiani che non danno scandalo abbastanza se presi singolarmente. Comincia a scriverlo, e ne posta qualche estratto su Facebook. Un giorno riceve una diffida legale, girata anche all'editore con cui aveva già fatto un libro ("Non è un paese per bamboccioni"), che gli intima di non pubblicare e di eliminare tutti i post “allusivi” dal social: tra questi, una citazione di Lino Banfi/Oronzo Canà. “I post non li ho affatto tolti, e tra l’altro erano generici e astratti – racconta Matteo Fini –. Questa è censura preventiva”. Il libro è pronto, anzi c’è tutta una piccola community sul web che ne attende l’uscita; ma non si sa più quando, né con chi vedrà la luce. Abbiamo incontrato l’autore per saperne di più di questo suo pamphlet arrabbiato, rimandato a settembre per “condotta”. L’inizio del percorso da ricercatore universitario è comune a tutti. “È il professore stesso che ti precetta, quando tu magari nemmeno ci pensavi alla carriera universitaria. Ti dice: “ti va di fare il dottorato?”. E tu rispondi ok, e cominci. E pensi che sei davvero bravo. Un eletto. A quel punto però vieni risucchiato e la strada si fa cieca”. Al “meccanismo” ci si abitua subito. Prendere o lasciare. I più, prendono, compreso Matteo Fini. “Ho capito subito che c’erano delle regole bislacche, ma le ho accettate: sai benissimo che lì dentro funziona così, è un sistema che non puoi cambiare, immutabile, e sai anche che la tua carriera è totalmente indipendente da quello che dici o che fai: conta solamente che qualcuno voglia spingerti avanti”. Anche Matteo ha il suo protettore. “Fin dal primo giorno, mi ha detto: Tu fa’ quel che ti dico, seguimi, e alla tua carriera ci penso io”. Va avanti così per anni. Ma le cose non sono eterne. “All’improvviso la sua attenzione si è completamente spostata altrove. Dal chiamarmi quattro volte al giorno, l’ultimo anno è scomparso. Fino al gran finale: il dipartimento bandisce il concorso per il posto a cui lavoravo da otto stagioni,“che avrei dovuto vincere io”. Lui nemmeno me lo comunica. Io ne vengo a conoscenza e partecipo lo stesso, pur sapendo che, senza appoggi, non avrei mai vinto. In Italia, prima si sceglie un vincitore e poi si bandisce un concorso su misura per farlo vincere. Anche per un semplice assegno di ricerca. All’università è tutto truccato”. In questo volume intra–universitario che non c’è, ma c’è, Fini spiega gli ingranaggi universitari più comuni. Talmente elementari che nessuno aveva mai pensato di raccontarli. Sfogliamolo virtualmente.

Concorsi, primo esempio. Il blu e il nero. “Tutti i concorsi a cui ho partecipato erano già decisi in partenza. Sia quando ho vinto, sia quando ho perso. Vinci solo se il tuo garante siede in commissione. Il concorso è una farsa, è manovrato fin dal momento stesso in cui si decide di bandirlo. A me una volta è capitato che a metà prova si siano accorti che alcuni stavano scrivendo in blu e altri in nero. A quel punto ci hanno consegnato delle penne uguali per tutti, e siamo ripartiti daccapo. A fine prova mi sono accorto che c'erano degli stranieri che avevano scritto nella loro lingua natìa... Ma con la penna uguale alla nostra, eh!”.

Concorsi, secondo esempio. Gli ultimi saranno i primi. “M’iscrissi al bando e mi presentai al test d’ammissione che era composto esclusivamente da un colloquio orale in cui si ripercorreva la carriera dei candidati. Era un concorso per titoli. I candidati erano tre: io, una ragazza del sud di trentun’anni neolaureata e una ragazza del nord che stava discutendo la tesi. I posti erano sei, le borse di studio in palio due. Indovinate in graduatoria in che posizione mi piazzai? Esatto, terzo. E ultimo. In un concorso esclusivamente per titoli, cioè non vi erano delle prove d’esame che avrebbero potuto mostrare la preparazione di un candidato piuttosto che l’altro, contava solo il curriculum vitae; in un concorso per titoli tra due neolaureate, o quasi, e io che una laurea, come loro, ce l’avevo e che possedevo anche un titolo di dottore di ricerca, pubblicazioni scientifiche, manuali didattici e un’esperienza di oltre cinque anni in accademia tra lezioni, lauree, seminari e convegni, ecco in gara con loro due mi classifico terzo, dietro di loro…”.

Concorsi, terzo esempio. La salita è in discesa. “Qualche anno fa sono andato a fare un concorso per un contratto di un anno fuori sede. Fuori sede lo dico perché ogni ricercatore, o simile, è come affiliato al dipartimento di provenienza, ogni volta che prova a partecipare a un concorso in un altro ateneo è come se andasse in guerra. Con lo scudo e la fionda contro i fucili e i cacciabombardieri. Il posto era per un assegno di ricerca in Economia e gestione delle imprese. Ci presentiamo in tre. Il vincitore, il fantoccio e io. C’è sempre un fantoccio. Quello che deve fare presenza, ma perdere. Per non dare l’idea che il concorso sia ad personam. Purtroppo per loro però, inavvertitamente, mi ero iscritto pure io. E risultavo tremendamente più titolato degli altri due, vincitore compreso. Questo capitava non perché io fossi particolarmente genio, ma perché, essendo ormai da anni attorcigliato nel meccanismo universitario senza sbocchi in attesa del posto mio, mi ritrovavo a partecipare a concorsi per retrocedere. Scendi di categoria, e sembri un fenomeno. Così succede che devono trovare un modo per fermarmi. E non potendo dire che non ho i titoli o che il mio curriculum mal si relazioni col loro progetto di ricerca. sapete cosa s’inventano? Provano con la psicologia. Anzi la psicologia inversa, il metagame. “Tu sei un ricercatore affermato, ormai hai anni di esperienza, il nostro progetto dal punto di vista quantitativo non presenta una sfida entusiasmante, saranno sì e no due calcoletti, per cui non credo che questo sia il posto adatto a te... E così ho perso un’altra volta”.

Concorsi, per concludere. Così fan tutti.“E così risulta penalizzato anche chi vince perché è più bravo e perché se lo merita. Chi vincerebbe un concorso anche in una molto ipotetica gara alla pari. Senza padrini. Pensate a quanto possa essere frustrante, anche per loro, sapere che nonostante gli anni di studi, i sacrifici, nonostante siano pronti, in realtà si sono ritrovati vincitori perché qualcuno ha deciso così. Per delle logiche che continuano a esulare dalla loro preparazione e ricerca. Tutti penseranno che tu, come tutti, il posto non te lo sei guadagnato. Puoi urlarlo forte quanto vuoi, ma nessuno ti crederà. Tutti ti vedranno come l'abusivo, il solito infame”.

Assegnazione dei fondi. Specchietti per le allodole. “Quando vengono assegnati i fondi di ricerca, i professori e i dipartimenti si associano e mettono su un progetto alimentato dal blasone dei docenti unitisi (professori che magari fino al giorno prima neanche si salutavano). Dentro questi bandi vengono infilati anche dei ragazzi giovani, con la promessa che verranno messi poi a lavorare. Il bando viene vinto, arrivano i fondi, ma del progetto che ha portato ad accaparrarseli nessuno dice più niente. Viene accantonato, e i quattrini sono dilapidati nelle maniere più arbitrarie (pubblicazioni, acquisto di pc all’ultima moda ecc.). Che fine fanno i ragazzi coinvolti? Bene che vada si spartiscono le briciole”.

Libri universitari. Self–publishing.“Molti docenti scrivono libri che poi adottano a lezione, naturalmente, e molto spesso gli editori glieli fanno pagare fino all’ultimo centesimo, della serie “Ti pubblico, ma tu devi comprarne 5 mila copie”. Ma mica li acquistano con portafogli personali, i suddetti saggi; no, ordinari e associati amano invece attingere liberamente dai fondi di dipartimento, che pure magari erano destinati a qualche ricerca seria e pluripremiata”.

Cultore della materia. Il purgatorio dei tuttologi. “Più in basso ancora di assegnisti e dottorandi, c'è la figura del “Cultore della materia”: per permetterti di affiancare un Prof. in università se non hai titoli tuoi, questo ti fa "cultore", e tu così guadagni il diritto di aiutarlo in aula con gli esami o addirittura di fare lezione. La cosa divertente è che la decisione del docente è insindacabile. E così se un domani il tuo supervisor decide che tu debba essere un cultore in Fisica applicata o Letteratura greca medievale, e lo fa soltanto perché gli servi… il giorno dopo tu sarai legittimato ad andare in Aula a parlarne. Anche se non ne sai un fico secco”.

Didattica. Il fanalino di coda. “Viene vista come un fastidio. Un intralcio. È che da noi diventi docente solo dopo aver fatto il ricercatore. Ma il ricercatore dovrebbe fare ricerca, e il docente insegnare. Ci vorrebbe una separazione delle carriere. Un ottimo ricercatore può essere un pessimo docente, e viceversa”.

Seminari e riviste. Tutto fa brodo. “Spesso i dipartimenti organizzano seminari (sempre coi soldi dei fondi) il cui unico scopo è quello di presentare i propri lavori, perché così quel lavoro finirà dritto ne "gli atti del convegno", che è una pubblicazione, e che quindi va a curriculum, fa massa, valore, prestigio, carriera, altri soldi. C’è una lunga teoria di riviste che esistono solo per pubblicare gli atti di questi convegni: periodici clandestini, che pubblicano indiscriminatamente. Ci sono poi dipartimenti che le riviste se le creano da sé. È un circuito drogato, che lievita, ma su impasti veramente fragili. Basti vedere i curriculum dei docenti italiani: le pubblicazioni sulle riviste internazionali, quando ci sono, sono messe in bella mostra, mentre quelle sulle riviste nazionali vengono liquidate sotto la dicitura “altre pubblicazioni”... Come se ce se ne vergognasse”.

I baroni regnano sull'università. Raccomandazioni, scambi di favori, meriti negati, titoli ignorati. Il concorsone per scegliere i professori è sommerso di ricorsi. Il consiglio di stato ha accolto le proteste di un bocciato e potrebbe annullare l’intera tornata di nomine. Ecco come naufragano gli atenei italiani, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Ah porci!”, esclamò Perpetua. “Ah baroni!”, esclamò don Abbondio». I lanzichenecchi che distrussero la Lombardia nel 1630 Alessandro Manzoni li chiama proprio così, «baroni». Dal latino “baro - baronis”, termine che, dice la Treccani, indicava “il briccone, il farabutto, il furfante”. I mammasantissima delle nostre facoltà non hanno portato la peste come i soldati tedeschi che assediarono Mantova, ma di certo il loro dominio incontrastato ha contribuito a devastare l’università italiana. Dove, al netto delle eccellenze e dei tanti onesti, è sempre più diffuso il morbo del familismo, della raccomandazione e del corporativismo, a scapito del merito, delle capacità dei più bravi, della fatica dei volenterosi. Per i baroni la strada maestra per mantenere il potere e gestire il reclutamento è, ovviamente, quella di controllare i concorsi. Come dimostra l’inchiesta “Do ut des” della procura di Bari, che sta indagando per associazione a delinquere decine di professori di diritto costituzionale: «Carissimo, consegno un’umile richiesta al pizzino telematico. Ti chiederei il voto per me a Roma... sono poi interessato a due concorsi di fascia due, d’intesa con Giorgio che ha altri interessi. Scusa per la sintesi brutale, ma meglio essere franchi. A buon rendere. Grazie», si legge in una mail che il bocconiano Giuseppe Franco Ferrari ha mandato qualche anno fa a un collega, missiva ora al vaglio della Guardia di Finanza. La riforma Gelmini varata nel 2010 doveva mettere fine agli scandali e modernizzare finalmente gli italici atenei, da tempo in coda a ogni classifica delle eccellenze europee. Ahinoi, non sembra essere andata come si sperava. La nuova abilitazione scientifica nazionale (che ha da poco chiuso la tornata del 2012: i promossi a professori di prima e seconda fascia sono quasi 24 mila, i bocciati circa 35 mila) è stata un flop colossale. Nonostante un costo stimato superiore ai 120 milioni di euro, il concorso ha generato proteste a catena, incredibili favoritismi, migliaia di ricorsi al Tar e - come risulta a “l’Espresso” - anche i primi esposti mandati alle procure. La lista di presunti abusi basta leggere le accuse che arrivano da ricercatori esclusi, docenti e persino premi Nobel - è impressionante: se in qualche caso sono stati promossi candidati che vantano solo dieci citazioni (in articoli e pubblicazioni varie) a discapito di altri che ne hanno oltre seicento, tre commissari di Storia medioevale avrebbero truccato i propri curriculum attribuendosi monografie mai scritte pur di far parte della “giuria”. A Storia economica, invece, sono stati esclusi specialisti apprezzati in tutto il mondo, ma privi evidentemente dei giusti agganci: un gruppo di dodici studiosi stranieri, tra cui un Nobel, hanno così spedito al ministro Stefania Giannini una lettera indignata in cui si dicono «inquietati» dall’esito delle selezioni. I casi sono decine: da archeologia a biochimica, da architettura a chirurgia, passando per storia economica e latino, quasi in ogni settore sono stati denunciati giudizi incoerenti e comportamenti al limite dell’etica. Che spesso nascondono, sussurrano i ricercatori frustrati, la volontà dei baroni di cooptare, al di là delle reali capacità dei singoli, i predestinati e gli “insider”, cioè i candidati già strutturati nelle facoltà. Andiamo con ordine, partendo dal concorso di Diritto privato. L’abilitazione è finita sulle pagine di cronaca perché il commissario straniero (il membro Ocse è una delle novità più rilevanti della riforma) parlava solo spagnolo. Come abbia fatto Josè Miguel Embid a leggere e valutare i complessi tomi di diritto prodotti dai candidati è un mistero. “La conoscenza della lingua italiana”, ha spiegato in una nota il ministero dell’Istruzione, “non è prevista dalla legge”. I giudici del Consiglio di Stato si sono però fatti beffe delle giustificazione, hanno accolto un ricorso sul merito e sospeso tutto. Le stranezze non si contano. Se il commissario Maria Rosaria Rossi, ordinaria a Perugia, prima di essere sorteggiata componente della commissione aveva annunciato di voler sabotare la riforma Gelmini («a chi lavora nell’università spetta ora il compito di operare interstizialmente tra le pieghe della legge e oltre la legge stessa e sperimentare pratiche quotidiane di sabotaggio dell’ideologia che la sostiene», ha ragionato carbonara sul “Manifesto”), il ricercatore napoletano Andrea Lepore è stato promosso anche se il giudizio scritto, inizialmente, sembrava ipotizzare ben altro epilogo: «La qualità della produzione è limitata sotto il profilo dell’originalità e dell’innovatività, nonché per il rigore metodologico... Si rinvengono, tra l’altro, ampie frasi riprodotte alla lettera da lavori di altri autori precedentemente pubblicati». Andrea Lepore, in pratica, è accusato di essere un copione. Da promuovere, però, «all’unanimità». Francesco Gazzoni, professore della Sapienza e maestro indiscusso della materia (è suo il manuale di Diritto privato più venduto d’Italia), all’abilitazione nazionale ha dedicato un saggio, intitolato “Cooptazioni: ieri e oggi”: «Il potere accademico è una vera e propria piovra mafiosa», si leggeva sulla rivista online “Judicium” prima che l’articolo fosse repentinamente rimosso. «Cooptare, in sé, non è un male, lo diventa quando la scelta avviene, come sempre avviene, in base a criteri che prescindono dal merito... I professori di università sono novelli Caligola, con in più il fatto di promuovere, all’occorrenza, anche asini patentati in difetto di cavalli». Il luminare fa nomi e cognomi, e se la prende con l’intera commissione di Diritto privato «inidonea a giudicare, essendo priva di autoritas sul piano scientifico». I più bravi, in sintesi, sarebbero stati bocciati perché «non avevano un’adeguata protezione accademica e perché non tutti i commissari erano in grado di leggere e capire i loro titoli». Forse il professore esagera, ma di certo qualche candidato di Diritto privato è stato più fortunato di altri. Come l’avvocato Claudia Irti, che ha scoperto che il presidente della commissione, Salvatore Patti, era stato suo tutor alla tesi di dottorato. Un conflitto di interesse non da poco per il docente, tanto più che è la Irti in persona a rispondere al telefono della sede milanese dello studio Patti: «Sì, sono stata promossa, ma ci tengo a dirle che io non lavoro per il professore. Perché rispondo al telefono del suo studio? È una situazione particolare, a Milano presidio la sede, ma faccio solo da rappresentanza. Il professore si sarebbe dovuto astenere dal giudicarmi? Significa che tutte le persone che collaborano con i membri della commissione non avrebbero dovuto presentare domanda al concorso. Le assicuro che sono tante». È il sistema, dunque, a permettere che possa accadere di tutto: se Patti, oltre alla Irti, ha potuto valutare i titoli di tre magistrati di Cassazione che potenzialmente possono essere giudici delle sue cause (tutti abilitati), il collega Francesco Prosperi dell’Università di Macerata ha promosso a ordinario il giovane Tommaso Febbrajo, un tempo suo allievo, e figlio dell’ex rettore dell’ateneo dove lo stesso Prosperi insegna. Non è un caso che il concorso di diritto privato conti già un centinaio di ricorsi al Tar. Un professore associato dell’università di Tor Vergata, Giovanni Bruno, ha già avuto soddisfazione dal Consiglio di Stato. I magistrati hanno accolto alcune censure decisive, tanto che qualcuno ipotizza che l’intero svolgimento dell’abilitazione nazionale sia a rischio: il regolamento ministeriale pubblicato nel 2011 sarebbe illegittimo, perché avrebbe dato alle commissioni un eccesso di discrezionalità nella valutazione dei candidati. Bruno ha pure mandato un esposto alla procura di Roma, accusando Prosperi di non aver partecipato a una delle riunioni in cui si definivano i giudizi: a leggere un programma accademico dell’Università di Macerata, risulta che il 29 novembre 2013 il sociologo abbia partecipato (almeno fino alle 13) a un convegno nelle Marche. Anche un altro candidato trombato, l’avvocato Giuseppe Palazzolo, ha mandato una denuncia ai pm (stavolta a Napoli) in cui chiede il sequestro della piattaforma elettronica usata dai membri della commissione. Già, alcuni candidati avrebbero voluto controllare se i loro giudici hanno davvero letto i loro titoli (mandati in formato elettronico) o abbiano promosso e bocciato alla cieca, senza nemmeno effettuare il download. Il ministero ha rigettato, però, tutte le richieste d’accesso ai tabulati. Nel 1898, in una cronaca del “Corriere della Sera”, si raccontava che il ministro della Pubblica istruzione del governo Pelloux, Guido Baccelli, “impaurito e seccato dagli scandali occorsi nelle commissioni chiamate a giudicare pe’ i concorrenti alle cattedre vacanti d’università, abbia in animo di abbandonare il sistema adottato quest’anno per l’elezione delle commissioni”. Cos’era successo? “Qualche concorrente” spiegava il cronista “non aveva trovato miglior mezzo per riuscire, di domandare la mano di sposa alla figliola di un commissario: il matrimonio si combinava per il dopo concorso; il fidanzato, manco a dirlo, riusciva primo, e festeggiava in un giorno medesimo la cattedra e la moglie”. Dopo centosedici anni e una quindicina di riforme, dopo gli scandali dell’ultimo ventennio (citiamo quelli che travolsero il concorso nazionale del 1993, le inchieste che hanno svelato le appartenenze militari alle cosiddette “scuole” e le tristi vicende dei concorsi locali, dove spesso e volentieri il candidato indigeno vince a mani basse), il legislatore sembra aver toppato anche stavolta. La legge 240, quella della riforma Gelmini, ha sì previsto dei parametri oggettivi che gli aspiranti avrebbero dovuto superare per passare l’esame (le cosiddette “mediane”), ma molti professori hanno deciso come sempre: di testa loro. In effetti gli studiosi della “Voce.info” hanno scoperto che per i concorrenti con un profilo scientifico più debole “la conoscenza di un membro della commissione ha migliorato significativamente le chance di successo”. A parità di curriculum, per esempio, in Politica economica “gli insider hanno avuto il 14 per cento di probabilità in più” di passare rispetto a coloro che non frequentano gli atenei, una percentuale che sale al 23 per cento in Scienza delle finanze. Polemiche a go-go anche nella macroarea di Archeologia, dove un gruppo di accademici (tra cui Salvatore Settis, Fausto Zevi ed Ermanno Arslan) hanno scritto una lettera in cui prima attaccano «lo strumento mostruoso delle mediane, ridicolo artifizio blibliometrico che rinuncia alla qualità e fa discendere i giudizi delle quantità», poi se la prendono con i colleghi della commissione, che avrebbero aiutato le scuole più forti «privilegiando alcuni candidati, non sempre di evidente alta qualità, e danneggiato altri, con scelte valutative a dir poco opinabili». «I talenti sono stati bocciati, i “peggiori” sono stati sistematicamente promossi, anche a Latino» ha attaccato l’ordinario perugino Loriano Zurli. Un meccanismo che non solo è amorale ma anche anti-economico, dal momento che il rilancio dell’università e della ricerca sono fondamentali - secondo tutti gli esperti - per la crescita della ricchezza nazionale. Se il professore di Biochimica Andrea Bellelli definisce «una farsa» il concorso del suo settore e ricorda che «uno dei cinque commissari sorteggiati pare non avesse le mediane», un gruppo di prof e ricercatori dell’associazione Roars (presieduta da Francesco Sylos Labini) ha sottolineato alcune scellerate scelte dell’Anvur che ha considerato “scientifiche” ben 12.865 riviste tra cui spiccano “Alta Padovana” del Comune di Vigonza, “Delitti di carta” specializzata nella giallistica, “L’annuario del liceo di Rovereto”, il mensile della parrocchia di San Domenico, “Cineforum” e “Stalle da latte”. Ma è capitato di peggio. A Progettazione architettonica i commissari hanno fatto letteralmente a pezzi alcuni candidati pubblicando online giudizi (leggibili da tutti) in bilico tra ironia e insulto. Il professor Giuseppe Ciorra, ordinario all’università di Camerino, bocciando una ricercatrice a Torino scrive, letteralmente, che «la candidata non è scema, ha dimestichezza con la scena internazionale e rivela curiosità in tutte le direzioni... Incoraggiabile ma non recuperabile, temo». Il collega Benedetto Todaro ha definito una collega associata di Napoli, Emma Buondonno, una «candidata sconcertante, che si impegna volenterosamente in lavori completamente privi del necessario acume critico». Ciorra (che arriva a liquidare un esaminando con un definitivo «sparisca, per favore»), sembra assai più gentile quando si tratta di valutare candidati che conosce di persona. Quando è costretto a bocciare la sua ex dottoranda Rita Giovanna Elmo spiega che lo fa «con dolore umano», mentre non si fa specie nel promuovere (il suo sarà l’unico “sì”) Anna Rita Emili, ricercatore in forza alla sua stessa università poi bocciata da tutti gli altri colleghi. La Emili si può consolare, è in ottima compagnia: la commissione ha fatto fuori i migliori progettisti italiani. Anche stavolta qualcuno si è lagnato con la Giannini: l’Associazione italiana di Architettura e critica «manifesta un totale dissenso contro qualsiasi atteggiamento sessista e maschilista della commissione d’esame volto a schernire le ricercatrici. Suggeriamo ai membri della commissione di mostrare anche più rispetto, in futuro, per la grammatica italiana». Il barone che sbaglia le congiunzioni, in effetti, è davvero troppo.

Ma quant'è bella la vita dei docenti universitari. In un pamphlet in libreria in questi giorni, Stefano Pivato traccia un ritratto tagliente e autocritico della tribù degli ordinari, associati e ricercatori, immutabile e soprattutto insondabile, scrive Maurizio Di Fazio su  “L’Espresso”. È alto il tasso di mortalità studentesca negli atenei italiani. La colpa viene di norma attribuita agli studenti stessi; e delle responsabilità didattiche dei docenti universitari nessuno dice niente. “Al limite della docenza” di Stefano Pivato, “piccola antropologia del professore universitario” (Donzelli Editore), ricalibra questo assunto. Ed è un ritratto-pamphlet divertente, tagliente e autocritico della tribù degli “ordinari, associati e ricercatori”, immutabile e soprattutto insondabile. L’autore, certi aspetti, atteggiamenti, tic identitari e collettivi, li conosce bene, dall’interno: insegna lui stesso, da quarant’anni, Storia contemporanea all’università. Ha ricoperto anche il ruolo di rettore. Entrò in ruolo subito dopo la “liberazione del ’68”. Misteriosa creatura stanziale, a differenza di quanto accade in America o nel resto d’Europa: addio clerici vagantes, “il docente, nella generalità dei casi, si laurea, cresce e progredisce in carriera nella stessa università”. Ma i nostri radar letterari non l’hanno mai intercettato: De Amicis narrava di un maestro elementare e Don Milani di insegnanti delle scuole medie. Idem al cinema: tranne “Morte di un matematico napoletano” di Mario Martone, non viene in mente altro. La stessa cronaca si ricorda dell’“homo academicus” nostrano solo quando c’è da rovistare dentro casi di parentopoli, concorsi truccati e “sex for 30” sul libretto. Eppure la prima Università occidentale è tricolore, quella di Bologna risale, infatti, al 1088; e subito dopo la Chiesa, l’Accademia è la più antica tra le istituzioni, “nel tempo ha perfezionato i propri meccanismi, chiusi e non contaminati col mondo esterno, fino a renderli perfetti. Anche nelle loro storture” scrive Pivato. Fuori dal tempo, statico ma adattivo, il barone o baronetto nazionale è il più anziano del Vecchio continente: anche adesso che la sua età pensionabile è stata anticipata a 70 anni, tra i lamenti dei 75enni e le invidie dei non ancora quarantenni che restano una frangia simbolica, il 12 per cento del totale. In “Al limite della docenza”, Stefano Pivato apre passando in rassegna i fondamentali “tipi da cattedra”. Come il prof. “Come sto io?”. “Solitamente, quando due persone si incontrano, si chiedono vicendevolmente Come stai? Una certa tipologia di docente, se ti incontra, senza chiederti nulla, ti dice “Come sto io?”. Segue elencazione dei saggi che ha scritto, dei convegni a cui ha partecipato, delle lodi che ha ricevuto. “L’Accademia è fatta così. Ancor prima che di riconoscimenti scientifici, si nutre di solleticamenti a uno smisurato ego”. L’egolatria, e la vanità, sarebbero le due pietre angolari della mentalità del docente. Insieme a un’eterna conflittualità tra simili: “Litigo, dunque sono”. “Litigare è una forma assoluta per certificare la propria presenza; e magari, giustificare la propria assenza”. Così i professori più attaccabrighe sono spesso i più assenteisti. E in pochi ambienti come quello accademico l’insinuazione maliziosa, la diceria, la diffamazione giocano un ruolo tanto importante. Proliferano, come cellule impazzite che si penserebbero radicate in ben altri strati della società, le lettere anonime; vedersi dare dello iettatore può pregiudicare una carriera già avviata. I docenti universitari si sentono tutti autori di bestseller, anche se “hanno pubblicato presso un anonimo stampatore” e si ingegnano in mille modi per costringere i propri studenti a comprarne qualche copia. Uno dei loro mantra più comuni, al ritorno da una lezione, è questo: “Era piena zeppa di studenti” . In verità, a volte, non c’era quasi nessuno. Il “tribalismo universitario” si è formato e consolidato nel corso dei secoli. Ecco allora il “Chiarissimo” (professore ordinario), il “Magnifico” (rettore), l’“Amplissimo” (preside di facoltà). Anche l’apparato iconografico non scherza, e non muta. La liturgia del potere non conosce strappi. Potere talvolta lungo una vita: ci sono stati rettori che hanno governato per decenni. Non appena possibile, gli Insegnanti Massimi sfoggiano toghe, ermellini e altri paramenti. E se c’è un qualcosa che li manda in visibilio, è la parola (sempre più in disuso) “concorso”. “Perché il concorso gratifica il vincitore ma, in misura non minore, anche chi lo fa vincere”. Il docente-tipo necessita di uno spazio sempre più agevole: anche se ha pochi studenti, vuole un’aula più grande e uno studio personale sconfinato. È singolare la sua concezione del tempo. Il semestre universitario dura circa tre mesi e mezzo, e l’ora quarantacinque minuti. E “talvolta, secondo un’antica consuetudine, se ha impegni di varia natura e deve chiudere in fretta”, reintroduce d’imperio la lectio brevis. Sui generis anche la sua settimana lavorativa, che copre la prima o la seconda parte, in corrispondenza delle ore di lezione:  “per chi svolge la lezione durante la prima parte, la settimana inizia il lunedì pomeriggio e termina il mercoledì mattina; per quanti svolgono lezione nella seconda parte, la settimana inizia il mercoledì pomeriggio e termina il venerdì mattina”. Bella la vita del professore universitario nella penisola, impiegato pubblico a se stante, “non esistono cartellini da timbrare e gli impegni di lavoro sono interpretati in maniera alquanto lasca”. Il suo obbligo è di 350 ore annue, cifra che comprende le lezioni, le attività collegiali e le commissioni d’esame e di laurea. Il carico di lezioni può oscillare invece tra le 60 e le 120 ore, soglia molto più bassa di quella di un qualsiasi suo omologo europeo: 192 ore in Francia, 240 in Gran Bretagna, da 248 a 279 in Germania, da 252 a 360 in Spagna. E le stravaganze non cessano qui: “alcuni docenti mettono in calendario la prima lezione settimanale alle 18 e la seconda alle 8 del mattino successivo, esaurendo così, in breve tempo, la loro permanenza settimanale in Facoltà”. Tanto i codici etici introdotti dalle singole università sono, più che altro, petizioni di principi: le sanzioni restano sulla carta, e i docenti peggiori e improduttivi al loro posto. Anche se questo significa un cospicuo danno d’immagine e un minore trasferimento di risorse all’ateneo interessato. Stefano Pivato racconta poi che ai professori universitari come lui non viene richiesto di essere abili nell’insegnamento. Come se conoscere equivalesse automaticamente a saper insegnare. L’esame di abilitazione nazionale se ne disinteressa; i metodi sono cristallizzati ad almeno un secolo fa. In tempi in cui tutto scorre vorticosamente, sarebbero consigliabili nuove strade, ma invece si ricorre ancora alla lezione ex cathedra, “che è rimasta la stessa, di fronte a un pubblico di studenti aumentato a dismisura dal punto di vista quantitativo e qualitativo”. Mille anni dopo la fondazione dell’Università bolognese, a quindici anni di distanza dalla “riforma-spezzatino Berlinguer”, e a un tiro di binocolo dalla babelica “riforma Gelmini”, per l’opinione pubblica esterna “il docente è misurato dalla validità dei suoi studi, dall’attenzione che ricevono i suoi libri e dal prestigio delle case editrici che li fanno uscire”. Per la tribù universitaria, invece un docente vale esclusivamente per la funzione che occupa all’interno dell’Accademia. Anche se ha pubblicato un solo libro in decenni di “ricerca e insegnamento”. Anche se è di destra. O di sinistra. “Per la sua strenua difesa del territorio, dell’identità e dello jus loci è assimilabile al tipo antropologico leghista”. O lepenista. Uscire dal guado e aprirsi al mondo, anche fisicamente. Più doveri e meno diritti acquisiti. Perché “prima di qualsiasi riforma, bisogna riformare se stessi”. E perché spetta a loro il compito di formare le classi dirigenti del futuro. È questa la proposta, docente, di Stefano Pivato. 

Università, paradossale guerra ai fuori corso. "Gli atenei finiranno per regalare gli esami". Il ministero, nell'erogare i fondi, adesso penalizza i centri con troppi studenti in ritardo con le materie. E a subire le peggiori decurtazioni sono le grandi università. Che, per correre ai ripari, hanno solo due strade: aumentare le tasse o promuovere con più facilità, scrive Roberta Carlini su “L’Espresso” Caccia grossa al fuoricorso. L’eterna lamentela sul numero eccessivo di studenti italiani che non si laureano “in tempo” è diventata un problema contabile serio. Da quando dalle stanze ministeriali è uscita la tabella che assegna i fondi pubblici agli atenei, mettendo in pratica la grande novità del “costo standard per studente in corso”. Che di fatto cancella dall’università italiana almeno 700.000 persone, perché fuori corso. Risultato: gli atenei con maggior numero di studenti che non si laureano nei tempi dovuti hanno un danno economico consistente, e crescente. E crescono i timori per due conseguenze perverse del nuovo meccanismo: da un lato, l’aumento a tappeto delle tasse per i fuori corso; dall’altro, la tentazione di abbassare l’asticella delle prove d’esame, in modo da accelerare il percorso verso la laurea. “Nella nostra università ci sono circa 20mila studenti fuori corso: è pensabile che non pesino per niente? A loro non dobbiamo dare servizi, offerte, insegnamenti?”. Il rettore di Pisa Massimo Mario Augello è stato uno dei primi a protestare contro le nuove regole. L’ateneo che lui guida è uno dei più penalizzati: “non è questione di virtuosi o no”, afferma, ricordando classifiche internazionali sulle università che vedono Pisa tra le prime italiane. Il problema è un altro: “il numero dei fuori corso è più alto nei grandi atenei, quelli con un bacino di utenza più ampio”. Se in percentuale, nella classifica delle università, abbiamo quote di fuori corso superiori al 40 per cento in molte piccole università soprattutto del Sud, sopra la media ci sono anche alcune grandi, dalla Sapienza di Roma all’università di Pisa, da Napoli a Palermo.

I dati per singolo ateneo si possono vedere nel grafico: il numero degli studenti in corso è quello risultante dalla tabella di ripartizione del Fondo di finanziamento ordinario 2014, mentre il numero complessivo degli iscritti è da Anagrafe degli studenti. Tutti i dati si riferiscono all’anno accademico 2012/2013.

Atenei dai numeri imponenti, nei quali gli studenti messi fuori con il nuovo calcolo dei fondi sono migliaia e migliaia: alla Sapienza si “perdono”, ai fini delle entrate di bilancio, 42 mila iscritti, a Palermo 20 mila, alla Federico II di Napoli oltre 30 mila, alla Statale di Milano 18.000. In soldi, la differenza è dolorosa: per fare un esempio, la prima università d’Italia e d’Europa, la Sapienza, ha perso una decina di milioni di euro di fondi con il nuovo meccanismo. E siamo solo all’inizio: infatti se per quest’anno solo il 20 per cento del finanziamento è attribuito sulla base di questo calcolo, entro cinque anni si salirà al 100 per cento. Cioè, i fuori corso saranno solo un “peso morto” per gli atenei, un costo che c’è ma non conta nulla ai fini del finanziamento pubblico. “Il problema si può risolvere alla radice, con decreto del rettore: regaliamo ogni anno un esame a ogni studente, così molti di più si laureano in tempo”, ha detto provocatoriamente il rettore di Pisa. Ma non è solo una battuta. Anche il Cun – il Consiglio universitario nazionale – ha denunciato il rischio di “comportamenti non virtuosi per ridurre il numero degli studenti fuori corso”. Che vuol dire? Un occhio più benevolo nella valutazione degli esami? “Qui a Milano abbiamo circa 18 mila fuori corso: cerchiamo di ridurli, investendo su orientamento, diritto allo studio, tutoraggio, servizi – dice Giuseppe De Luca, prorettore alla didattica della Statale di Milano - Ma molti piccoli atenei non hanno un soldo per fare queste cose, potrebbero reagire semplicemente abbassando l’asticella degli esami”. Perché spesso un alto numero di fuori corso deriva dalla serietà e selettività delle lauree. O anche dal fatto che si tratta di studenti lavoratori. O addirittura “che hanno impiegato più tempo perché sono andati a fare degli Erasmus”, denuncia Alberto Campailla della rete Link degli studenti. “Tutti questi diventano fantasmi, non esistono. E però pagano sempre di più”, aggiunge Campailla. E’ questa l’altra possibile conseguenza “non virtuosa” del nuovo meccanismo. Infatti, dai tempi del governo Monti le università hanno meno vincoli nell’aumento delle tasse: se in generale i contributi chiesti agli studenti non possono salire oltre una certa quota del Ffo, per i fuori corso il tetto è saltato. Risultato: i soldi persi per “eccesso” di fuori corso si possono recuperare tassando il loro ritardo. Già in alcuni atenei questi pagano di più degli altri: alla Sapienza, dopo il terzo anno fuori corso si paga il 50 per cento in più; anche Palermo ha introdotto un aggravio per chi non si laurea in tempo, che era allo studio anche a Pisa ma è stato bloccato in extremis. “Lo abbiamo rifiutato, è un modo per fare cassa che non riteniamo giusto – dice il rettore Augello – Ma questo è uno degli effetti distorsivi delle nuove regole: tutte le università stanno guardando al serbatoio dei fuori corso per cercare risorse”. Chi è stato alle ultime riunioni dei rettori, dopo la stangata del “costo standard”, racconta che l’idea di aggravare la tassazione sui fuori corso è generalizzata. Giustificata da urgenze di cassa, e dal fatto che è una delle poche leve che gli atenei hanno; e dal vecchio stigma su quelli che l’allora sottosegretario Michel Martone (governo Monti) definì “gli sfigati”. Mentre cresce il numero di quanti lavorano e studiano, o restano indietro per altri motivi, spesso riconducibili proprio alla disorganizzazione delle università. “Il concetto di fuori corso è cambiato – dice Guido Fiegna, già direttore generale del Politecnico di Torino ed esperto dei numeri dell’università italiana – già si farebbe molta pulizia se si utilizzassero di più le iscrizioni a part time, per gli studenti lavoratori, per le quali però le università fanno resistenza, proprio per non perdere iscritti e fondi”. Non solo: “non si capisce perché nel costo standard si calcolano solo gli studenti iscritti ai corsi, e non chi sta facendo il dottorato di ricerca, come se questi non studiassero”.

La caduta (parziale) degli Dei, scrive Piero Sansonetti su "Il Garantista". Il segretario dell’Anm, il dottor Maurizio Carbone, dice che la riforma delle norme sulla responsabilità civile dei magistrati, approvata l’altro ieri dal Parlamento, «è un tentativo di normalizzare la magistratura». Lo ha dichiarato ieri, durante la conferenza stampa dell’ Anm, che è su tutte le furie per questa piccola riforma. Già: «normalizzare». Cioè rendere normale. Oggi la magistratura non è normale: è l’unica istituzione dello Stato ad essere al di sopra dello Stato, della legge, ad essere – nell’esercizio delle sue funzioni – immune dalla legge, e insindacabile, e non dipendente dallo Stato ma sovraordinata allo Stato. «Normalizzare» la magistratura, cioè toglierle la sua caratteristica di ”deità” (che non è la ”terzietà” di cui spesso l’Anm parla) non sarebbe una cosa cattiva. Libererebbe forse l’Italia da un sovrappeso ”feudale” che ancora ne condiziona profondamente la struttura democratica, e che probabilmente è in contrasto con lo spirito della Costituzione, che è una Costituzione Repubblicana e che prevede l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Alcuni magistrati dicono: ma noi siamo magistrati, non cittadini. E su questa base pretendono di non dover sottostare alla legge. Ritengono – temo in buona fede – che la saldezza di una società, e la sua moralità, e il suo essere ”società etica” (successivamente si passa all’idea dello ”Stato Etico”) non possono che essere affidati ad una entità e ad un gruppo di persone migliori degli altri (”aristoi”) i quali siano in grado di ”sapere” la vita degli altri, valutarla, giudicarla, punirla. Non è questa una funzione – pensano – che possa essere affidata alla democrazia, o al libero svolgimento delle relazioni umane e sociali, perché la democrazia è un buon sistema di governo ma è viziato da corruzione. E l’eccesso della libertà, della deregolamentazione, sono pericolose per la collettività. La democrazia deve essere ”corretta”, o comunque controllata, e anche la società, da qualcosa di superiore e di ”certamente morale”: e cioè da i giudici. Contestare questa funzione dei giudici vuol dire contestare la loro indipendenza. E mettere in discussione l’indipendenza dei giudici vuol dire correre il rischio che la magistratura finisca per non essere più autonoma dalla politica. L’autonomia dalla politica non è vista come una condizione di funzionamento della magistratura, o come un elemento necessario nell’equilibrio dei poteri, ma come un valore assoluto al quale una società ”morale” deve sottomettersi, e in assenza del quale la società diventa ”immorale” e la democrazia, e le istituzioni, scendono in una condizione di subalternità alla politica. La politica è ”il male” , la giustizia (lo dice la parola stessa) è il bene, e il bene può governare il male, e può redimerlo, correggerlo, sottometterlo. Il male non solo non può governare il bene, ma non può aspirare ad essere alla pari col bene. Ecco, questo ragionamento è alla base delle molte dichiarazioni rilasciate ieri dal dottor Carbone, e anche dal presidente dell’Anm Sabelli. Il quale ha rimproverato al governo di avere promesso una riforma della Giustizia in 12 punti, e di avere realizzato invece l’unico punto che non va bene, e cioè la riforma della responsabilità dei giudici. I magistrati invece – ha spiegato – vogliono cose diverse: per esempio la riduzione della prescrizione, l’estensione dei poteri speciali ”antimafia” anche ad altri reati, il processo telematico (cioè la cancellazione del diritto dell’imputato ad essere presente al suo processo), la riduzione dei gradi di giudizio, eccetera. In sostanza, la proposta dell’Anm (che più o meno è stata organicamente strutturata nella proposta di riforma del dottor Nicola Gratteri) è quella di escludere norme che riportino alla normalità la magistratura, ristabilendo la legittimità dello Stato liberale e dell’equilibrio dei poteri, ma, viceversa, decidere un forte aumento dei poteri della magistratura, un ridimensionamento drastico dei diritti dell’imputato, e un rafforzamento della condizione di preminenza e di insindacabilità dei pubblici ministeri. Sabelli ha anche annunciato che l’Anm ha chiesto un incontro al Presidente della Repubblica. Per dirgli cosa? Per esprimere le proprie rimostranze contro il Parlamento. Già nella richiesta dell’incontro c’è un elemento di scavalcamento dell’idea (puramente platonica in Italia) dell’indipendenza dei poteri. La magistratura ritiene che il suo compito non sia quello semplicemente di applicare le leggi, ma di condizionarne il progetto e la realizzazione. L’associazione magistrati chiede al Presidente della Repubblica di frenare, o condizionare, o rimproverare il Parlamento. E vuole discutere nel merito delle leggi. La magistratura considera inviolabile la propria indipendenza dagli altri poteri, e inaccettabile la pretesa di indipendenza degli altri poteri dalla magistratura. Devo dire che la passione con la quale i magistrati hanno reagito alla miniriforma della responsabilità civile mi ha colpito soprattutto per una ragione: questa riforma è quasi esclusivamente simbolica. La responsabilità dei giudici resta limitatissima. L’unica vera novità è la rimozione del filtro che in questi vent’anni aveva permesso solo a 4 cittadini di ottenere un risarcimento per la mala-giustizia (nello stesso periodo sono stati processati e condannati 600.000 medici). Tutte le altre barriere restano. I magistrati saranno giudicati solo in caso che sia accertata una colpa grave, o addirittura un dolo nel loro comportamento, saranno giudicati non da una autorità esterna ma dai loro colleghi (visto che oltretutto non esiste una divisione delle carriere) e se alla fine saranno ritenuti colpevoli pagheranno con una sanzione che in nessun caso potrà superare la metà dell’ammontare di un anno di stipendio. Voi conoscete qualche altra categoria professionale protetta fino a questo punto? La probabilità di essere condannati per i magistrati è così bassa, e l’esiguità della pena così forte, che chiunque può mettersi al riparo pagando una assicurazione con poche decine di euro. Cosa che non vale per i medici, o gli ingegneri (non parliamo dei giornalisti) che essendo espostissimi al rischio di condanna (anche senza dolo e senza colpa grave) se vogliono sottoscrivere una assicurazione devono pagare migliaia e migliaia di euro. Diciamo che il privilegio non è affatto toccato da questa riformetta. Appena appena scalfito. E allora? Il fatto è che comunque la riforma ha un valore ideale, è una specie di metafora. Il Parlamento, per una volta, non si è inginocchiato davanti alla magistratura. E’ questa la novità che ha messo in allarme i settori più corporativi della magistratura. Il timore è che davvero possa cambiare il clima politico e possa essere aperta una via alle riforme vere, e al ridimensionamento della ”Divina Giustizia”. No, la riforma non comporterà la caduta degli Dei. Solo che gli Dei non sopportano gli oltraggi. Sono permalosi. E’ sempre stato così, dai tempi di Omero. E questa legge è uno sberleffo inaccettabile, anche se innocuo.

Magistrati: ecco perché non pagheranno mai. La nuova riforma della responsabilità civile dei magistrati? Non cambierà nulla. Perché l’arma è già spuntata in partenza, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Vi hanno detto che adesso cambia tutto? È un bluff. Non hanno pagato un euro negli ultimi 26 anni e non pagheranno nemmeno domani. Il 25 febbraio la Camera ha approvato la nuova legge sulla responsabilità civile, e da allora magistrati e giudici gridano all’indipendenza violata, strepitano all’attentato alla Costituzione. I più vittimisti ne parlano addirittura come di una «punitiva ditata negli occhi». Tutti paventano «uno tsunami di ricorsi». Ma è solo una pantomima. Ne sono convinti molti giuristi e ne sono certi soprattutto gli avvocati, che continueranno a non utilizzare lo strumento. Perché non funziona e non funzionerà. Sergio Calvetti, penalista di Vittorio Emanuele di Savoia, ha appena incassato 39 mila euro dalla Corte d’appello di Roma che ha riconosciuto al suo cliente l’ingiusta detenzione del 2006, più danni accessori e d’immagine. Calvetti, però, non è riuscito nell’impresa invocando la responsabilità civile del magistrato che a Potenza condusse l’indagine, quell’Henry John Woodcock che fu star di cento inchieste tanto roboanti quanto avare di risultati: «Abbiamo ottenuto questo risultato come risarcimento da ingiusta detenzione» spiega il legale «e questo anche se subimmo la pervicace volontà di trattenere in quella sede il processo, pur senza alcuna competenza territoriale». Francesco Murgia, con Calvetti difensore storico di Vittorio Emanuele, aggiunge che in realtà una citazione per responsabilità civile fu presentata nei confronti di Woodcock nel dicembre 2011, quando cadde l’ultima accusa contro il loro cliente. Ma fu dichiarata inammissibile perché il tribunale stabilì fosse «non tempestiva»: avrebbe dovuto partire nel giugno 2006, ai tempi dell’ordine di custodia cautelare. Perché questo, assurdamente, prevede la legge (e oggi viene confermato dalla sua riforma): che per agire il cittadino aveva due anni, ora tre in base alla riforma. Con il trucco, però: perché l’orologio scatta dal momento in cui l’arresto o il primo provvedimento cautelare viene respinto. «Ma come faccio a iniziare un’azione di responsabilità, se sono ancora sotto scacco?» protesta Murgia. È con ostacoli come questo che la Legge Vassalli, varata il 13 aprile 1988 come (inadeguata) risposta al referendum radicale che un anno prima, con l’80 per cento di sì, aveva cancellato tre articoli del codice che proteggevano come un castello medievale magistrati e giudici dalle azioni civili dei cittadini, ha continuato a garantire piena protezione alla categoria. Da allora sono state appena 410 le azioni intentate da vittime di malagiustizia, e sono state più che decimate dalla valutazione di ammissibilità, il cosiddetto «filtro»: un giudizio preventivo svolto nel tribunale competente per territorio. C’è chi, come Piercamillo Davigo, giudice di Cassazione e fondatore della nuova corrente giudiziaria Autonomia e indipendenza, nonché nemico della riforma, analizza il dato con sarcasmo: «La responsabilità civile dei magistrati non è un problema, visto che i cittadini fanno poche domande». Altri numeri in realtà dimostrano che in Italia un problema di malagiustizia esiste, ed è grave. Prima della Legge Vassalli, dal 1945 al 1988, l’Eurispes e l’Osservatorio permanente sulle carceri calcolano 4,5 milioni di errori giudiziari. Possibile che dopo il 1988 il fenomeno sia scomparso? Certo che no. Il punto è che le citazioni per responsabilità civile sono state poche perché la legge non ha mai funzionato. Dal 1988 a oggi la Cassazione ha stabilito sette risarcimenti in tutto, uno ogni 7,5 milioni di processi penali aperti nel periodo. C’è il caso di un’azienda agricola grossetana fallita nel 1998 per l’errato sequestro di una tenuta, deciso in un’inchiesta per reati ambientali (500 mila euro risarciti). C’è il caso di un pm siciliano che nel 2002 non tenne nel debito conto una serie di lettere, acquisite dai Carabinieri, che avrebbero potuto evitare un omicidio-suicidio di coppia: i familiari della donna uccisa, nel 2009, hanno ottenuto 95 mila euro. Ma in nessun caso, mai, lo Stato si è rivalso sui pm o sui giudici ritenuti colpevoli di dolo o colpa grave. Nessuno di loro ha mai pagato nulla. L’ultima pronuncia, per ora ferma al primo grado, riguarda un’inchiesta guidata nel 2004 dall’ex pm calabrese Luigi De Magistris, poi migrato in politica. Lo scorso 3 dicembre il Tribunale di Roma ha condannato lo Stato a pagare meno di 25 mila euro a Paolo Antonio Bruno, un magistrato di Cassazione che nel 2004 fu ingiustamente accusato di associazione mafiosa da De Magistris. Si vedrà come finirà il caso. Non ha mai nemmeno pensato di avvalersi della Legge Vassalli, invece, l’imprenditore calabrese Antonio Saladino, che pure dal 2006 si proclama vittima di un’altra, mitica inchiesta di De Magistris: la «Why not», che nel 2006 piazzò Saladino al centro di una ragnatela di presunte corruttele ma poi si risolse praticamente in nulla: «Citarlo in giudizio? Quell’inchiesta mi ha rovinato economicamente» dice Saladino «però io non ci ho mai nemmeno pensato. Sarebbe stata una povera battaglia contro i mulini a vento, e credo lo sarebbe anche oggi». È così. Avvocati e presunte vittime di giustizia hanno presto capito che la Legge Vassalli era utile come un cucchiaio bucato e hanno scelto altre strade. Dal 1991, per esempio, cioè da quando esistono i risarcimenti per l’ingiusta detenzione, in 23.326 hanno ottenuto un risarcimento: in 23 anni lo Stato ha versato loro 581 milioni di euro. La riforma, purtroppo, rischia di non cambiare nulla. «Oggi i magistrati si lamentano, ma è lo stesso vacuo bla-bla di 26 anni fa, con le medesime parole d’ordine» dice Gian Domenico Caiazza, penalista romano e presidente della Fondazione Piero Calamandrei. Caiazza è un’autorità, in materia. Nell’aprile 1988 era nel collegio che, a nome di un Enzo Tortora morente di cancro, chiese il risarcimento per il disastro giudiziario che cinque anni prima, a Napoli, aveva coinvolto il giornalista in un’inchiesta su camorra e droga. Era stato proprio il caso di Tortora, riconosciuto innocente dopo sette mesi di custodia cautelare e una gogna aberrante, a dare il là al referendum e a garantirne il successo. Nell’aprile 1988 la Legge Vassalli, appena varata, conteneva un articolo che ne impediva l’applicazione retroattiva. Poiché il referendum aveva abrogato le norme antecedenti, i difensori di Tortora si trovarono nella peculiare situazione di agire senza limiti. «Per la prima e forse unica volta nella storia di questo Paese facemmo causa ai magistrati come se fossero normali cittadini» ricorda Caiazza. «Ma poi il Tribunale di Roma passò la palla alla Consulta. Questa stabilì che l’articolo sulla irretroattività della Legge Vassalli era incostituzionale nella sola parte che riguardava il filtro sulla fondatezza delle nostre pretese: quella mancanza violava il principio d’indipendenza e autonomia della magistratura». Insomma: il filtro del giudizio di ammissibilità doveva esserci, per forza. Risultato? «A quel punto per il risarcimento avremmo dovuto partire daccapo» dice Caiazza «ma con quella pagliacciata avevamo perso due anni. Decidemmo di lasciar perdere». Il ricordo dell’avvocato di Tortora è preciso (la sentenza della Consulta è la n. 468 del 22 dicembre 1990) e oggi fa scoppiare come una bolla di sapone la principale, presunta innovazione della riforma appena varata. Caiazza ne è certo: «La questione sull’abolizione del filtro potrà essere sottoposta in ogni momento alla Corte costituzionale, che con tutta probabilità confermerà il suo orientamento di 25 anni fa». Anche Davigo è d’accordo: «La Consulta si è già pronunciata: l’eliminazione del filtro, con tutta evidenza, è costituzionalmente illegittima». Suona quindi troppo ottimista il tweet di Gaia Tortora, che la sera in cui è stata varata la riforma l’ha salutata come una vittoria alla memoria di suo padre (e il premier Matteo Renzi si è subito appropriato di quella generosa certificazione con un re-tweet). Anche perché intanto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, si sbraccia per tranquillizzare l’Associazione nazionale magistrati. Il Guardasigilli ha già garantito alla categoria che non c’è nulla di cui preoccuparsi, che il governo «non ha alcun intento punitivo», che «resterà deluso chi si aspetta che i giudici siano condannati ogni due per tre», e addirittura che tra sei mesi sarà fatto «un tagliando» per verificare «eventuali eccessi». Nella storia d’Italia non s’era mai vista una legge con «retromarcia integrata». Beniamino Migliucci, presidente dei penalisti, è critico: «Il tagliando è un’assurdità giuridica e politica. E chi ipotizza una valanga di ricorsi fa disinformazione. Perché un imputato non può citare il suo giudice: il ricorso è improcedibile, impossibile, fino a quando non c’è una sentenza di Cassazione». Anche Giuseppe Di Federico, docente emerito di diritto penale a Bologna e tra i maggiori giuristi italiani, è scettico: «Non credo cambierà nulla. La nostra giustizia è del tutto deresponsabilizzata: la valutazione delle carriere dei magistrati fa passare tutti, al contrario di quanto accade in altri Paesi, e manca un vero sistema sanzionatorio. E poi voglio proprio vederli, gli avvocati, che si espongono a fare causa al loro giudice…». Una causa, oggi, non la farebbe nemmeno Pardo Cellini, il penalista che pure ha scoperchiato il più grave errore giudiziario italiano di tutti i tempi: quello che è costato 39 anni di processi a Giuseppe Gulotta, un muratore trapanese che nel 1976, a 18 anni, fu arrestato per l’omicidio di due carabinieri e solo dopo  22 anni di carcere, nel febbraio 2012, è stato riconosciuto innocente e liberato. Fin dalle prime udienze Gulotta dichiarò che la confessione gli era stata estorta con violenze e torture da parte dei Carabinieri. «E i suoi processi sono stati viziati da errori e lacune» dice Cellini. «Però abbiamo preferito chiedere il risarcimento come danno da errore giudiziario». Perché? Ma perché l’avvocato conosce a perfezione quali siano le tortuosità della responsabilità civile: «È un sistema che non funziona e non funzionerà» sospira. Il problema di Gulotta, che a 57 anni oggi vive della carità di un parroco, è che sono trascorsi già 36 mesi dalla sua riabilitazione ma non ha ancora visto un euro: l’avvocatura dello Stato si oppone, insiste nella tesi paradossale che il processo fu originato dalla sua confessione, per quanto estorta.«La vicenda Gulotta» conclude Cellini «mostra la resistenza dei tribunali e il disinteresse delle istituzioni. E io non vorrei proprio dirlo, ma temo che casi come il suo potrebbero accadere ancora. Per questo la responsabilità civile va rivoluzionata».  Più positivo, a sorpresa, è un penalista che non ha mai simpatizzato con la magistratura: «La nuova legge è equilibrata e migliorerà la situazione» dice Maurizio Paniz, ex deputato del Pdl e avvocato di Elvo Zornitta, l’ingegnere veneto che fu ingiustamente accusato di essere «Unabomber», l’autore di una serie di 30 attentati dinamitardi dal 1994 al 2004, con sei feriti. Scagionato nel 2009, oggi Zornitta sta per chiedere il risarcimento allo Stato: non per responsabilità civile, però, ma ancora una volta come riparazione di un errore giudiziario. Per partire, Paniz aspetta le motivazioni della Cassazione che in dicembre ha condannato Ezio Zernar, il poliziotto che confezionò false prove per incastrare Zornitta. «La nuova responsabilità civile è migliore della vecchia» dice Paniz «perché specifica come cause di punibilità la manifesta violazione della legge e il travisamento delle prove. È un bene: a me sono capitati diversi processi in cui, a volte dolosamente, una prova veniva valutata in modo errato». La morale? La tira Grazia Volo, tra i più noti penalisti italiani: «Questa riforma arriva troppo tardi, 28 anni dopo il referendum. È una riforme sfilacciata, scritta da un legislatore superficiale e giustizialista, che intanto aumenta insensatamente le pene. E non cambierà nulla». Una morale ancora più severa? Dice Carlo Nordio, procuratore aggiunto di Venezia, da sempre controcorrente: «Il magistrato che manda in galera un indagato contro la legge non deve pagare. Dev’essere buttato fuori dalla magistratura». Chissà se il ministro Orlando ne terrà conto, nel suo «tagliando».

Ma ora i magistrati saranno più responsabili? La legge sulla responsabilità civile cambia poco. Con un rischio: l'eliminazione del giudizio preventivo di ammissibilità potrà ingolfare i tribunali, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Uno legge le cronache giudiziarie di oggi, perse come sono tra gli altissimi lamenti sulla fine dell'autonomia della magistratura e le infinite proteste di categoria, e pensa: caspita, che rivoluzione dev'essere questa riforma della responsabilità civile. Poi va a leggersi i 7 articoletti della legge e pensa: caspita, ma qui cambia davvero poco. Perché, in base alla legge varata ieri in via definitiva dalla Camera, da oggi in poi dovrebbe venire punito il magistrato che si macchia di una "violazione manifesta della legge", oppure di un "travisamento del fatto o delle prove". Ma questo cambia obiettivamente molto poco rispetto alla Legge Vassalli dell'aprile 1988. Questa, fino a ieri, prevedeva che ogni cittadino potesse chiedere i danni allo Stato se un magistrato  adottava un atto o  un provvedimento giudiziario "con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni, ovvero per diniego di giustizia"; e dava  facoltà al cittadino "di agire contro lo Stato" anche "per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale". Differenze? Mah... Ecco, sì, la nuova legge specifica meglio che da oggi il cittadino può chiedere anche la punizione del magistrato che ha sbagliato nell'emissione di "un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge, oppure senza motivazione". Quanto al resto, poco cambia. Sì, è vero, si allungano di un anno (da due a tre) i termini per avviare l'azione legale. E oggi il governo è obbligato a esercitare l'azione di rivalsa nei confronti del magistrato ritenuto colpevole. Aumenta anche la quota di stipendio che il magistrato stesso dovrà restituire allo Stato: al massimo metà del suo stipendio di un anno (prima era un terzo), senza però che si possa superare un terzo del suo stipendio mensile nel caso di pagamenti mediante trattenuta. Ma queste non sono certo modifiche sostanziali. E allora? Non cambia davvero nulla? No: una modifica sostanziale riguarda il cosiddetto "filtro". La Legge Vassalli all'art. 5 prevedeva infatti che la domanda di risarcimento presentata dal cittadino dovesse ricevere una valutazione preventiva di ammissibilità: in tre gradi di giudizio (fra tribunale, corte d'appello e Cassazione) i giudici dovevano stabilire se la domanda fosse o no "manifestamente infondata". Così, per stabilire se un magistrato dovesse effettivamente pagare per un suo errore, servivano così nove gradi di giudizio: tre per stabilire l'ammissibilità del giudizio, tre per stabilire il fatto in sé, e altri tre per la rivalsa da parte dello Stato nei confronti del magistrato che aveva agito con dolo o colpa grave. È per questo che pochissimi finora hanno pagato. Per darvi un'idea: tra 1988 e 2014 tale è stata la fiducia degli italiani nella Legge Vassalli che sono state presentate in tutto 410 domande, davvero poche. Quelle ritenute "ammissibili" sono state appena 35, nemmeno una su dieci, e di queste soltanto sette alla fine sono state accolte (per l'esattezza 2 a Perugia e una a testa a Brescia, Caltanissetta, Messina, Roma, Trento). La riforma, però, abolisce il giudizio di ammissibilità e l'art. 5. Questo riduce a sei i gradi di giudizio. Secondo alcuni c'è il rischio che questo possa esporre i tribunali italiani a una valanga di ricorsi. Tant'è vero che i magistrati sono riusciti a strappare al governo l'impegno a fare un "tagliando" della riforma tra sei mesi. Sul punto è abbastanza scettico invece Giuseppe Di Federico, uno dei primi giuristi italiani (è docente emerito di diritto penale a Bologna ed ex membro del Csm), che nel 1987 fu tra i promotori del vittorioso referendum radicale sulla responsabilità civile, poi rintuzzato dalla Legge Vassalli. "Non mi attendo uno tsunami di ricorsi" dice a Panorama.it "perché mi domando quanti avvocati saranno disposti a esporsi in casi di questo genere. E comunque prevedo un estremo rigore da parte dei tribunali".

Berlusconi, vent’anni di rapporti con la magistratura. Dalle «toghe rosse» ai ringraziamenti per i giudici della Cassazione che hanno confermato l’assoluzione nel processo Ruby. Dal 22 novembre 1994 - data in cui Berlusconi, capo del governo, riceve un invito a comparire dalla Procura di Milano che sta indagando sulle tangenti alla Guardia di finanza - fino a oggi, sono stati altalenanti e spesso conflittuali i rapporti del leader di Forza Italia con la magistratura, scrive “Il Corriere della Sera”.

1. Il pool «Mani Pulite» e l’avviso di garanzia del 1994. Il primo interessamento della giustizia nei confronti di Berlusconi risale al 1983 quando la Guardia di finanza segnalò un suo presunto coinvolgimento in un traffico di droga con la Sicilia. L’inchiesta venne archiviata. La prima condanna, invece, è del 1990: la Corte d’appello di Venezia, dichiara Berlusconi colpevole di aver giurato il falso davanti ai giudici, a proposito della sua iscrizione alla lista P2. Nel settembre 1988, infatti, in un processo per diffamazione da lui intentato contro alcuni giornalisti, Berlusconi aveva dichiarato al giudice: «Non ricordo la data esatta della mia iscrizione alla P2, ricordo che è di poco anteriore allo scandalo». Nonostante la Corte d’appello di Venezia dichiari Berlusconi colpevole (il giudice era Luigi Lanza), il reato è considerato estinto per l’amnistia del 1989.  Il 22 novembre del 1994 Berlusconi, capo del governo, mentre presiede la Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla criminalità transnazionale, riceve un invito a comparire dalla Procura di Milano che stava indagando sulle tangenti alla Guardia di finanza. Le tangenti servivano per alleggerire le verifiche alle società Mondadori, Mediolanum, Videotime, Telepiù: in primo grado Berlusconi è stato condannato a 2 anni e 9 mesi; in appello, grazie alle attenuanti generiche, è scattata la prescrizione.

2. All Iberian, dalle accuse alla prescrizione. Il 12 luglio 1996 Silvio Berlusconi, l’ex segretario del Psi Bettino Craxi, l’amministratore delegato di Mediaset Ubaldo Livolsi vengono rinviati a giudizio con altre nove persone per l’ inchiesta sul presunto finanziamento illecito della Fininvest, attraverso la società All Iberian, al Psi nel 1991. Il processo inizia il 21 novembre 1996 davanti ai giudici della seconda sezione penale del tribunale di Milano. Il pm Francesco Greco chiede per Berlusconi 5 anni e 6 mesi di reclusione e 12 miliardi di multa poi, dopo lo stralcio del reato di falso in bilancio, riformula la richiesta in due anni e mezzo di reclusione e 12 miliardi di multa. Nel 1998 Berlusconi viene condannato in primo grado (2 anni e 4 mesi). «I giudici hanno riscritto il codice penale per allineare le norme alle esigenze repressive della procura» dichiara Berlusconi. In appello però, nel 2000, sempre per le attenuanti generiche scatta la prescrizione.

3. Colombo, il caso Lentini e la prescrizione. C’e’ anche un capitolo «sportivo»: versamento in nero di una decina di miliardi dalle casse del Milan a quelle del Torino, per l’acquisto di Gianluigi Lentini. Il dibattimento si conclude con la dichiarazione che il reato è prescritto, grazie alla legge che abolisce il falso in bilancio. È lo stesso pubblico ministero Gherardo Colombo a chiedere l’applicazione della prescrizione, dopo che il tribunale respinge la sua eccezione di incostituzionalità della normativa varata nel marzo 2002 in materia di falso in bilancio.

4. Il tribunale civile e il risarcimento a De Benedetti. Berlusconi è poi coinvolto in una lunga serie di processi per la corruzione dei giudici romani in relazione al Lodo Mondadori e al caso Sme. Sono i processi che hanno protagonista Stefania Ariosto, il teste «Omega» e Cesare Previti. Condanne per Cesare Previti e il giudice Metta. Per quanto riguarda il Lodo Mondadori, dopo una guerra durata vent’anni, si stabilisce che Berlusconi deve risarcire De Benedetti. Luigi de Ruggiero, Walter Saresella e Giovan Battista Rollero sono i tre giudici della seconda sezione civile della Corte d’Appello di Milano che emettono la sentenza nell’ambito della vicenda del Lodo Mondadori che condanna Fininvest al pagamento di circa 560 milioni di euro. La cifra diventa 494 milioni dopo la Cassazione.

5. De Pasquale e l’accusa nel caso Mills, ma è prescrizione. Le procure di Caltanissetta e Firenze che hanno indagato sui mandanti a volto coperto delle stragi del 1992 e del 1993 hanno svolto indagini sull’eventuale ruolo che Berlusconi e Dell’Utri possono avere avuto in quelle vicende. L’inchiesta è stata chiusa con l’archiviazioni nel 1998 (Firenze) e nel 2002 (Caltanissetta). La procura di Palermo, inoltre, ha indagato su Berlusconi per mafia: concorso esterno in associazione mafiosa e riciclaggio di denaro sporco. Nel 1998 l’indagine e’ stata archiviata per scadenza dei termini massimi concessi per indagare. Definitiva la prescrizione per il caso Mills, l’avvocato inglese che avrebbe ricevuto 600 mila euro da Berlusconi per testimonianze reticenti ai processi per All Iberian e tangenti alla Gdf.  A sostenere l’accusa contro Berlusconi il pm Fabio De Pasquale.

6. Caso Ruby, Boccassini è pubblica accusa. Il procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini, insieme al pm Antonio Sangermano, rappresenta la pubblica accusa nel processo di primo grado sul caso Ruby. I rapporti di Berlusconi con Boccassini sono conflittuali. L’ex premier respinge le accuse e condanna l’operato dei pm di Milano.

7. Tre donne per la condanna in primo grado. Il 24 giugno 2013, nel processo Ruby, Silvio Berlusconi viene condannato in primo grado a 7 anni per entrambi i reati contestati: concussione per costrizione e prostituzione minorile. Il collegio della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che giudica Berlusconi è composto da donne: la presidente Giulia Turri, che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per il “fotografo dei vip” Fabrizio Corona; Carmen D’Elia, che già nel 2002 aveva fatto parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi; Orsola De Cristofaro, la terza componente del collegio, con un passato da pm e gip, già giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita.

8. L’assoluzione in appello. Il presidente si dimette. Il processo d’appello per il caso Ruby si tiene davanti alla seconda Corte d’Appello: Enrico Tranfa è il presidente, Concetta Lo Curto e Alberto Puccinelli i giudici a latere. Berlusconi viene assolto dal reato di concussione «perché il fatto non sussiste» e dal reato di prostituzione minorile «perché il fatto non costituisce reato». L’ex Cavaliere commenta che «la maggioranza magistrati è ammirevole». Enrico Tranfa, il presidente, si dimette subito dopo aver firmato le motivazioni della sentenza, in dissenso con la sentenza presa a maggioranza con il sì degli altri due giudici. E così, dopo 39 anni di servizio, a 15 mesi dalla pensione, il magistrato lascia anzitempo la toga. Tranfa ha esercitato la professione in gran parte a Milano. Negli anni 90 è stato all’ufficio Gip. Come giudice delle indagini preliminari, nel periodo di Mani Pulite, si era occupato di uno dei filoni dell’inchiesta sugli appalti Anas e di quella sulla centrale dell’Enel a Turbigo per cui dispose l’arresto, tra gli altri, dell’ex assessore lombardo in quota alla Dc Serafino Generoso. Nel 2002 è stato nominato presidente del Tribunale del Riesame sempre di Milano. Come giudice d’appello ha confermato, tra l’altro, la condanna a tre anni di carcere per Ubaldo Livolsi per la bancarotta di Finpart. Concetta Lo Curto, entrata in magistratura nel 1990, è stata giudice al Tribunale di Milano, prima all’ottava sezione penale e poi alla terza dal 1995 al 2013 quando poi è passata in Corte d’Appello. Nel 2010 assolse l’allora deputato del Pdl Massimo Maria Berruti, imputato per la vicenda Mediaset (la sua posizione era stata stralciata da quella di Berlusconi e degli altri). Puccinelli, entrato in magistratura nell’89, è stato il giudice relatore al processo di appello che si è concluso con la prescrizione per Berlusconi, imputato per la vicenda del «nastro Unipol».

9. Processo Ruby, il pg De Petris contro l’assoluzione. La sesta sezione penale della Corte di Cassazione confermato l’assoluzione, che diventa definitiva, di Silvio Berlusconi nel processo Ruby. Il sostituto procuratore della Corte d’Appello Pietro De Petris aveva fatto ricorso in Cassazione contro l’assoluzione.

10. Processo Mediaset, l’accusa di De Pasquale e Spadaro. Il 18 giugno 2012 i pm di Milano Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono una condanna a 3 anni e 8 mesi di reclusione per Silvio Berlusconi, imputato di frode fiscale nel processo sulle presunte irregolarità nella compravendita dei diritti tv da parte di Mediaset.  Il 26 ottobre 2012 l’ex premier viene condannato a 4 anni di reclusione, cinque anni di interdizione dai pubblici uffici e tre anni di interdizione dagli uffici direttivi delle imprese.

11. Pena più severa di quanto richiesto. Il presidente del collegio che condanna Berlusconi in primo grado è Edoardo D’Avossa con i giudici a latere Teresa Guadagnino e Irene Lupo). La pena è maggiore di quanto chiesto dai pm. Berlusconi commenta: «È una condanna politica, incredibile e intollerabile. È senza dubbio una sentenza politica come sono politici i tanti processi inventati a mio riguardo».

12. Il giudice Galli conferma in appello. L’8 maggio 2013, dopo quasi sei ore di camera di consiglio, i giudici della seconda Corte d’Appello di Milano, presieduti da Alessandra Galli (nella foto Brandi/Fotogramma), confermano la condanna a 4 anni di reclusione, di cui tre coperti da indulto, per Silvio Berlusconi, accusato di frode fiscale nell’ambito del processo sulla compravendita dei diritti tv Mediaset. Berlusconi parla di «persecuzione» da parte della magistratura che vuole eliminarlo dalla scena politica.

13. Esposito, la Cassazione e l’intervista contestata. Il primo agosto 2013 la Cassazione conferma la condanna a quattro anni di carcere. A leggere la sentenza sul processo Mediaset è il presidente della sezione feriale della corte di cassazione Antonio Esposito. Nei giorni successivi, il giudice Esposito finisce nella bufera per un’intervista a «Il Mattino» in cui parla della sentenza sul processo Mediaset-Berlusconi. Lo stesso magistrato farà seguire una smentita riguardo ad alcuni passaggi. In particolare, Esposito smentisce anche «di aver pronunziato, nel colloquio avuto con il cronista - rigorosamente circoscritto a temi generali e mai attinenti alla sentenza, debitamente documentato e trascritto dallo stesso cronista e da me approvato - le espressioni riportate virgolettate: “Berlusconi condannato perché sapeva non perché non poteva non sapere».

10 marzo 2015. La Corte di Cassazione assolve. Questa donna (la Boccassini) ha distrutto il Paese Ma resterà impunita. Anche un magistrato come Emiliano si indigna: "Chieda scusa". E nonostante tutto Ilda Boccassini rimarrà al suo posto come sempre, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Per La Repubblica, Berlusconi non è un innocente perseguitato ma un «colpevole salvato», come si evince dal titolo che racconta con stizza dell'assoluzione definitiva in cassazione sul caso Ruby. Il Corriere della Sera affida invece al suo segugio Luigi Ferrarella la difesa senza se e senza ma dell'operato dei pm milanesi. Un ufficio stampa della procura non avrebbe saputo fare di meglio e, ovviamente, Ferrarella tace sul fatto che lui stesso e autorevoli colleghi del suo giornale nel corso di questi anni avevano già emesso la sentenza di colpevolezza in centinaia di articoli nei quali si spacciavano per prove certe i farneticanti teoremi dell'accusa. Non sappiamo invece il commento di Ilda Boccassini, la pm che ha fatto da redattore capo di quella grande messa in scena truffaldina ed esclusivamente mediatica che è stata l'inchiesta Ruby. Una cosa però conosciamo. E cioè che la Boccassini, grazie a questa inchiesta, è stata inclusa dalla rivista statunitense Foreign Policy al 57esimo posto nella lista delle personalità che nel corso del 2011 hanno influenzato l'andamento del mondo nella politica, nell'economia, negli esteri.Non stiamo parlando di un dettaglio. Anche dall'altra parte dell'Oceano erano giunti alla conclusione che le notizie costruite dalla procura di Milano e spacciate da Corriere e Repubblica non costituivano un mero fatto giudiziario ma avevano contribuito in modo determinante a modificare giudizi sull'Italia con ricadute decisive financo sul piano internazionale. Oggi, grazie alla sentenza di Cassazione, sappiamo che si trattò di una iniziativa scellerata, completamente falsa, paragonabile a un complotto per destabilizzare un Paese sovrano. Complotto ordito da magistrati e sostenuto da complici, o almeno utili idioti, nelle redazioni dei giornali nazionali ed esteri, nelle stanze di governi stranieri e in quelle della politica di casa. A partire da quella più prestigiosa del Quirinale, allora abitata da Giorgio Napolitano. Il quale non solo non mosse un dito per fermare il linciaggio del suo primo ministro, ma, proprio sull'onda di quella destabilizzazione, ricevette in segreto banchieri, editori e imprenditori di sinistra per organizzare un controgoverno (Monti, per intenderci) nonostante quello in carica godesse ancora della piena fiducia del Parlamento. Alla luce di tutto questo, e in attesa che la Corte europea faccia giustizia di un'altra bufala giudiziaria (la condanna di Berlusconi per evasione fiscale, avvenuta grazie al trucco di assegnare la sentenza non al giudice naturale, ma a un collegio costruito ad hoc, guarda caso su sollecitazione del Corriere della Sera ), ora si pongono problemi seri che meritano risposte veloci e all'altezza di un Paese libero e democratico. Riguardano la permanenza nelle loro delicate funzioni dei responsabili e la riabilitazione politica della vittima Berlusconi. Nessuno, su questo, può permettersi di fare il pesce in barile.

Il giallo Tranfa e quei Servizi rimasti muti, scrive Giovanni Maria Jacobazzi su “Il Garantista”. Il processo Ruby non è stato un processo come tanti. Molti aspetti, oscuri, hanno connotato questa vicenda penale che ha portato alla caduta di un governo e allo sfascio di un partito. Tralasciando lo sputtanamento internazionale e il ludibrio planetario che hanno investito Silvio Berlusconi e, di riflesso, il Paese. Due, principalmente, sono gli episodi che fanno riflettere e che ad oggi non hanno avuto risposta. Episodi che riguardano proprio l’inizio e la fine dell’inchiesta. Il primo riguarda le modalità con cui sono state condotte le indagini preliminari da parte della Procura della Repubblica di Milano. Il secondo le dimissioni del giudice Enrico Tranfa, il presidente del collegio che in appello ha assolto Silvio Berlusconi dopo la condanna in primo grado a sette anni. Per scoprire cosa accadesse la sera nella residenza di Arcore, la Procura di Milano non ha lesinato energie. Con un dispiegamento di forze senza pari in relazione ai tipo di reato perseguito, una ipotesi di prostituzione minorile e di concussione, i pubblici ministeri milanesi hanno posto in essere un numero elevatissimo di intercettazioni telefoniche. Tranne Silvio Berlusconi che, essendo parlamentare, non poteva essere intercettato, chiunque entrasse in contatto con Villa San Martino si ritrovava il telefono sotto controllo. Decine di ragazze, ma non solo, furono intercettate per mesi. Ogni loro spostamento accuratamente monitorato. Centinaia i servizi di osservazione, controllo e pedinamento come si usa dire in gergo questurile. All’epoca dei fatti, il 2009, Silvio Berlusconi era il presidente del Consiglio. Il suo uomo più fidato, Gianni Letta, sottosegretario di Stato con delega ai Servizi. Come è stato possibile effettuare una attività investigata di queste proporzioni, migliaia le intercettazioni effettuate, senza che nessuno, in maniera ovviamente riservata,  facesse arrivare il  “messaggio” all’indagato eccellente di prestare attenzione alle persone frequentate ed ai comportamenti da tenere? Nessuna indicazione dai gestori telefonici? Nessun dubbio circa questa anomala concentrazione di utenze sotto controllo proprio nella residenza privata del presidente del Consiglio, sottoposta a misure di massima sicurezza secondo la legge 801 che disciplina il segreto di Stato? Ma il rapporto anomalo con gli apparati di sicurezza è anche alla base dell’accusa più grave caduta sulla testa di Berlusconi. Quella di concussione nei confronti del capo di gabinetto della Questura di Milano. Come mai il presidente del Consiglio, residente a Milano, città dove ha il centro dei suoi interessi e dove vive la sua famiglia, non si rivolge, per motivi di opportunità e riservatezza, direttamente al Questore ma passa attraverso il suo capo di gabinetto, peraltro chiamatogli al telefono dal suo capo scorta? Essendo il Consiglio dei ministri preposto alla nomina dei questori delle città, non si può proprio dire che l’allora premier non conoscesse chi fosse al vertice della pubblica sicurezza del capoluogo lombardo. E infine le dimissioni improvvise e inaspettate del giudice Enrico Tranfa, il presidente del collegio di Appello che ha assolto Silvio Berlusconi, subito dopo il deposito delle 330 pagine delle motivazioni della sentenza. Come si ricorderà, dopo aver depositato la sentenza di assoluzione, Enrico Tranfa fece domanda per essere collocato in pensione. Poteva restare in servizio altri quindici mesi. Decise di anticipare l’uscita dalla magistratura. Campano di Ceppaloni, il paese che ha dato i natali anche a Clemente Mastella, collocabile nella corrente di Unicost, Tranfa era dal 2012 a Milano in Corte d’Appello come presidente della seconda sezione penale. Equilibrato, molto preparato, mai una parola fuori posto. Un persona mite. Nulla che potesse far prevedere una reazione del genere. Le sue dichiarazioni, a chi gli chiedeva il perché di una simile decisione, furono soltanto “è una decisione molto meditata, perché in vita mia non ho fatto niente di impulso. Tutti sono utili, nessuno è indispensabile”. Per poi aggiungere: “Il compito di un giudice non è quello di cavillare con i tecnicismi, ma prendere un fatto, valutarlo alla luce delle norme, e poi fare un atto di volontà, decidendo. Altrimenti è la giustizia di Ponzio Pilato”. Sul caso montò la contrapposta lettura politica: “Solidarietà” dal Pd e dure critiche da Forza Italia. Le dimissioni in polemica con l’assoluzione scatenarono anche le ire del presidente della Corte d’Appello Giovanni Canzio. “Se dettate da un personale dissenso per l’assoluzione di Silvio Berlusconi non appaiono coerenti con le regole ordinamentali e deontologiche che impongono l’assoluto riserbo sulle dinamiche della Camera di consiglio”, disse Canzio, “trattasi di un gesto clamoroso e inedito”. Se per ogni disaccordo in un collegio il magistrato dovesse dimettersi, in magistratura rimarrebbero in pochi. Ma quell’anomalia, come la prima, con ogni probabilità rimarrà senza risposta.

Processo Ruby, pool di Milano: le lettere segrete delle toghe rosse alla giudice che assolse Silvio Berlusconi, scrive “Libero Quotidiano”. Le toghe rosse di Milano si attendevano l'annullamento dell'assoluzione in secondo grado. Volevano Silvio Berlusconi di nuovo alla sbarra nel processo Ruby. Ma così non è andata. Confermata l'assoluzione. E dopo la conferma, oltre al Cav, ci sono state diverse persone che si sono levate dei sassolini dalle scarpe. Una di queste era la giudice Concetta Locurto, toga stimata e progressista, già coordinatrice milanese di Area, il cartello tra le correnti di sinistra di Magistratura Democratica. Una, insomma, che aveva il "pedegree" giusto per condannare Berlusconi in secondo grado. Già, perché la Locurto la scorsa estate era la relatrice della sentenza di assoluzione del Cav nel processo Ruby. L'assoluzione scatenò un vespaio di polemiche in magistratura, culminate con le dimissioni del suo collega e presidente del collegio, Enrico Tranfa, che con il passo indietro volle dissociarsi da un verdetto che non condivideva. La Locurto, al tempo, non volle commentare. E non ha voluto commentare neppure dopo la conferma dell'assoluzione che, nei fatti, ha confermato la bontà del suo operato. E il silenzio le deve essere costato, perché come spiega il Corriere della Sera la toga che ha assolto Berlusconi ha vissuto mesi da incubo, tra "attacchi e implicite insinuazioni di cosa di oscuro potesse essere accaduto attorno al processo" per spingere Tranfa alle dimissioni. Ha taciuto, la Tranfa. Almeno in pubblico. Già, perché secondo quanto scrive sempre il Corsera, la toga avrebbe scritto una piccola lettera ai colleghi (agli stessi colleghi che nei mesi precedenti tempestavano la sua email parlando di "torsione del diritto"). Il Corsera ha provato a chiederle del contenuto della lettera, ma la Tranfa, fedele alla sua riservatezza, ha scelto di non parlare. Eppure qualcosa è emerso. Nonostante il rifiuto della giudice, è stato ricostruito quanto abbia detto interpellando i destinatari della missiva. La Tranfa non giudicava la bontà della sentenza, ma metteva in guardia dai rischi di "una malevola dietrologia faziosa", del "pregiudizio", dei "pensieri in libertà da chiacchiera da bar" della quale è stata vittima per mesi per aver fatto il suo lavoro, che nella fattispecie prevedeva di assolvere Berlusconi. La Tranfa avrebbe scritto dei "magistrati che giudicano senza conoscere, finendo - proprio loro - per partecipare al tiro al piccione senza alcun rispetto per l'Istituzione e le persone". E il piccione, in quel momento, era proprio lei. E il "piccione", ora, si toglie le sue soddisfazioni. Nella missiva avrebbe aggiunto l'invito ai colleghi ad "andarsi a rileggere i provvedimenti redatti nel corso dell'intera carriera, piccoli o grandi che fossero, per avere certezza dell'identità di metro di valutazione utilizzato indifferentemente per extracomunitari e potenti". Quel metro di giudizio imparziale che però, i colleghi, le rimproverano: se c'è il Cav alla sbarra deve essere condannato.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: logica da pm. Se Silvio Berlusconi conosce Noemi Letizia, è colpevole. La Cassazione doveva confermare o non confermare l’assoluzione di Silvio Berlusconi (caso Ruby) per concussione e prostituzione: dopodiché, lo schema era il solito. La Corte che si riunisce nel primo pomeriggio, i giornalisti italiani e stranieri che ciacolano, la consueta assicurazione che la sentenza arriverà «in serata» e che perciò potranno scriverne, hurrà. Ma forse i giudici non erano aggiornati: non sapevano che i quotidiani hanno le chiusure sempre più anticipate, mannaggia: come possono non tener conto delle sacre esigenze mediatiche? Come possono aver saltato i telegiornali della sera? I giudici (presidente Nicola Milo, consiglieri Giorgio Fidelbo, Stefano Mogini e Gaetano De Amicis) dovevano prendere esempio dal procuratore generale Eduardo Scardaccione, che nel pomeriggio aveva esposto una requisitoria mediaticamente perfetta. Niente di strano che abbia chiesto di annullare - con rinvio in Appello - l’assoluzione di Berlusconi per entrambi i reati: è ciò che ci si attendeva da lui, un’apologia di quel processo che in primo grado aveva condannato il Cav a sette anni. Mentre invece le assoluzioni di luglio scorso - pochi mesi fa: la giustizia italiana sa essere velocissima - secondo Scardaccione andavano polverizzate: altro che «il fatto non sussiste» (concussione) e «il fatto non costituisce reato» (prostituzione minorile). Sin qui tutto normale. Ma sono altri argomenti che ha adottato - poi - a farci pensare ancora una volta che taccuini e telecamere andrebbero tenuti lontani dai palazzi di giustizia. Scardaccione ha detto che le accuse sono «pienamente provate» (vabbeh) e che la Corte d’appello non doveva riaprire il processo bensì rideterminare la pena di primo grado: e ci sta anche questo. Poi lo show: «L’episodio nel quale Berlusconi racconta che Ruby è la nipote di Mubarak è degno di un film di Mel Brooks e tutto il mondo ci ha riso dietro». Uhm. Purtroppo «il mondo» non ha testimoniato a processo. E neppure Mel Brooks. A ogni modo il procuratore Scardaccione ha proseguito spiegando che la concussione c’è stata, anzi «c’è stata una violenza irresistibile» per ottenerla. Lo proverebbe il fatto che dal momento in cui ha ricevuto la telefonata di intervento da Berlusconi il capo di gabinetto della Questura di Milano «non capisce più nulla e fa ben 14 telefonate: c’è spazio per ritenere che la pressione fosse resistibile?... No... L’intervento ha avuto una potenza di fuoco tale da annullare le scelte autonome del funzionario». Par di capire che qualsiasi telefonata di Berlusconi in quel periodo - essendo lui premier ed essendo Berlusconi - avesse una potenziale valenza concussoria: chiunque ne riceveva una andava praticamente in palla e veniva annullato nella volontà, una forma di ipnosi. Il procuratore generale non ha contemplato che i dirigenti della Questura fossero banalmente eccitati all’idea di poter fare un favore al presidente del Consiglio: cosa che avrebbe avuto una valenza più che ambigua se solo avessero fatto qualcosa che non dovevano fare. Ma ciò che fecero (identificazione di Ruby, foto segnalazione e ricerca di una comunità per l’affido) corrispondeva alla prassi in vigore. Ma secondo Scardaccione no, c’è stata «una violenza grave, perdurante e irresistibile anche a margine della consegna di Ruby a Nicole Minetti». Il dettaglio è che l’idea di consegnare Ruby alla Minetti non fu un’idea di Berlusconi bensì una soluzione escogitata in questura. Ma - possiamo dirlo? - ci sta anche questo. È passando al reato di prostituzione minorile che si giunge all’incredibile: perché Scardaccione ha tirato in ballo Noemi Letizia, una ragazza che non c’entra un accidente - mai tirata in ballo in nessun processo, in nessun modo - perché la circostanza che Noemi e Ruby fossero due minorenni «non è una coincidenza» e rende «non credibile» che Berlusconi non sapesse della minore età di Ruby. Scardaccione ha ricordato quanto aveva detto Ruby in un’intercettazione: «Noemi è la sua pupilla e io il suo culo». Cioè: il fatto che due amici di Berlusconi avessero una figlia minorenne non poteva essere un caso. E chissà - aggiungiamo noi - quanti milioni di elettori di Forza Italia, negli ultimi vent’anni, hanno avuto figlie minori. Insomma: se Berlusconi sapeva che la figlia di due suoi amici era minorenne, beh, doveva sapere anche l’età di tutta la carovana di signorine che la sera gli portavano a casa con la carriola. Pagandole, certo: perché Franco Coppi, l’avvocato di Berlusconi, ieri non l’ha negato: «La sentenza d’appello ammetteva che ad Arcore avvenivano fatti di prostituzione, cosa che non contestiamo nemmeno noi difensori: ma manca, in fatto, la prova che Berlusconi prima del 27 maggio sapesse che Ruby era minorenne». Sempre che i processi si facciano ancora con le prove.

Il caso Ruby c’è costato mezzo milione. Per i pm le spese ammontano a 65mila euro, ma facendo altri calcoli si sfiorano i 600mila, scrive Simone Di Meo su “Il Tempo”. Quanto è costata l'inchiesta Ruby alle casse dello Stato? La classica domanda da un milione di dollari ha una doppia risposta. La versione minimalista, accreditata dai conti della Procura della Repubblica di Milano contenuti nel faldone 33 del procedimento, parla di appena 65mila euro così suddivisi: in sei mesi sono stati pagati 26mila euro per le intercettazioni e 39mila euro per trascrizioni di interrogatori, traduzioni dall’arabo, per il noleggio auto, la più costosa delle quali - una Golf - è stata pagata 4mila euro, e per l’acquisto di registratori digitali. Pochi spiccioli anche per le trasferte dei poliziotti in alcuni hotel di Rimini: poco meno di 200 euro per tre diversi viaggi. Insomma, per questa scuola di pensiero il procedimento penale del pm Ilda Boccassini non ha prosciugato le casse del ministero della Giustizia ma si è mantenuto addirittura al di sotto dello standard della Direzione distrettuale antimafia. Questione risolta, allora? Mica tanto perché a questa immagine light dell'inchiesta se ne contrappone una più approfondita che zavorra con almeno uno zero la cifra iniziale portandola a oltre mezzo milione di euro. Ci sono alcuni costi che, nel computo del pubblico ministero, non vengono infatti elaborati. Sarà sicuramente una distrazione, ma bisogna fare chiarezza. Stiamo parlando dei cosiddetti costi fissi che riguardano l'utilizzo della polizia giudiziaria per condurre un'indagine fatta a pezzi dalla Corte d'appello e dalla Cassazione dopo una prima condanna a sette anni nei confronti di Silvio Berlusconi. Un'indagine fondata su due capi di imputazione che tecnicamente non hanno retto al vaglio delle toghe. Perché è vero che un poliziotto o un carabiniere viene ugualmente stipendiato dallo Stato (e ci mancherebbe) ma c'è un particolare di cui non tutti si ricordano: il poliziotto o il carabiniere in questione avrebbe potuto essere impiegato su un altro versante giudiziario, magari più interessante e utile. E questo - dal punto di vista aziendalistico - è un costo che non può essere omesso se si vuole davvero fare una descrizione esatta del valore contabile del fascicolo Ruby. Dare per scontate queste voci di costo è un errore. Così come è un errore non calcolare il noleggio dell'apparecchiatura utilizzata per geolocalizzare i cellulari che hanno agganciato la cella di Arcore alla ricerca delle utenze delle partecipanti alle "cene eleganti". Un'attrezzatura che, secondo quanto risulta a Il Tempo costa in media 1000 euro al giorno: è probabile che fosse già in dotazione agli uomini del Servizio centrale operativo cui sono state delegate le attività investigative, ma il suo utilizzo, in termini economici, dev'essere adeguatamente riportato nello schema della Procura. I "target" di intercettazioni e acquisizioni di traffico telefonico e di tabulati sono stati circa trenta per oltre 115mila conversazioni monitorate. Nell'intera operazione è presumibile che siano stati impegnati oltre cento poliziotti che, per la durata delle indagini, sono stati distolti da altri fascicoli, ovviamente. Non sbirri qualunque, ma uomini dello Sco, l'organo investigativo di punta del Viminale che solitamente dà la caccia a mafiosi, narcotrafficanti e serial killer. Per dire: i due superlatitanti del clan dei Casalesi, Antonio Iovine e Michele Zagaria, sono stati presi anche con la collaborazione del Servizio centrale. Che, nel caso in esame, è stato invece sguinzagliato sulle tracce delle olgettine e del ragionieri Spinelli, lauto pagatore ufficiale del Cav. Anche i loro stipendi, anche i loro straordinari, anche i loro ticket sono dei costi a carico dello Stato (e quindi dei cittadini) che devono essere inseriti nel bilancio Ruby. Alla fine, calcoli alla mano, l'indagine di "Ilda la rossa" tra costi fissi (quelli appena descritti, che riguardano l'intera struttura) e costi variabili (i famosi 65mila euro, che dipendono appunto dalle necessità investigative del momento) ha gravato sulle casse dello Stato per circa 600mila euro. È una stima prudenziale ma che ha un suo fondamento considerato che un poliziotto viene pagato in media 100 euro lordi al giorno. Qualcuno ci aggiungerebbe anche i costi dei processi (stipendi dei giudici, dei cancellieri, del personale amministrativo, fotocopie) ma entriamo nel fantastico mondo delle ipotesi e allora tutte le ricostruzioni sono possibili.

Signori del Csm, quell’inchiesta è senza ombre? Scrive Tiziana Maiolo su “Il Garantista. Sono politici, non morali, i motivi per cui è andato in onda per cinque anni il Pornofilm del Bungabunga che ha messo nel tritacarne un presidente del Consiglio, preso a picconate il suo partito, distrutto la sua reputazione nel mondo, insieme alla sua immagine personale e i suoi affetti. Tutto nasce non tanto dal fermo, in una serata di maggio del 2010, di una giovane marocchina. Né dalla successiva telefonata di Berlusconi alla questura di Milano. Casomai dall’uso che dell’episodio venne fatto dalla Procura della Repubblica più famosa e discussa d’Italia. E’ negli uffici del quarto piano del palazzo di giustizia di Milano, già allenati dalla caccia al cinghialone ai tempi di Craxi e di Tangentopoli, che parte la crociata di stampo talebano che prende di mira il presidente del Consiglio per i suoi costumi sessuali. Ma il Pornofilm è solo l’involucro, un uovo di pasqua con sorpresa. La sorpresa è tutta politica. Se il Consiglio superiore della magistratura volesse occuparsene, potrebbe rilevare parecchie anomalie, dentro quell’uovo. Prima cosa: Ruby viene fermata e rilasciata in una notte di fine maggio. Che cosa è successo tra quella data e quella in cui Silvio Berlusconi viene iscritto nel registro degli indagati (21 dicembre 2010) e in seguito raggiunto da un invito a comparire (14 gennaio 2011)? Succede che Ruby viene ripetutamente interrogata, una serie di persone che frequentavano la casa di Arcore viene monitorata e intercettata e si tende la tela del ragno che deve catturare la preda. Che la preda sia un Arcinemico di certa magistratura e certi Pubblici ministeri non è un segreto. Che dalle parti di Milano si usino metodi disinvolti sulle competenze territoriali (un presidente del Consiglio non dovrebbe essere giudicato dal Tribunale dei ministri?) è cosa altrettanto nota. Ma quel che succede a Milano è qualcosa di ben più mostruoso: per sette-otto mesi vengono fatte indagini su un contesto che ha al centro una persona che non è indagata, vengono disposte intercettazioni a persone che parlano al telefono con un parlamentare senza che sia chiesta, come prescrive la legge, l’autorizzazione alla Camera di appartenenza. Nei fatti si indaga su una persona in violazione delle normali procedure di legge. A nulla valgono le proteste degli avvocati, le interrogazioni parlamentari del deputato di Forza Italia Giorgio Stracquadanio, la curiosità che comincia a serpeggiare nella stampa italiana e anche straniera. La Procura di Milano tira dritto. Apparentemente arrogandosi il diritto di moralizzare i costumi altrui, in realtà con obiettivi ben più ambiziosi. Ma un’altra anomalia esplode clamorosa a un certo punto, la rissa da cortile tra il procuratore capo Bruti Liberati e il suo aggiunto Robledo sulle competenze tematiche e le assegnazioni delle inchieste. Perché le indagini su Berlusconi e il “caso Ruby” vengono assegnate a Ilda Boccassini, titolare delle inchieste sulla mafia e non a Robledo che si occupa di Pubblica Amministrazione? Berlusconi non è forse accusato di aver abusato del suo potere di presidente del Consiglio, con quella famosa telefonata in questura che gli costerà la condanna in primo grado per concussione? Questo aspetto della vicenda giace nelle scartoffie (nei fatti archiviate) del Csm sulla querelle Bruti-Robledo, che nessuno pare avere la curiosità di esaminare più. Sarebbe bene, invece, che l’organo di autogoverno di Pm e  giudici riaprisse gli occhi, su questo punto, e si chiedesse “perché” fosse così importante quella sostituzione di Robledo con Boccassini in un’inchiesta dal sapore squisitamente politico. Questo è il succo della vicenda: forzature e anomalie per il raggiungimento di uno scopo. Addirittura il procuratore generale di Milano, pur di fare il ricorso in Cassazione, si è appellato a questioni di merito, trascurando il fatto che il terzo grado di giudizio può riguardare solo questioni di legittimità. Un’altra delle anomalie “lombarde”, che la Cassazione avrebbe dovuto rilevare subito, rigettando il ricorso in dieci minuti. Nove ore di discussione sono un bel tributo alle tricoteuses di tutta Italia. In ogni caso,tutto il resto è contorno, il Pornofilm, il Bungabunga, sparsi a piene pani tramite un ventilatore in funzione permanente con lo scopo dello Sputtanamento. Oggi, con Berlusconi che porta a casa con una certa velocità (quattro anni per tre gradi di giudizio sono un’altra, piacevole, anomalia) l’assoluzione piena da due reati infamanti, resta il reato di Sputtanamento ancora vivo e vegeto nelle immagini del Pornofilm, tanto che gli avvocati sono stati costretti a dire (un po’ andando di fantasia) che, in fondo si, forse un po’ di prostituzione ad Arcore c’è stata, per rafforzare la realtà dei fatti sulla non conoscenza dell’età di una quasi-diciottenne che dimostrava, a detta di tutti, almeno venticinque anni. E che probabilmente era più una mantenuta che una prostituta. Anche in questo il processo Ruby è stato speciale. Ma non può finire qui. Il Csm ci deve spiegare se tutte queste violazioni sono consentite, se anche il nuovo corso “renziano” ha intenzione di chiudere gli occhi, come già si fece 20 anni fa con Tangentopoli, su questi metodi machiavellici, per cui la finalità politica può fare a pezzi le regole dello Stato di diritto e prevale sempre la filosofia del “tipo d’autore” (individuo la tipologia del colpevole, poi colpisco la persona), per cui la responsabilità penale non è più personale ma esplicitamente politica. Alla faccia dell’obbligatorietà dell’azione penale.

«Cittadini impotenti davanti ai magistrati», scrive Daniel Rustici su “Il Garantista”. «Il Csm cominci a fare sul serio il suo lavoro che fino ad oggi ha svolto, per usare un eufemismo, in modo deficitario. Sono stati puniti solo i magistrati fuori dal coro, mai quelli che hanno sbagliato nell’esercizio della professione. Il caso più emblematico è quello del processo Tortora dove i giudici di uno dei più clamorosi casi di malagiustizia hanno fatto carriera. Il Csm dovrebbe essere meno indulgente e ”perdonista” nei confronti dei magistrati che commettono gravi errori». Chi parla è uno dei giudici più intransigenti e celebri per le sue feroci polemiche contro pezzi del mondo politico, e a difesa della magistratura: Antonio Ingroia. In un’intervista al nostro giornale ha detto che bisogna difendere i cittadini che talvolta sono troppo deboli di fronte ai magistrati e ai loro eventuali errori. Ha parlato anche di carcerazione preventiva, e ha detto che «in un Paese in cui i tempi per arrivare a una sentenza definitiva sono così lunghi, è facile che si arrivi ad utilizzare la carcerazione preventiva come una sorta di anticipazione della pena prevista in caso di condanna dopo i tre gradi di giudizio».

Ingroia, stanno facendo molto rumore le sue dichiarazioni sulla responsabilità civile dei giudici. Ha parlato di cittadini «impotenti» davanti al potere della magistratura. Detto da un’ex toga…

«Voglio precisare prima di tutto che sono contrario alla responsabilità civile dei magistrati. Penso invece che per garantire i diritti dei cittadini bisognerebbe che il Csm cominci a fare sul serio il suo lavoro che fino ad oggi ha svolto, per usare un eufemismo, in modo deficitario. Sono stati puniti solo i magistrati fuori dal coro, mai quelli che hanno sbagliato nell’esercizio della professione. Il caso più emblematico è quello del processo Tortora dove i giudici di uno dei più clamorosi casi di malagiustizia hanno fatto carriera. La verità è che all’interno della magistratura troppo spesso si va avanti sulla base dell’appartenenza a questa o a quella corrente piuttosto che grazie al merito».

Cosa non la convince del disegno di legge del governo sulla punibilità dei giudici?

«La responsabilità civile non è uno strumento idoneo per difendere i cittadini. In primo luogo non lo è perché può portare il magistrato ad assumere una posizione di soggezione davanti all’imputato, specie se questo è ricco e potente. E non lo è perché moltiplicherebbe il lavoro nei tribunali e quindi, dilatando ancora di più i mostruosi tempi della nostra giustizia, paradossalmente andrebbe contro gli interessi degli imputati stessi. Lo ripeto, il vero problema è il Csm che dovrebbe essere meno indulgente e ”perdonista” nei confronti di chi commette gravi errori».

Sparare sul Consiglio nazionale della magistratura ora che ha smesso i panni di pm,non è troppo facile?

«Queste cose le ho sempre dette. Qualcuno potrebbe anche dire che parli male del Csm per come sono stato tratto io, per le parole contro le mie partecipazioni a manifestazioni pubbliche. Allora non parliamo di me, ma di un altro magistrato: Di Matteo. Perchè il Csm ostacola la sua nomina alla Procura nazionale antimafia e favorisce invece personaggi obiettivamente con meno competenze in materia?»

Perché?

«La risposta è semplice: ci si muove in base a logiche burocratiche e correntistiche invece che di sostanza».

Faceva prima riferimento alle sue contestate partecipazioni a manifestazioni politiche quando era ancora magistrato. È una scelta che rivendica?

«Sì. Mi è capitato di fare il pm nella stagione sbagliata. Trent’anni fa nessuno si scandalizzava se Terranova partecipava ai convegni del Pci e negli anni 70 nessuno si sognava di mettere in discussione la professionalità di Borsellino perché andava a parlare di giustizia nei consessi del Movimento sociale italiano. Resto convinto che un magistrato vada giudicato per quello che fa nell’orario di lavoro e che abbia tutto il diritto di esprimere le proprie opinioni. Io però sono stato subissato da attacchi, sia da parte del mondo politico sia dalla magistratura stessa…»

Nelle scorse settimane si è molto discusso delle ferie dei giudici. Ha ragione Renzi a volerle tagliare?

«Penso si tratti di un falso problema. Effettivamente 45 giorni sono tanti ma io, ad esempio, non ho mai goduto dell’intero periodo di ferie e come me la maggior parte dei giudici. Sostenere che la lentezza della giustizia italiana dipenda dalle toghe fannullone è solo un modo di trovare un capro espiatorio».

Quali sono invece le ragioni di questa lentezza e come si può intervenire per accelerare i tempi dei processi?

«Credo sia arrivata l’ora di mettere in discussione l’esistenza del processo d’appello. Con un grado secco di giudizio e un unico processo che decreti l’innocenza o la colpevolezza di un imputato si risparmierebbero un sacco di soldi e di energie. Ritengo poi necessario mettere fine alla corsa alla prescrizione, limitando l’abuso di questo strumento».

A proposito di abusi, cosa pensa dell’uso molto disinvolto della carcerazione preventiva che spesso viene fatto dai giudici?

«In un Paese in cui i tempi per arrivare a una sentenza definitiva sono così lunghi, è facile che si arrivi ad utilizzare la carcerazione preventiva come una sorta di anticipazione di quella prevista in caso di condanna dopo i tre gradi di giudizi».

Sì, ma è incostituzionale: esiste la presunzione d’innocenza.

«Certo nessuno vuole mettere in discussione la sacralità della presunzione d’innocenza ma ribadisco, finché i tempi della giustizia saranno questi credo che la carcerazione preventiva verrà ancora usata con questa  frequenza».

Ora che esercita la professione di avvocato, come è cambiata la sua prospettiva sul mondo giudiziario?

«Cambiando osservatorio, sono rimasto delle mie opinioni: viviamo in un Paese profondamente ingiusto perché indulgente con i potenti e forte con i deboli».

Cosa significa per lei la parola ” garantismo”?

«Garantismo significa dare la garanzia a tutti i cittadini di un processo giusto e assicurare il diritto di difesa. Chi vede il garantismo come un modo per disarmare i pm però sbaglia. Essere garantisti significa anche fare in modo che la legge sia davvero uguale per tutti e permettere di punire chi ha sbagliato».

Ha dichiarato di essere pronto a tornare in politica e di guardare con attenzione a Landini. Pensa si aprirà davvero un nuovo spazio politico a sinistra del Pd?

«Credo che il nostro Paese abbia bisogno che emerga una nuova soggettività politica progressista, popolare e di sinistra. Mi sento politicamente vicino a Landini e Rodotà, e sono pronto a dare il mio contributo per la costruzione di una coalizione sociale per l’equità, la lotta alla criminalità organizzata e ai reati dei colletti bianchi».

Ok, basta coi professionisti dell’Antimafia. Ma adesso chi combatterà le mafie? E’ la domanda che si pone Gaetano Savatteri su “Gli Stati Generali”. L’antimafia è morta. L’antimafia dei movimenti, delle associazioni di categoria, dei bollini e dei certificati, ma anche quella dei magistrati e della politica. L’antimafia, quella che abbiamo visto e conosciuta fino ad oggi, è definitivamente sepolta. Perché le ultime vicende – l’arresto di Roberto Helg per una mazzetta conclamata o l’indagine per mafia sul presidente della Confindustria siciliana Antonello Montante, per dichiarazioni di pentiti ancora tutte da chiarire e che potrebbero nascondere una manovra di delegittimazione – sanciscono in ogni caso e definitivamente la fine di un modello che per molto tempo, e fino all’altro ieri, è stato visto con favore e incoraggiato perché segno di una “rivoluzione” che metteva in prima linea la cosiddetta società civile. Attilio Bolzoni su Repubblica, lo stesso giornale che ha sparato per primo la notizia dell’indagine su Montante, ha posto un interrogativo: “Forse è arrivato il momento di una riflessione su cos’è l’Antimafia e dove sta andando”. Ma probabilmente la domanda più corretta è un’altra: potrà esserci ancora un’antimafia? Peppino Di Lello, a lungo magistrato del pool antimafia di Palermo, quello di Falcone e Borsellino, scrive sul Manifesto che “i bollini, le autocertificazioni, gli elenchi incontrollati e incontrollabili degli antimafiosi doc sono ormai ciarpame e bisogna voltare pagina riappropriandosi di una qualche serietà nella scelta di esempi di antimafia vera, scelta fondata sulla prassi, sui comportamenti che incidono realmente in questa opera di contrasto”. Di Lello, giustamente, attacca la retorica dell’antimafia, citando non a caso l’ormai storico articolo del 1987 di Leonardo Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”. Ma le ultime vicende e un sottile veleno che percorre le vene del mondo delle associazioni e del movimento antimafia (don Luigi Ciotti ha fornito qualche anticipazione: “Mi pare di cogliere, e poi non sono in grado di dire assolutamente altro, che fra pochi giorni avremo altre belle sorprese, che sono in arrivo, che ci fanno soffrire. Perché riguardano personaggi che hanno sempre riempito la bocca di legalità, di antimafia”) percuotono chi, per entusiasmo o per mestiere o, usiamo pure questa parola, per “professionismo”, si è iscritto negli ultimi anni nel fronte antimafia. Serpeggia il disorientamento tra quanti si chiedono: e adesso, infranti alcuni simboli dell’antimafia, non si rischia di veder naufragare il lavoro fatto in tanti anni, compresi i buoni esempi concreti realizzati? L’indagine della Commissione parlamentare antimafia sull’antimafia, per individuare quando questa sia stata reale o di facciata – paradosso segnalato da Giuseppe Sottile sul Foglio – pone una questione centrale. Se molti movimenti, associazioni, progetti nelle scuole, iniziative si sono riempiti, nella migliore delle ipotesi, di un tot di vuota retorica e, nella peggiore, di piccoli o grandi interessi economici sotto forma di finanziamenti, privilegi, guadagni, chi dovrà stabilire da ora in poi la genuinità della natura antimafia? La struttura dello Stato italiano, per oltre centosessant’anni, ha costruito soggetti e ruoli incaricati di definire e individuare le mafie, arrivando a darne nel 1982 perfino una definizione normativa con l’articolo 416bis del codice penale. Ma l’Italia non ha, e forse non poteva avere, strumenti per individuare con esattezza la natura antimafiosa di soggetti, singoli o plurali, se non in termini di opposizione: in parole semplici, era antimafioso chi combatteva la mafia. Con opere o parole. Così, per lungo tempo, l’antimafia sociale – cioè quella non costituita da magistrati e poliziotti incaricati, per ragioni d’ufficio, dell’azione di contrasto e repressione – finiva per autodefinirsi. E’ bastata, per un lunghissimo periodo, la petizione di principio di dichiararsi antimafia per essere considerati tali. In un Paese che fino a una quarantina d’anni fa ancora sosteneva, spesso anche nelle sedi giudiziarie, che la mafia non esisteva, già il fatto stesso di dichiararne l’esistenza e di porsi in posizione alternativa a essa, era sufficiente per attribuirsi o vedersi attribuita la patente antimafia. Se oggi questo non basta più, quale sarà il criterio futuro per definire la nuova antimafia? I fatti, i comportamenti e la prassi, dice Di Lello. Tutto ciò è facilmente verificabile, ad esempio, nell’attività delle associazioni antiracket che convincono i loro associati a testimoniare nei processi, li sorreggono, si costituiscono accanto a loro parte civile. Ma questo principio può valere per associazioni culturali, singoli di buona volontà, gruppi di opinione, insegnanti la cui unica forza risiede solo nella dichiarazione d’intenti?  E’ ovvio che laddove le parole non coincidano con i fatti (come nel caso della tangente che ha fatto finire in galera Helg), la contraddizione è talmente stridente che non ci sono dubbi. Ma anche in questo caso, è una dimostrazione al contrario: il fatto (cioè la mazzetta) mostra la non appartenenza di qualcuno al fronte autenticamente antimafioso. Ma quale può essere il fatto che, giorno dopo giorno, possa dimostrarne invece l’appartenenza? Per Confindustria Sicilia, ad esempio, sembrava già rivoluzionario e significativo che un’associazione di categoria che per molto tempo aveva ignorato la mafia o ci aveva convissuto, con molti casi di imprenditori contigui o aderenti a Cosa Nostra, avviasse una inversione di rotta pubblica, con l’annuncio di espulsioni dei propri soci che non avessero denunciato le estorsioni. Era certamente un fatto capace di attribuire identità antimafiosa a quell’associazione. Naturalmente, il movimento antimafia nel suo complesso si è nutrito di errori e di eccessi. E questi nascono probabilmente dall’evidenza che ogni movimento antimafioso, per sua natura, tende ad occupare tutti gli spazi morali a sua disposizione. La discriminante etica, ragione fondante, tende ad allargarsi e spostarsi sempre più avanti in nome della purezza antimafia, escludendo altri soggetti e movimenti. Qualsiasi movimento antimafia, poiché si costituisce e si struttura in alternativa e in opposizione a qualcosa, in primo luogo la mafia e i comportamenti che possono favorirla o sostenerla, non può tentare di includere tutto, ma deve per forza di cose escludere. Ecco perché dentro il mondo dell’antimafia non c’è pace, e ciascun gruppo di riferimento tende a vedere negli altri gruppi degli avversari, se non dei nemici insidiosi o subdoli. L’antimafia spontaneistica e aggregativa dal basso si contrappone a quella ufficiale in giacca e cravatta e viceversa, quella sociale si contrappone a quella di Stato e viceversa. La vocazione alla supremazia della leadership del mondo antimafioso, diventa allarmante quando l’antimafia non è più esclusivo appannaggio di gruppi sociali d’opposizione (i preti di frontiera contro la Chiesa ufficiale timorosa, le minoranze politiche contro le maggioranze o i governi prudenti o contigui, gli studenti contro la burocrazia scolastica troppo paludata, tanto per fare alcuni esempi), ma comincia a diventare bandiera dei gruppi dominanti. Al potere economico o politico, finisce così per sommarsi il potere di esclusione di potenziali concorrenti, che può essere esercitato anche facendo baluginare legami oscuri o poco trasparenti. L’antimafia può servire al politico di governo per demonizzare gli avversari. Siamo di fronte a quel meccanismo che viene indicato come “la mafia dell’antimafia”, definizione che non amo perché rischia di far dimenticare che nel recente passato in Sicilia, e non solo, politici,  imprenditori e funzionari contigui o affiliati alla mafia facevano eliminare i loro avversari direttamente a colpi di kalashnikov. In questi giorni, in queste ore, il mondo dell’antimafia, soprattutto quello siciliano, il più antico e radicato, il più organizzato e selezionato negli anni delle stragi e delle mattanze mafiose, si trova davanti a molte domande. Chi dovrà stabilire, nel futuro prossimo, la genuinità dei comportamenti antimafia? I giornali? La tv? Il governo? Il Parlamento? Non esistono organismi o autorità morali in grado di fornire garanzie valide per tutti.  La domanda principale finisce per riguardare l’esistenza stessa di un’antimafia diffusa. Se l’antimafia, per come è stata fino ad oggi, è morta, potrà esserci ancora qualcosa o qualcuno in grado di dichiararsi antimafia? Ma, soprattutto, chi potrà crederci ancora?

Imprenditori e giornalisti cantori dell’antimafia, non ci mancherete per niente. Abbiamo letto su queste colonne l’annuncio della morte dell’antimafia. Un annuncio articolato. Esteso, ragionato, scrive Salvatore Falzone su “Gli Stati Generali”. Forse però vale la pena allungare il necrologio, non foss’altro che per rispetto del de cuius e delle sue gesta. Il decesso, diciamocelo, è stato causato da colpi di toga. Ancora una volta, purtroppo. Perché se non spuntano i primi fascicoli con l’intestazione “Procura della Repubblica”, nel Belpaese tutto è lecito e tutto va bene. Prima di leggere paroline come “arresto”, “tangente”, “indagine”, “pentiti”, nessuno s’interroga, nessuno ha dubbi. Succede così che da qualche anno a questa parte un’antimafia che non è antimafia ha messo le mani sulla città, per dirla con Rosi, per fare affari e costruire carriere. Nel nome della legalità, s’intende, e con l’avallo di una torma di pensatori, magistrati, prefetti, questori e alti ufficiali che non hanno fatto altro che alimentare una colossale bugia (Giovanbattista Tona, consigliere della Corte d’Appello di Caltanissetta: “Come il mafioso di paese otteneva rispetto perché passeggiava col sindaco, col parroco, col maresciallo e col barbiere, l’antimafioso 2.0 può esercitare potere su tutto sol perché in confidenza con ministri, magistrati e autorità”. Giuseppe Pignatone, capo della Procura di Roma: “Bisogna fare l’esame di coscienza: non è che tra magistrati e forze dell’ordine ci sono soltanto santi, eroi e martiri. Ci sono, come in tutte le categorie, persone per bene e persone meno perbene”). C’era bisogno di scoprire Helg con la mazzetta in mano? Dovevamo leggere Bolzoni su Repubblica – che ha dato notizia di un’inchiesta per mafia a carico del presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante – per accorgerci che dalle parti di Caltanissetta l’antimafia ha i pennacchi impastati di gel? E’ mai possibile che quel “cretino” del professor Laurana continua a morire in una zolfara abbandonata, “sotto grave mora di rosticci”, senza sapere ciò che tutti sanno? Già, perché tutti sanno, e tutti sapevano. Ecco perché la meraviglia e il disorientamento del giorno dopo sono espressioni vuote, bianche come quelle di certe statue. La Sicilia è un salone da barba. E anche Roma lo è. E pure Milano. Mentre in questi anni si firmavano protocolli ai tavoli delle prefetture, mentre si stilavano codici etici, mentre procuratori generali inauguravano l’anno giudiziario magnificando le imprese dei nuovi paladini dell’antimafia, dal barbiere si sussurrava e si rideva. Si rideva (con gli occhi) e si facevano smorfie (con la bocca). Ora ci si chiede se, dopo le scosse telluriche delle ultime settimane, possa esserci ancora un’antimafia. E perché no? Un’antimafia ci sarà. Ma non questa. Non questa che ha mandato in solluchero, da nord a sud, cronisti e narratori, i “cuntastorie – come ha scritto Sergio Scandura su Gli Stati Generali – dello storytelling epopea che danno voce ai Pupi: ora con la prodezza, la tenacia e l’enfasi di battaglia, ora con l’incanto-disincanto e la passione della bella Angelica di carolingia memoria”. Sì, ci sarà un’altra antimafia. Anzi, c’è già. C’è sempre stata da quando esiste la mafia. Silenziosa, non remunerativa. E’ l’antimafia del proprio dovere quotidiano, che non fa regali, che non compra e che non paga. Un siciliano illuminato, Cataldo Naro, l’arcivescovo di Monreale scomparso nel 2006, parlava di legalità e santità nelle parrocchie tra Partinico e Corleone. A proposito di Chiesa e mafia, diceva che il cristiano non può non vivere secondo il Vangelo, e che il Vangelo è di per sé incompatibile con la mafia: il discorso vale per tutti, spiegava il presule, per il carabiniere, per il politico, per il professore, per il bidello, per il magistrato, per la guardia municipale… Ma lasciamo stare i santi e torniamo ai diavoli. Adesso che succede, adesso che l’antimafia in ghingheri traballa e che non ci sono ammortizzatori che tengono? Il tema non è “il veleno che percorre le vene del mondo delle associazioni e del movimento antimafia”, né l’esistenza o meno di una “manovra di delegittimazione” ai danni del leader degli industriali siciliani. E neppure i progetti delle scuole, le navi della legalità che attraccano a Palermo in un’esplosione di cappellini o altre simpatiche pagliacciate. Il tema è molto più – come dire? – terra terra: ed è quello del proverbio “predicare bene e razzolare male”. Il tema è la trasparenza delle azioni di chi afferma di combattere il malaffare. E’ la concretezza – oltre che la qualità – dell’impegno sul fronte della legalità (parola che Michele Costa, il figlio del procuratore di Palermo ucciso nel 1980, propone giustamente di abolire). Da questo punto di vista non c’è bisogno di attendere misure cautelari o sentenze definitive per mettere in discussione l’operato non dei “professionisti” (lasciamolo in pace il maestro di Racalmuto) ma degli “imprenditori dell’antimafia”: etichetta, quest’ultima, che ben si attacca alle giacchette dei nostri eroi. Perché debbono scriverla i giudici la storia di questa ennesima truffa? La scrivano gli artisti, se ce ne sono ancora. O gli intellettuali, ma non quelli “col senno del poi”. La raccontino le inchieste dei giornalisti e degli scrittori che non prendono soldi, i registi di cinema e di teatro… Materiale ce n’è in abbondanza. Certo per raccoglierlo bisogna superare lo Stretto, penetrare nell’entroterra incontaminato, fra colline che d’inverno sono così verdi che sembra di stare in Irlanda, e fare un salto nella “Piccola Atene”, la Caltanissetta dove la leggenda vuole che a metà degli anni duemila sia nata la rivoluzione degli imprenditori (che qualcuno, con parole misurate, ha definito copernicana). Ma va detto che nella Caltanissetta delle mitologie c’è stato pure chi in questi anni ha lavorato sul serio resistendo alle bordate sia dalla mafia che dall’antimafia. Il pm Stefano Luciani, in una requisitoria a conclusione di un processo in cui la Procura riteneva di avere scoperto estorsioni non denunciate dagli imprenditori e accordi tra imprenditori e mafiosi proprio in terra nissena, aveva evidenziato che ancora si aspettava l’effetto dell’impegno di Confindustria sul comportamento della categoria. Era il 23 gennaio 2012. Bè, dopo pochi giorni il giornalista Filippo Astone scriveva un pezzo intitolato “Le incredibili dichiarazioni del pm nisseno Stefano Luciani”: l’accusa era che il magistrato, non riconoscendo i meriti degli imprenditori antimafia, non si rendeva conto di aiutare oggettivamente la mafia. Dunque l’antimafia è morta? Macché. Se l’antimafia è quella di Helg e di Montante possiamo stracciare il necrologio e stappare champagne. Perché non è morta l’antimafia. Ma un sistema di potere che ha occupato tutti gli spazi (non morali), che controlla ogni angolo del territorio, che dai tempi di Raffaele Lombardo gestisce nell’Isola il potente assessorato alle Attività Produttive, che tiene in pugno giornali e giornalisti: l’ordine di Sicilia ha aperto un’inchiesta sui finanziamenti elargiti dalla Camera di Commercio di Caltanissetta, di cui Montante è presidente, a testate e pubblicisti. “Potrà dunque esserci un’antimafia?” Sì. “Chi dovrà stabilire nel futuro prossimo la genuinità dei comportamenti antimafia?”. Non certo questi signori. Gaetano Savatteri, sempre su Gli Stati Generali, si è chiesto chi potrà credere ancora all’antimafia… Ma la domanda va forse ribaltata: chi ci ha mai creduto a questa antimafia? E se qualcuno ci ha creduto, perché?

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene.  C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”.  Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.

"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie  quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude  quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».

Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione. 

Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte.  Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione ”Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita.  Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».

Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.

«E io a lui: “Chi son li due tapini

che fumman come man bagnate ’l verno,

giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.

L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;

l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:

per febbre aguta gittan tanto leppo».

Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.

Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.

Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.

Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.

Mamma l’italiani,  canzone del 2010 di Après La Class

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

nei secoli dei secoli girando per il mondo

nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo

non viene dalla Cina non è neppure americano

se vedi uno spaccone è solamente un italiano

l'italiano fuori si distingue dalla massa

sporco di farina o di sangue di carcassa

passa incontrollato lui conosce tutti

fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

a suon di mandolino nascondeva illegalmente

whisky e sigarette chiaramente per la mente

oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso

non smercia sigarette ma giochetti per il sesso

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

l'Italia agli italiani e alla sua gente

è lo stile che fa la differenza chiaramente

genialità questa è la regola

con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia

l'Italia e la sua nomina e un alta carica

un eredità scomoda

oggi la visione italica è che

viaggiamo tatuati con la firma della mafia

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

vacanze di piacere per giovani settantenni

all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni

pagano pesante ragazze intraprendenti

se questa compagnia viene presa con i denti

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

spara la famiglia del pentito che ha cantato

lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato

nominato e condannato nel suo nome hanno sparato

e ricontare le sue anime non si può più

risponde la famiglia del pentito che ha cantato

difendendosi compare tutti giorni più incazzato

sarà guerra tra famiglie

sangue e rabbia tra le griglie

con la fama come foglie che ti tradirà

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

LEI NON SA CHI SONO IO!

La fatidica frase «lei non sa chi sono io», nobilitata al cinema dal mitico Totò, è diventata una vera e propria arma dialettica, sempre più spesso utilizzata indiscriminatamente, tanto che da noi – popolo di santi, poeti, navigatori e celebri millantatori – la Suprema Corte si è vista costretta a vietare l’utilizzo della celebre locuzione mirata a trarre benefici, declassandola al rango di reato. Più che un invito a considerare l’identità di chi ricorre alla pavoneggiante espressione, come sottolineato dalla corte di Cassazione, la frase suona infatti come una neanche troppo implicita minaccia. Gli italiani, potenzialmente, sono tutti a rischio di finire condannati per minaccia perché tutti, prima o poi, pronunciano la fatidica frase - cara a Totò - «lei non sa chi sono io, questa gliela faccio pagare!»: È reato dire: «Lei non sa chi sono io». Lei non sa chi sono io!». Tra i casi più recenti, per evitare una multa dei vigili, l’hanno pronunciata la showgirl Aida Yespica, i parlamentari Gabriella Carlucci e Vittorio Sgarbi. Persino l’attuale presidente del Senato Renato Schifani, nel 2002, chiese alla sua scorta di identificare una maschera del cinema Aurora di Palermo perché gli aveva restituito, in quanto scaduta, la sua tessera Agis (Associazione generale italiana spettacolo) per vedere gratis i film. Ma anche nella finzione, la frase può suonare in modo diverso in base a chi la pronuncia e al contesto. Nel film «Totò a colori» il principe della risata suscita simpatia quando apostrofa l’onorevole Trombetta. Nel «Vigile», con Alberto Sordi che vuole multare persino il sindaco (Vittorio De Sica), questi lo riprese stizzito con la frase minacciosa ed ha la meglio. La realtà con la sentenza della Cassazione, restituisce dignità ai destinatari dell’illegale «Lei non sa chi sono io!».

La Cassazione riapre un processo: «È una minaccia», scrive “Il Corriere della Sera”. Lei non sa chi sono io»: per Totò era una facezia, per la Cassazione una minaccia. La Suprema Corte ha annullato l'assoluzione di un salernitano che aveva così inveito contro una conoscente. Detta dal principe dalla risata, aveva solo il sapore di una facezia, di una battuta solo un po' narcisa. Quando Totò la pronunciava nei suoi film, serviva solo a riempire la sala di risate. Vista, invece, sotto la lente giuridica e sotto gli ermellini dei magistrati della Cassazione, ecco che la cosa assume ora tutto un altro rilievo e la frase «lei non sa chi sono io», ha tutto un altro tono. Addirittura un carattere «minaccioso» se a «lei non sa chi sono io» si aggiunge - a mo' di chiosa - «questa gliela faccio pagare». La Cassazione ha, infatti, stabilito che l'espressione ha un contenuto in grado di limitare la «libertà psichica» altrui se scappa di bocca in un «contesto di alta tensione verbale». Per questo la Suprema Corte ha deciso di annullare l'assoluzione di Antonio, un signore di Salerno che aveva così inveito contro una conoscente, la signora Licia, alla quale era legato da vecchia ruggine. Contro il verdetto di proscioglimento di Antonio, distinto sessantenne, graziato dal giudice di pace che - con il suo verdetto del 27 aprile 2010 - aveva ritenuto «l'inidoneità offensiva» della locuzione ora incriminata, il Procuratore generale della Corte di Appello di Salerno ha protestato in Cassazione inoltrando un ricorso inneggiante alla condanna. I supremi giudici - con la sentenza 11621 - hanno sottolineato che sì, a ben vedere, «l'espressione deve essere valutata nel suo complesso e il giudice di pace non si è soffermato adeguatamente a considerare il contesto in cui si inseriva, escludendone ogni idoneità minatoria». Invece - prosegue l' Alta Corte - «l'espressione andava, e andrà valutata dal giudice del rinvio, nel concreto ambito nel quale era stata pronunciata, in un contesto cioè di alta tensione verbale, da persona che utilizzando l'espressione che "l'avrebbe fatta pagare" essendone capace («non sai chi sono io») colorava e riempiva di contenuti minacciosi la frase pronunciata, perchè nulla ne circoscriveva il significato all'adozione di iniziative lecite». Ora la vicenda - che risale al 13 gennaio 2006 - si riapre davanti al giudice di pace. Gli italiani, potenzialmente, sono tutti a rischio di finire condannati per minaccia perché tutti, prima o poi, pronunciano la fatidica frase - cara a Totò - «lei non sa chi sono io, questa gliela faccio pagare!»: la Cassazione ha, infatti, stabilito che l'espressione ha un contenuto in grado di limitare la «libertà psichica» altrui se scappa di bocca in un «contesto di alta tensione verbale». Per questo la Suprema Corte ha deciso di annullare l'assoluzione di un signore di Salerno che aveva così inveito contro una conoscente, la signora Licia C., con la quale condivideva antichi dissapori. Contro il verdetto di proscioglimento del sessantenne Antonio G., graziato dal giudice di pace che - con il suo verdetto del 27 aprile 2010 - aveva ritenuto «l'inidoneità offensiva» della locuzione ora incriminata, il Procuratore generale della Corte di Appello di Salerno è ricorso in Cassazione. A nulla sono valse le memorie difensive con le quali il legale del povero Antonio G. ha lamentato la «persecuzione giudiziaria» in atto ai danni del suo cliente che, in fin dei conti, non aveva detto nulla di così spaventoso. I supremi giudici - con la sentenza 11621 - hanno sottolineato che sì, a ben vedere, «l'espressione deve essere valutata nel suo complesso e il giudice di pace non si è soffermato adeguatamente a considerare il contesto in cui si inseriva, escludendone ogni idoneità minatoria». Invece - prosegue l' Alta Corte - «l'espressione andava, e andrà valutata dal giudice del rinvio, nel concreto ambito nel quale era stata pronunciata, in un contesto cioè di alta tensione verbale, da persona che utilizzando l'espressione che «l'avrebbe fatta pagare» essendone capace («non sai chi sono io») colorava e riempiva di contenuti minacciosi la frase pronunciata, perché nulla ne circoscriveva il significato all'adozione di iniziative lecite». A sostegno della sua tesi, la Cassazione ricorda che «nel reato di minaccia elemento essenziale è la limitazione della libertà psichica mediante la prospettazione del pericolo che un male ingiusto possa essere cagionato dall'autore alla vittima, senza che sia necessario che uno stato di intimidazione si verifichi concretamente in quest'ultima, essendo sufficiente la sola attitudine della condotta ad intimorire e irrilevante l'indeterminatezza del male minacciato purchè questo sia ingiusto e possa essere dedotto dalla situazione contingente».

La Suprema Corte di Cassazione si trova ancora una volta ad affrontare un caso di maleducazione e arroganza legato alla storica frase “lei non sa chi sono io, la pagherà”. Già in passato aveva avuto modo di affrontare l’argomento trattando il caso di una dipendente di un Consiglio dell’Ordine e di un avvocato. Quest’ultimo, aveva pronunciato la frase “incriminata” pretendendo dalla citata dipendente maggio ossequi nei suoi confronti. La Cassazione, con la sentenza numero 138 del 2006, aveva dato torto all’avvocato facendo notare che “nel suo sproloquio, non aveva usato il titolo di dottoressa. Perché non sapeva chi era la signora che faceva le fotocopie”. Questa “bacchettata” da parte della Corte si è ripetuta nella recente sentenza n.  11621/12. Questa volta a pronunciare la frase sarebbe stato un VIP, o presunto tale. La Corte facendo notare che la frase va letta in “combinato disposto” con la promessa di una vendetta e che chi l’ha pronunciata lascia intendere si essere in una posizione in cui può nuocere ha stabilito che si configurano gli elementi costitutivi dei reati di ingiurie e minacce. Il VIP si è giustificato rappresentando che la frase è stata detta in conseguenza di un fatto ingiusto dallo stesso subito. Anche in questo caso la Cassazione ha precisato che “una denuncia non può essere di per sé considerata un’ingiustizia a prescindere dalla sua fondatezza, in ogni caso la reazione non era arrivata a caldo, facendo così presumere che fosse solo il risultato di vecchi rancori”.

Più di un secolo fa il primo romanzo sulla “casta”, scrive la Redazione de Il Libraio. Torna in libreria "I misteri di Montecitorio" di Ettore Socci, Mazziniano convinto, che morì a Firenze nel 1905. I misteri di Montecitorio (romanzo riproposto da Studio Garamond edizioni, nella collana Supernova) è la storia dell’ascesa politica dell’avvocato Guidi, da giovane professionista di provincia a deputato romano. Cento anni prima degli scandali della “casta”, Ettore Socci (Pisa, 25 luglio 1846 – Firenze, 18 luglio 1905) raccontava in presa diretta corruzione, sotterfugi, miserie umane della classe politica italiana, inventando un genere, il romanzo parlamentare, e offrendo un quadro umano e sociale che sconvolge per le rispondenze con la nostra contemporaneità. Irriverente e caustico, I misteri di Montecitorio, attraverso il suo protagonista, esplora ogni sfaccettatura dell’esperienza politica di un uomo qualunque catapultato dalla fine del mondo al centro della scena pubblica: dalle prime, timide manovre per vincere la campagna elettorale fino alla vita mondana, le vacanze, l’amante ufficiale, l’avvocato Guidi ci mostra quanto il potere riesca a trasformare anche il migliore degli uomini immaginabili nella più bieca e opportunista delle creature. A corollario della sua avventura, gli incontri con i grandi uomini che contribuirono all’Unità d’Italia, ridotti alla miseria da uno Stato che preferiva i furbi agli eroi. L’autore del romanzo  fu giornalista, politico e scrittore. Mazziniano convinto, Socci studiò a Firenze e combatté come volontario a fianco di Garibaldi nella campagna trentina del 1866, a Mentana (1867) e nella campagna francese del 1870 e 1871. Diresse due giornali progressisti, Satana e Il grido del popolo. Venne arrestato e assolto più volte per via delle sue idee rivoluzionarie. Nel 1878 si trasferì a Roma, dove divenne amico intimo di Carducci e Cavallotti. Nel 1892 venne eletto deputato per il collegio di Grosseto.

I misteri di Montecitorio” di Ettore Socci, scrive Ilaria Guidantoni su “Saltinaria”. Introduzione di Saverio Fossati. Un’iniziativa singolare, coraggiosa per alcuni aspetti – pubblicare un libro senza l’autore (vivente) che non è un classico riconosciuto – di grande attualità. Romanzo di ambiente politico, anzi parlamentare, il libro è uno spaccato sulla vita dell’avvocato Guidi, coprotagonista di una pletora di gente inutile, irriverente, fannullona, affarista che ha caratterizzato l’Italia di ieri e di oggi, o almeno la sua più insigne rappresentanza. E’ l’analisi spietata di un mondo intramontabile, scritta con stile fiorito e termini che oggi appaiono desueti, allo stesso tempo con piglio civettuolo e caustico insieme, un vero piacere alla lettura. Gustoso, a tratti forbito, in altri simile al gossip del quale siamo sommersi, ci racconta una storia come tante in tempi non sospetti che pertanto diventa una metafora della biografia politica. Giovane di belle speranze, proveniente da un paesino qualunque, P… come d’uso un tempo, segnare nomi di luoghi, e persona con la sola iniziale, con un futuro appena sporcato da uno scivolone, nutrito da sentimenti sinceri e amorevoli verso una fidanzata inappuntabile eppure decisa e pratica che per salvarlo dal carcere lo fa candidare. La sorpresa della vittoria elettorale e l’essere catapultato a Roma segnerà la sua ascesa e condanna ad un tempo. Il canovaccio è sovrapponibile a quello che abbiamo incontrato o del quale siamo venuti a conoscenza innumerevoli volte. Roma, si sa, è una Circe alla quale è difficile resistere e ancor più complesso è liberarsene. L’arrivo a Roma è incerto, perplesso, un avanzare a tentoni anche solo per conoscere i luoghi e sapere come muoversi; incontro al giovane paesano viene il sostegno degli habitué del Palazzo che conoscono i trucchi del mestiere. C’è un microcosmo nel quale le persone diventano personaggi e il politico si disumanizza per divenire una macchina in mano al consenso, non più padrone delle proprie azioni e perfino dei propri pensieri e sentimenti. Così anche l’innamorato Guidi trova un’amante ufficiale, Adele, nulla di originale perché lei in fondo è la donna di tutti in quel mondo, che poi finisce per sposare ‘un ricco citrullo’, riabilitarsi, sistemarsi e fare la bella vita. Siamo all’indomani dell’Unità d’Italia, al tempo di Agostino Depretis, ma il mondo non è cambiato di molto, semmai peggiorato nello stile: è la storia di un Paese che agli eroi ha preferito i furbi e, negli ultimi tempi, i furbetti. Testo perspicace e arguto, romanzo naturalista con una nota che ricorda Balzac per la fotografia dei tipi umani e della loro mediocrità e per un altro verso il fermento e il brulichio dell’affaccendarsi cittadino di Zola. E’ un romanzo corale sull’opportunismo dilagante e il disinteresse per la cosa pubblica che anticipa uno scenario visionario come l’eterna questione delle ferrovie da riformare. Socci non è un censore, né un narratore, ma un regista in presa diretta che ‘si limita’ a ritrarre quello che gli passa davanti, sotto una luce spietata che rende il suo sguardo fresco e intelligente e non appesantisce mai la sua scrittura.

Ettore Socci nacque a Pisa nel 1846 e morì a Firenze nel 1905; fu giornalista, politico e scrittore, mazziniano convinto e volontario garibaldino. Arrestato più volte per le sue idee rivoluzionarie, nel 1878 si trasferì a Roma divenendo amico di Carducci e Cavallotti e nel 1892 fu eletto deputato per il collegio di Grosseto.

"I misteri di Montecitorio", romanzo parlamentare di Ettore Socci. Intellettuale del Risorgimento italiano, racconta sotterfugi e miserie umane della classe politica nostrana all'alba dell'Italia unita. Una storia che più di cento anni dopo è ancora attuale, scrive Simona Santoni su “Panorama”. Intellettuale del Risorgimento italiano, mazziniano convinto, Ettore Socci è stato un giornalista toscano e politico della seconda metà dell'Ottocento (Pisa 1846 - Firenze 1905), che combatté come volontario a fianco di Garibaldi nella campagna trentina del 1866, a Mentana (1867) e nella campagna francese del 1870 e 1871. Come scrittore fondò un genere, il romanzo parlamentare, offrendo un quadro umano e sociale che sorprendentemente ha tante rispondenze con la nostra contemporaneità. I misteri di Montecitorio, edito oggi da Studio Garamond di Edizioni della Sera, nella collana Supernova, racconta, cento anni prima della Casta, corruzione, sotterfugi, miserie umane della classe politica nostrana. Il libro (di 176 pagine) è la storia dell'ascesa politica dell'avvocato Guidi, da giovane professionista di provincia a deputato romano. "L'avv. Guidi era guardato in cagnesco dai pezzi grossi del paese. Provvisto di un ingegno abbastanza poderoso, egli sbarcava il suo lunario, mangiandosi in santa pace la rendita che gli aveva lasciato suo padre, uno dei più fortunati industriali del paese", così Socci descrive il suo protagonista nelle prime pagine. È affilata la sua penna, soprattutto quando entra tra le usanze parlamentari: "Le vacanze parlamentari sono un vero carnevalino per gli onorevoli. I fannulloni godono - procul negotiis - tutte le gioie del mestiere senza averne le seccature: i politicanti girano per i loro collegi, di borgata in borgata, spifferando programmi, spargendo promesse a destra e a sinistra; gli affaristi rimangono alla capitale, ove, senza controllo, possono abbandonarsi a tutte le speculazioni e far la caccia a tutti i guadagni". Saverio Fossati, nell'introduzione, così parla del romanzo di Socci: "Un vero, potente e divertente romanzo naturalista: l'occasione di leggere I misteri di Montecitorio, ormai confinato in poche biblioteche, non va perduta. Perché è una lettura delle migliori ma anche una bella lezione di storia. Una storia di tanti anni fa, nel 1874-1876, all'alba dell'Italia unita. Quando poteva votare il 2% della popolazione (oggi è l'83 per cento) con sistema uninominale a doppio turno, i deputati erano 'solo' 556 e bastavano poche centinaia di voti per essere eletti". Ettore Socci diresse due giornali progressisti, SatanaIl grido del popolo. Venne arrestato e assolto più volte per via delle sue idee rivoluzionarie. Nel 1878 si trasferì a Roma, dove divenne amico intimo di Carducci e Cavallotti. Nel 1892 venne eletto deputato per il collegio di Grosseto. I misteri di Montecitorio nacque prima della sua esperienza parlamentare, come romanzo a puntate su La Democrazia (giornale da lui fondato) nel 1886-87, poi fu raccolto in volume nel 1899.

Recensione di Alessandra Stoppini su “Sololibri”.Fu in una delle prime sere di novembre del 187... che l’avvocato Guidi fece il suo ingresso nel palazzo di Montecitorio.” Nessuno conosceva quel giovane deputato da poco eletto in Parlamento che proveniva dalla provincia del Regno d’Italia. Bello di “una bellezza maschile”, aitante e distinto, Guidi “reduce garibaldino e possidente democratico” aveva fatto le campagne per l’indipendenza d’Italia, distinguendosi. Poeta infarinato di studi classici, “parlatore facile ed elegante”, chiamato “sbuccione” all’Università e “scansafatiche dopo la laurea”, a Roma "sciupava quattrini senza concludere nulla". Per questo il genitore, uomo pratico, l’aveva richiamato a P., il paesello natio “nella speranza che si sarebbe adattato a badare i suoi affari.” Qui l’avvocato Guidi, solo per aver difeso i diritti di alcuni scioperanti nei confronti delle esigenze dei capitalisti, era stato tradotto in carcere e lasciato a languire. “Che razza di governo era dunque quello che reggeva l’Italia per pigliar lui per un uomo pericoloso?” Quindici giorni dopo l’arresto dell’avvocato erano state indette le elezioni generali. Immediatamente tutti i collegi elettorali erano stati percorsi da galoppini che in ogni angolo dello Stivale promettevano menzogne. Il solito “apparato scenico e le maligne risorse che costituiscono il nauseante spettacolo di una lotta elettorale, si mostrarono alla luce del sole, anche nelle elezioni del 187...” Un gruppo di cittadini onesti, nemici giurati della ciarlataneria e dell’affarismo si erano proposti di combattere le due candidature che avevano corrotto l’onesto collegio. Era stata quindi proposta la candidatura dell’avvocato Guidi di specchiata onestà, arrestato ingiustamente. La vittoria alle elezioni spalancava al giovane il portone di Montecitorio e dei suoi misteri. “Il Guidi credeva di essere preda di un sogno. Non aveva in vita sua mai pensato di rappresentare il paese, e la prima idea che gli balenò nella mente fu quella di Pulcinella creato principe del sangue dalla fata benefica.” L’intellettuale risorgimentale Ettore Socci (Pisa 1846-Livorno 1905), mazziniano convinto, ex garibaldino, giornalista e deputato repubblicano dal 1892, fece uscire "I misteri di Montecitorio" dapprima sul giornale da lui fondato La Democrazia nel 1886/87 e successivamente in volume nel febbraio del 1899.È un libro d’impressioni, a cui non ho voluto aggiungere proprio nulla, quantunque in sette anni di vita parlamentare, avrei raccolto un po’ di materiale.” La casa editrice romana, Studio Garamond, riedita il libro, nella collana Supernova curata da Michele Vaccari, con l’obiettivo di riscoprire i capolavori scomparsi della letteratura italiana a cavallo tra Ottocento e Novecento. L’inventore del romanzo parlamentare redasse il primo libro-scandalo sulla Casta, perché dal 1874 a oggi nulla sembra cambiato all’interno dei Palazzi della politica romani. “L’uomo politico è uno schiavo bianco” giacché “quando un pacifico cittadino ha la disgrazia di diventare un uomo politico egli non ha più volontà.”
Guidi questo l’avrebbe scoperto presto all’interno della Camera nella sala di lettura chiamata Farmacia o passeggiando al Pincio durante una radiosa mattinata invernale capitolina degna di un dipinto di un vedutista straniero. Ma le bellezze dell’Urbe non sono in grado di celare corruttela e malversazione. All’alba dell’Unità d’Italia il nostro Paese porta ancora nel cuore le battaglie risorgimentali attraverso le quali il dominatore straniero è stato ricacciato fuori dai confini nazionali. Eppure la nostra giovane Italia è già corrotta in balia di loschi figuri come il mefistofelico deputato Civiletti, “sarò il vostro Virgilio in questo inferno”, che si serve di Angelina “figlia del piacere” per attuare i suoi loschi intrighi. In questo mondo depravato nel quale impera la politica del “do ut des”, non c’è posto per un novellino come Guidi o per l’onesto deputato Salvatore “dedito al pauperismo”. “Un romanzo naturalista” e “una bella pagina di storia” come sottolinea Saverio Fossati nell’introduzione. Tra le pagine del volume spicca la figura del “vecchio mago” Agostino Depretis (1813-1887), maestro del “trasformismo”, nove volte Presidente del Consiglio del Regno d’Italia, il quale:“
come Cristo, passando da incarnazione a incarnazione, facendo salti mortali da destra a sinistra ha fatto della maggioranza un vero e proprio caleidoscopio che cambia a ogni tratto, ma che gli mantiene sempre il mestolo in mano.”

Quando la destra denunciava la casta, scrive Raffaele Liucci su “Treccani”. Forse aveva ragione Montanelli, quando pronosticò che Silvio Berlusconi avrebbe distrutto non soltanto la sinistra, ma anche la destra. Di sicuro, il fondatore di Forza Italia, sdoganando nel ’94 i «camerati», ha annichilito una certa tradizione anti-partitocratica e anti-affaristica radicata nell’estrema destra italiana. Oggi è difficile crederlo, dopo i festini del «Trimalcione de’ noantri» (Franco Fiorito), le parentopoli di Alemanno e la recentissima inchiesta sulla «Mafia Capitale», ma ci fu un tempo in cui il Msi poté presentarsi, non a torto, come il partito dalle «mani pulite», mentre la stampa limitrofa imbastiva robuste campagne contro le malefatte dei potenti. D’accordo, talvolta questi fogli ne approfittavano per delegittimare il regime democratico tout court, dipinto quale ricettacolo d’imbrogli e malversazioni. E tuttavia, come non rimpiangere l’indubbia onestà di molti (non tutti) i nostalgici di Mussolini? Queste e altre storie si leggono in uno stuzzicante volumetto di Filippo Maria Battaglia, dedicato alle origini della «casta», fra anni Quaranta e anni Cinquanta, che propizia alcune glosse a margine. Innanzitutto, gli umori anti-casta sono antichi quanto la «casta» stessa, un termine sfoderato da Luigi Sturzo già nel ’50, per censurare «la tendenza di dare posti di consolazione a ministri, sottosegretari e deputati fuori uso». Ma ancor prima, nel dicembre ’44, Guglielmo Giannini – sul numero uno dell’«Uomo Qualunque» – tuonava contro «gli uomini politici professionali», affamati di «cadreghini e canonicati». Ciononostante, la cristallizzazione di un ceto politico spregiudicato e rapace non sarà poi così immediata, se nel settembre ’46 sull’«Europeo» Vittorio Zincone dipinse come «deputati poveri» i neoeletti all’Assemblea Costituente. Gran parte di loro si barcamenava fra alberghetti e pensioncine, mentre per il vitto si rivolgevano al Circolo delle Forze Armate di Palazzo Barberini, assai apprezzato per la sua mensa a buon mercato. Un articolo quasi strappalacrime! In secondo luogo, la prima stagione di grandi scandali coincide, forse non casualmente, con l’uscita di scena dell’integerrimo De Gasperi, che nel ’53 lascia la presidenza del Consiglio e muore l’anno dopo. Già nel ’54, in pieno «caso Montesi», Pietro Ingrao evoca la «questione morale», con quasi trent’anni di anticipo su Berlinguer. Ma non ci sono soltanto comunisti e terzaforzisti a denunciare gli «avidi forchettoni» democristiani. Spiccano pure le grandi firme della destra: Guareschi, Malaparte, Ansaldo, Longanesi, Montanelli e un combattivo reduce di Salò, Mario Tedeschi, che prenderà le redini del «Borghese» dopo la morte di Longanesi (settembre ’57). Un suo libro del ’56 sulla corruzione capitolina suona sinistramente attuale. In terzo luogo, la cooptazione dei socialisti nella «camera dei bottoni», alla fine del ’63, estenderà presto il malcostume pure agli «onorevoli» di sinistra. Lo confermano anche i dati delle autorizzazioni a procedere richieste al Parlamento dalla magistratura. Va comunque aggiunto che se il Pci riuscì a conservarsi quasi sempre «lindo», non fu soltanto per la diversità antropologica dei suoi militanti (innegabile), ma anche grazie all’«oro di Mosca», generosamente elargito dal Cremlino. Infatti, quando nell’estate del ’54 Giulio Seniga, stretto collaboratore del vicesegretario Pietro Secchia, fuggì con un’enorme somma di denaro prelevata dalle casse del Pci (pari a circa 9 milioni di euro attuali), nessuno osò denunciare il furto, trattandosi di finanziamenti sovietici illegali.
Infine, non bisognerebbe mai dimenticare che all’epoca la magistratura era assai timida verso la «nomenclatura», perciò non conosceremo mai i reali contorni dell’«economia della corruzione» agli albori della Repubblica. Anche se allora la passione politica forse restava un contravveleno al banditismo affaristico più spinto.

"Lei non sa chi ero io", la nascita della Casta in Italia. Mazzette, sesso, droga, appalti truccati: il saggio di Filippo Maria Battaglia mostra la genesi del malcostume politico italiano. Roma, 1946. Dopo le prime elezioni a suffragio universale, i deputati arrivano a Montecitorio. La maggior parte di loro stenta a trovare un alloggio e qualcuno è persino costretto a sedersi alle mense pubbliche. L’austerità dell’onorevole, però, dura un battito di ciglia. Tra consulenze fittizie, appalti truccati, scandali sessuali e finanziamenti statali, i tic e i vizi dei primi parlamentari italiani si rivelano molto presto simili, se non identici, a quelli di oggi. Persino le giustificazioni suonano incredibilmente familiari: «È accaduto a mia insaputa», «ho peccato di buonafede», «non ho visto una lira, ho girato tutti i soldi al partito». Lei non sa chi ero io! è l’implacabile resoconto degli sprechi dei primi vent’anni della Repubblica: una ricostruzione dettagliata della nascita della Casta, corredata da dati in parte inediti, che si concentra sui privilegi del sottobosco governativo, tra aiuti a industrie vicine alla politica, scandali finanziari tollerati dall’esecutivo, tangenti, finti monopoli, enti inutili e fondi neri. E poi ricatti incrociati, dossier segreti, e tentativi di revisione della Costituzione a colpi di maggioranza.

Un racconto ormai «storico», ma ancora così attuale da sembrare cronaca di questi giorni, scrive Andrea Bressa su “Panorama”. Conoscere il passato per comprendere il presente ed evitare gli stessi errori è uno degli obiettivi della ricerca storica. Ma il concetto non sempre funziona, anzi. Come in politica, la nostra politica, che sembra non aver imparato nulla. Scandali, soldi sporchi, tangenti, appalti, stipendi d’oro, amanti, droga, truffe, amici di amici che conoscono altri amici: la Casta è solo il nome moderno di un fenomeno già ben presente agli albori della Repubblica. Non è una notizia, certo, ma il saggio di Filippo Maria Battaglia Lei non sa chi ero io! (Bollati Boringhieri) indaga con efficacia la storia del malcostume di palazzo nei primi vent’anni di vita dell’Italia repubblicana. In modo veloce (75 pagine) ma intenso, scopriamo (o troviamo conferma di) come gli sprechi e le malefatte dei nostri rappresentanti di oggi non siano poi tanto lontani da quelli di 50 o 60 anni fa. Così troviamo personaggi che intascano soldi “a propria insaputa”, allegri festini carichi di droga e sesso tra deputati, funzionari, assessori e attricette. Tante inchieste, grandi e piccole, per cui si è gridato allo scandalo sui giornali, ma andate in fumo grazie ad accordi fra partiti, votazioni parlamentari, favori di amici. Lei non sa chi ero io è un veloce assaggio della genesi di buona parte dei comportamenti peggiori della nostra classe dirigente. Per raccontarlo Filippo Maria Battaglia ha spulciato numerose testate dell’epoca, scorrendo tra le cronache dei quotidiani e dei periodici di tutti gli schieramenti, ma anche di tanti atti parlamentari e diversi saggi.

Storia e origini della “Casta” politica italiana. Il racconto di “Lei non sa chi ero io!” di Filippo Maria Battaglia: alla base, gli stipendi alti,, scrive Filippo Maria Battaglia su “L’Inkiesta”. Quando è nata la “Casta” politica italiana? Non certo con gli insulti dei grillini o con il libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo. La “Casta” nasce ben prima. Così come i festini hard che fanno scandalo sui giornali. E lo racconta bene Filippo Maria Battaglia nel suo libro Lei non sa chi ero io! edito da Bollati Boringhieri editore. Ecco un estratto: Stipendi d’oro in Aula e amanti al Colle: arriva «la casta». “Cinque milioni di lire in un anno, venticinque per un intero mandato. A tanto ammonta il compenso dei parlamentari nel 1963. A fare i conti nelle tasche degli eletti, alla fine della terza legislatura, è «Il Borghese»: un onorevole incassa in un mese quanto nove operai per partecipare a poco più di centoquaranta sedute l’anno. Lo stipendio, in realtà, si ferma a 740mila lire ma in soccorso della busta paga arriva il «rimborso spese». Da regolamento dovrebbe essere variabile sulla base delle presenze in Aula, certificate da un apposito registro, che però non è controllato da nessuno. «Un collega comunista con un libretto in mano – è la denuncia di un deputato dc al quotidiano «Il Tempo» – metteva firme di presenza, oltre che per sé, per alcuni suoi colleghi assenti, che avrebbero così percepito il gettone». L’inchiesta di Montecitorio scatta subito ma si chiude con una semplice censura generica. In questi mesi il conto corrente dell’onorevole si arricchisce poi di nuove e imprevedibili agevolazioni: treni, navi e autostrade gratis per sé e «per la sua famiglia, compresi i cugini lontanissimi, o dichiarati tali»; crociere senza sborsare un lira, «e non solo in Italia»; aerei a metà prezzo; e ancora ingressi liberi e illimitati in teatri, stadi, cinema, vernissage e musei: ormai «il parlamentare paga proprio quando non ne può fare a meno». «Oggi come oggi – nota Montanelli – circa la metà dei nostri parlamentari non ha altra attività che quella politica, la quale così viene a rappresentare per essi, oltre che una vocazione, una “sistemazione”». Ne è una conferma l’arrivo della pensione. Introdotta nel 1959, è ovviamente reversibile e prevede un assegno mensile di 50mila lire dopo cinque anni di contributi, con l’aumento di 10mila lire per ogni anno in più fino a un massimo di 200mila lire mensili. Il risultato? Un ex deputato con quattro legislature alle spalle, a 60 anni incassa 2 milioni e 400mila lire l’anno. «Una scelta aberrante», commenta don Sturzo. Gli onorevoli fanno pure incetta di esenzioni fiscali, prestiti (i settimanali parlano di linee di credito di centinaia di milioni, spesso non garantite) e mutui concessi a tassi di favore, i cui interessi sono in buona parte pagati dallo Stato. Amaro e profetico il commento del prete di Caltagirone: se si considera «la tendenza di dare posti di consolazione a ministri, sottosegretari e deputati fuori uso», i nostri parlamentari, più che a rappresentare il popolo, sembrano ormai impegnati a «voler creare o consolidare una casta». La sfilza di episodi di malcostume che a vario titolo si affastellano nelle prime legislature del Dopoguerra non aiuta. Presi singolarmente non hanno particolare rilievo, ma uno dietro l’altro restituiscono un quadro non esattamente edificante degli eletti. Riguardano democristiani, monarchici e socialdemocratici alle prese con reati vari e quasi tutti si risolvono con un nulla di fatto. Ampio il campionario giudiziario: truffe, fallimenti, minacce, usura, violenza privata e persino correità in adulterio causate tra l’altro da «morbose e innaturali tenerezze verso ex segretari particolari». Le cronache di questi mesi regalano poi inaspettate descrizioni di feste della Roma bene, quasi sempre trasversali, dove si ritrovano «tutti: liberali, comunisti, preti, belle donne e brutte donne»,e soprattutto un altro scandalo a luci rosse. Compare sui quotidiani il 14 febbraio 1961 e riguarda la «scoperta da parte della Polizia dei Costumi di una casa-squillo di alto rango per “amatori” facoltosi», dove «alcune divette, indossatrici e signorine di buona famiglia piuttosto note nei ritrovi di Via Veneto», coordinate dall’ex parrucchiera Mary Fiore, «danno sollazzi a nomi conosciuti», anche della politica. Passano pochi giorni, aumentano le indiscrezioni e le «squillo da un milione» diventano un nuovo strumento di «lotta fra frazioni Dc». Ma le identità dei clienti non vengono fuori: i rotocalchi che li annunciano vengono subito ricompensati per il loro silenzio. I ricatti – scrivono i settimanali – sono ormai «l’arma segreta della vita politica nazionale». In particolare, nota Eugenio Scalfari, il mirino è indirizzato sui democristiani di sinistra, colpevoli «di fornicare di giorno con il diavolo in berretto frigio, e di notte col diavolo in gonnella». Tra i più ghiotti di fascicoli e pettegolezzi condizionanti, il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, che riceve puntuali report da Giovanni De Lorenzo, a capo del Sifar, il servizio segreto militare. Sotto la direzione del generale (che di lì a breve sarà protagonista di una delle pagine più controverse della storia repubblicana, legata al Piano Solo) vengono schedati migliaia di politici, ecclesiastici e grand commis. Il risultato? Oltre 150mila fascicoli che quasi mai hanno a che fare con la necessità di sicurezza (compito per il quale è nato il servizio segreto) e che spesso si rivelano inattendibili. Alcuni sono mastodontici: «Per l’onorevole Fanfani – racconterà anni dopo il generale Aldo Beolchini – c’erano quattro volumi, ciascuno gonfio come un doppio dizionario». Sui maneggi tra Quirinale e De Lorenzo con la complicità di diversi politici si mormora durante tutto il settennato di Gronchi, ma è al giornalista Renzo Trionfera che si devono le inchieste più dettagliate sul Colle. La sua presidenza – scrive – è affollata «di personaggi squalificati, di affaristi, di maneggioni del sottogoverno: uomini e donne potentissimi», intenti a «colpi miliardari», culminati col tentativo di «comperare voti in Parlamento e simpatie esterne» per intercessione della mano munifica di Enrico Mattei che mette a disposizione «un miliardo tondo» con l’obiettivo di «raddoppiare il festoso mandato» del presidente. Gronchi si infurierà più volte per quelle inchieste: prima minacciando l’editore Angelo Rizzoli srl, poi – dopo l’esplosione del caso nel 1967 – difendendosi in modo impacciato in Aula. I traffici attribuiti all’entourage del Colle sono tanti: tra i più noti, quello legato a un francobollo, il cosiddetto «Gronchi Rosa». Il 3 marzo 1961 viene emesso dalle Poste in coincidenza di un viaggio presidenziale in Sudamerica. Per un errore nei confini tra Perù ed Ecuador, viene ritirato solo diverse ore dopo una limitata distribuzione. E «tanto è bastato – denunciano i giornali – perché alcuni signori, stranamente bene informati, abbiano fatto incetta del prezioso pezzetto di carta». Ma le attività del settennato non si limitano qui. Il presidente, infatti, oltre a essere goloso di dossier e maldicenze, ne è un indiscusso protagonista. «I romani – racconterà il settimanale «Abc» – parlano spesso della porticina che Gronchi ha fatto aprire su un lato del Quirinale, in via dei Giardini. Si mormora che di lì passino le amicizie femminili del Presidente, che non potrebbero introdursi per il portone principale senza dare adito a pettegolezzi». Amicizie che costano al Parlamento diversi provvedimenti ad personam: uno di questi sarà ribattezzato «legge Pompadour» proprio perché «destinato a una delle sue favorite». Il caso più clamoroso del settennato ha però a che fare con la nomina di un anonimo ragioniere, Torello Ciucci, «esercente di cinematografo a Pontedera», a presidente dell’Enic, l’Ente nazionale industrie cinematografiche. Un colosso industriale, valutato in diversi miliardi, che in poco meno di un anno viene svuotato dei suoi beni e venduto a un prezzo irrisorio. La manovra non passa inosservata: è la rivista di spettacolo «Intermezzo» a scrivere una lettera aperta indirizzata allo stesso Gronchi, a cui si chiede di sollecitare un’indagine. Intanto alcuni periodici informano che Torello Ciucci, ribattezzato «il ragioniere tutto d’oro», si «è installato in un appartamento sfarzoso» a Roma, insieme alla moglie, «signora Dilva, intima del Quirinale»,31 che segue il presidente in più di una trasferta. La vicenda arriva in Aula, ma come da copione avrà esiti impalpabili. L’ultimo scorcio della legislatura regala però anche un’inaspettata condanna lampo. È quella di Ebe Roisecco, un’intraprendente donna d’affari assai vicina agli ambienti Dc. «Accusata di una lunga serie di truffe (nove in tutto)», nei primi anni del Dopoguerra è dedita alle importazioni di prodotti (e soprattutto al traffico delle necessarie licenze), fino a quando non viene incastrata per colpa di un assegno falso, e, dopo la condanna in primo grado a dieci anni e otto mesi, decide di parlare. In un lungo memoriale, pubblicato il 3 marzo 1960, tira in ballo i nomi di democristiani e socialdemocratici, parla «di una fitta rete di amicizie» e ammette di aver fatto «guadagnare laute provvigioni ai partiti, soprattutto a quello saragattiano» (leggi Psdi). La confessione imbarazza la maggioranza ma non la scalfisce. Nessuna indagine suppletiva: l’unico effetto che sortisce è quello di far accelerare sensibilmente il processo, che resta a carico della sola Roisecco. La sentenza d’Appello arriva il 13 luglio, tre mesi dopo il primo grado. Passano appena cinque giorni e arrivano le motivazioni. L’8 agosto scadono i termini per il ricorso e il 10 settembre si è già in Cassazione. Ai magistrati basta poco più di un quarto d’ora «per chiudere il caso e le polemiche» e soprattutto il rischio di prescrizione, che sarebbe scattata 12 ore dopo. Una celerità improvvisa e inusuale, notata da diversi quotidiani: «Sulla “signora mezzomiliardo” si chiudono le porte del carcere, che rappresentano sempre una forma di validissima censura». I maneggi di Ebe Roisecco non sono isolati. Il traffico delle licenze e delle importazioni, in questi anni, è fiorente e frequentatissimo. Non è un caso che di qui nasca l’ultimo affaire che precede l’insediamento del primo governo di centrosinistra. Riguarda l’Azienda del monopolio delle banane, un’eredità del fascismo nata per garantire che si consumino solo frutti tropicali prodotti «nei territori dell’Impero» e sopravvissuto al regime grazie a una giustificazione formale: la tutela italiana sulla Somalia. Tocca al ministro delle Finanze, il dc Trabucchi, regolare l’indizione delle aste per i grossisti che aspirano alla concessione. «Lo schema – nota Livio Zanetti – è evidente: da una parte ci sono gli ex gerarchi della Somalia che devono continuare a coltivare le loro banane senza preoccuparsi di migliorarne la produzione perché tanto lo smercio è garantito; dall’altra gli armatori che hanno diritto al loro nolo assicurato; più in là ancora i grossisti, che non rinunciano a prelevare la loro taglia sul consumatore. E in mezzo, a regolare il buon funzionamento del meccanismo, i funzionari del monopolio». A una di quelle aste, sulla carta segreta, i vecchi concessionari azzeccano al centesimo il canone minimo nelle zone in cui non ci sono concorrenti e il canone massimo dove hanno rivali. I contendenti, rimasti a bocca asciutta, fiutano la magagna e, complice una minuta di verbale dove risulta che i grossisti avrebbero pagato decine di milioni per conoscere in anticipo le cifre, decidono di informare con un telegramma il premier Fanfani. L’asta è annullata, il presidente dell’Azienda monopolio banane Franco Bartoli Avveduti, ex segretario di Trabucchi, finisce in manette, rinviato a giudizio insieme ad altre 124 persone. In tribunale, mostra diverse lettere e dice di aver ricevuto «segnalazioni scritte e orali di influenti personalità Dc perché venissero ammessi all’asta ed informati dei prezzi minimi e massimi alcuni concessionari di Bologna, Palermo, Verona e Brescia». Il ministro dc e il suo entourage, racconta Avveduti, sono tra i più attivi a chiedere e a sollecitare indicazioni. Eppure vengono appena sfiorati dalle indagini e se la cavano. Almeno per ora. Passano meno di due anni e con l’inizio della nuova legislatura, Trabucchi, che nel frattempo non è più nel governo, si ritrova coinvolto in un altro scandalo, sempre riferito allo stesso periodo. È accusato di un’altra irregolarità risalente a quando era al dicastero: «Avere abusivamente concesso licenze di importazione di tabacco messicano a due società private e di averne ricavato grossi utili» a favore della Democrazia cristiana. L’ex ministro – difeso da un giovane deputato sardo, Francesco Cossiga – respinge tutti gli addebiti. Stavolta, però, non basta: non c’è tempo per nessuna commissione di inchiesta. Il Parlamento, con la nuova maggioranza allargata ai socialisti, si riunisce in seduta comune per decidere sulla messa in stato d’accusa davanti alla Corte Costituzionale, a cui tocca decidere sui reati ministeriali. La Dc si ritrova isolata e finisce in minoranza: 461 voti a favore della richiesta contro 440. Ma Trabucchi per meno di 20 voti la scampa grazie a un regolamento che «in barba alla Costituzione» – nota Alessandro Galante Garrone su «La Stampa» – «ha imposto una maggioranza speciale anche per la messa in stato d’accusa dei ministri» e non solo per il presidente della Repubblica. Alla Camera succede il finimondo: comunisti, socialisti e repubblicani si indignano, volano insulti e «infamanti accuse». Il giorno dopo, però, l’aria si fa più serena, quantomeno nella maggioranza. Il caso è chiuso, dice «L’Avanti», «c’è solo da augurarsi che l’opinione pubblica non rimanga scossa sino alla sfiducia». Alle accuse rivolte a ministri e parlamentari, il presidente del Consiglio Aldo Moro replicherà deciso: «La nostra classe politica è profondamente onesta. La fibra è buona e non merita la sfiducia del Paese». È il 24 ottobre 1965. Da quasi due anni il Psi è entrato nella «stanza dei bottoni». Dopo una lunga gestazione, l’apertura a sinistra è diventata cronaca politica. Ma nonostante le rassicurazioni di Moro e dei suoi alleati, il caso Trabucchi non sarà l’ultimo colpo di coda di una stagione ormai archiviata. Al contrario. L’ingresso dei socialisti nel governo, più che a coincidere con un cambio di rotta, finirà col dare stabilità a un sistema ormai già collaudato, perfezionandone i tic, puntellandone i vizi e ampliando il senso di privilegio e impunità.

LA CASTA DI STELLA - RIZZO: FORTE CON LE MEZZE TACCHE DELLA POLITICA, DEBOLE CON I POTERI FORTI - FACILE PRENDERSELA CON I BUZZI CHE RUBANO NEL PIATTINO DELLA CIECA MA LA CASTA DEI VERI POTERI CHE HANNO MASSACRATO IL PAESE, DA FIAT A MPS, NON SI TOCCA.

Stella: “Incomprensibili le 1800 pagine messe on line dal comune di Roma, la cosa fondamentale sarebbe cambiare il modo di fare i bilanci: Sappiamo tutto della regina Elisabetta e nulla di così dettagliato del bilancio del Colle”- La parola casta? Il primo ad usarla è stato don Sturzo”...

Scrive Silvia Truzzi per “il Fatto Quotidiano”. Parlando delle degenerazioni della politica in antipolitica come “patologia eversiva”, il capo dello Stato ha spiegato che a quest’azione eversiva non si sono sottratti “infiniti canali di comunicazione, a cominciare da giornali tradizionalmente paludati, opinion makers lanciati senza scrupoli a cavalcare l’onda, per impetuosa e fangosa che si stesse facendo, e anche, per demagogia e opportunismo, soggetti politici pur provenienti della tradizioni del primo cinquantennio della vita repubblicana”. Nessuno si stupirà, dunque, leggendo qui di seguito un‘intervista a Gian Antonio Stella, autore insieme al collega del Corriere della Sera Sergio Rizzo, de La casta, best-seller da un milione di copie (Rizzoli, 2006).

«Premessa: c’inchiniamo di fronte a Giorgio Napolitano, che tanti meriti ha avuto come presidente della Repubblica. Ma messa così non va bene: la censura nei confronti della cattiva politica, nell’economia generale del discorso, secondo me non era abbastanza forte. Dobbiamo chiederci chi genera l’antipolitica: i forconi o la cattiva politica? Io credo che le responsabilità siano soprattutto della cattiva politica. Attorno, certo, ci sono – ci sono sempre stati – i mestatori: penso all’Uomo qualunque di Giannini, al Partito della bistecca di Corradi, ai vari movimenti che negli anni si sono succeduti. Più recentemente possono essere i 5Stelle o, appunto, i forconi. Ma chi è responsabile? Restando nella metafora del morbo, la malattia non è imputabile del medico che la diagnostica».

Così sembra un po’ guardare il dito e non la luna. Soprattutto se la questione dell’antipolitica viene sollevata mentre a Roma è stato scoperchiato l’ennesimo vaso di Pandora.

«Massimo D’Alema, nel 2011, è arrivato a dire che ‘bisognerebbe liberare il lessico dalle parole anti-democratiche. Ne dico una di parola antidemocratica, capisco che è un po’ forte, ma è la verità. La parola "Casta" non è stata inventata da due brillanti colleghi. "Casta dei politici" compare nel dibattito pubblico italiano per la prima volta in un documento delle Br e ha mantenuto quell’impronta; ogni qualvolta la si usa, bisognerebbe pagare una royalty agli ideatori, e lo si fa culturalmente”. Con ciò tracciava un parallelo tra chi sparava alla nuca – assassini – e quelli che come me, Sergio e tanti colleghi di altri giornali che hanno fatto una campagna contro le storture della politica in nome della democrazia».

La paternità della parola era veramente delle Br?

«Ma no! Il primo è stato don Luigi Sturzo, l’11 agosto 1950, sul giornale 24 ore, parlando dell’ipotesi di aprire una cassa pensioni a favore dei deputati. E scrive: “A me sembra aberrante fare del mandato elettorale qualche cosa che confini con la carriera impiegatizia, ovvero il mandarinato, e sbocchi, infine, a uno stato di quiescenza a carico del pubblico erario”. Poco più avanti: “Più si consolida la professione e più si forma lo spirito di corpo, la casta, e più si rende difficile l’avvicendamento, sul quale è basata ogni sana democrazia”. Io credo che don Sturzo avesse ragione: evidentemente già intravedeva i segnali di alcune deviazioni della cattiva politica che hanno portato ai guai di oggi. Forse sarebbe il caso di imputare l’ondata di antipolitica più a chi ha creato regole in base alle quali Claudia Lombardo, consigliere regionale della Sardegna, può andare in pensione a 41 anni con oltre cinquemila euro netti di pensione. Sarà mica colpa di chi ha raccontato questa storia?»

D’Alema non è stato l’unico politico a prendersela con voi.

«L’ex tesoriere di Forza Italia, Maurizio Bianconi, ha definito me e Rizzo “il cancro di questo Paese”. Vorrei precisare che non abbiamo mai usato parole come magna magna o forchettoni, abbiamo semplicemente cercato di fare una battaglia civile per il bene della politica e dei politici. La denuncia è stata resa necessaria dal marcio che c’era».

C’è ancora, come si vede.

«Con grave ritardo, alcune cose sono state fatte. Teoricamente dalla prossima legislatura non ci saranno più i vitalizi per i consiglieri regionali, è stato tolto il finanziamento pubblico ai partiti, anche in maniera esagerata. Sul versante della corruzione è tutto come prima».

E i costi della politica?

«La cosa fondamentale sarebbe cambiare il modo di fare i bilanci. Abbiamo sotto gli occhi il caso di Roma. Il Comune di Roma ha messo on line il suo bilancio, ormai qualche anno fa: 1800 pagine, assolutamente incomprensibili. Ma questa non è trasparenza, è una presa in giro. Spiace dirlo, ma sappiamo tutto della regina Elisabetta – compreso quante bottiglie di champagne ha in cantina – e nulla di così dettagliato del bilancio del Colle».

La prima “Casta”: guarda come ti riciclo un Commissario Europeo, scrive Filippo Abbate su Memmt. Sappiamo tutto dell’ultimo assessore dell’ultimo paesino d’Italia, magari. Sappiamo che al termine della sua piccola carriera politica di provincia, è riuscito a trovare accoglienza in una società partecipata, in un’azienda amica, in un incarico di rappresentanza politica. Le cronache giornalistiche, nazionale e locali, sono ricche di episodi di riposizionamento. I famosi trombati, riciclati. Ma se dovessimo costruire una scala della potenza dei ruoli di comando, al vertice del nostro schema istituzionale vi sono loro, i “commissari europei”. Una figura tecnica nominata e non eletta, il non plus ultra della negazione della democrazia sostanziale. E così iniziamo un viaggio sulle attuali occupazioni di alcuni ex commissari europei. Non hanno trovato lavoro in qualche noiosa municipalizzata, o in qualche azienda amica di una sperduta zona industriale malmessa. Ovviamente, si trattano bene. Banche, assicurazioni, aziende di rilevanza internazionale. Segno evidente che, durante il loro “commissariamento“, hanno colpito duramente quei potenti settori, a tutto vantaggio del restante 99% della popolazione (si ironizza, ovviamente).  Nessun giornale farà mai una campagna di informazione su questo. Nel libro di Federico Rampini del 1998, “Intervista sull’Italia in Europa” a Mario Monti, l’ex presidente del think tank Bruegel così dichiarava a proposito: “Alle istituzioni europee interessava che i Paesi facessero politiche di risanamento. E hanno accettato l’onere dell’impopolarità essendo più lontane, più al riparo dal processo elettorale”.

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte? 

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

La Superbia-Vanità (desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini, leggi, rispetto altrui);

L’Avarizia (scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);

La Lussuria (desiderio irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);

L’Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio);

La Gola (meglio conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo);

L’Ira (irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito);

L’Accidia-Depressione (torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).

Essendo viziosi ci scanneremmo l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.

Vari illuminati virtuosi, chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti.  Le confessioni religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi sono detti Capitali.

I vizi capitali sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.

Una sommaria descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.

In questo mondo vizioso tutto ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano, ma i peccati sono gli stessi.

In questa breve vita senza giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione, ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia senza fama né gloria o l’anonimato eterno.

“La superficie della Terra non era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo... tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio: "Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie.  Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Antonio Giangrande, perché è diverso dagli altri?

Perché lui spiega cosa è la legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.

La legalità è un comportamento conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.

Legge e Prassi sono le due facce della stessa medaglia.

La Legge è votata ed emanata in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.

Ecco perché vige il detto: La Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.

La correlazione tra Legge e Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.

Parlare di legge, bene o male, ogni  leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati. Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.

Ed è proprio la Prassi che fotte la Legge.

La giustizia che debba essere uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita nella predisposizione umana.

Essa vien da lontano.

E’ lo stesso Alessandro Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle "Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.

La legge non era uguale per tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma, allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da quella degli oppressori.

Azzecca-garbugli è un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco, chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica (nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome). Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone. Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.

Renzo Tramaglino giunge da lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta tenendo a casa appunto di don Rodrigo.

Apparentemente, è un uomo di legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri, il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.

Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.

Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.

"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»

Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.

- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?

- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…

- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.

- Le giuro…

- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.

- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.

Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."

A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?

Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.

Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate.  

Chi siamo noi?

Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.

Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.

Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.

Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.

Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.

Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie. 

Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».

A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.

La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento  e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.

Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla. 

Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).

Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).

La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.

Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.

Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.

Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.

In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.

I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.

Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.

L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.

L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.

L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.

L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40%  dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.

L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.

L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.

Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.

Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.

Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.

E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.

Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.

Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.

Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?

Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.

Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?

E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?

La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”

Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.

Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.

Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.

E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.

Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.

Ma chi e quando le cose cambieranno?

Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".

Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.

Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.

"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere.  «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.

"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".

Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.

Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».

Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.

«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps.  «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto. 

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.

Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.

Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.

La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».

Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?

«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».

E come si spiega?

«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».

Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?

«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».

Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.

«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».

Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?

«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».

Quali dati?

«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».

Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?

«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».

Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!

«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».

E com'è andata, questa legge?

«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».

Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?

«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».

TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.

MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.

Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase  processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.

Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.

La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola. 

Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.

 “Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.

A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".

Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.

“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”,  dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si  può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!» 

VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.

D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri.  Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.

L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.

E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.

La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.

Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:

1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!

2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;

3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.

Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.

Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil. 

Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati ve ne sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.

Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode. 

Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.

Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.

Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.

Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.

E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.

Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.

Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista. 

Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.

Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.

Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).

Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.

''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.

D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.

Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.

Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.

"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta,  Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario".  Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".

Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".

Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.

LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.

Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».

Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".

La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento  (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier  di partecipare all’udienza  del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri.  Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".

Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?

Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».

Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.

Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it,  è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali.  Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.

“VADA A BORDO, CAZZO!!”.

E’ celebre il “vada a bordo, cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi che hanno colpito la nave Concordia.  Il naufragio della Costa Concordia, è un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14 gennaio  il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.

De Falco: «Sono De Falco da Livorno, parlo con il comandante?

Schettino: «Sì, buonasera comandante De Falco»

De Falco: «Mi dica il suo nome per favore»

Schettino: «Sono il comandante Schettino, comandante»

De Falco: «Schettino? Ascolti Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante Schettino...».

Schettino: «Comandante le dico una cosa...»

De Falco: «Parli a voce alta. Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».

Schettino: «In questo momento la nave è inclinata...».

De Falco: «Ho capito. Ascolti: c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro? Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Parafrasando la celebre frase di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è “chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con provvedimenti atti a quietarla.

Panem et circenses, letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è da attribuirsi al poeta latino Giovenale:

« ...duas tantum res anxius optat panem et circenses».

« ...[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».

Questo poeta fu un grande autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).

Perché quel “TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa. Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche, biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.  Pure quello difficile da gestire: solo gli artisti della copia copiarella possono.

Il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.

In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”

Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.

E, comunque, vallo a dire ai Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano, si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la "fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea "dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque quelle contra legem.

Pare che molte consuetudini sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti principi.

Tutti in pensione da "presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità. Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile.  Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata". Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate? Probabilmente no.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Per esempio nei processi, anche i testimoni della difesa.  

Tornando alla parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono:  “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di Giustizia: siamo tutti legulei.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Sul degrado morale dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità professionale incute dei dubbi.

Condanna a sette anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri, Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa, rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento) e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby, Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto".

I paradossi irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».

«Non chiamiamola sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.

L'accusa dei giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia. Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti", con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello - io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato". Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di chiacchiere, balli e nessun toccamento.

Nel tritacarne giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.

C'era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi. Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento, la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.

Omicidi, tentati omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere. Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo, uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.

Analizzando casi noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.

Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della Cassazione. La condanna è  di nove anni e quattro mesi di reclusione per  aver ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007, per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici.  Spaccarotella  era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo, determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove anni e quattro mesi di reclusione.

Caso Scazzi: per Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il contadino  è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al nipote.

Caso Marta Russo. L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.

Caso Jucker. Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.

Casi minori e meno conosciuti dall’opinione pubblica.

Bari. 8 anni di carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo del Colle,  accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.

Sequestro Spinelli (ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene  sono state dimezzate rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della moglie.

Pesaro. Picchiò e gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.

Caso Mancuso: condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori  nei confronti della comunità romena di San Gregorio.

All’estero. In Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.

Parlare, però, di Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.

«In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.

Taranto, Milano, l’Italia.

“Egregi signori, forse qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di avvocato di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a Messina o Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Sicuramente il più influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non per induzione) facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di avvocato dal lontano 1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e inoltrato denunce penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come l’esclusione dei consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni d’esame e ciononostante uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che possa rompermi le reni ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo concorso forense e tutti i concorsi pubblici che provo nei miei libri essere truccati. E sempre su quei libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per gli effetti, fondato sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni, come mi conoscono bene, prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi non fa parte del sistema e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là dell’immagine patinata che vi rendono i media genuflessi, pensa che in Italia vige la meritocrazia e quindi chi esamina e giudica e chi supera gli esami, vale. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza del potere, non la ragione della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il più influente, perseguendomi artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa, senza mai riuscire a condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del dibattimento, pensa di tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le vostre malefatte. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non per me, ma per tutti coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi. Anche perché se lo fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno centinaia di migliaia di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete sempre dalla parte del torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un ordine che dileggia il Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche questo. Potete farmi passare per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose: potrebbe andarmi peggio, come marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché morte non ci separi, impedirmi di diventare avvocato. Farò vita eremitica e grama. Comunque, cari miei, vi piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di dieci mila, criticati e non sono certo apprezzati; di avvocati più di 250 mila e questi, sì, disprezzati. Alla fine per tutti voi arriva comunque la Livella e l’oblio. Di Antonio Giangrande c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un ragione: sarò per sempre una spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più mi colpite, più mi rendete altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi. Il virus della verità si diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei 945 parlamentari che vi vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si cagano addosso. Solo in Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui rivolgersi, siano essi validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in galera, che si chiamino Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li chiamano “persone influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno di cosa tu stia parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò succeda. In fede Antonio Giangrande”.

Una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.

«A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.

Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.

Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela:  una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri. 

Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.

Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.

Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e li dichiarano tali?

Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e persecutoria?

Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

I commissari dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.

Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).

Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

Io che ho denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche per falsario.

Denigrare la credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.

VADEMECUM DEL CONCORSO TRUCCATO.

INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed i carabinieri, i vincitori rimangono casa.

COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato, del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.

I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.

LE TRACCE: le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.

LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.

MATERIALE CONSULTABILE: c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo».  «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.

IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.

LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:

• apertura della busta grande contenente gli elaborati;

• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;

• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;

• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;

• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;

• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;

• redazione del verbale.

Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.

La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».

Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.

Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.

In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.  Il presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.

TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.

Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?

In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.

Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su www.controtuttelemafie.it o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.

Un esempio per tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.

In tema di persecuzione giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.

C‘era una volta in un paese ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto che andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era quello che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi. In quel frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un tratto di strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la portiera. Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto, ma usare l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in colore e marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello aperto dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta, la caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il vecchietto inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva alla signora da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su mandato dato allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia inverosimile la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.

Dopo due anni arriva una citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per danni tanto da farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote. Essa indica esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando la nipote di essere la responsabile esclusiva del sinistro.

E peccato, però, che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi metri del fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto distinguendola da quella simile; che nessun testimone in giudizio ha disconosciuto la vecchietta come protagonista; che nessun testimone in giudizio ha ammesso che vi siano stati conseguenze per la caduta.

E peccato, però, che l’auto non era in curva, come da essa indicato.

Peccato, però, che la responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la vecchietta di cui sopra.

Una prima volta sbaglia il giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la domanda.

Tutti i giudici di pace ed onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla collega.

La tapina chiamata in causa afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata. La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.

La poveretta non sapeva che l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui ufficio era competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.

Gli amorosi cosa hanno pensato per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per calunnia la poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la persegue e gli amici giudici la condannano.

L’appello sacrosanto non viene presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in collusione con la contro parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante del magistrato altresì chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.

La poveretta ha due fratelli: uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue le sue cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei deboli contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia contro se stesso.

La procura ed i giudici accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui: non è suo.

Il paradosso è che si vuol condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.  

Il paradosso è che si vuol condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico non suo e su spazio web, che tra tanti, non è suo.  

Se non si può condannare, come infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa arrivare il conto con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente per danni morali all’avvocato donna, amante di magistrati.

Questa è il finale triste di un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.

La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.

Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta  dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.

Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.

I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.

In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media  di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.

113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.

E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».

Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La  sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio». 

A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!! 

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento lineare e cristallino.

Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.

Comunque torniamo alle condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con  la condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore “orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda “definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo: consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il 14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009 dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso. Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip. Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e “ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di chirurgia estetica.

Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi.  La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».

La sentenza è stata pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.

TOGHE ROSA

Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".

È il sistema automatico che porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78 uomini: quasi il doppio.

Donna è anche Ilda Boccassini, che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».

Donna di carattere anche Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo".

Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni? Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.

Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.

Manuela Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.

Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.

Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi?

Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?

Condanna a Berlusconi: giudici uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”, sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione” e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di grande impatto mediatico.

Giulia Turri è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche Hollywood e The Club.

Orsola De Cristofaro è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.

Carmen D’Elia si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.

A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.

A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula. 

La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti. 

Carmen D'Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano.

Donna è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.

Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura 19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva ma, vivendo da sempre  a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali". 

Ma anche Giusi Fasano per "Il Corriere della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito «avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della Repubblica, il Papa, il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i sindacati, il Pd, il Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del ministro Severino, che ha chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario Monti che vuole i ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17 agosto, per incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco «ha le spalle grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha deciso che l'Ilva non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in fondo. Non è donna da farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di lei. E nemmeno si aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di quella generale che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca. Ieri sera alle otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in vacanza, ha preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del premier Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di prendere posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso tempo nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi un modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata né figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del colore dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa entrò nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia di Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia, proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura, rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase. «Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori: i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali».

Donne sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».

Donne sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo (trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione) inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore, Patrizia.

Donna è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole.

Donna è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. Avvocato, molto amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua testimone.

E poi giudice donna è per il processo………

E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».

Quello che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?

Ma quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella Magistratura Italiana.

L'ammissione delle donne all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi  anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche  - approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici,  compresa la magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente  intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno  maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile  attraverso un processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa,  tracciando  un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al femminile.

Certo che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?

Certo che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.

PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.

Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".

Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?

«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».

Ti pesa ancora la bocciatura?

«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».

Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.

«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».

Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...

«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».

Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.

«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».

Mai più rifatto?

«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».

Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?

«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».

Tornando al caso Ruby, logica vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi dovrebbe sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi e godersi la vita e se, altruista, fare beneficenza.

Bene.  L’assurdità di un modo di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e squilibrato, pretenderebbe (e di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i ricchi dovrebbe valere la redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli altri (meglio se sinistri)  e se a questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è meretricio. In questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta l’espropriazione proletaria.

Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.

Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.

Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.

Nonostante che i Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte - va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie».  Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede per caso.  Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.

Uomini trattati da animali dai perbenisti di maniera. Politici inetti, incapaci ed ipocriti che si danno alla zoologia.

Anatra – Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.

Asino – Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.

Balena – La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da augurio.

Caimano – Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni Moretti.

Cignalum – Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum (v.).

Cimice – Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.

Colomba – Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.

Coccodrillo – Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto pre-mortem.

Delfino – Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il d. del caimano (v.).

Elefante – Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come un e. in una cristalleria”.

Falco – Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le picchiate.

Gambero – Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.

Gattopardo – Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre attuale.

Giaguaro – Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.

Grillo – Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.

Gufo – Uno che spera che non vincano né i falchi né le colombe.

Orango – L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.

Piccione – Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino (v.).

Porcellum – Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.

Pitonessa – Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.

Struzzo - Chi non vuol vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.

Tacchino – Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.

Tartaruga – La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla ripresa.

Ed a proposito di ingiustizia e “canili umani”. La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento. Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile». «Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare «giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte «c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un dipendente). “Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le parole che hanno intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I detenuti nell'incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di Giustizia ", ha detto uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l'orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana". E' stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614. «Ho voluto fortemente questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita, sarebbe stata una farsa. Ora mi sono resa conto di persona della situazione nelle celle e condivido la vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai detenuti. Dici Roma, dici Italia.

Già!! La giustizia e le nostre vite in mano a chi?

«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.

«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”  -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».

Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?

«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».

Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.

«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».

Chi li aveva presi?

«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».

Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.

 «Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».

Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.

«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».

E la pistola?

«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».

Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?

«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».

Quale?

«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».

Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.

«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».

Ancora i dossier?

«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».

Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».

«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».

Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.

«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».

 Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.

Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».

Ieri come oggi la farsa continua.

Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese. L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.

«E' un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove - attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai -. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in  questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».

Lunedì 22 luglio 2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco, Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce dei soldi».

Nello specifico, Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.

Del Turco condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento. Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti) qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.

MA CHE CAZZO DI GIUSTIZIA E’!?!?

Funziona alla grande, la giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti di fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato” Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e 6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti, più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8 mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede, subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano, né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure. Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col (buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti ai livelli più bassi delle classifiche mondiali? 

Sul Foglio del del 24 luglio 2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa ha dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data" Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita "l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre. E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui "in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria. Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes", sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".

Del Turco come Tortora. Un punto di vista (di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso Del Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver “favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula: insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio. Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno (per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva ottenuto dalla Regione quello che voleva.

Toghe impunite e fannullone: loro il problema della giustizia. Le condanne abnormi sono ormai quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si può dire. Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo Facci: "Toghe impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo Facci le condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il problema giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I casi Del Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica che è generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza magistrati (ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a forza di ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha finito per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun paese civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e un’intangibilità così.

Accade, nelle carceri italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano sbattute in cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi che danno la libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non mesi. In barba al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Tanto che il carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso e consumo delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli stupratori si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla custodia cautelare in carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, terzo periodo, del Codice di procedura penale. I «gravi indizi di colpevolezza». si legge nella motivazione, non rendono automatica la custodia in carcere. La decisione segue quanto già stabilito in relazione ad altri reati, tra cui il traffico di stupefacenti, l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e in materia di immigrazione. La norma “bocciata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.232 depositata il 23 luglio 2013, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale di gruppo si applica unicamente la custodia cautelare in carcere. Ora la Consulta ha stabilito che, se in relazione al caso concreto, emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il giudice può applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma la gravità del reato, da considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma la «più intensa lesione del bene della libertà sessuale», «non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza come «la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete». Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012, accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.

Da questo si evince che la Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo. Oggi le toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore? Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel 2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici. Nemmeno per gli stupratori è più prevista.

Stupro, dalla parte dei carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte Costituzionale, scrive Deborah Dirani su Vanity Fair. C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino, comune ciociaro di 33 mila anime (per la maggior parte buone), una ragazzina che non aveva ancora compiuto 18 anni ed era molto graziosa. Sgambettava tra libri e primi “ti amo” sussurrati all’orecchio del grande amore, e pensava che la vita fosse bella. Pensava che il sole l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe illuminato la vita ogni giorno. Non pensava che il sole potesse scomparire, che potesse tramontare e non tornare più a riscaldarle la pelle, a illuminarle la vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni fa, il suo sole tramontò oscurato dal buio di due ragazzi del suo paese, due che la volevano e, dato che con le buone non erano riusciti a prenderla, quel giorno scuro decisero di ricordarle che la donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei due maschi del suo paese, la stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno. Lei non voleva, lei piangeva, lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie dipinte di smalto. Lei urlava, ci provava, perché poi quelli erano in due e si ritrovava sempre con una mano sulla bocca che la faceva tacere, che non la faceva respirare. Ma gli occhi quella ragazzina li aveva aperti a cercare quelli di quei due, a chiedere pietà, a scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di uscire da lei, che le facevano male, nel cuore, più ancora che tra le gambe. Raccontano che quella ragazzina oggi non viva più nel suo paese, che quella notte sia scesa sulla sua vita e ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non esca di casa, che soffra di depressione e attacchi di panico. Raccontano che il suo buio sia denso come il petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le ali zuppe di olio nero che non può più volare. Raccontano anche che quando, a pochi mesi dal giorno più brutto della sua vita, la Corte di Cassazione ha stabilito che i suoi due stupratori non dovessero stare in custodia cautelare in carcere, ma potessero (in attesa della sentenza definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei abbia pensato che Rino Gaetano non avesse mica ragione a cantare che il cielo è sempre più blu. Secondo la Cassazione, la galera (prevista da una legge approvata dal Parlamento nel 2009 che stabiliva che dovesse stare in carcere chiunque avesse abusato di una minorenne) non era giusta per quei due bravi figlioli perché quella stessa legge del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione rieducativa della pena) della Costituzione. Secondo i giudici, insomma, ci sono misure alternative al carcere (nella fattispecie gli arresti domiciliari) alle quali ricorrere in casi come questo. Questo che, per la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni passano, la vita continua, le sentenze si susseguono e quella della Cassazione  apre un’autostrada a 4 corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende una donna le apre le gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la Suprema Corte, con una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca, pilatesca, giusto poche ore fa,  ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma 3, periodo terzo del Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di colpevolezza rendano automatica la custodia cautelare in carcere per chi commette il reato previsto all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro di gruppo (niente carcere subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice la Corte Costituzionale). Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo lo ha provato sulla sua luminosa pelle di adolescente,  non può guardare in faccia i giudici di quella che  si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato che i suoi stupratori in galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo grado di giudizio), ma che possano beatamente starsene ai domiciliari. Che possano evadere dai domiciliari (fossero i primi), possano prendere un’altra ragazzina, un’altra donna, un’altra mamma, una vedova, una che comunque in mezzo alle gambe ha un taglio e abusarne a turno, per ore, per giorni. Fino a quando ne hanno voglia. E poi, ritirati su i pantaloni, possano tonarsene  a casa, ai domiciliari, che il carcere chissà se e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e chi non fa giustizia. Che una donna non è un pezzo di carne con un taglio tra le gambe. Questa ragazzina non era quello che quei due maschi avevano visto in lei: un pezzo di carne, giovane, con un taglio in cui entrare a forza. No, non era un pezzo di carne, era un essere umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE COSTITUZIONALE, non un giudice qualunque oberato e distratto di carte e senza un cancelliere solerte, ha certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la consolazione che si dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi. Chi ha negato a questa giovane donna il diritto a credere nel sole della giustizia non è in galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi che mi leggete, alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera. Non ci andrà fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì, in effetti, un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le entrano dentro al corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio in cui l’hanno sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della Camera, del ministro per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le voglio sentire perché non serve essere femministe e professioniste delle dichiarazioni per scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci vuole sempre un capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in piazza noi donne. Perché: SE NON OGGI, QUANDO?

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico. Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.

Quando anche per i comunisti è tutto questione di famiglia.

Luigi Berlinguer (ex ministro PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice del Tg3 e figlia di Enrico) che è sposata con Luigi Manconi (senatore PD, fondatore e presidente dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca Telese (giornalista La7 e Canale 5) che è marito di Laura Berlinguer (giornalista MEDIASET) che è cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato), fratello di Luigi e cugino di Enrico.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

La Commissione europea, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e “Le Iene”, sputtanano. Anzi, “Le Iene” no!!

E la stampa censura pure…..

Pensavo di averle viste tutte.

La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. Qual è il problema per l'Ue? Si chiede “Libero Quotidiano”. Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. E, comunque, non pagano i giudici, paghiamo noi.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.

La Convenzione e la Corte europea dei diritti dell’uomo ampliano il diritto di  cronaca (“dare e ricevere notizie”) e proteggono il segreto professionale dei giornalisti. No alle perquisizioni in redazione! Il giudice nazionale deve tener conto delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo ai fini della decisione, anche in corso di causa, con effetti immediati e assimilabili al giudicato: è quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 19985 del 30/9/2011.

Cedu. Decisione di Strasburgo. Il diritto di cronaca va sempre salvato. Per i giudici l'interesse della collettività all'informazione prevale anche quando la fonte siano carte segretate, scrive Marina Castellaneta per Il Sole 24 Ore il 17/4/2012. La Corte europea dei diritti dell'uomo pone un freno alle perquisizioni nei giornali e al sequestro da parte delle autorità inquirenti dei supporti informatici dei giornalisti. Con un preciso obiettivo. Salvaguardare il valore essenziale della libertà di stampa anche quando sono pubblicate notizie attinte da documenti coperti da segreto. Lo ha chiarito la Corte dei diritti dell'uomo nella sentenza depositata il 12 aprile 2012 (Martin contro Francia) che indica i criteri ai quali anche i giudici nazionali devono attenersi nella tutela del segreto professionale dei giornalisti per non incorrere in una violazione della Convenzione e in una condanna dello Stato. A Strasburgo si erano rivolti quattro giornalisti di un quotidiano francese che avevano pubblicato un resoconto di documenti della Corte dei conti che riportavano anomalie nell'amministrazione di fondi pubblici compiute da un ex governatore regionale. Quest'ultimo aveva agito contro i giornalisti sostenendo che era stato leso il suo diritto alla presunzione d'innocenza anche perché erano stati pubblicati brani di documenti secretati. Il giudice istruttore aveva ordinato una perquisizione nel giornale con il sequestro di supporti informatici, agende e documenti annotati. Per i giornalisti non vi era stato nulla da fare. Di qui il ricorso a Strasburgo che invece ha dato ragione ai cronisti condannando la Francia per violazione del diritto alla libertà di espressione (articolo 10 della Convenzione). Per la Corte la protezione delle fonti dei giornalisti è una pietra angolare della libertà di stampa. Le perquisizioni nel domicilio e nei giornali e il sequestro di supporti informatici con l'obiettivo di provare a identificare la fonte che viola il segreto professionale trasmettendo un documento ai giornalisti compromettono la libertà di stampa. Anche perché il giornalista potrebbe essere dissuaso dal fornire notizie scottanti di interesse della collettività per non incorrere in indagini. È vero - osserva la Corte - che deve essere tutelata la presunzione d'innocenza, ma i giornalisti devono informare la collettività. Poco contano - dice la Corte - i mezzi con i quali i giornalisti si procurano le notizie perché questo rientra nella libertà di indagine che è inerente allo svolgimento della professione. D'altra parte, i giornalisti avevano rispettato le regole deontologiche precisando che i fatti riportati erano ricavati da un rapporto non definitivo. Giusto, quindi, far conoscere al pubblico le informazioni in proprio possesso sulla gestione di fondi pubblici.

Ed ancora. La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha accolto il ricorso presentato dall’autore di “Striscia la notizia”, Antonio Ricci, per violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Il ricorso era stato presentato in seguito alla sentenza con la quale, nel 2005, la Corte di cassazione – pur dichiarando la prescrizione del reato – aveva ritenuto integrato il reato previsto dall’art. 617 quater e 623 bis c.p., per avere “Striscia la notizia” divulgato nell’ottobre del 1996 un fuori onda della trasmissione di Rai3 “L’altra edicola”, con protagonisti il filosofo Gianni Vattimo e lo scrittore Aldo Busi che se ne dicevano di tutti i colori.

I fatti risalgono al 1996 e c'erano voluti 10 anni perchè la Cassazione ritenesse Ricci colpevole per la divulgazione del fuori onda di Rai Tre. 

«Superando le eccezioni procedurali interposte dal Governo Italiano, che - dicono i legali di Ricci, Salvatore Pino e Ivan Frioni - ha provato a scongiurare una pronuncia che entrasse nel merito della vicenda, ha ottenuto l’auspicato risarcimento morale, sancito dalla Corte che – al termine di una densa motivazione – ha riconosciuto la violazione dell’art. 10 della Convenzione, posto a tutela della libertà d’espressione».

«La Corte – dopo aver riconosciuto che “il rispetto della vita privata e il diritto alla libertà d’espressione meritano a priori un uguale rispetto” – diversamente da quanto sostenuto dai giudici italiani, “che -spiega l’avvocato Salvatore Pino- avevano escluso la possibilità stessa di un bilanciamento – ha ritenuto che la condanna di Antonio Ricci abbia costituito un’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 § 1 della Convenzione ed ha altresì stigmatizzato la sproporzione della pena applicata rispetto ai beni giuridici coinvolti e dei quali era stata lamentata la lesione».

«Sono felice per la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo - ha commentato Antonio Ricci, creatore di Striscia la notizia.- La condanna aveva veramente dell’incredibile, tra l’altro sia in primo che in secondo grado la Pubblica Accusa aveva chiesto la mia assoluzione. E' una vittoria di Antonio Ricci contro lo Stato italiano, per questo la sentenza di Strasburgo è molto importante». E' soddisfatto il patron di Striscia la notizia per quella che ritiene essere stata una vittoria di principio. «Il fatto che l'Europa si sia pronunciata a mio favore - ha dichiarato Ricci - implica che esiste una preoccupazione in merito alla libertà d'espressione nel nostro Paese». Una vittoria importante nella battaglia per la libertà d'espressione che segna un punto a favore di Ricci e che pone ancora una volta l'accento sui lacci e lacciuoli con i quali bisogna fare i conti in Italia quando si cerca di fare informazione, come spiega lo stesso Ricci nella video intervista. «Quante volte sono andati in onda dei fuori onda - si è chiesto Ricci - E nessuno è mai stato punito? Per questo sono voluto andare fino in fondo, la mia è stata una battaglia di principio». 

Trattativa stato-mafia, Ingroia rientra nel processo come avvocato parte civile. Rappresenta l'associazione vittime della strage di via Georgofili. Si presenta con la sua vecchia toga, abbracciato dagli amici pm. Antonio Ingroia, nelle vesti di avvocato di parte civile. Il leader di Azione civile rappresenta l'associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, presieduta da Giovanna Maggiani Chelli. Ingroia sarà il sostituto processuale dell'avvocato Danilo Ammannato. Antonio Ingroia denunciato per esercizio abusivo della professione? Il rischio c'è. Il segretario dell’Ordine di Roma, dove Ingroia è iscritto, e il presidente del Consiglio di Palermo, dove sarebbe avvenuto l’esercizio abusivo della professione, ritengono "che prima di potere esercitare la professione l’avvocato debba giurare davanti al Consiglio".

Ed Ancora. Bruxelles avvia un'azione contro l'Italia per l'Ilva di Taranto. La Commissione "ha accertato" che Roma non garantisce che l'Ilva rispetti le prescrizioni Ue sulle emissioni industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Roma è ritenuta "inadempiente" anche sulla norma per la responsabilità ambientale. La Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione sull’Ilva per violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e un’altra sul mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee in materia di emissioni industriali. Le prove di laboratorio «evidenziano un forte inquinamento dell'aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde acquifere, sia sul sito dell'Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti della città di Taranto. In particolare, l'inquinamento del quartiere cittadino di Tamburi è riconducibile alle attività dell'acciaieria». Oltre a queste violazioni della direttiva IPPC e al conseguente inquinamento, risulta che «le autorità italiane non hanno garantito che l'operatore dello stabilimento dell'Ilva di Taranto adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure per rimediare ai danni già causati».

Bene. Di tutto questo la stampa si guarda bene di indicare tutti i responsabili, non fosse altro che sono i loro referenti politici. Ma sì, tanto ci sono “Le Iene” di Italia 1 che ci pensano a sputtanare il potere.

Cosa????

Invece “Le Iene” ci ricascano. Tralasciamo il fatto che è da anni che cerco un loro intervento a pubblicizzare l’ignominia dell’esame forense truccato, ma tant’è. Ma parliamo di altro. La pubblicazione del video di Alessandro Carluccio denuncia la censura de “Le Iene” su Francesco Amodeo, quando Francesco ha parlato è stato censurato...non serve parlare !! il Mes, il gruppo Bilderberg, Mario Monti, Enrico Letta, Giorgio Napolitano, il Signoraggio Bancario, la Guerra Invisibile,...e tanta truffa ancora!!! Alessandro Carluccio, il bastardo di professione .. "figlio di iene"….indaga,..spiegando che non è crisi.. è truffa..se accarezzi la iena rischi di esser azzannato...in quanto la iena approfitta delle prede facili...ma se poi dopo diventi il leone sono costrette a scappare...un faccia a faccia con Matteo Viviani e Pablo Trincia in arte LE IENE....con Francesco Amodeo.

Dopo questo, ci si imbatte nel caso di Andrea Mavilla, vittima di violenza e di censura. C’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro. “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive Francesca su “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 24 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Quando la tv criminalizza un territorio.

7 ottobre 2013. Dal sito di Striscia la Notizia si legge “Stasera a Striscia la notizia Fabio e Mingo documentano la situazione di drammatico degrado in cui vivono migliaia di persone nelle campagne di Foggia. Si tratta di lavoratori stranieri che vengono in Italia per raccogliere i pomodori e lavorano dalle 5 del mattino fino a notte per pochi euro. Il caso documentato da Striscia riguarda un gruppo di lavoratori bulgari che per otto mesi l'anno vivono con le loro famiglie in case improvvisate, senza acqua, gas e elettricità, in condizioni igieniche insostenibili, tra fango e rifiuti di ogni genere, tra cui anche lastre di amianto.”

In effetti il filmato documenta una situazione insostenibile. Certo, però, ben lontana dalla situazione descritta. Prima cosa è che non siamo in periodo di raccolta del pomodoro, né dell’uva. Nel filmato si vede un accampamento di poche famiglie bulgare, ben lontane dal numero delle migliaia di persone richiamate nel servizio. Famiglie senza acqua, luce e servizi igienici. Un accampamento immerso nell’immondizia e con auto di grossa cilindrata parcheggiate vicino alle baracche. «Scusate ma a me sembra un "normale" accampamento di Zingari, come ci sono ahimè in tutte le città italiane - scrive Antonio sul sito di Foggia Today - Purtroppo oggi la televisione per fare audience, deve proporre continuamente lo scoop, specialmente quando si tratta di televisione cosiddetta commerciale. Ma anche la televisione pubblica a volte non è esente da criticare a riguardo. Fare televisione oggi significa soprattutto speculare sulla notizia, e molte volte non ci si fa scrupoli di speculare anche sulle tragedie, pur di raggiungere gli agognati indici di ascolto. E tutto questo senza preoccuparsi minimamente, di quanto viene proposto agli spettatori, a volte paganti (vedi il canone Rai). Tanto a nessuno importa, perchè vige la regola: "Il popolo è ignorante".» Giovanni scrive: «quello è un campo nomadi e non il campo dei lavoratori agricoli stagionali».

Questo non per negare la terribile situazione in cui versano i lavoratori stagionali, a nero e spesso clandestini, che coinvolge tutta l’Italia e non solo il Foggiano, ma per dare a Cesare quel che è di Cesare.

In effetti di ghetto ne parla “Foggia Città Aperta”. Ma è un’altra cosa rispetto a quel campo documentato da Striscia. Una fetta di Africa a dodici chilometri da Foggia. Benvenuti nel cosiddetto Ghetto di Rignano, un villaggio di cartone sperduto fra le campagne del Tavoliere Dauno che ogni estate ospita circa 700 migranti. Tutti, o quasi, impegnati nella raccolta dei campi, in modo particolare dei pomodori. Dodici ore di lavoro sotto al sole e al ritorno neanche la possibilità di farsi la doccia. Attenzione si parla di Africani, non di Bulgari.

Sicuramente qualcuno mi farà passare per razzista, ma degrado e sudiciume illustrato da Striscia, però, sono causati da quelle persone che ivi abitano e non sono certo da addebitarsi all’amministrazione pubblica Foggiana, che eventualmente, per competenza, non ha ottemperato allo sgombero ed alla bonifica dei luoghi.

Ai buonisti di maniera si prospettano due soluzioni:

L’Amministrazione pubblica assicura ai baraccati vitto, alloggio e lavoro, distogliendo tale diritto ai cittadini italiani, ove esistesse;

L’Amministrazione pubblica assicura la prole ad un centro per minori, togliendoli alle famiglie; libera con forza l’accampamento abusivo e persegue penalmente i datori di lavori, ove vi sia sfruttamento della manodopera; chiede ai baraccati ragione del loro tenore di vita in assenza di lavoro, per verificare che non vi siano da parte loro atteggiamenti e comportamenti criminogeni, in tal caso provvede al rimpatrio coatto.  

Colui il quale dalla lingua biforcuta sputerà anatemi per aver ristabilito una certa verità, sicuramente non avrà letto il mio libro “UGUAGLIANZIOPOLI L’ITALIA DELLE DISUGUAGLIANZE. L'ITALIA DELL'INDISPONENZA, DELL'INDIFFERENZA, DELL'INSOFFERENZA”, tratto dalla collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Opere reperibili su Amazon.it.

Alla fine della fiera, si può dire che stavolta Fabio e Mingo e tutta Striscia la Notizia per fare sensazionalismo abbiano toppato?

Che anche le toghe paghino per i loro errori: adesso lo pretende la Ue, chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del novembre 2011 la condanna all'Italia da parte della Corte di Giustizia Ue per l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile dei giudici, mentre già nel settembre 2012 la Commissione aveva chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del decreto di condanna. Ma non è bastato. In due anni i governi di Mario Monti e Enrico Letta non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e ora l'Ue passa ai provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della violazione del diritto dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso giudiziario), e per questo sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue? Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le autorità italiane avevano risposto in maniera rassicurante: cambieremo la legge. In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un procedimento di infrazione, cioè a una cospicua multa. Insomma, non pagano i giudici, paghiamo noi.

La proposta di aprire una nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a constatare che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto quanto necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel 2011. La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali errori commessi nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle norme nazionali deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che hanno portato Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto, quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un carattere “manifestamente aberrante”.

Ciò che l'Unione Europea contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi nell'applicare il diritto europeo, non è infatti prevista responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o colpa grave, ma non per errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia importante, se si considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da provvedimenti comunitari.

Pronta la replica delle toghe: guai a toccare i magistrati.

Nessun "obbligo per l'Italia di introdurre una responsabilità diretta e personale del singolo giudice": l'Europa "conferma che nei confronti del cittadino l'unico responsabile è lo Stato". Il vice presidente del Csm Michele Vietti commenta così la notizia dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue. "L'Europa ha parlato di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario; non entra invece nella questione della responsabilità personale dei giudici perché é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri", ha puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, che sin da ora avverte: "Denuncer